Tumgik
#Il palazzo delle lacrime
anchesetuttinoino · 3 months
Text
“Case occupate? Ho visto gente piangere”. Una Rita Dalla Chiesa affranta e arrabbiata al tempo stesso commenta le parole di Ilaria Salis e degli ospiuti in studio da Nicola Porro a “Quarta Repubblica”. La discussione sulla rivendicazione dell’occupare abitazioni popolari come lotta politica sta scatenando polemiche ogni giorno di più. “Non sempre quel che è giusto è legale”, è stata una delle prime dichiarazioni dell’ europarlamentare di Avs. In studio ra gli ospiti del talk del lunedì sera di Rete 4 c’è Annamaria Addante, presidente dell’associazione inquilini e proprietari Ater Roma, che incalza: “La legalità non significa prendere qualcosa a un altro che ha più diritto di te ad averla. Questa è rapina!”.
Salis e le case da occupare: la rabbia di Rita Dalla Chiesa
A difendere la Salis c’è un agguerrito Piero Sansonetti: “Vai a denunciare la Salis – la provoca il direttore dell’Unità -. Perché ce l’hanno con lei? Sai quanti deputati hanno una condanna definitiva? Non ha carichi pendenti in Italia, non ha denunce né condanne. Se mi porti la prova che ha commesso una illegalità ne discutiamo”. Una posizione che che fa perdere la calma al conduttore e non solo. Rita Dalla Chiesa è incredula: “Io credo sia sbagliato anche stare qui a parlarne. Per molti anni ho parlato di case abusive:  ho sentito storie, visto lacrime di gente che aveva impiegato tutta la vita per mettere in piedi una casa. E poi gli è stata occupata e nessuno ha fatto nulla”. La parlamentare di FI e popolare conduttrice ha poi fatto notare una strana coincidenza che ha riguardato Ilaria Salis.
Secondo lei l’ex insegnante avrebbe portato alla luce il tema delle case libere solamente dopo che si è saputo della sua occupazione abusiva. “La Salis non ha puntato i fari sul problema delle case. Siamo venuti a scoprire che lei aveva occupato abusivamente una casa e da allora  ha tirato fuori questa cosa delle case libere”. In trasmissione ci sono molti nervi scoperti, in primis quelli di Amedeo Ciaccheri di Alleanza Verdi Sinistra che zittisce in malo modo la Addante: la presidente dell’associazione inquilini e proprietari Ater Roma non avrà il tempo di intervenire in quanto blocccata da Ciaccheri. Il tutto mentre Porro mandava in onda un reportage inequivocabile sul modus operandi della Salis.
Il reportage di “Quarta Repubblica” sulle case occupate da Ilaria Salis
Concetta, storica residente del palazzo in zona Navigli in cui ha abitato l’attuale esponente di Alleanza Verdi e Sinistra ha rilasciato dichiarazioni agli inviati di “Quarta Repubblica”:  L’ex vicina ha affermato che in quello stabile la Salis avrebbe abitato in due diversi appartamenti in due scale differenti: uno al secondo piano della Scala E e poi al piano terra nella scala A. “Lei era qui già quando sono arrivata io nel 2010”, racconta, e nella seconda casa “è stata per tutto il tempo direi”. E dal servizio si ricava che non è l’unica a ricordarla.  “Un conto è essere in ritardo con gli affitti. Un’altra è che tu, scientemente, tra l’altro pur essendo di famiglia benestante, mi vai ad occupare una casa”. Il rappresentante di Avs perde il senso dell’equilibrio e aggredisce Vannacci, ospite in collegamento: il generale aveva affermato banalmente che le leggi vanno rispettate, mentre Ciaccheri gli ha dato dell’antidemocratico. In questo delirio anche Porro ha perso la pazienza.
3 notes · View notes
marcoleopa · 4 months
Text
Impresentabili
Il codice di autoregolamentazione delle candidature, ossia il decalogo approvato dalla commissione antimafia per tutte le competizioni elettorali, potrebbe essere sostituito dal più celebre titolo libro di Kundera “l’insostenibile leggerezza dell’essere”, dall’altrettanto acutissima riflessione del Lampedusa che parla per bocca dell’io narrante Don Fabrizio – “il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana…”, o, per concludere, con il celebre aforisma sul nulla di S. Beckett – “niente è più reale del niente”.
Perché in fin dei conti di nulla si tratta. Di un vago codice che dovrebbe generare (in chi non è chiaro?), un alert di valenza etica, per candidati definiti pomposamente, impresentabili.
Fa persino sorridere, posto che per piangere non si hanno più le lacrime in e di questo miserrimo paese, le valutazioni della commissione antimafia (presidente tal Colosimo), che ritiene gli impresentabili in contrasto con il codice etico di autoregolamentazione, poiché hanno trascorsi per procedimenti giudiziari. Parrebbe che qualcuno/a, abbia persino un collaboratore/portaborse, condannato per mafia, come indicato dalla DDA a palazzo San Macuto, sede della commissione parlamentare per la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, commissione antimafia, Copasir e ufficio parlamentare di bilancio.
Detto così farebbe sorridere, ma ribadisco, non vi sono più nemmeno le lacrime.
Un breve excursus storico, potrebbe aiutare per comprendere il disagio: l’aspirante a una carica pubblica nel mondo dell’antica Roma, detto petitor, dopo aver depositato ritualmente la sua candidatura, indossava come segno distintivo la toga candida, da cui l’appellativo di candidatus, cioè candido, per dimostrare la purezza e l’onestà della propria persona e le future oneste intenzioni del loro operato.
3 notes · View notes
iviaggisulcomo · 2 years
Text
Non è detto che io sia le lacrime che bagnano la carta ruvida di questa lettera, o la mano tremante che sorregge la penna nel suo andare incerto. Io voglio essere la scalinata bagnata dal sole in un tramonto di fine giugno, la goccia pesante di rugiada che flette il filo d'erba appena sveglio, le urla dei bambini al suono della campanella, il palazzo antico ricoperto d'edera, la catena capricciosa che si sfila sempre dalla bicicletta.
Voglio essere le passeggiate a passo lento lungo il mare quando c'è una bella luce, e darti fastidio come i granelli di sabbia nelle scarpe mentre ti faccio la linguaccia. Voglio essere le nuvole di zucchero filato rosa, le scie degli aerei che spezzano il cielo limpido, la sedia di vimini che ti raccoglie e ti pizzica allo stesso tempo, il parascintille che ti protegge dal borbottio stanco del camino acceso.
Voglio guardarti negli occhi senza il timore di trattenere lo sguardo; voglio dire di più la verità, sentire il battito obliquo delle cose instabili, essere più onesto con me stesso.
Voglio cadere a terra, ancora e ancora, per abituarmi a guardare in alto da un punto di vista che non conosco.
E poi, voglio tornare a casa.
17 notes · View notes
danilacobain · 2 years
Text
Selvatica - 43. Lo conosco
Corinna stava ancora dormendo, metà del volto era affondato nel cuscino e i capelli ricadevano leggeri sulla spalla nuda. Il lenzuolo aderiva alle curve del suo corpo, una gamba distesa e l'altra piegata. Ante la osservò, placida e dolce, ma la sensazione che ci fosse qualcosa che non andava era fortissima. Durante la notte Corinna si era sentita poco bene, aveva avuto un incubo ed era addirittura scoppiata in lacrime, spaventata per qualcosa che evidentemente conosceva solo lei.
Per un attimo, quando l'aveva vista vomitare, aveva creduto che potesse essere incinta ed era stato attraversato da una strana emozione, qualcosa di molto vicino al panico. Ma gli occhi di lei avevano rivelato che c'era ben altro nella sua testa in quel momento. E come sempre Ante non poteva avervi accesso.
La lasciò dormire, scivolò fuori dal letto e si preparò per andare a fare allenamento.
Katarina gli aveva detto che doveva darle del tempo, ma come faceva a prendersene cura se non conosceva quello che avveniva dentro di lei? Aveva fatto del suo meglio per rassicurarla quella notte, però voleva capire, voleva sapere.
Era bastato un solo giorno in Italia per fare riaffiorare tutti i suoi dubbi e le sue paure. Aveva paura che questo suo modo di fare potesse allontanarli.
Con dita leggere le scostò i capelli dal volto, poggiando piano le labbra sulla guancia e inspirando un po' del suo profumo, poi uscì.
Nell'androne del palazzo, Ante salutò il portiere che stava seduto a leggere il giornale.
«Signor Rebić, ho quelle registrazioni che mi aveva chiesto. Le vuole vedere adesso?»
Ante diede un'occhiata all'orologio e annuì. Erano le registrazioni delle telecamere di sorveglianza dell'esterno, che gli avrebbero permesso di vedere cosa era successo alla sua auto.
Entrò nel gabbiotto e si appoggiò con una mano sulla scrivania dove c'era il monitor. Il portiere avviò il filmato. Si vedevano due uomini aggirarsi vicino all'auto con i cappucci in testa per far sì che i volti restassero in ombra, uno rimaneva in piedi a qualche metro di distanza mentre un altro si accovacciava vicino alle ruote. Non erano proprio giovani come si sarebbe aspettato e a giudicare dalla stazza poteva trattarsi di esponenti di qualche gruppo ultras.
«Puoi ingrandire su questo qui?» toccò lo schermo, indicando il ragazzo vicino alle ruote.
L'immagine era sgranata ma si vedevano chiaramente i tatuaggi sulle mani. Ante cominciò a sentire una sensazione di disagio.
«Riesci a fare un focus sul viso?»
Il portiere fermò il video proprio mentre il tizio voltava un attimo la faccia verso l'ingresso. Ante guardò l'immagine per qualche secondo poi chiuse gli occhi e sospirò.
«Lo conosce?» chiese il portiere.
Certo che lo conosceva, quel maledetto bastardo. «Puoi stamparmi questa foto?»
«Certamente.»
Ante tamburellò con le dita sulla scrivania, in attesa. Voleva prendere quella cazzo di foto e spiaccicarla in faccia a Corinna. Aveva detto di non avere nessun legame con Carmine, aveva detto che era l'ex fidanzato della sua amica, e allora come mai questi gli aveva bucato le ruote? Aveva avuto ragione lui fin dall'inizio. E se Corinna non voleva parlare lo avrebbe fatto qualcun altro.
Tirò fuori il portafogli e mise alcune banconote da cento euro sul tavolo, poi prese la foto e la ripiegò, infilandola nella tasca del giubbotto.
«Grazie.»
Il portiere guardò i soldi sul tavolo e poi Ante. «Signor Rebic ho fatto solo il mio lavoro, non è necessario...» ma lui era già uscito dal gabbiotto e stava aprendo la porta del portone. «Grazie!» gli gridò dietro il ragazzo.
Doveva assolutamente sapere dove poter trovare Carmine e c'era una sola persona che poteva avere quell'informazione: Andrej Dolokov. Era uno di quei tipi a cui la gente con i soldi si affidava per rimettere a posto i casini che combinava, una specie di investigatore privato che aveva occhi e orecchie dappertutto in città. Ante lo aveva conosciuto grazie ai suoi connazionali che giocavano in Italia e avevano dovuto far sparire alcune foto imbarazzanti che se fossero uscite avrebbero potuto mettere a rischio i loro matrimoni e minare la stabilità dello spogliatoio. Cercò il suo numero nella rubrica.
«Sì?»
«Ciao Andrej, sono Ante Rebic.»
«Amico! Come va?»
«Senti, possiamo vederci tra poco a Milanello? Mi serve un favore.»
«Come no. Arrivo subito.»
Ante si sentiva nervoso, agitato. Aveva paura di scoprire qualcosa che non gli sarebbe affatto piaciuto e si sentiva in collera con Corinna per avergli mentito in quel modo, anche dopo che lui glielo aveva chiesto per la seconda volta, a casa di lei, quando li aveva trovati da soli. Gli aveva detto che lo amava, però continuava a mentirgli.
Che razza di rapporto avevano lei e Carmine? Corinna era sempre emotivamente distrutta quando c'era lui in giro e se avesse scoperto che le faceva del male... Ante strinse forte il volante e poi vi tirò un pugno sopra.
Andrej aveva parcheggiato pochi metri prima dell'ingresso al centro sportivo, aveva la schiena poggiata alla macchina e fumava, scrutando oltre le siepi e i pini che recintavano Milanello. Ante scese dall'auto e lo raggiunse. Era un uomo sulla quarantina, i capelli erano tagliati cortissimi e gli occhi color ghiaccio riuscivano a intimorire chiunque, nonostante fosse piuttosto basso e magro. L'accento russo completava il quadro di un perfetto uomo di mafia. Lo salutò con un cenno del capo.
«Di che si tratta?» Il fumo uscì dalle narici in riccioletti bianchi, spazzati subito via dal vento.
Ante tirò fuori la foto e gliela porse. «Ho bisogno di sapere dove posso trovarlo.»
Andrej aprì il foglio ripiegato e guardò un attimo. Sollevò un sopracciglio. «Carmine?»
Il cuore di Ante mancò un battito. «Lo conosci?»
«Certo. Che problemi hai con lui? Te li risolvo io, senza bisogno che ti sporchi le mani.»
«No, devo parlarci io. Gira troppo intorno alla mia ragazza, lei dice di non avere nessun legame con lui ma mi ha squarciato le ruote della macchina quindi è chiaro che non è così.»
«Ti sei fidanzato con una puttana? Andiamo, amico...»
Ante sentì il sangue affluire al cervello. Aveva sentito bene? Batté le palpebre. «Come, scusa?»
Andrej fece l'ultimo tiro di sigaretta e gettò il mozzicone a terra. «Carmine si occupa delle ragazze di Antonio, un giro di mignotte di lusso, o escort, come si fanno chiamare adesso. Se la tua ragazza ha problemi con Carmine, probabilmente lavora per Antonio.»
Doveva essere impallidito all'improvviso, lo sentiva. Tutta la rabbia era defluita dal suo corpo e in quel momento si sentiva sospeso, congelato. Non provava niente, non capiva niente. Corinna era una escort?
No.
Eppure gli venne in mente la prima volta che l'aveva incontrata, quando quell'uomo l'aveva scambiata proprio per una escort. Ma l'aveva solo scambiata o l'aveva riconosciuta?
No.
Andrej gli ripassò il foglio di carta. «Vuoi che me ne occupi io?»
Ante era ancora lontano con la mente ma scosse la testa. «No. Fammi sapere dove posso trovarlo. Stasera.»
L'uomo lo fissò negli occhi, senza lasciar trasparire nulla di quello che pensava. «Ok.»
Rientrò in macchina e si lasciò andare sul sedile. Rimase immobile anche dopo che Andrej se ne fu andato. Non poteva crederci, però tutto tornava. Corinna gli aveva parlato dei suoi problemi economici dopo il suicidio del padre e forse lo aveva fatto solo per quel periodo, forse adesso se ne voleva tirare fuori e Carmine la teneva vincolata in qualche modo. Ecco perché non gliene aveva parlato, provava vergogna per quello che aveva fatto.
Il rumore di un clacson lo fece sussultare. Voltò la testa e vide Rade che si era affiancato alla sua auto. Abbassò il finestrino.
«Che fai qui fuori?»
Ante fissò l'amico per qualche secondo. «Rade, stasera ho bisogno di te. Mi devi accompagnare in un posto.»
2 notes · View notes
shekelesh-z · 13 days
Text
Speranze e dolori
16 settembre 2024 - 2 scorpivs 220
Sperando di mantenere uno straccio di regolarità nelle cose e di non mandare in vacca tutto come mio solito per pigrizia.
In questo lunedì/sol lvnæ di attesa di una graduatoria che mi permetterebbe di organizzare al più presto il mio soggiorno all'estero, mi decido a fare qualcosa di nuovo. Ispirato alla newsletter di uno streamer che seguo, ho pensato di aumentare i post scritti di questo blog e di renderli quanto meno regolari e ordinati, anziché mettere il primo pensiero che mi balena per la mente e scriverlo tutto in minuscolo (per mostrare allɜ altrɜ zoomer che sono uno di loro e sentirmi meno un vecchio millennial - scherzo, amicɜ millennial vi voglio bene).
La prima riflessione che volevo fare riguarda soprattutto quello che mi è capitato la scorsa settimana.
Martedì/sol martis scorso una femminista che seguo aveva pubblicato nelle sue storie IG uno sfogo in cui aveva utilizzato un linguaggio particolarmente duro - non che sia una cosa eccezionale da parte sua, in realtà è anche parte della sua comunicazione, che secondo me o capisci subito che parla alle tue corde oppure la consideri insopportabile -, talmente duro che mi ha suscitato delle fortissime emozioni negative che mi hanno portato a registrare lo schermo, riascoltarmi tutto il discorso e... Prendermi a ceffoni da solo! Coloro che magari considerano questa persona insopportabile mi chiederanno:«Ma perché ancora le dai corda se nella sua comunicazione c'è un largo utilizzo di insulti misandrici e quindi ti fa sentire male?», perché per me è come una sorta di memento sulla mia categoria, storicamente nel torto in questa battaglia per smantellare un sistema creato dagli uomini etero cis per gli uomini etero cis, per non parlare di una sua battaglia personale contro un uomo famoso che si è comportato particolarmente male nei suoi confronti. È altresì vero che sono anche una persona parecchio autodistruttiva, ché appena qualcosa non va, se va bene, si mette sull'attenti o quasi va in panico, come se sentissi l'urgenza di dover giustificare un comportamento scorretto da parte di me medesimo anche quando non c'è. Insomma, fatto sta che in quel momento di autolesionismo, scaturito da un'esplosione di dolore interno, non ho fatto neanche in tempo ad arrivare alle lacrime che il mio corpo già mi segnala due campanelli d'allarme, interconnessi: il respiro pesante e la mano sinistra che rischia di bloccarsi.
Per distrarmi apro Telegram e intervengo in una discussione circa la partecipazione della streamer di riferimento a Primo Appuntamento. Parto già in quarta, ancora fresco di quel momento là. Un'utente, vedendomi usare in chat toni così prevenuti nei confronti dell'uomo della puntata, mi fa notare che io sto costruendo un alto palazzo fondato solo su pregiudizî negativi e generalizzati verso gli altri uomini, e che lei conosce altrettanti uomini tranquillissimi. Io le rimarco il fatto che sicuramente sono eccezioni rispetto a una stragrande maggioranza di uomini che sono senza speranza e che non ne vogliono sapere di capire e decostruire il loro privilegio del cazzo. Ancora ho il respiro pesante e le dita della mano che si muovono a fatica, e lo faccio notare nel messaggio, altrimenti avrei continuato a girare il coltello nella piaga. A quel punto quell'utente sbrocca e mi dice che il genere maschile non è una piaga. La streamer ribatte che ponendomi così non risolverò mai niente, andando contro gli uomini per praticamente ogni cosa, in tutto e per tutto. In live capita un momento simile, scaturito dalla mia ennesima frecciata. A quel punto la streamer sbrocca e, nella ramanzina, mi fa notare che già il fatto che io esista in quanto uomo cosciente del problema dovrebbe essere di per sé un barlume di speranza nel genere maschile, e che appunto questo modo di pormi così ostile di certo non mi farà ascoltare dai miei fratelli, vedendoli già come dei nemici da distruggere, anziché come vittime di qualcosa di più grande di loro. E il pensiero corre a quella particolare comunicazione, perché appunto quella persona parla alla mia parte più pessimista e autodistruttiva, perché o dai ragione agli uomini o verrai minimizzato e/o apostrofato come un rompicoglioni zerbino delle femministe, e da qui la frustrazione, che porta ad ancora più rabbia, perché con gli altri uomini non ci si può parlare e non ci può mediare.
Perdonate il delirio, ma era funzionale all'altra parte di questa sorta di pagina di diario, perché il giorno dopo, mercoledì/sol mercvrii, ho il mio primo incontro col gruppo di autocoscienza maschile dopo la pausa estiva. Viene il momento introduttivo di raccontare la propria giornata, e quando viene il mio turno racconto tuttavia quel che è successo ieri, compresa quell'esplosione di dolore e odio per me stesso. Il fondatore di tale gruppo, mio conoscente abbastanza di lunga data, mi fa notare che c'è già un problema di gestione delle emozioni, visto che ho questi scoppî, e che sarebbe decisamente utile della terapia. Certamente non voglio minimizzare in alcun modo la sua utilità, semplicemente i soldi, che non sarebbero neanche miei personali, sono investiti in questo momento nei miei studî, e associarci anche la terapia sarebbe un po' gravoso, e dunque dovrò prima terminare gli studî per poter investire nella terapia.
Certamente le cose migliorano in serata per i miei sentimenti, quando durante l'incontro ci mettiamo ad analizzare un estratto da un libro acquistato proprio dal fondatore, e che ho intenzione di acquistare anch'io - in questo momento sto attendendo il suo arrivo in libreria per pagarlo e ritirarlo. Il tema del passo era il seguente:«Non si rifiuta mai una scopata». In queste sei parole ci si può tirar fuori di tutto, a partire dalle emozioni e dai fattori validanti di una relazione, passando anche e soprattutto alle aspettative di genere che gravano sugli uomini, ossia quello di avere la clava sempre pronta all'uso, anche quando in cuor tuo non te la senti neanche di usarla. Evito di dilungarmi di nuovo su questa cosa perché, appunto, sto attendendo l'arrivo di quel libro e voglio continuare a leggerlo per conto mio, senza dover aspettare per forza qualche altro incontro. Inoltre, sebbene io personalmente non sia riuscito a portare qualcuno ai nostri incontri (sebbene un po' ne abbia parlato in giro), uno nuovo è comunque venuto, e tutti i partecipanti "storici" si son presentati a questo nuovo inizio delle attività.
0 notes
jacopocioni · 3 months
Text
Intervista impossibile a Rodolfo Siviero: quarta parte
Tumblr media
Prima parte Seconda parte Terza parte DA UN SUCCESSO ALL'ALTRO ANCHE SE OSTEGGIATO DAL GOVERNO ITALIANO QUARTA PARTE
Tumblr media
Il Capitano dei Monument men Keller, ricevuta la confidenza del Generale Karl Wolf, avvisò il mio ufficio e ci mettemmo alla ricerca. Quando vedemmo tutti quei capolavori il capitano si commosse fino alle lacrime, davanti a noi avevamo i dipinti dei più grandi artisti del Rinascimento: Michelangelo, Tiziano, Botticelli, Caravaggio, Lorenzo Lotto, Cranach, Rembrandth e Tintoretto. Il maltolto fu riportato a Firenze alla Galleria degli Uffizi. Quando arrivai in Piazza della Signoria fui ricevuto dalle autorità e dal Sindaco Mario Fabiani sull'arengario di Palazzo Vecchio fra gli squilli delle chiarine della Famiglia di Palazzo. Questo grande ritrovamento fu un successo enorme, ebbe ripercussioni  sulla sua carriera? Avevo tutti i requisiti per essere promosso Direttore di quarto grado , ma per la mia adesione al passato regime, tutto si bloccava. Il mio ufficio romano si trovava in via degli Astalli numero 3 in palazzo Venezia. Vi affluiva tutto quello che veniva recuperato, prima di essere riportate ai musei dove erano state sottratte. Confesso una mia vanità. Mi facevo fotografare davanti alle opere. la mia squadra era formata da poche persone fidate, fra le quali emergeva per le sue innate capacità il mio più fidato collaboratore Vincenzo Colella. Nel 1949 riuscii a recuperare trentanove capolavori ceduti ai tedeschi durante il regime. Tra loro si trovava il già citato discobolo Lancelotti e altre opere di inestimabile valore. Tutto questo accrebbe la mia popolarità malgrado l'ostracismo della politica. negli anni seguenti in Palazzo Venezia, allestii una mostra dei capolavori rientrati in Italia. In seguito venne replicata a Firenze in Palazzo Vecchio. Riuscì in seguito a far riconoscere il suo lavoro dal governo italiano?
Tumblr media
Rodolfo Siviero Con la mia abilità diplomatica, feci raggiungere un accordo fra l'Italia e la Germania per la restituzione dei capolavori asportati e ancora nelle loro mani. L'accordao fu firmato dal Canceliere Konrad Adenauer e il Presidente del Consiglio del governo italiano Alcide de Gasperi a Palazzo Chigi. Finalmente venne riconosciuto tutto quello che avervo fatto per l'arte italiana. Ebbi la nomina a Ministro Plenipotenziario e il mio ufficio passò dal Ministero dell'Istruzione a quello degli Affari Esteri. Purtroppo il Senato che doveva emanare il decreto per il finanziamento delle mie imprese bloccò tutto rinviando tutto per due anni, fermando di fatto l'attività del mio ufficio. Intanto le trattativie per la restituzione andarono avanti per sette anni. Purtroppo questa operazione rischiò di saltare per i miei atteggiamenti verso i tedeschi. Scientemente evitai di invitarli ad una mostra di capolavori recuperati ed esposti a Palazzo Borghese. Con questo ostracismo verso i tedeschi rischiai di far saltare l'accordo raggiunto anni prima. Cosa fece continuare con la loro collaborazione? Mi diedi una calmata e con l'accordo stipulato nel 1953, riuscii a riportare in Italia 40 opere. Ne mancavano ancora alcune centinaia fra le quali spiccavano autori come: Michelangelo, Mario Ricci, Tiziano, Raffaello e Canaletto, varie sculture greche romane, violini di Stradivari, mobili e manoscritti. Pertanto continuai le mie spedizioni nella Germania Democratica e in Russia. Ma riuscii a rintracciare solo alcune opere, così decisi di tornare nella Germania comunista. Andare nella Repubblica Democratica Tedesca era diventato complicato. era stato costruito un muro di confine, per reiterate fughe dei berlinesi all'ovest. Il muro sarebbe rimasto in piedi fino al 1989, quando fu distrutto da una folla festante. Oltre tutto venivo sorvegliato per tutto il mio soggiorno dalla polizia Stasi.
Tumblr media
Alberto Chiarugi Read the full article
0 notes
m2024a · 3 months
Video
youtube
Clelia Ditano morta nel vano dell'ascensore, l'ultima telefonata del padre e la tragica scoperta. L'impianto sotto sequestro Il cellulare ha continuato a squillare per diversi secondi all'alba. Purtroppo, invano, perché quando è stato lanciato l'allarme Clelia Ditano, di 25 anni, era già morta da qualche ora dopo essere precipitata per oltre 10 metri nel vano ascensore della palazzina alla periferia di Fasano dove viveva con i genitori. Clelia Ditano, morta nell'ascensore: cosa è successo e perché era nel palazzo. Il dolore del papà: «Aveva tanti sogni»   Clelia Ditano morta: l'allarme lanciato dal padre E' stato il padre, Giuseppe Ditano, questa mattina ad allertare i soccorsi. «Ho capito subito che era successo qualcosa di grave» racconta l'uomo che, facendosi guidare dal suono del cellulare che squillava a vuoto dal vano dell'ascensore, ha capito che anche la ragazza poteva essere lì. La procura di Brindisi ha aperto un'inchiesta, e per eseguire tutti gli accertamenti sull'ascensore ne è stato disposto il sequestro. La salma della 25enne è a disposizione dell'autorità giudiziaria che nelle prossime ore potrebbe conferire l'incarico per eseguire l'autopsia. «Non era mai successo che l'ascensore - continua il padre di Clelia - si bloccasse in quella maniera».   La dinamica choc della morte di Clelia Ditano Secondo quanto riferito dall'uomo, ieri sera poco dopo mezzanotte la 25enne Clelia Ditano sarebbe salita al quarto piano nell'appartamento dove viveva rientrando in casa per lasciare la borsa ed altri effetti personali. Poi avrebbe deciso di scendere nuovamente per salutare degli amici o per recuperare qualche oggetto che aveva dimenticato. Ed è stato in questo frangente, quando voleva tornare al piano terra pensando di poter utilizzare l'ascensore, che è caduta nel vuoto perché la cabina non sarebbe risalita. Per recuperare il corpo di Clelia Ditano i vigili del fuoco hanno lavorato per oltre tre ore. All'esterno della palazzina altre famiglie che vivono nello stesso stabile e diversi amici della 25enne si sono radunati per osservare in un silenzio le operazioni delle forze dell'ordine. Un silenzio rotto solo dalle lacrime dei genitori, per una sequenza di dolore e morte, ritenuta «inaccettabile» da amici e parenti. Sul posto anche il personale dello Spesal per l'acquisizione dei primi elementi relativi al funzionamento dell'impianto: sarebbero stati già ascoltati i tecnici dell'azienda che si occupa della manutenzione degli ascensori. Clelia Ditano, il lavoro e i sogni per il futuro La palazzina dove si è verificato l'incidente è di proprietà di Arca (agenzia regionale per la casa e l'abitare) Nord Salento. La 25enne Clelia Ditano è descritta da tutti come una ragazza sempre sorridente, piena di vita, che da tempo aveva iniziato a lavorare in alcuni b&b della zona. Qui nel centro a nord di Brindisi che poche settimane fa ha ospitato il G7, tanti ragazzi stanno iniziando a costruire il loro futuro lavorando nel turismo tra masserie e b&b di lusso. Clelia era una di questi. E non si sottraeva all'impegno quotidiano. «Era una ragazza solare e gioiosa. Voleva rendersi autonoma mia figlia e per questo - racconta il padre - stava lavorando in queste strutture. Anche stamattina aveva un appuntamento di lavoro. Tanti erano i suoi sogni, tra cui la patente e forse anche sposarsi. Ora è svanito tutto». «Lavorava per sentirsi indipendente. Era un punto di riferimento costante per la sua famiglia. Siamo tutti sconvolti» racconta tra le lacrime un'amica della 25enne.
1 note · View note
giancarlonicoli · 4 months
Text
22 apr 2024 10:32
“LA STORIA DELLA SINISTRA ITALIANA TERMINÒ NEL 1980” – FAUSTO BERTINOTTI RICORDA I 35 GIORNI DI LOTTA AI CANCELLI DI MIRAFIORI, LA MARCIA DEI 40MILA E LA SCONFITTA SINDACALE: “MOLTI ANNI DOPO ROMITI MI RACCONTÒ CHE DURANTE QUEI 35 GIORNI SI FACEVA PORTARE CON UN’AUTO AI CANCELLI, SOPRATTUTTO DI NOTTE. MI DISSE: ‘SPESSO HO PENSATO CHE AVREMMO POTUTO PERDERE’” – “POCHI MESI DOPO LA NOMINA DI D’ALEMA A PRESIDENTE DEL CONSIGLIO, QUANDO INIZIÒ L’ATTACCO DELLA NATO CONTRO BELGRADO, FRANCESCO COSSIGA MI CONFIDÒ CHE ‘SERVIVA UN POSTCOMUNISTA PER FARE LA GUERRA...’” -
Estratto dell’articolo di Francesco Verderami per il “Corriere della Sera”
D’un tratto la sua voce si incrina e le parole si fanno confuse. Prova a tenere il filo del racconto ma è costretto a fermarsi. «Chiedo scusa», dice Fausto Bertinotti mentre trattiene le lacrime e tenta di riprendersi. Non sono stati i trascorsi politici da leader di Rifondazione e da presidente della Camera ad averlo emozionato, «non c’era più pathos allora».
Sono stati i ricordi della sua vita sindacale ad averlo sopraffatto: le stagioni da segretario regionale della Cgil in Piemonte e la durissima vertenza sindacale con la Fiat del 1980: «Lì sì che ci fu pathos. Lì terminò la storia della sinistra italiana del dopoguerra, il 14 ottobre del 1980».
Anche se 18 anni più tardi la sinistra sarebbe arrivata a Palazzo Chigi con Massimo D’Alema?
«Ma quella è tutta un’altra storia. Ricordo che pochi mesi dopo la nomina di D’Alema a presidente del Consiglio, quando iniziò l’attacco della Nato contro Belgrado, Francesco Cossiga mi confidò che “serviva un postcomunista per fare la guerra...”».
Cosa vuol dire?
«Voglio dire che a seguito della sconfitta del movimento operaio negli anni Ottanta, il capitalismo non solo si liberò del suo avversario storico ma inglobò anche coloro i quali sarebbero dovuti diventare i suoi nuovi avversari, portandoli al governo. E infatti in Germania, in Francia, in Gran Bretagna e ovviamente in Italia, si affermarono i leader del centrosinistra, cioè quelli che avevano accettato la sconfitta del 1980 come una liberazione» […]
Sta dipingendo un centrosinistra succube di un sistema di potere che si muoveva come una Spectre.
«Nel 1980 il capitalismo si convinse che era l’ora dell’aut-aut in tutto l’Occidente. E decise di mettere fine al ciclo storico che negli anni Settanta aveva prodotto un forte avanzamento dei diritti sociali e civili. Nel 1980 in Inghilterra il sindacato dei minatori fu posto di fronte a licenziamenti di massa. E perse.
Rammento ancora la scena terribile dei lavoratori che rientrano nei fori delle miniere con le bandiere rosse ripiegate. Negli Stati Uniti i controllori di volo che facevano una rivendicazione salariale vennero piegati duramente. E in Italia la Fiat annunciò quattordicimila licenziamenti. La Fiat, che era stata madre e matrigna, luogo di repressione anti-operaia e di sicurezza del posto di lavoro, aveva pronunciato la parola indicibile».
Era l’11 settembre.
«E fu un trauma. Utilizzando un’improvvisa crisi di governo, l’azienda aveva tramutato i 14 mila licenziamenti in 24 mila casse integrazioni a zero ore per 18 mesi. E mentre il sindacato si interrogava sulla risposta da adottare, come reazione immediata i lavoratori decisero di presidiare la fabbrica. Nacque quel giorno il popolo dei cancelli.
Gli operai furono invitati a bloccare l’entrata e l’uscita di uomini e mezzi per bloccare la produzione. Questa scelta durò trentacinque giorni, caso senza precedenti nella storia europea. Allora maturò la convinzione che ci stavamo giocando tutto. O passavamo noi, salvando le riforme degli anni Settanta, o passavano loro che puntavano alla rivincita di classe».
E «loro» erano rappresentati da Cesare Romiti, amministratore delegato della Fiat e capofila della linea dura con il sindacato.
«La Fiat aveva deciso di rompere con la tradizione del negoziato. Non trattava. Fu una contesa di una drammaticità senza pari, uno scontro di classe allo stato puro. Molti anni dopo Romiti mi raccontò che durante quei trentacinque giorni si faceva portare con un’auto nei pressi dei cancelli. Ci andava soprattutto di notte. “Spesso — mi disse — ho pensato che avremmo potuto perdere. Ho avuto paura di perdere”. Mentre i padroni lottavano contro i lavoratori, il popolo dei cancelli issava all’ingresso di Mirafiori una grandissima tela con l’effigie di Marx».
Quel «popolo» poteva davvero contare sulla solidarietà esterna?
«La solidarietà manifesta era totale ma all’interno del sindacato e ai vertici del Partito comunista c’era chi pensava che, in fondo, la Fiat stesse operando una necessaria ristrutturazione aziendale».
Eppure Enrico Berlinguer venne ai cancelli.
«Ma Berlinguer era un’eccezione».
Un’eccezione?
«Berlinguer non era il Pci, era Berlinguer. Lui era in minoranza. E quando venne a Torino a parlare al Lingotto, Tonino Tatò, il suo più prezioso collaboratore, mi chiamò da parte: “Fausto, visto il contesto così drammatico, chiamate qualche volta. Tu lo sai che Enrico è su una posizione isolata rispetto alla vertenza Fiat. Ed è qui contro il parere prevalente della direzione. Perciò fatevi vivi”».
E lei chiamò Berlinguer?
«Qualche giorno dopo. Perché nel partito sotto un certo aspetto c’era grande libertà. Una volta ricordo di averlo contattato ripetutamente per un suo intervento alla Camera contro un provvedimento sulla mobilità. Chiedevo che tenesse una posizione intransigente. Ma in una di queste telefonate accadde un incidente.
Credendo di parlare con Tatò fui, come dire, piuttosto esplicito: “Tonino — esordii — puoi dire per favore ad Enrico di non fare come fa sempre lui? Stavolta deve essere netto. Lo so che non è nelle sue corde, ma per favore...”. Dall’altro capo del telefono una voce con chiara inflessione sarda rispose: “Ho capito benissimo. Se vuoi ti leggo il testo che ho preparato”».
Era Berlinguer?
«Sì. E mentre io provavo a scusarmi, a dirgli che non pensavo di parlargli in quel modo, lui imperterrito mi leggeva il discorso. Confesso di non aver compreso il contenuto tanto ero in imbarazzo. Non ero più in condizione di ascoltare».
E con Luciano Lama? Com’era il suo rapporto con il segretario della Cgil?
«Ammetto di aver apprezzato Lama con il passare del tempo. Ma la sua autorevolezza non era in discussione. Lo si intuiva anche dal modo in cui gestiva le assemblee».
Perché, come le gestiva?
«A Torino era stata organizzata una conferenza operaia del Pci. Allora c’era un contrasto tra il sindacato piemontese e il sindacato nazionale sul ruolo nelle industrie dei capi fabbrica, che avevano un peso significativo alle catene di montaggio. Ecco, per noi piemontesi i quadri intermedi erano “la frusta dei padroni”. Per il vertice nazionale erano invece “lavoratori come gli altri”. Il confronto era già iniziato a pranzo, dove c’era anche Berlinguer. A tavola la discussione si era un po’ scaldata quando Berlinguer alzò la testa dal piatto e chiese: “Ma quanti sono questi quadri?”. Risposi: “Quindicimila”. E lui: “Troppi”. E tornò a mangiare».
Dalla chiosa non sembrava sulle posizioni di Lama.
«Più tardi all’assemblea il segretario della Cgil affrontò quel tema con un breve inciso del suo discorso: “E siccome i quadri, che sono naturalmente lavoratori come voi...”. La sala esplose con i fischi. Lui fece un passo indietro dal leggio, guardò la platea, tornò davanti al microfono e stavolta scandì: “I quadri, che sono lavoratori come voi...”. La sala a quel punto si divise, tra fischi e applausi. Lui ripetè i suoi movimenti. Andò indietro, tornò al leggio. E mentre si avvicinava al microfono sferrò un pugno sulla tavoletta e urlò: “I quadri sono lavoratori come voi, dico io”. Scattò l’applauso generale. Era il segno del carisma del ruolo».
Ma quel carisma venne meno il 14 ottobre del 1980, quando veniste sconfitti dalla manifestazione dei dipendenti Fiat che volevano tornare a lavorare.
«La marcia dei Quarantamila non fu la nostra sconfitta, registrò la nostra sconfitta. La lotta si era fatta molto difficile e intanto si era incrinata l’unità del gruppo dirigente. Il segretario della Cgil però, durante quei 35 giorni, non espresse mai una critica alla lotta. E non contestò mai, né allora né dopo, la conduzione della vertenza. Al contrario di altri dirigenti autorevoli, come Bruno Trentin e Sergio Garavini, da Lama non sentii mai dire: “Non potete continuare con il blocco dei cancelli”. La sua fu una grande figura, drammatica, senza alcuna traccia di banalità. Lo dimostrò subito dopo la fine del presidio davanti alla Fiat, quando andammo a Roma al dicastero del Lavoro».
Dove incontraste Romiti.
«Romiti era il capo della delegazione Fiat. A guidare la delegazione del sindacato c’erano i segretari di Cgil, Cisl e Uil. C’era un’atmosfera funerea. Entrando nella sala ci accolse il ministro del Lavoro, che dopo un breve confronto disse: “Mi sembra che si siano determinate le condizioni per un comunicato conclusivo. Propongo che a redigerlo siano il dottor Romiti e il dottor Lama”. Lama compì un gesto semplice quanto solenne, che ho custodito per anni. Si alzò e disse: “Chiedo scusa. Io, noi, abbiamo perso. Che sia il dottor Romiti a scrivere il comunicato. Io lo firmerò”. Silenzio glaciale e fine. La nostra storia finisce così... Non potevamo non batterci... Accettare la resa... Tradire i nostri ideali...». ( Bertinotti si commuove ).
Se vuole riprendiamo dopo.
«Chiedo scusa. No, finiamo pure. Perdemmo e da allora c’è stata una progressiva dissintonia tra la sinistra e il suo popolo. Ma, come spiegò anni dopo con cinismo e lucidità il finanziere Warren Buffet, “Non è vero che la lotta di classe non c’è più. È vero che abbiamo vinto noi”. Cioè hanno vinto i padroni».
0 notes
lamilanomagazine · 10 months
Text
Bologna, 22enne moldavo minaccia la compagna: "se non sali in casa ammazzo il gatto e poi ammazzo te", denunciato.
Tumblr media
Bologna, 22enne moldavo minaccia la compagna: "se non sali in casa ammazzo il gatto e poi ammazzo te", denunciato. Casalecchio di Reno (BO): I Carabinieri del Nucleo Radiomobile di Bologna hanno denunciato un 22enne moldavo per minaccia e lesioni personale aggravate. È successo alle ore 02:00 circa della notte del 10 dicembre 2023, quando i Carabinieri della Centrale Operativa di Bologna sono stati informati al numero di emergenza 112 che un ragazzo stava litigando pesantemente con una donna in lacrime, in strada, davanti a un palazzo condominiale di Casalecchio di Reno (BO). Appresa la notizia, i Carabinieri del Nucleo Radiomobile di Bologna hanno raggiunto l'indirizzo indicato e, quando sono arrivati, sono stati informati che la donna si era rifugiata nel palazzo, inseguita dal giovane. Quindi, i Carabinieri sono entrati nell'atrio condominiale e, individuato l'appartamento, vi hanno fatto ingresso. Questo, identificato nel 22enne, ammetteva di avere avuto una lite con la compagna, anche lei moldava, 20enne, che era in casa e stava piangendo. Alla vista dei Carabinieri, la ragazza appariva spaventata e presentava delle ecchimosi sul collo. Tranquillizzata dagli stessi, la giovane riferiva di aver avuto una lite col compagno mentre erano a bordo di un autobus partito da Bologna. Nella circostanza, il ragazzo si era arrabbiato con la compagna che lo aveva invitato ad abbassare il volume del telefonino per evitare di disturbare gli altri passeggeri. Intimorita dal rimprovero del giovane, la ragazza è scesa dall'autobus in anticipo per fare ritorno a casa a piedi. Questa sua scelta ha infastidito il 22enne che, arrivando a casa per primo, le ha inviato un messaggio dal seguente tenore: "Se non torni a casa ti ammazzo!". La giovane, preoccupata, appena arrivata sotto casa non è entrata subito nell'appartamento, preferendo rimanere in strada, da dove ha chiamato un'amica per farsi ospitare. Nel frattempo, il ragazzo si è affacciato alla finestra e quando si è accorto che la fidanzata stava temporeggiando ha afferrato il gatto domestico, è sceso, si è avvicinato alla giovane proferendo le seguenti parole: "Se non sali in casa ammazzo il gatto e poi ammazzo te!". La ragazza, fattasi coraggio, ha preso il gatto in braccio ma si è rifiutata di entrare in casa; il fidanzato, dopo averla spinta per terra, ha iniziato a prenderla a calci e pugni fino a quando non è stato interrotto da una cittadina che, accortasi di quanto stava accadendo dal balcone di casa, ha urlato: "Sto chiamando i Carabinieri!". È stato in quel frangente che la giovane è fuggita all'interno del palazzo inseguita dal fidanzato che, una volta raggiunta, la minacciava di morte con un coltello da cucina. Terrorizzata dalla situazione, la ragazza ha urlato: "Per favore voglio vivere, non uccidermi!". La ragazza ha lasciato l'appartamento ed è andata a vivere altrove, riservandosi di far refertare le ferite riportate. Dopo aver immediatamente informato la Procura della Repubblica di Bologna, i Carabinieri hanno denunciato il 22enne e hanno sequestrato il coltello.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
0 notes
theladyorlando · 1 year
Text
Isabella; or the Pot of Basil
Tumblr media Tumblr media
Una nicchia. Al dottorato ci dicevano di trovarci una nicchia, di metterci dentro qualcosa che fosse solo nostro: originale. Fa un po' ridere, originale, no? Come si fa ad essere originali? È davvero un valore, l'originalità? Non so, sta di fatto che io mi faccio da sempre delle nicchie ridicole: certe nicchie scavate talmente bene che neanche se ne vede il fondo. Originali forse no, di certo incomprensibili: inutili? Il mio primo libro di Keats devo averlo avuto a quattordici anni, un' edizione Mondadori con Turner in copertina: e quando ho mandato mio padre a comprarmi le poesie di Robert Burns alla Feltrinelli? Ma soprattutto, che ci facevano con le poesie di Burns alla Feltrinelli? Io non le ho mai lette, e infatti lì dentro non c'era ancora la mia nicchia.
I poemi narrativi di Keats, quelli su cui avrei poi scritto la mia tesi di dottorato, li ho scoperti alla fine del liceo, nei quadri dei pittori Vittoriani. Odorano di stantio, i Vittoriani, e lo sanno, e per questo mi piacciono: sanno dire così bene guardateci, noi siamo i Vittoriani e la nostra poesia è quasi esaurita, ma il suo colpo di coda sarà glorioso. La poesia vittoriana è come un gran finale suonato a pieni polmoni da tutta l'orchestra, tutti insieme: fortissimo. I Vittoriani ci si aggrappano con tutte le forze, alla poesia, con tutti gli strumenti che hanno, con tutte le arti sorelle, e con quelle non si accontentano di scrivere: loro ri-scrivono, perché l'originalità è una qualità sopravvalutata, e lo sanno bene. E così allora cominciano a trascrivere, a tradurre, a rimandare, a disegnare corrispondenze incredibili tra quadri e poesie, tra romanzi e dipinti, tra sé stessi e i padri che si scelgono. Poetry is the thing, è proprio così per loro. In salone ho appesa una stampa di John William Waterhouse, con una santa Cecilia addormentata davanti a due angeli che suonano, uno un liuto, l'altro un violino. Quelli sono tre versi di un poema bello lungo di Tennyson, the Palace of Art: tre versi. E io lo so che Waterhouse non è il più grande dei pittori, ma con tre versi ha aperto una nicchia su Tennyson che secondo me vale quanto un vero e proprio palazzo dell'arte. I Vittoriani mi hanno invitata a scoprire le loro bellissime riscritture, il vizio delle corrispondenze, dei padri da svelare, delle storie dietro le storie, delle parole dietro le immagini. È come un codice cifrato: guarda questo bel quadro: sapessi cosa dice... sapessi chi è Mariana in the South, o la signora di Shalott, oppure Isabella. Allora sono arrivata proprio lì dove ero partita: Keats.
C'è questo quadro di Millais, un banchetto medievale, e due ragazzi che si guardano, seduti al tavolo, qualche occhiataccia vola tra gli altri commensali. Isabella è il più bistrattato tra i poemi narrativi, è troppo sentimentale, troppo immaturo, e poi è solo una riscrittura di Boccaccio, no? Io però so bene che non c'è niente di ingenuo in una riscrittura, me lo hanno insegnato i Vittoriani. La storia è quella di due ragazzi, Isabella e Lorenzo, che si amano, pensa un po'. E, neanche a dirlo, i fratelli di lei li ostacolano, fino a quando non prendono Lorenzo e lo portano in un bosco, lo uccidono e lì lo seppelliscono. Isabella è visitata in sogno dal fantasma del ragazzo, che le dà le coordinate esatte perché lei possa, non senza grosse difficoltà, riesumare il suo cadavere. Una volta trovato il corpo, Isabella taglia via come può la testa di Lorenzo, la porta a casa avvolta in un panno e la pianta in un vaso: la annaffia con le sue lacrime, e dal vaso nasce una bellissima, rigogliosa pianta di basilico, dalla quale Isabella non si separa più. Sarà immatura, sarà sentimentale all'inverosimile, ma questa cosa del vaso di basilico mi ha lasciata inquieta a diciott'anni. Allora ho cominciato a disegnare una piccola Isabella avvinghiata al suo vaso, sorridente, l'ho disegnata ovunque, sui quaderni dove studiavo, sul risguardo dei libri del liceo, accanto a una versione di greco, e solo io sapevo cosa ci fosse dentro al vaso. Il mio tesoro: disquieting, ecco una bella parola rotonda. O come dice Keats, a wormy circumstance.
Solo molti anni dopo, al dottorato, sono rientrata a casa di Keats per quella porta, quella della riscrittura boccaciana, e ho scoperto che Isabella forse non è così ingenuo, lo avevo intuito correttamente. Innanzitutto perché riscrivere Boccaccio in versi è un colpo da maestro, nel vero senso del termine: la novella di Boccaccio si concludeva proprio con alcuni versi di una ballata, una ballata medievale che pretendeva di essere la fonte stessa della storia narrata da Boccaccio. Quindi Keats, che si è seduto umilmente a riscrivere, come uno studente timoroso sotto allo sguardo del maestro, in realtà finisce per diventare lui la fonte di Boccaccio, è lui il poeta, è sua la ballata medievale: e sta lì, ad aspettare che qualcun altro, dopo di lui, la voglia riscrivere, ancora una volta, magari in prosa, magari la dipinge. Ma poi la testa trapiantata, la pianta di basilico: quel travaso è una metafora bellissima della sorte della poesia, decapitata e messa a fiorire dentro a un vaso, in camera di Isabella, lontano dal giardino. Una forzatura, un artificio: post-lapsarian. Quella poesia non parla che della distanza, dell'abbraccio e del bacio che mancano, tra Lorenzo e Isabella. Quella poesia è un piccolo Palace of Art, è pronta per i Vittoriani, è pronta per Millais quando ancora Millais non è neanche nato. Mi è rimasta da allora la voglia di disegnare Isabella, e ogni tanto tornano a trovarmi, lei e Lorenzo. È come se sentissi di dover compensare per quell'incontro mancato tra i due, come se avessero bisogno di essere redenti dal loro destino, scorretto: non solo separati da una morte cruenta e ingiusta, ma soprattutto ignorati dalla critica, dimenticati dalla fortuna: il più bistrattato poema narrativo di Keats. Va detto che danno un po' sui nervi, che sì, sono sdolcinati, ma per qualche motivo restano. Al punto che ho pensato di illustrare la poesia varie volte. Il suo problema però è che è troppo lunga: perciò nessuno la vuole più leggere, e io non ho la forza né tantomeno le capacità per illustrarla. Ma quei due mi scappano dalle mani, e ho finito per riempire un altro quaderno intero con le espressioni che di loro mi figuro, con i loro vestiti, i loro capelli. E alla fine mi sono scappati dentro a un sonetto di Shakespeare, senza che io potessi fare niente per tenerli al loro posto. E poi, di nuovo, in una poesia di Christina Rossetti: persino da Pavese se ne sono andati. Sembra come se lo sapessero, quei due, che se mai li rimettessi al loro posto, nell'ottava rima di Keats, sarebbero condannati a starsene lontani, separati, ciascuno sulla sua pagina: lei dietro le tende della finestra di camera, su per le scale, lui a guardarla dal cortile di qualche cascina fuori Firenze; questa la migliore delle ipotesi. Invece, nelle poesie degli altri possono toccarsi, finalmente, le loro mani si sfiorano, si parlano all'orecchio, si guardano fissi negli occhi, addirittura si abbracciano. E sono sempre fuori dal tempo, sempre fuori moda, dentro a Shakespeare o a Christina Rossetti. O a Pavese.
1 note · View note
beppebort · 1 year
Text
Tumblr media
Maria Clara di Gesù Bambino
(1843-1899)
BEATIFICAZIONE:
- 21 maggio 2011
- Papa Benedetto XVI
Celebrazione
RICORRENZA:
- 1 dicembre
Religiosa portoghese, fondatrice della Congregazione delle Suore Francescane Ospedaliere dell’Immacolata Concezione; Una vita segnata dalla carità, un cuore sempre aperto all’accoglienza dei bisognosi, confidando saldamente nella Divina Provvidenza.
Guardate, quella è la mia gente! Che pena provo di non poterli soccorrere!"
Libânia do Carmo Galvão Meixa de Moura Telles e Albuquerque nacque il 15 giugno 1843 ad Amadora nei pressi di Lisbona, terza di sette figli di una famiglia aristocratica, e il 2 settembre nella chiesa parrocchiale di Nostra Signora del Soccorso di Benefica fu battezzata con il nome di Libânia do Carmo.
Trascorse l’infanzia in un clima sereno e accogliente, caratterizzato dal ritmo della vita familiare e da una esperienza educativa chiaramente ispirata alla fede. Imparò così ad amare il Signore, la Beata Vergine e i Santi e ad aprirsi alla realtà del prossimo maggiormente segnato da afflizione e povertà. Anche lei, tuttavia, sarebbe stata ben presto visitata dalla sofferenza, poiché nel giro di poco tempo morirono alcuni familiari e anche i suoi genitori. Tali eventi incisero profondamente sul suo animo, rendendolo ancora più sensibile di fronte al mistero del dolore, ma nello stesso tempo contribuirono ad irrobustirne il carattere: fortezza e speranza brillarono sul suo volto, insieme alle lacrime per lutti così numerosi, gravi e inattesi.
Rimasta orfana, Libânia do Carmo a 14 anni fu accolta nell’Asilo Reale d’Ajuda in Lisbona, gestito dalle Suore francesi Figlie della Carità, dove, mentre ricevette una preparazione culturale e umana corrispondente al suo rango, ebbe l’opportunità di consolidare in modo sempre più consapevole la sua formazione spirituale.
Nel 1862, lasciato l’istituto religioso, fu ospitata nel Palazzo Valada come dama di compagnia e confidente della Marchesa. Libania, tuttavia, andava maturando la decisione di consacrarsi al Signore in un’esperienza di vita religiosa: avvertiva infatti come impellente la vocazione ad un’esistenza completamente dedicata alla preghiera e al servizio del prossimo. Perciò alcuni anni dopo si ritirò nel Convento di San Patrizio a Lisbona, presso le Terziarie Cappuccine di Nostra Signora della Concezione; qui successivamente vestì l’abito di terziaria francescana e assunse il nome di Maria Clara di Gesù Bambino.
Il suo orientamento vocazionale, però, dovette affrontare un primo ostacolo, costituito dalle leggi civili del Portogallo che in quel momento risentivano di un accentuato spirito antiecclesiale e proibivano ogni forma di vita religiosa. Di fronte a questa situazione il direttore spirituale della Fraternità fece ricorso ad una Congregazione francese, le Suore Francescane Ospedaliere e Maestre, ed inviò la Serva di Dio presso il loro Monastero di Calais in Francia. Qui la giovane venne ammessa al noviziato e in seguito professò i voti.
Rientrata in Portogallo, Suor Maria Clara di Gesù Bambino fu nominata superiora del Convento di San Patrizio e, con la prudente guida del direttore spirituale, si applicò ad una intensa riforma della comunità delle Cappuccine, al punto da dare origine ad una nuova Congregazione, quella delle Suore Ospedaliere Portoghesi, che, riconosciuta civilmente come associazione benefica, avrebbe poi ricevuto l’approvazione pontificia da parte del Beato Pio IX.
La Congregazione conobbe in breve tempo una rilevante fioritura di vocazioni e di opere e si diffuse anche al di fuori del paese lusitano, con una serie di case aperte in Angola, India, Guinea, Capo Verde, San Tomé, dovunque ci fosse richiesta di un aiuto a favore dei bisognosi. Non mancarono, tuttavia, anche ostacoli e difficoltà di ogni genere, che inevitabilmente comportarono tensioni e divergenze anche all’interno della Congregazione.
Nonostante le amarezze, la Serva di Dio non perse mai la serenità e anzi rafforzò la sua adesione alla divina volontà, unicamente dedita alla crescita spirituale delle Consorelle e alla realizzazione di opere apostoliche, che animò con la preghiera, con il consiglio e soprattutto con grande spirito di sacrificio. Nelle varie circostanze, Madre Maria Clara dimostrò equilibrio non comune, intelligenza pratica, saggia capacità di sintesi, sensibilità materna, generosità, fervore, sobrietà di vita.
La sua personalità, ricca di doti intellettuali e affettive, era totalmente consacrata al Signore e al servizio del suo regno. Il suo percorso spirituale si manifestava in modo particolare in un intimo atteggiamento di relazione sponsale con Gesù, il cui Cuore sacratissimo costituiva per lei il centro unificante dei pensieri e delle azioni; in un profondo legame con la sua croce, che ella condivise soffrendo in silenzio e pazienza; in una incrollabile fiducia nella Provvidenza, della quale si riteneva umile strumento; in un comportamento di piena disponibilità verso tutti, anche nei confronti dei suoi calunniatori e persecutori che lei, pur ferita dalle ingratitudini, aveva sempre amato e perdonato.
Ebbe a cuore in modo speciale i poveri e gli ammalati, a favore dei quali fondò la sua opera, impegnandosi a trasmettere alle religiose della sua Congregazione gli stessi valori che avevano costituito il pilastro portante della sua vita.
La salute risentì di tante fatiche fisiche e psicologiche: iniziarono a manifestarsi problemi polmonari e cerebrali, fino a che subentrò un infarto che la condusse alla tomba.
Un mese prima della morte indirizzò l’ultima circolare alle sue religiose, riportando tra l’altro quello che era stato il pensiero dominante del suo cammino interiore: «Nulla accade nel mondo senza il permesso di Dio».
Il 1 dicembre 1899, dopo aver ricevuto i sacramenti, si spense serenamente in Lisbona: era il primo venerdì del mese, giorno dedicato al Cuore divino dello Sposo. Le esequie furono partecipate da numerosi sacerdoti, religiose e laici di tutte le classi sociali, testimonianza di una fama di santità che già in vita aveva accompagnato la Serva di Dio.
0 notes
castellidisabili · 1 year
Text
Siamo stati finalmente all'Anarchico e continuavo ad avere nostalgia dello sconosciuto. Poco prima avevo avuto uno dei momenti di pianto che mi colgono ormai da un mese almeno una volta al giorno. Sembra che la mia testa sia diventata all'improvviso solo un contenitore di lacrime che, anche quando vengono eliminate, si rigenerano. In quel posto ho sentito aria di casa. Mi ricordava il buon vecchio Caffè delle Arti, i sabati a disegnare amici in modo storto facendoli divertire, ad essere distante eppure dentro la storia. A vedere i concerti e pensare che forse un musicista che conoscevo avrebbe suonato a Catanzaro. Mi manca la casa del nulla, ho bisogno della sua stanza che poi è la mia perché è l'unica stanza di quella casa che esiste, dove io ero io, dove c'è di fronte un palazzo giallo, dove la giungla rigogliosa cede i suoi alberi alla civiltà. Qui è tutto urbanizzato, indecoroso. Mi spavento delle grate, dei bidoni dell'immondizia, degli angoli in cui si può sempre trovare qualcosa di strano a terra. Non è più vita. Non è più vita.
0 notes
personal-reporter · 2 years
Text
Chocomoments a Treviglio
Tumblr media
Sarà un weekend in provincia di Brescia davvero dolce, grazie alle prima edizione di "Choco Moments Treviglio, che è l'evento perfetto per gli amanti del cioccolato che vogliono passare una giornata divertente. Dal 10 al 12 marzo, la piazza Garibaldi di Treviglio sarà un paradiso per i golosi, dove i migliori mastri cioccolatieri italiani saranno presenti con bancarelle e creazioni, pronti a soddisfare ogni desiderio, inoltre ci saranno laboratori per bambini, lezioni per adulti e show cooking per imparare a creare dolci prelibatezze di cioccolato a casa. E sarà da non perdere il taglio della tavoletta da Guinness da 15 metri sabato alle 18, per uno spettacolo unico e divertente per tutta la famiglia. Inoltre, la città di Treviglio offre anche numerose alternative per un weekend che dalla storia,  all'arte e alla cultura. Secondo la tradizione storiografica gli abitanti delle tre ville romane Portoli, Pisgnano e Cusarola, ubicate nelle vicinanza del centro storico di Treviglio, si riunirono nel periodo delle incursioni barbariche e dal primo nucleo difensivo si è sviluppato, nei secoli X e XI, il borgo di Trevì. Il primo nucleo difensivo, denominato castrum vetus, era nell'isolato centrale di Treviglio, tra piazza Manara, piazza Garibaldi e via Fratelli Galliari, era costituito da tre torri e da solide mura, aveva un solo accesso ed era circondato da un fossato. Sotto la protezione del Monastero di San Simpliciano di Milano, la città fu riconosciuta con diploma imperiale da Enrico IV che, nel 1081, definì Treviglio grassum, cioè ricco o  prospero. Nel XI secolo Treviglio era circondata da un nuovo sistema difensivo, costituito da un triplice fossato con avvallamenti  e lungo il perimetro sorgevano quattro porte di accesso con relative torri. Se il centro abitato vedeva  botteghe e laboratori artigianali c’erano anche diversi edifici religiosi, tra cui la Basilica di San Martino ed il Monastero di Sant'Agostino, un luogo preposto a mercato e il Palazzo della Comunità nel castrum vetus. Nel 1224 Treviglio divenne un libero comune, condizione che mantiene inalterata nei secoli, distinguendosi perciò dai Comuni vicini, perlopiù soggetti a feudatari o nobili che con il loro potere impedirono il nascere di autonomie amministrative e giuridiche locali. Nel corso del XV secolo ci furono importanti opere pubbliche, tra cui la realizzazione delle rogge Moschetta e Vignola, derivate dal fiume Brembo, e l'istituzione, promossa da Beltrame Buttinone, di un ospedale per i poveri. Durante il secolo XV gli scontri in Gera d'Adda fra il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia portano Treviglio ad essere sottoposta alternativamente al dominio milanese oppure a quello veneziano finché, nel 1454, con la pace di Lodi, fu assegnata definitivamente al Ducato milanese. Il Cinquecento per Treviglio vide un evento che ancora oggi viene celebrato e festeggiato da tutta la popolazione, il Miracolo della Madonna delle Lacrime che avvenne il  28 febbraio 1522 quando il generale francese Odetto di Foix, visconte di Lautrec, stava per assediare la Città, ma un dipinto raffigurante la Vergine con il Bambino cominciò a trasudare lacrime e sudore, così la città venne risparmiata dal saccheggio. Nel 1647 il governo spagnolo deliberò la vendita del Comune di Treviglio al miglior offerente, ma i cittadini si riunirono in consorzio acquistando i diritti feudali per la somma di 10.000 lire imperiali. Al 1846 risale la progettazione del tracciato ferroviario Treviglio–Milano; mentre nel 1857 fu inaugurata la linea Treviglio–Bergamo e nel 1863 venne attivata la linea Treviglio–Cremona, che portò ad un notevole sviluppo industriale e commerciale. Read the full article
0 notes
Text
Giornata internazionale della donna: il 2023 è donna?
La Giornata internazionale della donna, detta fino a qualche tempo fa festa della donna, non è una ricorrenza da festeggiare né da celebrare nascondendosi dietro una falsa retorica. Discorsi di circostanza da pronunciarsi tra una mimosa e un cioccolatino. La condizione della donna oggi merita tutta la nostra attenzione ma nel modo giusto. Le lotte delle nostre antenate che ci hanno portato nelle urne elettorali per esprimere un voto, nelle aule di tribunale a rivendicare la nostra libertà da legami non voluti, negli ambulatori di ospedale a ribadire l'esercizio della potestà sul proprio corpo sono state vitali. I diritti che oggi possiamo vantare sono sacrosanti e proteggerli da chi vuole abolirli è un dovere. Ora andiamo avanti con uno spirito diverso: non in corteo a strombazzare slogan ma in cammino responsabile verso nuovi obiettivi. Giornata internazionale della donna: le donne al potere Il 2023 è il primo anno "rosa" della politica: abbiamo per la prima volta una donna presidente del consiglio e una donna come leader del maggior partito di opposizione. Cosa faranno entrambe per le donne? Lavorare per scardinare la 194 non depone proprio bene. Al tempo stesso proporre una leadership femminista in luogo di quella femminile per recuperare il gap con una forza conservatrice che ciò nonostante ha portato la prima donna a Palazzo Chigi non è da meno. Qualcuno metterà mano alle leggi sulla parità salariale (oltre che sul salario minimo), a leggi che aiutino le donne cargiver: madri, figlie e lavoratrici contemporaneamente? Leggi che incentivino l'ingresso e la permanenza delle donne nel mondo del lavoro, che vadano incontro alle donne con disabili in famiglia? La violenza sulle donne Nel 2022 in Italia 120 donne sono state uccise dai loro partner (dati del Viminale). 10 al mese, una ogni tre giorni. I dati sul 2023 ci dicono che sono state 4 le vittime nel mese di gennaio e altrettante nel mese di febbraio. Cosa si fa per contrastare la violenza sulle donne oltre ai teatrini mediatici per strappare lacrime a casalinghe nei loro pomeriggi davanti alla tv? Iniziative di sensibilizzazione, poiché abbiamo inquadrato il fenomeno come una questione culturale, poi si tagliano i fondi ai Centri antiviolenza. Le donne dell'Iran Un'ultima parola, parlando della condizione femminile, non può non essere dedicata all'Iran. La morte di Mahsa Amini lo scorso settembre ha innescato, come sappiamo, una fortissima ondata di protesta. Tagliarsi ciocche di capelli in segno di solidarietà non rende giustizia del loro coraggio. Mentre queste giovani donne scendono in piazza a manifestare a rischio della loro vita, altre piccole donne sempre in Iran sono in pericolo. Parliamo delle bambine che da mesi sono sistematicamente avvelenate nelle scuole. Secondo gli osservatori locali sarebbe una misura per indurre la chiusura delle scuole femminili. Le lotte delle nostre antenate sono sacrosante, come possiamo noi oggi lottare per queste donne? In copertina foto di timokefoto da Pixabay Read the full article
0 notes
Text
Spazio Colore. 901 + Sunset Boulevard St., California. Viola. 20/03/22. 11:59.
901
Guardo il soffitto. Vuoto. Sgombro da ogni possibilità. Lo guardo perché alla ricerca di un punto luminoso, un qualcosa che possa distrarmi ed guidarmi in questo mare di assenza e silenzio.
Riattivo i miei muscoli lentamente: li sento strusciare, sotto queste ruvide coperte. Mi sembra di sentire il sibilo del vento, solo che ho il potere di deciderne l'intensità, il rumore, la frequenza e la forza, addirittura la direzione. Ma il vento rallenta, fino quasi a fermarsi, quando capisco che sono in un letto, anche se non mio.
Il mio corpo è a galla mentre le onde mi cullano ma allo stesso tempo mi agitano, da una parte all'altra, di questo infinito ma delimitato oceano chiamato letto. Galleggio e quasi mi lascio annegare, quasi ad abbandonare un corpo che non sento mio. Che non ho mai sentito mio. Che abbandonerei, se potessi, su un'isola deserta a deperire per, poi, lasciarlo mangiare agli uccelli e ai pesci. Ma non affogo completamente. No. Non ne ho il coraggio. Anche se non sto cercando di nuotare perché, mi rendo conto, di non avere la forza per farlo. Non al momento almeno.
Mi lascio quindi cullare da tutto questo, anche se sono stato sbattuto con violenza nei meandri di questo piccolo spazio, ritagliato all'interno delle infinite possibilità di un universo pieno di spazi, mal riempiti e mal concepiti, anche dalla mia piccola ed infinitesimale immaginazione.
Una violenza che, però, ho scelto: ho cercato, addirittura desiderato, ad un certo punto. Che ho bramato fino a qualche ora fa ed immaginato, nei più piccoli e nefasti dettagli.
I miei sensi, mi accorgo, sono spenti: gli occhi, aperti, non hanno nessuno stimolo. L'olfatto riesce solamente a captare il mio fiato, pesante e disgustoso. La mia bocca permea di un sapore orribile. Le mie orecchie che rifiutano quel silenzio assordante. Il tatto che, al contrario degli altri sensi, capta un piccolo segno di vita: con i polpastrelli riesco a sfiorare qualcosa, ma capisco solo dopo cos'è. È carne. Pelle, nuda, che giace accanto a me inerme, immobile.
C'è qualcuno accanto a me.
Un segno di fiducia. Dormire accanto a qualcuno è un segno di fiducia. Dormire accanto a qualcuno è un segno di arrendevolezza, nei confronti di qualcuno di inerme tanto quanto me. Vanessa.
C'è Vanessa, accanto a me. Il suo respiro è leggero, labile, e solo ora che sposto l'attenzione dei miei sensi su di lei mi accorgo della sua esistenza, nella vacuità di questa camera d'albergo. Faccio un po' di fatica ad ascoltarla: lei è dall'altro lato di quest'oceano limitato da questi bordi così stringenti ma accoglienti, ma è viva e sopravvive, anche nel pieno della sua tenera arrendevolezza e, questo, mi rincuora.
Cerco di muovere i miei polpastrelli il meno possibile. Non vorrei tirarla fuori dal suo subconscio, forse non ne sono degno.
Vanessa.
Mi rendo conto che l'assenza di guide, in questo cielo fatto di cemento armato, è proprio il risultato di una luce che mi ha portato proprio qui, accanto a lei, in questa stanza completamente buia.
Sunset Boulevard St., California
Le mie scarpe sono umide, i piedi sguazzano all'interno di esse. È notte. In mano una birra, l'orizzonte pieno di palazzi. Case ancora vive, radianti di luce propria, con all'interno persone.   Al 1° piano una donna, la vedo. Sta cucinando, nel frattempo sorride. È al telefono. Al 2° piano un vecchio, decrepito, sporco tanto quanto me. Che guarda, mi guarda. Col suo fare assente, come per compatirmi. Mi regala il suo perdono. Non lo accetto. Nessuno può perdonarmi, o tantomeno giudicarmi. Solo Dio potrebbe, ma non credo a tutte quelle favole per bambini. Al 3° piano una coppia. Che scopa. Lei sbattuta da dietro. Che urla. Geme. Ma chiede di più. Sempre di più. Credo sia così. Non riesco a vedere lui. Vorrei essere io. Io. Io seduto, su un gradino di un palazzo fatiscente. Al coperto. La guardo. Ancora piove. Ogni tanto alzo lo sguardo. La vergogna. Il cielo pieno di nuvole. Lacrime di disgrazia. Ogni tanto abbasso lo sguardo. La miseria. Strade piene di pozzanghere. Rimasugli di lacrime non ancora asciugate. Il rumore della città ancora in moto mi distrae da quella scena. Le auto passano a pochi metri da me. Pochi centimetri e le scarpe non sarebbero più un problema. Ma anche adesso non lo sono. Non lo sono affatto. La donna non è più alla finestra. Non vedo più le sue tette sbattere contro il vetro. Non vale la pena continuare a guardare quel palazzo. Brindo. L'ultimo sorso di birra sparisce nella mia gola. Cerco un altro briciolo di umanità all'interno di quelle auto. Così vicine dal rendermi ancor più miserabile, così lontane da essere ancora affascinanti. Da quanto tempo sono qui? Una macchina di lusso si ferma a pochi metri da me. In quel sottile lembo delimitato dalla mia psiche. Vedo un uomo vestito elegante. Non mi guarda, ma io guardo lui. È agitato. Così tanto da non riuscire a contenersi. Sbraita, urla, si fa del male. Piange. Non lo vedo ma lo capisco. Prende il telefono. Chiama qualcuno. Ma quel qualcuno non risponde. E lui sbraita, urla, si fa del male. Piange. Non lo vedo ma lo capisco. La pioggia comincia a battere forte. I suoni azzerati completamente. La vista ridotta ai minimi termini. Riesco solo a vedere l'auto, e nulla più.
1 note · View note
iannozzigiuseppe · 5 years
Text
"Il palazzo delle lacrime" di Paolo Grugni: il centro del potere non è il centro della verità - recensione di Iannozzi Giuseppe
“Il palazzo delle lacrime” di Paolo Grugni: il centro del potere non è il centro della verità – recensione di Iannozzi Giuseppe
“Il palazzo delle lacrime” di Paolo Grugni Il centro del potere non è il centro della verità
Iannozzi Giuseppe
Tumblr media
Il Palazzo delle lacrime è l’ultimo lavoro di Paolo Grugni, un romanzo forte che mette alle strette un certo comunismo, quello di stampo leninista-stalinista. L’autore fa sua la lezione di John le Carré e Léo Malet, adoperando uno stile diretto e preciso che non lascia spazio a…
View On WordPress
0 notes