#Il crocevia dei sensi
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[Il crocevia dei sensi][Armando Zoff]
Il Crocevia dei Sensi di Armando Zoff è uno spregiudicato diario che, come un'avvincente pellicola a tinte forti, permette al lettore di sprofondarsi in realtà ad alta densità materica.
Il Crocevia dei Sensi è uno spregiudicato diario che, come un’avvincente pellicola a tinte forti, permette al lettore di sprofondarsi in realtà ad alta densità materica. L’azzardo verso la vita, l’espressione ardita della sessualità e un profondo istinto di sovversione alla morale dei tempi si fondono in pagine spiazzanti che rapiscono e suggeriscono profonde riflessioni. Le vicende dell’autore e…
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Verona, l'altro Teatro al Camploy "Broken songlines - Tre manoscritti" di Monika Bulaj
Verona, l'altro Teatro al Camploy "Broken songlines - Tre manoscritti" di Monika Bulaj Martedì 12 dicembre, alle 20.45, arriva al Teatro Camploy 'Broken songlines – Tre manoscritti' di Monika Bulaj, appuntamento in programma per la rassegna L'Altro Teatro che porta a Verona il meglio del teatro e dei linguaggi contemporanei nazionali e internazionali. Un felice ritrovarsi per gli appassionati che già apprezzano l'artista internazionale e una grande occasione per chi non la conosce. Lo spettacolo è una coinvolgente performance multimediale, una narrazione estemporanea su grande schermo con luci e suoni che danno vita alla scenografia naturale del Teatro Camploy, dove scorrono storie di amori e separazioni, resistenze e fughe, danze sacre e cammini accompagnati dal reportage in azione. E' un viaggio con Monika Bulaj tra i confini spirituali, nei crocevia dei regni dimenticati, dove scintillano le fedi e le tradizioni dei più deboli ed indifesi, con la loro resistenza fragile ed inerme, la loro capacità al dialogo e all'incontro. In cammino con i nomadi, minoranze in fuga, pellegrini, cercando il bello anche nei luoghi più tremendi. La solidarietà nella guerra. La coabitazione tra fedi laddove si mettono bombe. Le crepe nella teoria del cosiddetto scontro di civiltà, dove gli dei sembrano in guerra tra di loro, evocati da presidenti, terroristi e banditi. Il lavoro fotografico che Monika Bulaj porta avanti da anni è un atlante delle minoranze a rischio e dei luoghi sacri condivisi, ultime oasi di incontro tra fedi, zone franche assediate dai fanatismi armati, patrie perdute dei fuggiaschi di oggi, luoghi dove gli dei parlano spesso la stessa lingua franca, e dove, dietro ai monoteismi, appaiono segni, presenze, gesti, danze, sguardi. Come racconta la stessa Bulaj parlando della performance: "Al centro è il corpo. Chiave di volta e pomo della discordia nelle religioni. Iniziato e benedetto, svelato e coperto, temuto e represso, protetto e giudicato, intoccabile e impuro, intrappolato nella violenza che genera violenza, corpo-reliquia, corpo martire, corpo-trappola, corpo-bomba. Mi piace pensare il corpo come un tempio. Il corpo che contiene il segreto della memoria collettiva. Il corpo che non mente. Il sacro passa attraverso il corpo. Lo trafigge. Nell'arcaicità dei gesti, si legge la saggezza arcana del popolo, la ricerca della liberazione attraverso l'uso sapiente dei sensi". E aggiunge che"la fotografia attraverso la formacon la bellezza è uno strumento per andare oltre agli stereotipi, la cosiddetta teoria del conflitto di civiltà che alimenta le guerre. Quindi questo è un lavoro per la pace e per neutralizzare la paura come mezzo per manipolare le masse". Se il viaggio fisico prende i passi dalla carta geografica, il nuovo atlante che Broken songlines delinea spezza le mappe mentali alla base delle separazioni e si lascia guidare dai grandi poeti, mistici e filosofi di tutti i tempi nascosti in tre manoscritti, uno buddhista, uno sufi e uno nestoriano. All'inizio della sua ricerca professionale Bulaj documentava le piccole e le grandi religioni nelle ombre delle guerre antiche e recenti, ora, dice la reporter dell'anima, "raccolgo schegge di un grande specchio rotto, miliardi di schegge, frammenti incoerenti, pezzi, atomi, forse mattoni della torre di Babele... Forse solo questo può fare il fotografo: raccogliere tessere di un mosaico che non sarà mai completo, metterle nell'ordine che li sembra giusto, o forse solo possibile, sognando, quell'immagine intera del mondo che magari da qualche parte c'è". In occasione dello spettacolo ed in collaborazione con Grenze-Arsenali Fotografici sarà allestita in mostra una selezione da 'Il Miracolo degli occhi', progetto didattico con i ragazzi delle enclave serbe in Kosovo e Metohija. Le fotografie sono state realizzate dai bambini che hanno partecipato al workshop con Monika Bulaj e sono state stampate in Kosovo. Apertura dalle 20. Programma completo sul sito al seguente link, sulla pagina facebook L'Altro Teatro Verona, sul profilo Instagram L'Altro Teatro Verona.Camploy. Il botteghino del Teatro Camploy sarà aperto la sera dello spettacolo a partire dalle 20per l'acquisto dei biglietti. MONIKA BULAJ. Fotografa, reporter, documentarista e performer, svolge la sua ricerca sui confini delle fedi tra minoranze etniche e religiose, popoli nomadi e fuggiaschi, in Europa, Asia, Africa e nei Caraibi. Ha studiato la filologia all'Università di Varsavia, seguito corsi di antropologia, filosofia, teologia. Abita a Trieste. Parla otto lingue, ha tre figli, pubblica con Granta Magazine, La Repubblica, Corriere della Sera, Revue XXI, Internazionale, GEO, National Geographic, the New York Times, e Guardian, etc. Autrice di libri di reportage letterario e fotografico con Alinari, Skira, Frassinelli, Electa, Feltrinelli, Bruno Mondadori, National Geographic, Contrasto. I suoi ultimi libri sono: WhereGodsWhisper (Contrasto), Genti di Dio. Viaggio nell'altra Europa (Postcart), Nur. AfghanDiaries (National Geographic Poland), Nur. La luce nascosta dell'Afghanistan (Electa, scelto da TIME come uno dei migliori libri fotografici del 2013). Trairiconoscimentiricevuti: Leonian award di W. Eugene Smith Memorial Fund; TED Fellowship ; Aftermath Project Grant; Bruce Chatwin Special Award for Photography "Absolute Eyes". Nel 2014 le è stato consegnato il Premio Nazionale "Nonviolenza", per la prima volta assegnato ad una donna, con questa motivazione: "per la sua attività di fotografa, reporter e documentarista, capace di mettere in luce l'umanità esistente nei con ni più nascosti eppure evidenti della terra, di far vedere la guerra attraverso le sue conseguenze, di indagare l'animo dell'Uomo, la sua ansia di religiosità, di tenerezza e di dignità. Monika Bulaj rende visibile l'invisibile, attraverso l'esplorazione dell'animo delle persone, creando con l'immagine, l'unità dell'umano." Il suo lavoro in corso è sostenuto da Pulitzer Center on Crisis Reporting.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (III)
di Cristina Manzo
Nel Salento approdarono nel 1970 lo scultore olandese Norman Mommens con la compagna Patience Gray, scrittrice e giornalista inglese e ci rimasero per più di trent’anni, fino alla loro morte, vivendo un legame estremo con la terra di Spigolizzi. La loro masseria fu solo spartanamente restaurata e non vollero mai l’elettricità. Normann Mommens e Patience Gray, riconvertirono la campagna in un luogo di arte e conoscenza, e da essi viene la seconda testimonianza di un territorio scelto, come luogo di vita, da gente straniera. Patience, giornalista londinese, orafa, appassionata di botanica e studiosa di gastronomia si era lasciata catturare dal fascino della macchia mediterranea che, in cambio, aveva donato storie di cultura antica e misteri che lei e il compagno, seppero sapientemente tradurre in arte con la pittura, la scultura e la scrittura.
‘Il Pazzo’ o ‘Anatolì’, marmo bardiglio 320 cm, Carrara 1965 [1].
Di fronte alla masseria c’era un’aia circolare dove Normann, l’artista fiammingo, situò un’erma alta tre metri e venti, che chiamò Anatoli, dal greco, perché la statua è rivolta verso est.
I libri che Patience scrisse, vennero pubblicati in Inghilterra, e raccontano il Salento, interrogato nel profondo della sua anima storica e nelle sue tradizioni alimentari.
Esperta botanica, Patience raccoglieva anche funghi e verdure selvatiche nelle vicinanze della masseria, che preparava secondo le ricette della tradizione locale che, già in quegli anni, rischiavano di cadere in disuso perché associate a tempi di povertà e privazioni. Sotto questo punto di vista, il contributo della Gray alla preservazione dell’antica cultura culinaria del Salento, è stato straordinario. Nella loro nuova dimora salentina continuarono a coltivare ognuno la propria arte, ma si trasformarono ben presto in cultori e difensori della macchia mediterranea, delle vestigia archeologiche e dei paesaggi del Salento, che cominciavano ad essere stravolti dall’ondata di speculazione edilizia degli anni Settanta. Patience e Norman cominciarono da subito a coltivare la terra della masseria. Un contadino del posto, “dal nome appropriato di Salvatore”, insegnò loro i metodi ancestrali per la coltivazione di pomodori, piselli, ortaggi e verdure locali. Nel corso della lunga “odissea del marmo”, Patience aveva raccolto centinaia di ricette dalle massaie e dei cuochi delle trattorie. “Sono stati i contadini e i pescatori”, diceva, “a creare le ricette piuttosto che i cuochi degli alti prelati e dei principi. Questi ultimi si erano solo limitati a raffinarle”. Annotava non solo le ricette, ma anche il significato profondo che esse rivestivano nella vita quotidiana delle persone e il loro valore culturale per quella comunità. Così ha continuato a fare nel Salento. La masseria di Spigolizzi diventò, negli anni, meta di visitatori ed estimatori da ogni angolo del Salento e del mondo. Un folto gruppo di giovani del luogo fu da loro ispirato a impegnarsi in campagne per la protezione del patrimonio archeologico e ambientale del Salento. A questo gruppo di giovani volenterosi, il regista tedesco Klaus Voswinckel dedicò il film documentario “I Ragazzi nel 1989”. Troupe televisive e giornalisti inglesi e americani sono scesi nel Salento a intervistare Patience. Tra gli altri, Derek Cooper, conduttore per oltre un ventennio del Food Programme della Bbc, nel 1988 realizzò a Spigolizzi un’intervista alla scrittrice, trasmessa poi su Radio 4. Patience è stata l’antesignana dello slow food prima ancora che quest’espressione fosse coniata e diventasse moneta corrente sulle riviste patinate e nei talk-show. La sua idea di dieta mediterranea era, però, ben diversa da quella presentata in tanti programmi televisivi in Italia e, soprattutto in Europa e in America, spesso a base di leggeri piatti di pesce con un filo d’olio d’oliva. Per Patience, la dieta mediterranea era calorica, ricca di amidi e verdure, ma anche di proteine, destinata a soddisfare il sano appetito dei lavoratori della terra e del mare. Non condivideva le ossessioni salutiste e la paura del colesterolo che, secondo lei “aveva sostituito il concetto di peccato”[2].
Interni della masseria Spigolizzi, pittura e scultura di Normann Mommens[3]
Nel 1968 Normann, lavorando a Carrara, aveva capito di avere bisogno di più spazio per tutte le sculture che aveva realizzato, di un grande spazio in cui vivere e così lui e Patience fecero il primo viaggio in Salento, insieme ad amici: Helen Ashbee e Arno Mandello. Inizialmente l’idea era stata quella di acquistare una casa per viverci tutti insieme, poi però, i due amici avevano acquistato la Bufalaria verso la marina di Ugento e loro avevano acquistato Spigolizzi. A quei tempi non c’erano neanche le strade e i luoghi erano tutti molto isolati.
Interni di Masseria Spigolizzi, abitata da Mommens e Patience[4]
Ogni masseria era dotata di tutto l’indispensabile per poter vivere, come un forno di pietra e una cantina per le scorte, e avevano un orto e un giardino e distese di verde a perdita d’occhio e, anche se era tutto inselvatichito e le case sembravano ruderi, Patience e Normann erano felici.
Producevano l’olio e il vino, facevano il pane, le frise, i taralli e ogni incontro era una festa. Nel tempo la masseria Spigolizzi di Normann e Patience è divenuta insieme alla Bufalaria di Helen e Arno, crocevia di incontri e di esperienze con altri artisti, un punto d’incontro, di condivisione e di progettualità per moltissime persone[5].
Anche Normann si dedicò alla scrittura e pubblicò in particolare un libro, “Remembering Man”, scritto – disse – «nello stesso modo con il quale scolpisco la pietra», in cui diede forma al suo pensiero; apprese dalla natura e s’applicò alla geometria sacra; tentò di conciliare gli antichi miti con la moderna cosmologia; curò l’orto, lavorò la vigna; comprese la continua festa celebrata «da un capo all’altro del mondo» dalle correnti magnetiche che avvolgono il pianeta; s’impegnò attivamente per la tutela del territorio nel Basso Salento. In breve, ebbe modo di immergersi di volta in volta nell’«azione del momento». Per Norman Mommens l’arte e, in generale la cultura, avevano una «funzione-base umanizzante», e riguardavano l’essere umano nel suo complesso, e dunque la vita, l’abitare la terra, il rapportarsi con l’Altro. Di conseguenza non erano tanto le questioni prettamente estetiche a suscitare il suo interesse. La scultura era una modalità attraverso la quale si poteva percepire, con i sensi liberi dalla tirannia del fine, l’accadere del mondo. Per questo egli riteneva che la preoccupazione maggiore dell’artista fosse «per la sua precipitazione immaginativa nello sconosciuto. Il valore del risultato può essere discutibile, ma l’atto stesso, segno del creatore, sarà sempre attinente alla nostra umanità». Così, le sculture possono anche essere sepolte, nascoste – il loro potere terapeutico, persino taumaturgico, non verrà meno. All’opera compiuta viene assegnata minor importanza rispetto all’atto creativo. E colpisce la forza e la perseveranza, accompagnata sempre da un atteggiamento positivo nei confronti della vita, con cui seguì la sua strada. Tipico è il suo metodo nel rappresentare il serafino: queste metamorfosi della figura dell’angelo diventano figure a piombo estremamente stilizzate con le braccia unite protese in alto, le gambe dritte in tensione che la forza di gravità tiene inchiodate al basso, le punte dei piedi ritte e fuse in una forma convessa, le mani che sorreggono modellando un tutt’uno concavo. A volte, non sempre, lievi segni di divaricazione accennano lo stacco tra le gambe e tra le braccia. Ma il blocco di pietra mantiene tutta la forza dei monoliti arcaici, alieni dalla dispersività dell’articolazione. – Come racconta Philip Trevelyan, i Serafini «presero origine da uno schizzo che Norman fece dopo la guerra, nel quale rievocava il salvataggio di poveri innocenti in fin di vita da un cinema colpito dalle bombe, al confine tra la Germania e l’Olanda. […] Per estrarre le vittime, era necessario sollevare sezioni del pavimento collassato e sostenerle in alto a braccia». – I Serafini, dunque, medicano il dolore e, nonostante tutto, annunciano la vita. Inoltre, le statue assumono immediatamente una rilevanza cosmica. Quei corpi stesi verticalmente, allungati, protratti, schiudono di fatto uno spazio-tempo vitale tra un sopra e un sotto. O meglio: aprono un vuoto – un intervallo – che rende possibile il trascorrere e l’abitare. Separano e, nel contempo, mettono in relazione un basso e un alto, impedendo il collassare dell’uno nell’altro in un’aderenza senza resto, mortifera.[6]
Normann e Patience a Spigolizzi[7]
Le rughe sul volto di Patience, segnate dal sole, assomigliavano ai solchi della campagna ma, “Questa linea dell’orizzonte, questa distesa di spazio, sempre vivo, sempre diverso, ormai mi accompagna dentro e quando mi allontano, quando a volte vado a Londra, comprendo la fortuna di vivere in questo posto. Io mi sento leale al silenzio della pianura”, diceva. Gli studi di Patience sui legami tra cibo, cultura e territorio vanno al di là delle semplici ricerche gastronomiche. Nei paesi anglosassoni e, in America, i suoi libri “Plats du jour”, (piatti del giorno) e “Honey from a weed” che significa pressappoco “Miele da un’erbaccia”, sono testi fondamentali per gli specialisti che così, si sono potuti avvicinare, lontani ospiti, alle nostre tavole. Da noi i suoi libri rimangono ancora non tradotti. La masseria d’arte è in continuo fermento. Sono tante le persone che vengono, parenti da molto lontano e poi amici, tanti: intellettuali e persone semplici.
Tre saggi a Spigolizzi: Norman, Patience and Bernard Hickey[8]
Fra essi ci sono Salvatore e sua moglie, contadini del posto che insegnarono a Normann e Patience a coltivare la loro terra. Sicché anche Normann e Patience divennero contadini del posto: – “ Salvatore a volte mi sgridava, poi insieme abbiamo coltivato le patate e i pomodori. La nostra è stata una grande amicizia” – [9].
Oggi questi luoghi sono custoditi con cura da Nicolas Gray, figlio di Patience, e dalla sua compagna. Edoardo Winspeare ha più volte dichiarato l’importanza estrema che ha avuto Mommens nella sua formazione e nell’ispirazione del suo lavoro. Qui si respira il ricordo tangibile di Norman e Patience, in particolar modo nelle grandi sculture primitiviste interrate nei terreni vicini alla casa-studio, nei piccoli scudi dipinti su carta e nelle fotografie che narrano di una vita sospesa tra i ritmi della campagna e le visioni dell’arte. D’altronde, come ricorda Nicolas, «Giunsero qui perché cercavano il sole. Ma arrivati a Salve si fermarono perché non c’erano più strade. Era la fine del mondo »[10]. E arriviamo così a una terza e bellissima testimonianza.
3) Gerhard Cerull era l’amico fidato di Normann e Patience, uniti dalla convinzione che le ragioni dell’arte coincidono con le ragioni della vita e con quelle della natura.
Per Gerhard Cerull le cose sono andate così: un mattino di circa trent’anni fa era a scuola, come ogni giorno, e d’improvviso un’illuminazione: perché fare l’insegnante? Torna a casa, raccoglie i pennelli, i suoi colori e si mette in viaggio con la sua vecchia mercedes rimessa a nuovo. Nessuna meta precisa: sicuramente verso sud. Prende per l’Italia che già conosceva e strada facendo pensa “troverò un posto dove fermarmi a dipingere”. Gli sarebbe piaciuto in Toscana ma era un marzo piovoso e proseguì oltre. Pioveva anche quando giunse a Napoli. Al bivio fra la Calabria e la Puglia, scelse la Puglia che non conosceva. Nell’attesa che smettesse di piovere la percorse tutta. Così giunse a Santa Maria di Leuca, ma pioveva anche lì. A quel punto fu costretto a fermarsi. Non poteva più andare oltre, non c’era più terra da percorrere! Gerhard non dice espressamente di essere stato catturato dal Salento, non glielo consente la sua naturale ritrosia ma, conclude il suo racconto esclamando che lui, tedesco del sud, sapeva che prima o poi, qui sarebbe uscito il sole. Il sole, nel bene e nel male, è uno dei protagonisti principali della storia di questa terra. Il Salento è senz’altro terra di transito. Non soffoca, non prende alla gola. Si lascia sfogliare come un libro antico, tanti sono i luoghi della memoria. Basta vederli per decidere di fermarsi. E Gerhard vide, in agro di Salve, in fondo ad un viale di pini, una bellissima masseria barocca, con una torre selvaggia e abbandonata, presa d’assalto dal convolo blu che la rivestiva romanticamente: il luogo ideale per dipingere[11]. Fu amore a prima vista.
Gerhard Cerull è arrivato nel Salento una sera primaverile del 1975, all’età di trentatré anni, alla ricerca di se stesso e di un luogo dove potersi dedicare completamente all’arte, a contatto con la natura. Lasciava un posto di insegnante (lingua tedesca, storia e geografia) in una scuola media statale, insieme a tutti quei condizionamenti che non gli consentivano di dedicarsi alla sua vera inclinazione: la pittura. Aveva compiuto studi di teologia, oltre a quelli di pedagogia, e da giovane aveva seguito la vocazione monacale, rimanendo per tre anni in un monastero. Ma si era ricreduto su entrambi i fronti, appena in tempo per non commettere errori, sia verso il giuramento monacale che verso quello statale. Finalmente lontano dalla società omologante e consumistica, può ora mettersi alla prova, davanti a un cavalletto, noncurante degli spifferi provenienti dalle finestre senza vetri, abituato, com’è, a una vita austera . Di lì a poco, grazie alla sua costanza e alla sua tenacia, dal suo primo rifugio (la masseria del Feudo) si trasferisce in una liama con attigua paiara-rudere, nei pressi della Masseria dei Fani (Salve), dove riesce a crearsi uno spazio più accogliente. Senza averlo mai immaginato, passano così i suoi primi dieci anni, vissuti da salentino “per caso”. Sono anni dedicati interamente alla pratica della pittura, durante i quali realizza finalmente un suo linguaggio espressivo, dapprima con disegni a china di ispirazione paesaggistica e surreale, (ricostruisce atmosfere salentine fatte di ulivi e architetture barocche, ruderi campestri assediati da querceti, corbezzoli e severi carrubi; un brulicare di vegetazione selvatica che lui ama e conosce perfettamente), poi con forme astratte dalla geometria caleidoscopica, sempre più intensamente cromatica. Insieme ai suoi sogni prendono corpo i suoi quadri, a contatto con Norman Mommens e Patience Gray e Maria Vittoria Colonna, vicini di casa, ma anche con Arno Mandello ed Helene Ashbee che abitano la Masseria Bufalaria (Gemini). “Ciò che mi ha attratto, fin dal mio arrivo in questa terra, è stata la particolare ospitalità dei salentini”, ci dice. Proprio grazie a un amico che cede la sua casa nei pressi del faro di Leuca per una mostra collettiva, il pittore ex-insegnante espone per la prima volta alcuni suoi lavori. Incoraggiato a proseguire la sua ricerca artistica dallo scultore Norman Mommens, è spinto a continuare: seguono altri contatti ed esposizioni ad Alessano e Casarano etc. Col tempo, diventano sempre più frequenti non solo le visite di amici locali, ma anche di quelli d’Oltralpe, dalla Germania in particolare, interessati all’acquisto delle sue chine, lavori pazienti e meticolosi in bianco e nero, e dei suoi quadri dai colori più accentuati. I Fani diventano luogo di attrazione per tanti ospiti. E’ così che, la modesta abitazione rurale riadattata, con splendida vista panoramica sulla vegetazione del canale, dalla serra di Spigolizzi fino al mare, non è più sufficiente ad accogliere i gruppi di visitatori, sempre più numerosi. Occorre ampliare gli spazi per poter assicurare vitto e alloggio agli amici che ne fanno continua richiesta, coltivare un orto. Con travi di legno, canne ed embrici l’artista restaura di suo pugno tetti per altri vani, utili al soggiorno di gruppi di archeologi australiani, di musicisti americani e giovani artisti di varia provenienza. Capita perciò, di trovare da Gerhard un’intera equipe impegnata nel lavoro di scavo alla chiusa del canale o attiva nel laboratorio allestito per l’occasione, oppure un rabbino di Boston che, sorridendo, canta canzoni napoletane. In un habitat dalle lontane origini storiche, eppure abbandonato, si alternano stage di danza, di espressione corporea, di teatro, performances di musica rinascimentale, di cabaret o di pizzica, nella suggestiva cornice della macchia mediterranea, ancora meravigliosamente intatta.
Gerhard Cerull e Rita Ciullo nella loro masseria in agro di Salve[12]
– “Ricordo che uno dei primi anni, – racconta Rita Ciullo, insegnante di origine salvese e oggi moglie di Gerardo – il movimento e le performances vocali e canore di un gruppo di giovani ospiti, riecheggiando nel fondo del canale, hanno finito con l’ insospettire gli agricoltori dei campi vicini, i quali hanno segnalato le strane e inusuali urla alle forze dell’ordine. Si sono tranquillizzati, ovviamente, solo dopo il controllo effettuato.” – Sotto la luna dei Fani si susseguono, intanto, serate estive e feste musicali indimenticabili, per tutti i presenti. Anche le ricerche archeologiche, condotte in modo continuato nell’arco di nove anni, risultano tanto soddisfacenti da essere riconosciute come prestigiose ed importanti (premio Rotary International “Colonie Magna Grecia” per i ricercatori dell’Università di Sidney). Con Rita, Andres e William, da un improvvisato ostello, occasionalmente allestito, si giunge alla promozione di stage di creatività e di musica, fino agli incontri di cultura internazionale. I legami di amicizia con gli abitanti del luogo portano l’artista a radicarsi a tal punto nell’ambiente di finisterrae da condividere con Rita, appassionata- tra l’altro – di yoga e di erboristeria, gli ideali e lo stile di vita “francescana” e campestre, secondo i ritmi della natura. Una decisione a cui segue quella di creare una famiglia con Andres e William, undicenni colombiani provenienti da Bogotà. L’ultimo periodo, tutto caratterizzato dagli impegni nel seguire da vicino la loro crescita fino all’Università, non ha alterato l’armonia e l’autenticità del luogo, la disponibilità ed il carattere semplice e cordiale dei coniugi Cerull. Chiedo a Gerardo quali sono le ultime novità al canale dei Fani.“ La varietà di questi funghi che ho in mano, mai visti prima di qualche anno fa’. – “Sono cresciuti sotto gli alberi di pino piantati quando sono arrivato qui”- mi risponde. Anche la processionaria, la malattia che infesta la pineta, è un cambiamento ultimo, sto facendo di tutto per contrastarla”. Guardo il boschetto di pini, a ridosso della sua casa e mi sembrano incredibilmente cresciuti. Con la loro chioma alta sembrano segnare gli anni trascorsi. Ora sono lontani i primi tempi, l’incredulità di chi lo osservava incuriosito nella vecchia masseria disabitata e di chi veniva a visitarlo poi nella liama, sul cui camino era appesa una lunga muta di serpente (la sacara), per sentirlo parlare del suo lungo viaggio da Regensburg, alla ricerca di una diversa dimensione esistenziale.” Il mio è un racconto da scrivere a puntate”, mi dice, con un bicchiere di vino della vendemmia locale in mano. Lo stesso sorriso di quando ha messo piede nel Basso Salento, una terra che fin dall’inizio lo ha affascinato per le sue contraddizioni, per le sue sorprese e per le sue bellezze nascoste da scoprire col tempo. Risorse di cui Gerardo ha giurato di rimanere custode. Un giuramento finalmente a lui congeniale![13] Così, Gerhard pittore, artista ma anche cuoco e contadino insieme alla mogie Rita, salentina, fanno come Patience e Normann, un punto di ritrovo culturale e ospitale della loro casa.
(3 – continua)
Note
[1] Scultura sulle orme di Mommens, dall’Olanda venne a cercare il sole. https://bari.repubblica.it/cronaca/2013/10/19/foto/leuca-68928554/1/#1, visitato il 14/05/20, ore 23,08.
[2] Patience, la visionaria che amò il Salento rurale, di Aldo Magagnino https://www.quotidianodipuglia.it/cultura/patience_la_visionaria_che_amo_il_salento_rurale-2555928.html
[3] Idem
[4] Verso Sud, 2008
[5] Cfr. M. Cataldini, M. Pizzarelli, C. Gerardi, Verso Sud, Salento d’acqua e di Terra rossa, Anima mundi edizioni, Otranto, 2008.
[6] https://ilmanifesto.it/norman-mommens-lintervallo-vuoto/ visitato il 15/05/20, ore 00,12.
[7] https://www.independent.co.uk/life-style/food-and-drink/honey-from-a-weed-by-patience-gray-a7911806.html visitato il 14/05/20, ore 19,00.
[8] https://theitaliantranslator.wordpress.com/2017/04/08/remembering-norman-and-patience_english/, visitato il 14/05/20, ore 23,30.
[9] M. Cataldini, M. Pizzarelli, C. Gerardi, Verso sud, Salento d’acqua e di Terra rossa, Anima mundi edizioni, Otranto, 2008.
[10] Patience, la visionaria che amò il Salento rurale, di Aldo Magagnino https://www.quotidianodipuglia.it/cultura/patience_la_visionaria_che_amo_il_salento_rurale-2555928.html
[11] M. Cataldini, M. Pizzarelli, C. Gerardi, Verso sud, Salento d’acqua e di Terra rossa, Anima mundi edizioni, Otranto, 2008.
[12] M. Cataldini, M. Pizzarelli, C. Gerardi, Verso sud, Salento d’acqua e di Terra rossa, Anima mundi edizioni, Otranto, 2008.
[13] Gerhard Cerull, salentino per caso, https://www.iltaccoditalia.info/2007/10/10/gerhard-cerull-salentino-per-caso/
Per la prima parte:
Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri
Per la seconda parte:
Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (II)
#Bernard Hickey#Cristina Manzo#Gerhard Cerull#Norman Mommens#Patience Gray#Rita Ciullo#Arte e Artisti di Terra d'Otranto#Miscellanea#Spigolature Salentine
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(…) Sorpresa, piena di vergogna, Marisa si chiese di nuovo se fosse sveglia o stesse ancora sognando ma alla fine prese coscienza di ciò che il suo corpo sapeva già: era eccitata. La pianta delicata che scaldava il collo del suo piede le aveva acceso la pelle e i sensi e, di sicuro, se si fosse portata una mano tra le gambe,, si sarebbe trovata bagnata. “Sei impazzita?” si disse. “Ti ecciti con una donna? Da quando in qua, Marisita?” Si era eccitata spesso da sola, ovviamente, e qualche volta si era anche masturbata strofinandosi un cuscino tra le gambe, ma sempre pensando agli uomini. Che ricordasse, con una donna mai e poi mai! Eppure in quel momento lo era, tremava tutta e aveva una voglia matta che non si toccassero solo le loro estremità ma i loro corpi tutti interi, per sentire ovunque, come sul collo del piede, la vicinanza e il tepore dell’amica. Con un movimento leggerissimo, il cuore in tumulto, fingendo un respiro che assomigliasse al sonno, si spostò un po’, in modo che, pur non toccandola, avvertì a pochi millimetri la schiena, le natiche e le gambe di Chabela. Udiva meglio il suo respiro e le parve di avvertire un’emanazione recondita esalata da quel corpo vicinissimo, che arrivava a lei e la avvolgeva. Suo malgrado, come se non fosse del tutto consapevole di ciò che faceva, mosse lentissimamente la mano destra e la posò sulla coscia dell’amica. “Benedetto coprifuoco”, pensò. Sentì il cuore che batteva più forte: Chabela si sarebbe svegliata, le avrebbe scostato la mano: “Stai lontano da me, non mi toccare, sei impazzita? Cosa ti salta in mente?” Ma Chabela non si muoveva e pareva immersa in un sonno profondo: La sentì inspirare, espirare, ebbe l’impressione che la sua aria venisse verso di lei, le entrasse dalle narici e dalla bocca e le riscaldasse le viscere. Sembrava assurdo ma a tratti, in preda all’eccitazione, pensava al coprifuoco, ai blak-out, ai sequestri – soprattutto quello di Cachito – e alle bombe dei terroristi. Che paese, che paese! (…)
Mario Vargas Llosa, da Crocevia
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OMANLUXURY - WANDERLUST - Limited Edition - Eau de Parfum - Novità 2020 -
A flying carpet and a plot twist. A wonderful journey through the pristine beauty of Sultanate of Oman, the place where emotions and landscapes become fragrances.
••••• Si sta aggrappati ai pensieri come a un aquilone e se arriva il soffio dell’immaginazione in un lampo sei nello sconfinato azzurro della fantasia... Ti prendo, ti porto via e apro per te lo scrigno d’oro degli aromi.
Come in un’avventura da mille e una notte, su un tappeto volante che solca lo spazio silente del deserto, lambisce falesie a picco sull’oceano, sfiora rigogliosi giardini nei sontuosi palazzi del Sultano, eccoci arrivati nell’incanto dell’Oman, paese dove ogni itinerario è un sogno. Tradizioni millenarie, panorami incontaminati di così rara bellezza che anche Marco Polo li descrisse nei suoi diari. Crocevia di mercanti, tra dune dorate e oasi lussureggianti si distinguono aromi preziosi, affiora l’antica via dell’incenso, ci si inebria di spezie, dei sentori intensi di tè alla menta, degli irresistibili effluvi della preziosa rosa omanita. Appartengono alle più celebrate tradizioni della profumeria orientale le creazioni di OmanLuxury, testimonianze olfattive contemporanee dalle quali traspare l’unicità storica e culturale del loro paese d’origine. Sette fragranze in collezione composte da illustri maestri profumieri, che fondono spirito, sapienza e legame indissolubile con il territorio. Sette percorsi per sette emozioni, come quella del viaggio e della scoperta racchiusa in Wanderlust, creazione di Jean Louis Sieuzac, che incita all’esplorazione sconfinata, a nutrire libertà e curiosità, anche in tempi di confinamento. La fragranza emana una personalità spiccata, fuori dal coro, fresca e avvincente in apertura con l’impronta agrumata di bergamotto e limone, completa la sua morbida eleganza nel trittico speziato pepe rosa, cannella, zafferano. Ai legni nobili, guaiaco e cedro, e alle soavi balsamiche volute di olibano l’onore di sostenere un sillage accogliente, lenitivo, che concede ai sensi di vagare in piena libertà.
Creata da Jean Louis Sieuzac. Nel formato Eau de Parfum Limited Edition 100 ml. In profumerie selezionate. instagram.com/igbeautycove ©thebeautycove
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Azienda agricola Roccat.
Qualche giorno fa ho accettato la sfida "da champagnista di visitare il territorio prosecchista", ovviamente su mia curiosità, dopo aver dialogato con Nicola Menin, un esperto del settore e della zona.
Nicola con maestria, conoscenza e devozione ha saputo intrigarmi parecchio sulla realtà produttiva ed ampelografica, espositiva, con annesso microclima e storia.
Sono state due le tappe affrontate, oltre ad un tour tra le vigne, in cui ho potuto ammirare le differenti pendenze di produzione, viti arroccate come la Valtellina, in alcune zone effettivamente si può parlare di viticoltura eroica anche a Valdobbiadene, strano ma vero!
Vi racconto della visita all'azienda Roccat, storia di una famiglia di Valdobbiadene, la famiglia Codello, che nel 1929 si trasferisce nel podere in via Rocat e Ferrari; questa era un’antica strada, costruita alle fine del Settecento dalle omonime famiglie, per poter accedere ai rispettivi terreni.
La casa colonica della famiglia Codello si trovava proprio a ridosso della Crosera ai Santi, il crocevia che prendeva il nome dalle immagini votive dipinte sui due alberi di carpino ai lati della strada: Sant’Antonio da Padova e la Sacra Famiglia.
La famiglia nuove i primi passi non solo nel mondo del vino ma anche attraverso l'osteria dei Codello, chiamata “Betola ai Santi” in cui veniva venduto il vino prodotto nei terreni circostanti, accogliendo valdobbiadenesi e viandanti con l’ospitalità che è ancora oggi una caratteristica di famiglia e che ha accolto anche me.
Mezza giornata fatta di scambio, assaggi da cisterna, racconti e chiacchiere, in funzione della vita, del mondo vino ma soprattutto dell'entusiasmo di poter fare nella quotidianità il lavoro che tanto si ama.
Tra una risata e l'altra, tra una descrizione produttiva e la degustazione, ho avuto il piacere di essere intrattenuta davanti a bolle di prosecco da Manuel Codello.
Oltre ad essere enologo, produttore è anche un suonatore di pianoforte, momento spensierato e gradevole della giornata.
Gli assaggi sono stati completati da una trasferta con un mezzo "atipico" lo vedete nella foto, in cui è uscito tutto il mio aspetto fanciullesco, grande divertimento, tra lo svolazzare del mio vestito lungo il corso del piave, ammirando il panorama, con l'aria tra i capelli, la voglia di condividere i nostri saperi e di imparare attraverso i sensi e gli altri.
Un'azienda che punta da sempre al rapporto umano, all'accoglienza e vendita diretta, con l'esplicita volontà di guardare in faccia tutti quelli che acquistano i loro vini.
Una scelta lodevole ed impegnativa, ma che regala ai componenti della famiglia lo stimolo e la forza della realtà costruita.
Mi sono ripromessa di esplorare maggiormente questo territorio, attraverso la guida di Nicola, lui sta portando avanti dei progetti di sviluppo interessanti per il territorio, lo ringrazio per avermi resa partecipe della conoscenza ed esperienza.
Per riferimenti il sito è: https://www.roccat.com/
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Un percorso scientifico ma dal forte impatto emozionale che, attraverso un evento digitale immersivo al Grand Palais
PARIGI- Il Sito Archeologico sarà al centro di un’esperienza immersiva al Grand Palais della capitale francese.
Una mostra davvero unica, curata dal direttore generle Massimo Osanna, che si terrà nel grande padiglione espositivo in muratura e vetro dall’1 luglio al 27 settembre. Proporrà un’esperienza sensoriale avvincente, immergendo il visitatore nel cuore della città antica e facendo rivivere in maniera spettacolare la vita quotidiana dei pompeiani e l’epopea della sua riscoperta.
Fin dalla scoperta delle sue rovine sepolte, la città di Pompei ha affascinato gli archeologi e non solo. Ricca di una storia plurisecolare, crocevia di popoli del mondo mediterraneo, Pompei sotto la dominazione di Roma prosperava grazie al commercio e al suolo fertile.
L’arte era fiorente e l’agiata borghesia abbellì la città, ma nel giro di una giornata del 79 d.C. si compì il tragico destino della città. L’eruzione del Vesuvio che la devastò e annientò la popolazione, tuttavia, fermò il tempo preservando la città e sottraendola agli sguardi, per molti secoli.
Oggi Pompei costituisce la testimonianza più straordinaria di una città di età romana e da nessun’altra parte è stato possibile trovare una simile concentrazione di edifici, affreschi e manufatti romani.
L’importante sito archeologico, inscritto nella lista del patrimonio mondiale dell’umanità dall’Unesco e visitato da quasi 4 milioni di visitatori ogni anno, ha tuttavia sofferto a lungo di carenza di manutenzione.
Il crollo nel 2010 della Schola Armaturarum richiamò l’attenzione della comunità internazionale sull’assoluta necessità di tutelare le rovine più famose del mondo. A seguito di questo evento, è stato avviato un grande progetto per la messa in sicurezza e il restauro del sito, associato a scavi di ampia portata, come non accadeva da decenni, che hanno permesso di riportare alla luce un intero quartiere, con straordinari esempi di apparati decorativi, come il raffinato ritratto di donna dalla Casa con giardino, di affreschi raffiguranti divinità e animali e di mosaici eccezionali, ma anche oggetti d’uso quotidiano e scheletri delle vittime dell’eruzione.
Queste nuove scoperte permettono di approfondire le conoscenze di questo sito emblematico della civiltà romana e della sua storia. Per condividere con il pubblico le recenti scoperte, la Réunion des musées nationaux – Grand Palais propone una mostra digitale immersiva: un’esperienza nuova che mostra Pompei in maniera spettacolare e suggestiva.
Per realizzare questo evento la Rmn-GP ha collaborato con il Parco archeologico di Pompei e con la società GEDEON Programmes, leader francese nel settore dei documentari archeologici e del patrimonio, che utilizzando tecnologie d’avanguardia sul sito (cartografia laser, termografia a infrarossi, fotogrammetria…) ha effettuato riprese ad altissima risoluzione e realizzato ricostruzioni in 3D di estrema precisione.
L’esperienza digitale proporrà proiezioni immersive, accompagnate dai rumori della città e da musiche originali che risveglieranno i sensi immergendo il visitatore nel cuore di Pompei, dandogli l’impressione di partecipare di volta in volta alla vita frenetica della città, al suo funesto destino, alla sua gloriosa riscoperta.
La prima parte della mostra metterà l’accento sulla vita effervescente delle strade, ricostruite in 3D grazie, soprattutto, alle riprese effettuate con i droni. Al centro del percorso, un dispositivo invita il visitatore a entrare nel cuore del dramma e segue la cronologia del disastro: al culmine dell’eruzione la città viene investita dal flusso piroclastico.
La terza parte sarà consacrata alla riscoperta di Pompei, dimenticata per secoli, narrando la storia degli scavi dal XVIII secolo, ricordandone il mito e ponendo l’accento sulle scoperte recenti, in particolare quelle che, nel 2018, hanno consentito di riconsiderare con maggiore precisione la data dell’eruzione.
L’ultimo spazio della mostra inviterà a contemplare, a grandezza naturale e in tutto il suo splendore, gli affreschi che decorano le più belle ville pompeiane.
Sarà anche possibile ammirare alcune scoperte frutto dei nuovi scavi esposte per la prima volta al pubblico, tra le quali il tesoro di monili e amuleti in pasta di vetro, avorio, osso, ambra, bronzo, un coniglio di marmo e un magnifico mosaico del ninfeo Arianna e Dioniso.
Sarà presentata anche una selezione di oggetti provenienti dagli scavi precedenti: gioielli, una statua di Livia e un affresco raffigurante Venere su un carro trainato da elefanti.
Infine, le copie di alcuni calchi delle vittime ricorderanno la tragica fine degli antichi abitanti di Pompei.
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Pompeii in mostra al Grand Palais Un percorso scientifico ma dal forte impatto emozionale che, attraverso un evento digitale immersivo al Grand Palais…
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Grottammare, 17.03.2019
GROTTAMMARE-PORTO D’ASCOLI 1-2
Grottammare: Beni, Orsini, Lanza, Haxhiu, Traini (89’ Ioele A.), Di Antonio, Jallow (70’ Bruno), De Cesare, Ciabuschi, De Panicis (79’ D’Angelo), Vallorani. All. Manoni Man.
Porto d’Ascoli: Di Nardo, Verdesi, Trawally, Schiavi (75’ Alighieri), Manoni Mat. (51’ Lanzano), Sensi, Leopardi, Rossi, De Vecchis, Gaeta (51’ Liberati), Valentini (86’ Cocciò). All. Alfonsi
Arbitro: Eremitaggio di Ancona
Marcatori: 16’ De Vecchis (P); 52’ Lanza (G); 91’ De Vecchis (P)
Ammoniti: 17’ Manoni Mat. (P); 20’ Haxhiu (G); 81’ Trawally (P)
Espulso: 38’ Ciabuschi (G) per doppia ammonizione
Spettatori: 200 circa – Calci d’angolo: 8-1 per il Grottammare
Recuperi: 2 minuti nel p.t.; 4 minuti nel s.t.
Massima resa con il minimo sforzo: si può condensare in questo modo un derby, il numero 46 in campionato tra le due società “cugine”, dominato dal Grottammare ma vinto dal Porto d’Ascoli con due tiri e mezzo in porta. Al termine di un match molto tirato, anche il mister Alfonsi ha ammesso – molto sportivamente – che i padroni di casa non meritavano di perdere; anzi se c’era una squadra che doveva vincere, questa era forse proprio quella di Manoni. Comunque, volente o nolente, il bello del calcio è anche questo. Al via il Grottammare si presenta con le assenze degli infortunati Ferrari, Franchi e Oresti, e con Traini e Lanza non al meglio. Dall’altra parte, il Porto d’Ascoli – oggi in tenuta completamente rossa – deve fare a meno di Gabrielli, appiedato dal giudice sportivo, e con alcuni giocatori non in perfette condizioni fisiche. Gli uomini di Manoni sono coscienti che con una vittoria farebbero un bel salto in avanti verso la salvezza ma allo stesso tempo capiscono che non devono fare passi falsi per non essere risucchiati nella zona pericolosa. Partono, comunque, subito all’attacco e la partita si accende subito: al 4’ Ciabuschi cade a terra in area, l’arbitro Eremitaggio lascia correre tra la disapprovazione dei padroni di casa che rivedono gli spettri di sette giorni fa a Porto Sant’Elpidio; anzi, ammonisce il numero 9 per proteste, tra l’altro molto contenute. Evidentemente c’è un conto in sospeso tra i due, forse l’attaccante ascolano gli avrà rubato la fidanzata o chissà cos’altro: già a Pergola fu espulso per uno scambio di persona (fallo fatto da Traini), oggi a partita appena iniziata lo ha ammonito subito promettendogli che lo avrebbe cacciato. E così è stato, anche se il secondo giallo ci sta tutto. Peccato che il fischietto anconetano, a nostro avviso assolutamente inadeguato per la categoria, non abbia mantenuto lo stesso metro di giudizio per tutto il resto della partita, non sventolando il cartellino giallo ad altri che protestavano (Ciabuschi è stato ammonito subito, a qualcuno invece diceva di smetterla col sorriso sulle labbra), o perdevano tempo tirando via la palla, o che facevano falli al limite del rosso. Ecco, gli arbitri che faranno carriera sono proprio questi, cioè quelli che non fanno errori clamorosi ma indirizzano la partita come vogliono loro (o come gli viene imposto dall’alto): perché siamo sicuri che questa è la risposta alla sparata fatta durante la settimana dal direttore generale Alceo Galiè contro gli arbitri marchigiani, una pubblica pagliacciata che, a nostro avviso, è bene lasciare al mondo dei professionisti. Col senno del poi possiamo dire che un derby molto sentito tra due squadre in lotta per non retrocedere meritava senz’altro un arbitro migliore, al limite anche da fuori regione. Con questo non si vuole giustificare la sconfitta del Grottammare, frutto dell’imprecisione dei suoi attaccanti, dell’amnesia di alcuni difensori e, soprattutto, di molta sfortuna; ma l’episodio iniziale ha sicuramente condizionato tutto il resto dell’incontro. Tornando alla cronaca, al primo vero affondo il Porto d’Ascoli passa al 16’: appena oltre la metà campo, Leopardi batte una punizione pescando sulla fascia destra Gaeta lasciato incredibilmente solo; il numero dieci ospite ha tutto il tempo di stoppare, alzare la testa, guardare la posizione dei suoi compagni e servire al centro l’accorrente De Vecchis che impatta il pallone di prima intenzione; sul suo tiro è grande la risposta di Beni che riesce a deviare sulla traversa, ma sfortuna vuole che il pallone ricada in direzione dello stesso De Vecchis il quale, in rovesciata, mette dentro. Bello il gesto atletico dell’attaccante ospite, ma colossale dormita dei difensori di casa. Il Grottammare ci impiega un po’ a riprendersi e bisogna aspettare il 23’ per vedere una reazione: Jallow recupera palla a centrocampo e lancia Ciabuschi in contropiede sulla destra; galoppata del biondo ascolano e dal fondo rimette in mezzo per lo stesso Jallow con Di Nardo tagliato fuori dal cross; il gambiano deve solo spingere la palla nella rete sguarnita ma, non si sa come, la colpisce di tacco anziché di piatto cacciandola, di fatto, dalla porta; poi un difensore libera. Passa un minuto e Ciabuschi impegna l’ex Di Nardo con un velenoso tiro dalla lunga distanza, deviato in angolo. Il Grottammare chiude il Porto d’Ascoli nella propria metà campo e al 25’ non è assistito dalla fortuna: c’è un batti e ribatti in area, la palla perviene a De Cesare – spostato leggermente sulla sinistra – che tira a botta sicura con Di Nardo che riesce a deviare sulla traversa; sembra la fotocopia della rete del Porto d’Ascoli ma questa volta la palla non torna in campo sui piedi di un grottammarese ma sfila via verso l’esterno. Passa ancora un minuto e De Panicis recupera palla appena fuori area e tira in porta, Di Nardo salva ancora in angolo. Il gol è quasi maturo e si potrebbe materializzare al 30’: Traini entra in area sulla sinistra e viene atterrato da Rossi al limite dell’area piccola; rigore netto (ma, chissà come mai, manca il giallo al giocatore di Alfonsi) che si incarica di battere il bomber Ciabuschi. La sua conclusione è assolutamente da dimenticare: tiro centrale, basso e fiacco che Di Nardo respinge con il piede destro senza neanche impegnarsi più di tanto. Se ci fosse una ripresa televisiva, sarebbe da far vedere ai bambini delle scuole calcio e dire loro: “i rigori non si tirano così”. A questo punto, però, una domanda sorge spontanea: ma mister Manoni li allena i suoi giocatori a tirare dal dischetto visto che quest’anno è già il terzo sbagliato su quattro assegnati? Una squadra che lotta per non retrocedere e che, al netto della partita di oggi, ha oggettive difficoltà a costruire il gioco, non può permettersi di gettare nel cestino queste opportunità. Frastornato forse dal penalty sbagliato, poco dopo Ciabuschi – già ammonito – va a commettere un fallo inutile in attacco, rimediando il secondo giallo (forse l’unica cosa giusta fatta dall’arbitro Eremitaggio nei novanta minuti di gioco) e la doccia anticipata. I biancocelesti di casa, però, non si perdono d’animo e, pur con un uomo in meno, cercano di arrivare al pareggio: al 41’ Vallorani batte, dalla sinistra, una lunga rimessa con le mani per De Panicis al centro dell’area, il quale in qualche modo riesce a toccare per l’accorrente Traini che al volo spedisce di poco a lato da buona posizione. Finisce qui la prima parte dell’incontro.
Nella ripresa, parte subito forte il Grottammare: al 48’ Lanza lancia De Cesare sulla destra il quale mette in mezzo un pericoloso pallone rasoterra, Trawally anticipa tutti in scivolata mettendo in angolo ma rischia una clamorosa autorete. I padroni di casa non sembrano giocare con un uomo in meno, continuano a premere e al 52’ raggiungono il pareggio: Haxhiu batte una punizione dalla tre quarti sinistra, Lanza brucia tutti sul tempo e di testa mette alle spalle di Di Nardo per la sua prima rete in biancoceleste. Comincia il valzer delle sostituzioni e si deve arrivare al 76’ per segnalare un’altra occasione da rete: da un lungo rilancio dalle retrovie del Porto d’Ascoli, Beni esce in maniera avventata fuori dall’area, la palla perviene a Verdesi che rimette in mezzo con il cuoio, “sporcato” da un difensore di casa, che s’impenna centralmente verso Liberati il quale tenta una rovesciata per emulare De Vecchis, ma la sua conclusione termina abbondantemente alta. All’87’ un indomito Traini recupera il pallone a centrocampo e serve subito l’under Bruno che non ci pensa due volte e dai trenta metri spara all’incrocio dei pali: un gran balzo del portiere Di Nardo evita la capitolazione e, probabilmente, la sconfitta. Quando tutto faceva presagire un pareggio che alla fine poteva far comodo ad entrambe le squadre, ecco che – al primo minuto di recupero – Beni si fa sfuggire un innocuo tiro di Liberati (lasciato comunque libero di calciare indisturbato) e per De Vecchis è un gioco da ragazzi mettere dentro di testa a porta vuota. Non succede più niente nei successivi tre minuti di recupero.
Il Grottammare, in settimana, deve leccarsi le ferite e preparare al meglio il prossimo turno casalingo contro la Pergolese che, a questo punto, diventa un importante crocevia. Ovviamente spera anche di non trovare più sulla sua strada il signor Eremitaggio, più che altro per un fatto cabalistico: con lui in campo a dirigere ha sempre perso. Il Porto d’Ascoli, invece, è atteso da un incontro casalingo contro il tranquillo Sassoferrato Genga: con una vittoria può tirarsi fuori dalle sabbie mobili e proseguire il campionato con più serenità.
Michele Rossi
Testo © dell’Autore e dell’Editore
Nella foto © di Lara Facchini, esultanza dei giocatori del Porto d’Ascoli dopo la prima rete di De Vecchis
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Perchè la Bulgaria tra tanti paesi? Questa è la domanda che mi son sentita ripetere da chiunque quando decisi di visitarla.
Forse perché è la terra di Orfeo e dello schiavo ribelle Spartaco?
Forse perchè non mandò a morire i suoi Ebrei nei lager?
Forse perchè non amo i luoghi comuni, in tutti i sensi?
Forse perchè ha parchi naturali incontaminati, antiche città e spiagge di sabbia bianca?
Certo è che ho incontrato un paese sorprendente, vivace ed ospitale, un crocevia di popoli tra l’Oriente e l’Occidente, in cui si incontrarono e scontrarono diverse culture: quella trace, la greco-romana, la bizantina, la turca, e la balcanica. La soluzione che ne uscì scoppiettando fu la Bulgaria.
Con mia sorella Giorgia, l’ho percorsa in lungo e in largo per 10 giorni, per più di 1200 km, affidandomi alla giuda di Ilian, un simpatico ragazzo di Varna che ci ha accompagnate con la sua Audi ovunque ci venisse il guizzo di andare, facendoci scoprire angoli nascosti e delizie culinarie.
L’ho contattato tramite il sito Synotrip, consigliato dalla mia amica, nonchè travel blogger, Barbara Ciccola. E’ stata una risorsa preziosa, poichè guidare così tanti km è veramente faticoso, tenendo conto che le autostrade sono scarse, le strade strette e tortuose, anche quelle che ti permettono di raggiungere le località più note e spesso le indicazioni sono solo in bulgaro, lingua che ha lettere simili al Cirillico, ma Cirillico non è.
LA CUCINA
Memore delle guide sfiancanti di quando visitammo la Romania, abbiamo deciso per il servizio di un driver, anche se Ilian si è rivelato molto più di un semplice autista! Innanzi tutto è un raffinato gourmet, figlio di un famoso chef e così ci ha portate alla scoperta di questa cucina inaspettata, facendoci fare tappe in ceseifici montani per assaggiare la feta fresca e il formaggio giallo locale e in trattorie di campagna dove ci venivano proposti stufati di carne e verdure servite in tazze di coccio, chiamate kavarma.
Per non parlare poi delle frittelle calde nazionali: i mekitsi, accompagnati, solitamente, da zucchero e marmellata di more o di fichi o dell’ ayran, un sorbetto di yogurt liquido e dolce. Sì, perché lo yogurt nacque proprio qui!
La Bulgaria è anche terra di vigneti, infatti si producono ottimi vini sia rossi che bianchi. Nelle città più importanti ci sono varie enoteche che propongono assaggi e c’è anche la possibilità di visitare aziende agricole con degustazioni e vendita.
Io ne ho visitate 2: una vicino a Velivo Tarnovo nell’entroterra: l’azienda Lovico Sunhindol che produce vini rossi come il Gamza, Il Cabernet e il Merlot, ma la più interessante è a Varna, sul Mar Nero: lo Chateau Euxinograde. Si trova nelle tenute della residenza estiva della Regina Marie. Qui i regnanti producevano vini bianchi come Traminer, Chardonnay e Riesling fin dal 1800, poi la produzione fu destinata solo agli alti funzionari del Partito Comunista, ora è ripresa ed è fiorente.
Vale la pena visitare il castello con annesse serre, parco, scuderie e sbocco sul mare, per poi fermarsi a degustare i vini locali. Le visite sono solo su prenotazione e a piccoli gruppi, bisogna rivolgersi ai vari Tourist Office nel centro della città.
LE ACQUE TERMALI
Un’altra particolarità di questo paese è la presenza di un’ infinità di fonti termali, per cui ad ogni angolo di strada, anche le più remote, disperse fra i monti, sorgono fontane da cui tutti i Bulgari raccolgono l’acqua in boccioni da 5 o 10 litri. A seconda della zona variano le proprietà terapeutiche. Io penso, nel mio tragitto, di averle provate tutte, vista la quantità di km percorsi e le svariate tappe per abbeverarmi.
Molto rinomato qui è il turismo termale. Stabilimenti e SPA sono sorti un po’ ovunque. Io ho visitato le antiche terme romane di Hisarya, non lontano dalla città di Plovdiv. Qui, in un vasto parco ricco di fonti e ruderi romani, sorge un piccolo stabilimento, dove puoi rilassarti in vasche d’acqua calda in quelli che erano i bagni degli imperatori bizantini. Su un mattone, in lettere greche, c’è ancora inciso il nome del re. Si entra a giorni alterni: uomini e donne. Prima di andare bisogna accertarsi quale giorno sia.
I MONASTERI
Il mio viaggio è partito da Sofia, la capitale, ma mi son limitata a visitarne il centro storico e la chiesa di Boyana, una gemma del XIII secolo, completamente affrescata all’interno, incastonata fra casermoni di cemento. Ci siam dirette, poi, verso il monastero di Rila, a circa 2 ore d’auto nel Parco nazionale dei Monti Rila, una riserva naturale dove l’orso Bruno Europeo la fa ancora da padrone. E’ il più famoso monastero della Bulgaria, meta di pellegrini e visitatori che vi si recano per pregare sulla tomba del santissimo Ivan Rilski.
L’interno e l’esterno sono affrescati con scene del Vecchio e del Nuovo Testamento. Ai lati dell’entrata c’è una vivace rappresentazione del Giudizio Universale, con ai due lati del Cristo, i salvi e i dannati, questi ultimi tediati da diavoletti neri, intenti ad infliggere loro ogni sorta di supplizio. L’intento didattico ad uso dei fedeli, risulta alquanto comico a distanza di secoli. L’ingresso è gratuito, come del resto in quasi tutti i monasteri. E’ stato riconosciuto dall’UNESCO patrimonio dell’umanità.
I monasteri e le chiese più spettacolari sono, a mio parere, quelle rupestri. Le più famose si trovano vicino alla cittadina di Ivanovo nella Bulgaria centrale e sono: la chiesa di Nostra Signora e quella dell’Arcangelo Michele, costruite nel 1200 ed affrescate nel 1300. Situate a svariati metri d’altezza, le si raggiunge dopo una breve camminata nel bosco.
Interamente scavate nella pietra, svettano sulla vallata come nidi d’aquila, ma forse ancora più sorprendente, seppur non restino quasi tracce degli affreschi, è il complesso monastico di Aladzha, a pochi km da Varna. Trattasi di un monastero interamente scavato nella bianca parete rocciosa, che si sviluppa su tre piani, i quali si raggiungono dopo aver salito un milione di scale. Qui i monaci dormivano, pranzavano, pregavano ed infine morivano in grotte ad altezze che solo i condor osano.
Finita la discesa, per ristorarsi dalle fatiche, conviene bere un boza, una bibita rinfrescante a base di malto che è in vendita nei locali appollaiati, strategicamente, ai piedi delle rupi.
Imperdibile, infine, il complesso sacro di Arbanasi, a 4 km dalla città di Velivo Tarnovo, sempre nel centro della Bulgaria. Non appena entri in queste semplici costruzioni bizantine di mattoni rossi, ti si apre un caleidoscopio di colori, cosicchè non sai dove posare lo sguardo. Nella quattrocentesca chiesa della Natività sono rappresentate più di 200 scene sacre, più di 3000 personaggi ed è tutto un susseguirsi di Alberi di Jesse, Sacre Scritture, Giudizi Universali con i caratteristici diavoletti neri, Ascensioni, Cristi Pantocrati, Santi e Profeti barbuti…
La Bulgaria è disseminata di monasteri, lungo ogni strada trovi la deviazione per un luogo sacro, io ne ho visti parecchi, consigliata da Ilian o seguendo il mio istinto ed ogni volta ho trovato un monaco disponibile a darmi spiegazioni o a farmi assaggiare qualche prodotto del monastero tipo un brandy di prugne o una marmellata di fichi.
LE CITTA’
Quella che più ho amato è stata Plovdiv che io definirei una città sottosopra. C’è una città sotterranea romana e poi c’è la città esposta che è un insieme ben riuscito di impero ottomano, bizantino ed Occidente.
Il Regno degli Inferi appartiene all’imperatore Traiano e vi entri attraverso scalini e scale mobili situate non solo nelle piazze, ma anche dentro negozi e gelaterie. Si accede all’antico stadio dentro il pianterreno dello store di H&M, se vuoi visitare il foro, invece, devi scendere in un elegante bar pasticceria. E’ un po’ come se Orfeo, per liberare la sua Euridice dall’Ade, dovesse prima comprarsi un paio di jeans.
Quando cali, però, nel mondo di sotto, tutto è silenzio e frescura, le voci della città di sopra son lontane, percepisci solo l’eco del passato glorioso. Pulvis et umbra.
Il centro della città esposta, invece, è diviso in due quartieri: la Città Vecchia e Kapana piena di negozi, allegre casette pastello, ristoranti e locali; il più caratteristico è una sala da tè ricavata negli ambienti di una moschea del 1300, ancora in funzione e visitabile. Qui vengono serviti più di 20 tipi di tè.
E poi c’è la vecchia Plovdiv, nella parte alta e più ventilata della città, che si snoda attraverso stradine di ciottoli a partire dell’anfiteatro romano, ottimamente conservato e tuttora utilizzato per eventi teatrali e musicali.
Questo è il salotto buono con i suoi eleganti palazzi ottocenteschi, dove vissero e vivono tuttora, artisti e musicisti. Molti dei più caratteristici sono visitabili per pochi Lev. Hanno tutti un secondo piano a gittata, decorato con cornicioni lignei. Gli intonaci, poi, vanno dal grigio pietra, al color susina, al cobalto, al rosa. Questo è il quartiere delle gallerie d’arte e dei musei, delle botteghe dei rigattieri, dove puoi comprare medaglie e cimeli del Regime Comunista, vecchi oggetti della civiltà contadina, tappeti, figurine in ceramica, pipe, antichi ricami.
L’ atmosfera che si respira ha l’eleganza e il silenzio d’altri tempi, qua e là, tra i palazzi e le enormi acacie, si affacciano una fontana, il campanile di un monastero, le mura di un antico bagno turco e qualche discreto ristorante con giardino.
Plovdiv è stata scelta come Capitale della Cultura 2019 assieme a Matera.
Un’altra bella città nel cuore della Bulgaria è Veliko Tarnovo, da visitare soprattutto per l’immensa ed austera fortezza detta Tsvarevts che domina solenne dall’alto. Fu costruita tra il 1100 e il 1300 dai Bizantini, poi ampliata e completata da Slavi e Bulgari, infine, in parte distrutta dai Turchi. Non vale la pena visitarla in modo analitico, è immensa, contiene i ruderi di 18 chiese, 400 case, botteghe, monasteri…
E’ preferibile passeggiare lungo le antiche mura, perdersi nei viottoli, salire verso la chiesa in vetta, godere in tranquillità del vento e del panorama, riposare all’ombra dei noci e cogliere l’alito possente del genius loci.
Una volta scesi, ci si trova di fronte alla prima capitale bulgara che si snoda lungo le 2 rive del fiume che la taglia a metà come un’anguria.
Ancora una volta vecchi palazzi color pastello a far da cornice a moderni negozi, laboratori artigiani, locali, ristoranti, molti dei quali con terrazze affacciate sul fiume. Io sono capitata mentre si stava svolgendo il Festival del Folklore con grandi grigliate all’aperto, musiche e danze tradizionali e tanti food truks locali, quelli che van tanto di moda. In estate la città propone molte iniziative per i turisti: festival musicali, danze tradizionali, lirica, concerti e visite guidate notturne nei luoghi più suggestivi della città.
Chi ha un’ idea della Bulgaria tutta casermoni di cemento ed opere monumentali del Regime dovrà ricredersi. Ci sono sì, ma predominano i monasteri nascosti nel verde, il paesaggio agricolo, le foreste incontaminate, le antiche città e tanti, tanti siti archeologici.
A circa 10 km da Velivo Turnovo ho anche visitato il sito romano di Nikopolis ad Istrum. Era una città fondata da Traiano; son ben visibili ancora il foro, le vie lastricate, le condotte idriche, l’odeon, ma la maggior parte è ancora da scavare.
LE TOMBE TRACIE E LA VALLE DELLE ROSE
Già Omero ed Erodoto citavano i Traci come un popolo di fieri cavalieri dai bei volti. Vissero in queste terre tra il IV e il III secolo A.C., ma le loro tombe vennero scoperte solo a partire dalla fine degli anni ’80 del 900.
La maggior parte di queste si possono visitare nella zona di Kazanlak.
Presentano tutte la stessa struttura, ma poi variano nelle proporzioni e nelle decorazioni. Si accede alla camera sepolcrale attraverso un dromos in sasso per passare poi in una prima stanza dove, solitamete, veniva sepolto il cavallo del defunto ed attraverso una porta in marmo o in granito, si entra, poi, nella camera funebre con soffitto ad alveare. Nella tomba di Svestari ( Patrimonio Unesco) sono sepolti ben 6 cavalli, poiché la società tracia era dominata da un’aristocrazia equestre.
Pur nella loro struttura simile, non ce n’è una uguale all’altra, per cui vale la pena visitarle tutte. Alcune sono decorate con rilievi del dio Elios e della Gorgone, altre con cariatidi vestite di corolle di fiori, altre presentano affreschi di banchetti funebri e quadriglie di cavalli, altre colonne e cornicioni con fregi. Quella del re Seuth III aveva anche uno stupendo corredo funebre aureo, ora ad Oslo. I reperti traci più importanti si possono osservare nei musei archeologici di Sofia e di Varna.
Dell’ unica completamente affrescata (a Kazanlak), se ne può visitare solo una copia, vista l’importanza e la delicatezza della struttura.
Ilian mi spiegava che, non appena gli archeologi, negli anni ’80 giunsero, in queste zone per iniziare gli scavi, la delinquenza locale, accortasi dell’affare, cominciò a comprare le terre ai contadini e a mandare in giro gli affiliati, dotati di metal detector; per cui si vedevano in giro fior fiore di delinquenti con gli occhi bassi alla ricerca del mitico oro trace.
La zona di Kazanlak è anche quella dove si coltiva la famossissima Rosa Damascena bulgara, base di tutte le essenze ed orgoglio nazionale.
Venne portata da Damasco, da cui il nome, dai Turchi e qui trovò un microclima perfetto. In primavera si tiene il Festival della Fioritura che, con i suoi spettacoli folcloristici e le coltivazioni in fiore, attira turisti da tutto il mondo. Nel centro di Kazanlak hanno aperto da pochi anni il Museo della Rosa dove ti viene spiegata tutta la storia e le fasi di lavorazione di questo prodotto.
Immancabile, almeno per me, poi, l’annesso negozio che propone profumi, essenze, creme, marmellate e liquori a base di rosa. Vista la convenienza dei prezzi, io e mia sorella siamo uscite con 2 borse piene di acquisti…e devo dire che il profumo della Rosa Damascena e della Rosa Bianca è sublime.
Lì vicino si può visitare anche un’antica corte di campagna ottocentesca, con la casa padronale, il giardino, le casette dei lavoratori, ma la cosa più simpatica è che, compresa nel prezzo, c’è una merenda con pane, burro e marmellata di rose, annaffiata da un dolce vino indovinate a cosa?
Io ho alloggiato in un agriturismo incantevole, a pochi km da Kazanlak, in località Enina, il Papanovata House. Ho dormito in una tradizionale casa di campagna con cortile interno fiorito, dotato di fontanella e ho cenato sotto pergolati di vite. Propongono piatti a base di orecchie di maiale e zuppa di trippa, ma anche cose più accessibili come ciò che ho mangiato io: zuppa di pollo, salsiccia con patate e crepes al cioccolato. Il gestore conosce qualche parola di italiano, è veramente cordiale ed accogliente.
La camera doppia con colazione inclusa ci è costata 24 euro!!!
LE COSTE DEL MAR NERO
Il Mar Nero venne definito così dei Turchi per le sue frequenti tempeste, in realtà è un bel mare dal color verde-azzurro che di notte, sotto la luce lunare, prende le tonalità del viola.
Ho soggiornato per 2 giorni a Neserbar, nella città vecchia che è situata su un’isoletta collegata alla terraferma da una comoda strada. La cittadina ha mantenuto intatto il fascino del passato, quand’era un importante centro religioso bizantino. Tra le vie strette ed acciottolate si visitano i resti di svariate chiese, alcune integre, altre ridotte ad affascinanti ruderi.
Le case in pietra e legno son un capolavoro d’ingegno, con i loro cortili ombrosi e le balconate traboccanti di campanule e gerani. In questo caso la definizione di paese cartolina è appropriata. Non conviene visitarla nei fine settimana a causa dell’eccessivo afflusso turistico; io si sono stata un lunedì e un martedi e ho giarato tranquillamente, permettendomi anche un bagno nella piccola spiaggia e una buona cena in un ristorante a ridosso di antiche mura, senza troppa attesa. Settembre e giugno sono i mesi migliori per godersela in santa pace.
Avevo prenotato tramite Booking, come del resto tutti gli altri hotel del tour, l’hotel Sant Stefan che è in una posizione strategica: tra la spiaggia e la basilica di Santo Stefano, la più bella del luogo. Con una passeggiata di 2 minuti raggiungevo tutti i locali, i ristoranti sul mare e non, i negozi e i forni. Sì perché la colazione al forno è un classico bulgaro. Son dotati di servizio caffetteria e tavolini e costano nettamente la metà rispetto ai bar. Per di più le paste sono calde, appena sfornate. E se si tien conto che un croissant costa 25 centesimi e un caffè 50…
Varna, invece, a 90 km di distanza, possiede belle spiagge di fine sabbia bianca, sia attrezzate che libere. Prima del lungomare è stato preservato un parco lungo chilometri, con alberi secolari e immancabili fontane termali che viene chiamato familiarmente “Parco del Mare”. Qui incontri contadine venute dalla campagna che vendono cestini di lamponi, uova fresche o more, artisti di strada, venditrici di fiori. E’ il polmone cittadino, un luogo vivo di iniziative.
Quando ci sono passata io, ad esempio, era in corso il Festival del Libro. Varna è stata anche decretata “Città Europea per i Giovani” ed infatti è tutta un rincorrersi di locali allestiti sulla spiaggia e per le vie.
Ad un’ora d’auto da Varna, nell’entroterra a nord, in località Madara c’è poi un altro capolavoro dell’arte bulgara: il Cavaliere di Madara. E’ un immenso altorilievo del VIII secolo D.C., scolpito in una parete rocciosa a 23 metri d’altezza. Rappresenta Khan Tervel in atto di uccidere un leone con la lancia, seguito dal suo mastino. Fu realizzato in onore della nascita del Primo Impero Bulgaro ed ancora oggi i Bulgari ammirano ed onorano l’antico re ai piedi della montagna. Realizzato in un luogo sacro fin dall’antichità, nel parco archeologico sottostante si possono vedere anche i resti di un tempio pagano, grotte adibite ad antichi culti ed un lavabro neolitico.
Riflettendo a fine viaggio, mi vien da dire che sorprendente è l’aggettivo che più più si addice alla Bulgaria, luogo che non ti aspetti e che ti lascia la voglia di tornare.
Link utili
seebulgaria.tw
Consigli per un viaggio fai da te in Bulgaria, paese dei tranci e delle rose Perchè la Bulgaria tra tanti paesi? Questa è la domanda che mi son sentita ripetere da chiunque quando decisi di visitarla.
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Parigi - Roma
IL CONFRONTO DEFINITIVO. DALLA A ALLA Z
Acqua
Le fontanelle ogni cento metri, fresche e dissetanti, sono tra le meraviglie di Roma.
In compenso, a Parigi puoi ancora chiedere "l'acqua del sindaco" gratis in tutti i ristoranti.
Banlieue
A Parigi ci sono periferie eleganti e periferie ghetto, ma è il concetto stesso di "periferia" ad essere più inclusivo. Il piccolo Boulevard Périphérique (6 km. di raggio) separa nettamente ancora oggi le periferie dal centro.
Al contrario, a Roma il centro "sconfina" nelle periferie in modo più dolce e graduale. Tracciamo un cerchio di 6 km. puntando il compasso sul Campidoglio: Flaminio, Garbatella o Pigneto sarebbero banlieues.
Carta di credito
A Roma con la carta non puoi comprare neanche il biglietto della navetta aeroporto-centro.
A Parigi potresti comprarci di tutto, ma alla fine non ci compri niente lo stesso perché i prezzi sono folli.
Disoccupazione
Un mio amico ha lasciato il lavoro a Parigi e si è messo in disoccupazione: 1.800€ al mese. Ogni paragone è superfluo...
Eventi
Parigi concentra in sé i concerti e gli spettacoli teatrali di cinque o sei capoluoghi italiani. Vi dico solo che una volta sono entrato nel jazz club sbagliato: erano tre uno accanto all'altro...
In compenso, Roma regala manifestazioni oceaniche come i concerti del primo maggio.
Frutta e ortaggi
Roma è il più grande comune agricolo del continente. Persino dal bengalese puoi trovare squisiti prodotti di stagione, portati quella mattina stessa dai contadini ai Mercati Generali.
Tutto il contrario a Parigi: è arduo trovare prodotti che non siano di serra, il cibo "biologico" viene come minimo dalla Spagna, la frutta a meno di 4€ al chilo (o addirittura di 1€ al pezzo) è un'utopia.
Gente
I parigini sono cordiali. L'atmosfera nel centro città di solito è tranquilla, civile, composta.
Insomma: manca il burino col suo linguaggio colorito, manca il vecchietto de Trastevere che sta lì dal '15-18, manca il barista che fa battute ai clienti e ci prova con le clienti...mancano tutti quei personaggi che rendono Roma incasinata ma anche pittoresca.
L'unica cosa uguale sono i ggiovani: pantalone strappato e auricolari col rap, quando li vedi ti senti sempre a casa.
Inquinamento
A Parigi, dopo tre o quattro giorni di bel tempo, si solleva una cappa di smog che cancella qualsiasi panorama. Immaginate Milano con il quadruplo degli abitanti...tocca sempre sperare che piova!
In compenso, a Roma spiccano dovunque le ben note montagne di rifiuti.
Locali
Un aspetto favoloso di Roma è quello dei "quartieri della movida". Sono tantissimi e ognuno con le sue caratteristiche, per cui lo stile di Monti è diverso da quello di San Lorenzo, di Campo de'Fiori, di Ponte Milvio, di Testaccio, di Trastevere...
A Parigi invece non c'è il concetto di "Incontriamoci nella piazza di quel quartiere e poi giriamo", eccetto in alcuni vialoni come Rue Saint-Denis (nella foto). Di base, si esce solo se si ha già in mente un preciso locale in cui sedersi.
Come ambiente, più si va verso nord-est più l'atmosfera diventa underground e giovanile, mentre più si va verso sud-ovest più diventa upperclass e matura.
Musei
A Parigi, l'impiego di edifici moderni a scopo espositivo permette allestimenti godibilissimi, con poche opere per sala, raccolte intorno a un solo tema o a un solo autore. Vale per il Centre Pompidou, per il Musée Picasso, per la casa di Moreau, per l'atélier di Delacroix...
Certo, a Roma è da batticuore vedere la collezione d'arte dei Borghese, degli Spada o dei Doria Pamphilj nei loro palazzi originali, ma spesso quella tela caravaggesca in quarta fila non la riesci proprio a mettere a fuoco.
Meritano una lode anche i musei di Parigi cosiddetti “non artistici”, come il museo del profumo o il museo dell'esercito.
Natura
Parigi è grigia. Molto grigia. I marciapiedi non sono costellati di platani, di pini e di ciliegi. I quartieri centrali non sono sovrastati da Villa Borghese, dal Gianicolo, dal Palatino o da Monte Mario. I due polmoni verdi a est e a ovest (Vincennes e Boulogne) scompaiono al confronto con la Caffarella, l'Insugherata o l'Appia Antica. La campagna non si estende fino a 10 km. dal palazzo del sindaco, come nel Parco di Veio o nella Marcigliana. Le prime foreste demaniali di una certa grandezza sono lontane rispettivamente quanto i Castelli, il Lago di Bracciano e il Monte Livata partendo da Roma.
Insomma: fra cultura e natura da noi c'è stato un incontro, da loro c'è stato un massacro.
Opera
Il Palais Garnier è un edificio sontuoso che merita anche la sola visita guidata. Anche solo passarci davanti ti fa sentire nel Fantasma dell'Opera o in Anastasia...quanto agli spettacoli, tra Garnier, Bastille e Châtelet ce ne sono a getto continuo. Il problema è che i prezzi sono inaccessibili. Per le poltrone più arretrate e laterali si parte da 50€...per fortuna ci sono almeno il servizio last-minute e gli sconti per i giovani.
Un'ultima cosa: sarà turistica e pacchiana quanto volete, ma Caracalla fa la sua sporca figura!
Posto letto
La legge sugli affitti a Parigi è un crimine contro i diritti umani. Vengono spacciate per "case" delle topaie di 8 o 9 mq, che per giunta ti vengono rifilate a 5-600€ al mese. È fortunato chi riesce a dividersi 30 o 40 mq con altri coinquilini...
A Roma gli affitti ufficiali sono un po' più decorosi, ma spesso tocca ripiegare sul "posto letto" in nero.
Quais
I quais della Senna sono perfettamente integrati con il resto della città. Profondi solo due o tre metri, ben curati, spesso con il selciato, della stessa pietra grigiolina di cui sono fatti gli edifici intorno, sono quasi un "secondo marciapiede" fluviale.
Niente a che vedere con gli argini del Tevere, colossali, marmorei, che segnano uno stacco netto fra la città di sopra e il lungofiume. Questo è come un mondo a parte, dove si va a cercare isolamento e silenzio. Un mondo pieno di vegetazione, usato da alcuni come bagno pubblico, da altri come riserva di pesca, da altri come palestra o pista ciclabile...
Ragazze
Qui bisogna coniare una medaglia al valore. Quasi tutte le parigine si vestono con un gusto impeccabile, e vederle per strada è una gioia dei sensi. Non perché siano piacenti o provocanti, anzi. Ma proprio perché mettono cura, attenzione, brio e originalità anche in un cappotto, in uno scialle, in una borsetta...la cosa è ancora più meritoria se si pensa che nelle vetrine dei negozi parigini è esposta quasi sempre della robaccia inguardabile, e che ci vuole un fiuto da intenditrice per scovare i due o tre capi veramente stupendi. Chapeau. Le romane, per usare un eufemismo, sono un po' più provinciali.
Stranieri
L'Île-de-France è la 2° regione europea che attira più turisti, e come è noto mangia in testa al Lazio, che è solo 19°. Ma la vera differenza la fanno gli stranieri residenti.
È vero, Roma ha le sue enormi comunità dell'Est e i suoi club di studenti americani. Ma a Parigi, da dovunque tu venga, puoi vivere benissimo senza mai incontrare un francese.
Architetti spagnoli e ingegneri brasiliani, ricercatrici israeliane e artisti russi, professori tunisini e giornalisti cinesi si sono stabiliti qui con casa, stipendio e giro di amici. Poi ci sono gli ivoriani, gli indiani e i maghrebini, e i francesi "d'oltremare", come i martinicani o i polinesiani...insomma, dalla belle époque in poi Parigi è Parigi perché è universale!
Traffico
Il trasporto pubblico a Parigi è tra i migliori d'Europa, mentre quello di Roma è tra i peggiori del Sudamerica. Questo si sa.
Quello che non si sa, invece, è che nonostante il suo trasporto pubblico così efficiente Parigi è costantemente intasata dal traffico. Tant'è che la sindaca è alla disperata ricerca di fondi per aprire nuove linee di metro. Un esempio? Le Olimpiadi 2024, che lei sta facendo di tutto per aggiudicarsi. Eh-ehm...
Università
Le università più prestigiose della Francia sottopongono i loro allievi a un regime di terrorismo psicologico, con pubblicazioni periodiche dei loro voti dal più alto al più basso, tolleranza zero sulle assenze e competizione incentivata al massimo.
In Italia siamo più accomodanti, forse perché certe sedi idilliache come Villa Mirafiori, Valle Giulia o San Pietro in Vincoli (che i francesi si sognano) conciliano il quieto vivere.
I posteri diranno chi aveva ragione...
Veduta
Tra le grandi metropoli, Parigi è riuscita in una specie di miracolo: mantenere bassa la skyline. I tetti spioventi, le mansarde, i campanili gotici, le anse della senna e i tubi del Beaubourg vi si fondono in un'unica armonia. Peccato per la Tour Montparnasse, l'immondo grattacielo che svetta in mezzo alla città. Devi sempre photoshopparlo con lo sguardo...
Sulla skyline di Roma, ogni parola è superflua.
Zoologia
Roma è la città italiana con il più alto numero di specie selvatiche. E di misteri annessi. Chi ha liberato la prima coppia di pappagallini verdi? Da quale centro di ripopolamento sono scappati i falchi pellegrini? Come sono finiti i ricci dentro il Colosseo? Cosa ha spinto un cinghiale a correre contromano fino a 1 km. dal Vaticano?
Parigi ha senz’altro una fauna più ordinaria.
CONCLUSIONI
Parigi e Roma sono entrambe riuscite ad attraversare il secolo della modernità senza perdere l'anima. Entrambe sono lontane anni luce dalle metropoli-fotocopia tutte cemento e Mc Donald's.
Parigi si è sforzata di restare cosmopolita, raffinata, all'avanguardia nella cultura e nella formazione, crocevia tra cinque continenti. Di fatto, oggi come nell'800, chi vuole studiare o lavorare in una capitale europea sceglie ancora tra Parigi e Londra.
Roma, dal canto suo, sembra tornata la Roma decadente, pontificia, rurale e addormentata di altrettanto tempo fa. I suoi pregi sono dovuti al modo in cui la storia le è scivolata addosso senza alterarla troppo, più che a una sua scelta consapevole.
Questo da un lato è un limite, dall'altro è una risorsa. L'Urbe si ritrova delle caratteristiche uniche in Europa (anche al netto dei soliti monumenti, di cui ho cercato di parlare il meno possibile), partendo dalle quali può inventarsi un modello completamente nuovo di città del 2000.
Certo, non è facile riuscirci, se non si può contare né su un tessuto industriale autonomo né sull'appoggio di un Paese accentratore come la Francia. In che cosa, oggi, può investire concretamente un abitante di Roma? Che mestiere può fare?
Forse il punto di partenza può essere una redistribuzione delle competenze amministrative, che non pesino più tutte su un sindaco onnipotente/impotente, ma divengano in parte municipali, in parte metropolitane, in parte (perché no?) internazionali.
In fondo si tratta di Roma. Dove la fontana del Bernini, il Serpentone di Corviale, l'agriturismo in Sabina e il capannone sulla Pontina devono trovare un'armonia, una strategia per convivere.
Dal successo di questa strategia dipenderà il loro futuro.
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Canale 5, da venerdì 30 settembre “Viola come il mare"
Canale 5, da venerdì 30 settembre “Viola Come Il Mare". Al via, venerdì 30 settembre in prima serata su Canale 5, la nuova serie tv “Viola Come Il Mare” che vede protagonisti Francesca Chillemi e Can Yaman. Coprodotta da Rti e LuxVide e diretta da Francesco Vicario, Viola come il mare è una serie light crime in 6 serate, tratta dal romanzo Conosci l’estate? di Simona Tanzini. Viola Vitale (Francesca Chillemi) ha trent’anni, una bellezza prorompente e un superpotere particolare. Sente o meglio vede i sentimenti degli altri attraverso i colori. Si chiama sinestesia, è la sovrapposizione spontanea e incontrollata di più sensi, che nel caso di Viola le permette di associare colori specifici alle emozioni delle persone. La sinestesia sarà per lei un valore aggiunto. Perché il colore della persona che ha di fronte le racconta qual è il suo sentimento dominante in quel momento, la sua attitudine verso la vita. E l’attitudine verso la vita, le sensazioni più nascoste dell’animo umano, sono informazioni utili da conoscere, se stai cercando un assassino. Viola, infatti, giunta a Palermo per occuparsi di costume e società, diventerà invece giornalista di cronaca nera, lavorando a stretto contatto con l’affascinante ispettore capo Francesco Demir (Can Yaman), come una sorta di profiler da serie tv americana, ma molto meno affidabile e più allegra. Casi di omicidio, caratterizzati dalla presenza di un elemento ricorrente, un leitmotiv: l’insensatezza. Perché apparentemente non hanno una spiegazione, ma sembrano frutto della casualità, della banalità del male. Perché colpiscono vittime nel pieno della loro vita, dei loro progetti. Perché spezzano le speranze di uomini e donne inconsapevoli. Viola cercherà un senso in quei complessi racconti umani, cercherà giustizia per le vittime e, nel farlo cercherà un senso anche per se stessa. Il suo viaggio a Palermo, infatti, nasconde una ragione più importante e misteriosa: cercare il padre che non ha mai conosciuto e che, forse, è l’unica persona che può salvarli. La strada però è lunga e intanto Viola deve trovare il modo di collaborare con Francesco Demir, con cui non condividerà soltanto le scene del crimine, ma anche un meraviglioso terrazzo con vista sulla Cattedrale Normanna. Ogni puntata, un nuovo omicidio su cui indagheranno entrambi, lei come giornalista di nera, lui come poliziotto. Dapprima su fronti opposti, poi sempre più dalla stessa parte. Perché tra Viola e Francesco nascerà una vera collaborazione. Una collaborazione non facile. Demir è abituato a ragionare solo con la sua testa e Viola è abituata a dire sempre la sua. Lei si fida di tutti, lui non si fida di nessuno, lei cerca il dialogo, lui tira un pugno, lei si basa sulle emozioni, lui solo sulle azioni. Bisogna trovare un equilibrio, ma, soprattutto, bisogna resistere a quell’invisibile filo d’attrazione che da subito li lega. Tra i casi di omicidio e la ricerca del padre, tra il duro lavoro in redazione e la difficile collaborazione con Francesco, Viola scoprirà la vera anima di Palermo, una città caotica ma proprio per questo bellissima. Verrà travolta dai profumi delle zagare e dei mercati, dalle sfumature del mare e della terra, dalle passioni dei siciliani, che vivono tutto con più energia. Una Sicilia del tutto inedita. Non quella della mafia o della burocrazia che non funziona, ma la Sicilia più bella, crocevia di culture diverse, che l’hanno plasmata dall’antichità fino ad oggi e l’hanno resa un luogo privilegiato di incontro. Sarà proprio questa terra unica a ricordare a Viola la sua vera natura, che è la stessa di ogni essere umano. Per vivere davvero, bisogna lasciarsi travolgere dalle emozioni delle persone. Perché è solo quando apri la porta e lasci entrare gli altri che smetti di sopravvivere e inizi a vivere.... Read the full article
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(Foto da sscnapoli.it) La Mia Opinione di Napoli-Pescara. Una vittoria fondamentale. 3 punti che ci tengono agganciati ai piani alti della classifica, in attesa del Milan (in tutti i sensi). Un primo tempo bruttino, da parte del Napoli. Oddo (che, devo dire, al di là della classifica che porterebbe a pensare altro e al di là di un post-partita per niente condivisibile, mi piace molto) ha il merito di aver presentato un Pescara ben messo in campo (nonostante le tante assenze e l'episodio Zuparic) e che beneficiava forse della 'sosta' lunga dopo il rinvio di Pescara-Fiorentina della settimana scorsa. A livello atletico, infatti, sembravano essere addirittura superiori rispetto agli azzurri, quantomeno in termini di freschezza e dal momento che molti paragonavano la gara di ieri a quella di Coppa, con lo Spezia, non me la sentirei di escludere soprattutto questa, come somiglianza: entrambe le avversarie si erano 'riposate' abbastanza rispetto ai nostri (che invece arrivavano da un tuor de force fatto da 1 partita ogni 3 giorni) e la differenza almeno nei primi tempi stava tutta lì. Ovviamente, non vuole essere una giustificazione, ma quanto meno potrebbe essere una spiegazione (o almeno è quella che mi son data io): il Napoli è nettamente più forte e dello Spezia e del Pescara, e questo alla lunga è venuto fuori, ma se mi chiedessero una spiegazione dei due primi tempi, non escluderei questa ipotesi, ecco. Gli abruzzesi, nel primo tempo, pressano alto e provano a metterci in difficoltà. E si nota, sotto questo punto di vista, un piccolo miglioramento dei nostri, a mio parere: il pressing avversario non ci scompone più di tanto, rimaniamo solidi ed evitiamo inutili complicazioni dietro, pur sbagliando e sprecando spesso in fase di costruzione e di finalizzazione. Con pazienza portiamo avanti la gara in attesa del momento giusto per colpire: certo, eravamo un po' macchinosi, troppo lenti nel giro palla e spesso qualche tocco in più portava a piccoli disastri, ma tutto sommato, ne siamo usciti bene. Ed è (ormai già da qualche partita in verità) una notizia. Buona, per fortuna. Attendiamo, concedendo il minimo. Attacchiamo, sbagliando spesso, eppure riusciamo a portare a casa il risultato. E, caso strano, ma che descrive perfettamente il momento (2 volte sulle ultime 2), a sbloccarla ci pensa Lorenzo Tonelli. Caso strano ma perfetta sintesi del momento, perché è un Napoli che sta dimostrando di avere pazienza. Sta dimostrando di avere pazienza proprio come Lorenzo, che da riserva inutilizzata (il mister ha confermato che lo scarso impiego era dovuto a problemi fisici) si trasforma in un perfetto cecchino d'area di rigore per la seconda volta consecutiva. Questa volta di testa e da calcio piazzato (magari servirà a sbloccare anche Jorginho, autore di un assist perfetto e sfortunato sulla traversa): Lorenzo riceve complimenti e mazzate dai compagni, rivolge una dedica alla compagna ed al piccoletto in arrivo, corre per la seconda volta ad abbracciare Maksimovic, che per la seconda volta ricambia in maniera sentita e per finire raccoglie il cinque di Sarri. Anche questo descrive cosa sia questo gruppo: è anche da questi particolari che si forma una 'squadra'. Neanche il tempo di tornare in difesa per Tonelli, che subito gli tocca ri-festeggiare: gol di Marek per il 2-0. È per questi gol che il calcio riesce ancora ad emozionarmi: Piotr e Marek che all'unisono immaginano, pensano, 'vedono' la stessa azione e in meno di due secondi la realizzano. L'uno a cercare il compagno con un pallone preciso, puntuale e corretto, l'altro a dettare il movimento, così da farsi trovare lì pronto a colpire. Una meraviglia per gli occhi, ma soprattutto un enorme carica di fiducia per il futuro: questo centrocampo ci darà grosse soddisfazioni, ora ne sono certa. E a questo proposito, ci tengo a sottolineare anche la buona prova di Allan: pochi minuti nella ripresa, ma affrontati col piglio giusto, un misto di sfrontatezza e applicazione che ho apprezzato e non poco. Marek che pian piano si avvia a raggiungere la vetta di quella speciale classifica, occupata da un certo Diego, ma alle sue spalle, c'è un altro che pure corre in quella classifica: 50esimo gol di Dries con la maglia azzurra. Direi non male per un esterno, ultimamente adattato a punta centrale. Un gol desiderato, cercato più volte e c'è da scommetterci che il motivo fosse tutto in quella dedica. Una dedica particolare che era già pronta: un cuoricino alla telecamera tutto per Kat, volata in Belgio per un'operazione. Tanti auguri di pronta guarigione Kat! 😘💙 Sul finale arriva il gol su rigore per il Pescara. Rigore inesistente, che vieta al Napoli il clean sheet. Questa volta non posso parlare di errore difensivo, né di distrazione: è una svista arbitrale bella e buona. Gavillucci non fa altro che completare l'opera: per fortuna non ci sono conseguenze a livello di punti, ma la direzione di gara e soprattutto la distribuzione dei cartellini da parte del direttore di gara mi è parsa assolutamente insufficiente. Callejon, in almeno due o tre occasioni subisce falli da arancione che non vengono sanzionati nemmeno col giallo, Gilardino fa un po' come gli pare, sia che si tratti di simulazioni (goffe per altro) sia che si tratti di insulti gratuiti tanto alla sestina quanto agli avversari, per non parlare dello show di Bizzarri verso la curva (poi vogliono parlare di Reina 🙄)... Comunque portiamo a casa una vittoria fondamentale e ci avviamo alla sfida al Milan con una fiducia sempre maggiore ma da consolidare. La gara di Milano sarà un crocevia importante in questo senso: fare risultato, laddove la stessa Juve prima in classifica ha faticato significherebbe tanto. Montella sembra aver trovato la giusta quadratura di una squadra che già a Napoli aveva mostrato passi avanti rispetto al recente passato, quindi, sarà una gara molto importante e sicuramente da non sottovalutare, anche e soprattutto in termini di classifica e di obiettivi stagionali. 😉 Alla prossima e #ForzaNapoliSempre! 💙
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“L’anima mia si colmerà d’un amore sconfinato”: l’insoddisfatto, inafferrabile Rimbaud in una nuova traduzione
“Se si ama la vita, non si legge”, si legge nel saggio che Michel Houellebecq ha dedicato a H. P. Lovecraft. Ma si potrà anche pienamente, tranquillamente, pacificamente dissentire: è del tutto possibile che si possa amare la vita e che si legga; così come è possibile che si odi la vita e non si legga affatto.
Per approssimazione ci si avvicinerà di più alla piccola verità del rapporto tra vita e letteratura attraverso un altro apoftegma, in questo caso di Fernando Pessoa, il quale sostenne invece che: “La letteratura è la dimostrazione che la vita non basta”. La vita non basta soprattutto quando la vera vita non c’è.
La via non basta, questo è certo più vero, e se c’è chi se la sente di dissentire, specie per contraddire il fatto che la letteratura possa davvero esser non solo la dimostrazione che la vita manca di qualcosa, ma anche la soluzione a questa mancanza, ecco venirgli incontro, a patto d’accettare la prima inverificabile ma vera verità, l’esempio di Arthur Rimbaud, il poeta che forse più di tutti rincorse la vita, o meglio, la vera vita, che sentiva e diceva non tanto mancargli quanto proprio mancare, ma cui la poesia non bastò. E se la sua di poesia non gli bastò, a chi mai potrà insomma bastare? Che poi, come ha scritto Mario Luzi, non si tratta neppure di poesia; l’evento Rimbaud va ben oltre il mero fatto letterario, i semplici libri: “Non si tratta, si capisce subito, di un episodio interno alla letteratura, ma di un accadimento primario e assoluto, incidentalmente coinvolto nella letteratura di quegli anni.”
È da Charleville, villaggio natale del poeta, e dunque da Rimbaud bambino, che bisogna partire; il villaggio dove la vita non gli bastava e non poteva bastargli. Da qui partire per arrivare in fondo alla sua traiettoria poetica; per arrivare a quella illuminazione conclusiva secondo cui la poesia non basta, così come la vita. Ora, se, come scrive Charles Baudelaire nel capitolo “Il genio bambino” della sezione de I paradisi artificiali che egli accoratamente dedicò a Thomas De Quincey, “il genio non è che l’infanzia nettamente formulata, dotata ora, per esprimersi, di organi virili e possenti”, la parabola esistenziale e letteraria del poeta, il suo brandire la poesia per farne uno strumento di scoperta del mondo, di sé e del divino, con tutti gli aspetti fanciulleschi e insieme un raro vigore e infine un misterioso silenzio, hanno, pure al di là della possibile conversione in articulo mortis, un portato “mistico”.
Può poi capitare che non basti non soltanto la vita in un paese italiano che potrebbe esser l’analogo contemporaneo di Charleville, e per giunta proiettato alla fine del tragico XX secolo, agli inizi di un ancor più disgraziato XXI, ma neppure le opere di Rimbaud, o per meglio dire le sue traduzioni in lingua. E che esse scongiurino, per fortuna, una lettura forse troppo canonicamente precoce, quella d’adolescente che già sogna a sua volta la fuga, dalla sua pseudo Charleville, che è poi la dimora famigliare, la scuola di stato o già i corsi universitari, e financo dal paese che non è solo il villaggio bensì la nazione. Perché già bambino trovava i suoi sensi, i suoi nervi, le sue carni solo nelle esplosioni di nebbia accompagnate dal dissolversi delle umane presenze, del loro rumore di fondo, e in quelle delle alte e ramaglie dei pini marittimi, l’estate sempre ritrovata nella linea d’orizzonte tra cielo e mare, eppure mai infinita. Può dunque capitare che quei tentativi d’approccio si concludano in maniera felice, e vale a dire con l’accantonare provvisoriamente quei libri, letture posticipate a un altro momento, a un incontro più riuscito, come quello col saggio che Henry Miller dedicò al poeta, e più ancora al poeta che non alle opere. E ancor più felice, l’incontro con la lingua madre del poeta bambino.
Così quel fortunato lettore può infine apprezzare la lingua del poeta, può cogliere il senso di quei versi e di quelle prose poetiche, lo “spiritualismo” (si dovrà per donare l’uso di questa parola imprecisa, e abusata e distorta) che uno dei due ultimi romantici – Baudelaire e Rimbaud, gli scrutatori degli abissi, dei recessi, gli unici uomini che si presero la briga di farlo, in mancanza di veri mistici, ancor più che di veri santi – anche a fronte di una Chiesa che – in quanto corpo di Gesù Cristo, e dunque unica vera alternativa alla diverse forme del denaro e del materialismo, sia esso quello dei capitalisti o quello dei socialisti – tra i secoli XVIII e XIX fu certo meno presente di quanto non lo era stata nel corso del più luminoso Medioevo.
Il manoscritto di “Ma Bohème (fantaisie)” di Arthur Rimbaud: la poesia è presentata nella nuova traduzione di Marco Settimini
Rimbaud è il paradossale (in quanto alla base ribelle) testimone di un tempo in cui il Cristianesimo è, come scrive Pierre Drieu La Rochelle, “spaventosamente isolato ed esiliato […], tutto investito dalla disperante carenza della Chiesa” e l’uomo (un uomo ancora bambino) che sotto l’egida baudelairiana riconsegna lo spirito della letteratura cristiana nelle mani dei “santi” scrittori cattolici, e anche, per altre vie, sotto altre forme, in altre mani ancora, come nelle deflagrazioni di un Cendrars e ancor più di un Céline, e in particolare nella petite musique del secondo, perché, a ben guardare, negli aspri, grevi versi rimbaudiani di Mes petites aumoureuses ci sono già, in nuce, tanto la lingua quanto i toni di Morte a credito e Guignol’s band.
L’impulso primo è l’energia vitale d’adolescente che, insoddisfatto, parte alla ricerca della vraie vie. La fuga è duplice, fisica, topografica da un lato, e allo stesso tempo poetica, letteraria. E di entrambe dà conto Yves Bonnefoy, del quale si potrà estrapolare l’estrema sintesi.
La poesia: “Rimbaud è sollecitato, con l’aiuto di Orazio – ‘Tu vates eris…’ – a sognarsi poeta, e lo fa, ma non senza presentire, si direbbe, a quali disastrose tentazioni lo esporrà quel potere. Infatti, là dove Orazio diceva che il fanciullo scelto dagli dei riceve da una colomba ramoscelli d’alloro e di mirto, eccolo aggiungere tutte le Muse, che lo prendono nelle loro braccia come un neonato nella culla…”
La natura: con le primissime fughe, “sulla strada”, nella valle della Mosa, preso da fame e sete, ma anche dal piacere delle lunghe camminate tra l’erba e la nebbia, nelle quali le esperienze d’infanzia trovano una potentissima amplificazione, la sensazione si fa più forte, e il desiderio di fusione con la natura analogo a quello con una donna, eppure alla fin fine entrambe sono negate in un vero splendore.
La fame del giardino del mondo, origine del mondo, non verrà mai del tutto placata, rispetto a i sogni. E i suoi versi ne quindi sono scossi, attraversati da un senso di stupore quanto di inevitabile delusione. La quale diventerà un martellante refrain della letteratura moderna.
Questa rappresentazione giunge tuttavia alla sua più alta sintesi in quello che lo stesso Bonnefoy indica come uno dei principali “crocevia” della poetica rimbaudiana, ossia il riconoscimento, la celebrazione della natura in quanto “valore che la società degli uomini potrebbe e anzi dovrebbe far suo”, e l’oggettività della poesia nella pratica di quel dérèglement dei sensi che conduce il poeta alla voyance, alla “visione” più sconvolgente; due tendenze opposte e che allo stesso tempo si completano; che si incontrano e si risolvendosi in un che di vangoghiano.
L’impossibile è l’inesprimibile, che tenta di dire con parole che si stanno quasi per tramutare in puri gesti, pure sensazioni di fame e di sete, di musica e di silenzio, di luce e di buio. Fino a quel sonetto che, come scrive Bonnefoy, “rappresenta […] il più strepitoso e durevole fallimento in tutta la storia letteraria” a livello di critica testuale, e vale a dire Voyelles. Un sonetto nel quale il prisma dei colori e delle lettere altro non è che la scomposizione della luce della poesia in una magica sinestesia, quid che vale invero per tutta la sua poesia. Una scintilla.
“Questa scintillazione personalissima, questa trepidazione, questa ipnosi, questi innumerevoli rintocchi sono altrettante versioni, quelle plausibili, di un evento unico: il presente perpetuo, in forma di ruota come il sole, e come il volto umano, prima che la terra e il cielo traendolo a essi non lo di stendesse crudelmente”, scrive René Char. E in quella scintilla apocalittica di presente eterno, sta il paradosso, la frontiera estatica tra natura e Spirito, tra sregolamento e Cristianesimo, che costituisce la “mistica” di Rimbaud, autentica poesia in margine al Vangelo.
D’altronde, fino in fondo, vale il suo “Io è un altro”. La stessa vraie vie è infatti altrove, e “Io è altrove”. Non sarà forse proprio per questa ragione che il Cristianesimo sarà la fonte, dal più profondo, di tutte le “divagazioni spirituali” del poeta, come giustamente le definisce, non senza autoironia e autocritica?
Persino il suo pisciare “molto in alto, molto lontano” è un gesto poetico tanto irridente quanto sintomo di uno slancio quasi metafisico, perché nella natura Rimbaud si trasforma come l’Hölderlin di Iperione in ciò che vede, e ciò che vede, il Creato, non è il Divino ma è divino, è traccia del Dio di cui ha nostalgia.
L’uomo, è una cosa che sapeva da sempre, “appartiene al cielo, scruterà i cieli”, e il suo destino, nello specifico, è quello del “bambino abbandonato sul pontile partito verso l’alto mare, il piccolo valletto, che segue il viale il cui fronte tocca il cielo” di Enfance. “Io è un altro” sembra a volte imitazione di Cristo.
Il testimone è raccolto dai poeti già citati, Huysmans, Bloy, Claudel, Péguy, Bernanos, ma rieccheggia anche nelle pagine del Tropico del Capricorno di Miller, di Campana e di Delfini, come nei versi di un Pasolini (Una disperata vitalità: “Come in un film di Godard: solo / in una macchina che corre per le autostrade / del Neo-capitalismo latino – di ritorno dall’aeroporto – / […] / in un sole irriferibile in rime / non elegiache, perché celestiale / – il più bel sole dell’anno – / come in un film di Godard: / sotto quel sole che si svenava immobile / unico”) e nella pittura di fine Ottocento e della prima metà del Novecento.
René Char scrive che Rimbaud: “Nel poema Genio, si è descritto come in nessun altro poema. È dandoci congedo, in effetti, che conclude. Come Nietzsche, come Lautréamont, dopo averci chiesto tutto, ci chiede d’‘allontanarlo’ [le renvoyer]. Ultima ed essenziale esigenza. Lui che non si è soddisfatto di nulla, come potremmo soddisfarci di lui?” Come avervi una soddisfazione? Ora, le renvoyer significa sì allontanarlo, scacciarlo, spedirlo via ma anche fargli eco, farlo risuonare ancora e ancora. Una sola possibile, allora, per quel lettore un tempo insoddisfatto dalle versioni in lingua italiana, ossia traducendolo.
In metrica e rima. – “Plus de mots.” – Niente più parole. – Solo la musica.
Marco Settimini
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Sensazione
Andrò per i miei sentieri nelle sere blu d’estate, Pizzicato dal grano a calpestare l’erba delicata: E sognando, le mie caviglie ne saranno rinfrescate. Lascerò il vento bagnare la mia testa denudata.
Non penserò più a nulla, e mai più parlerò invano: Ma l’anima mia si colmerà d’un amore sconfinato, E come un vagabondo me ne andrò lontano, lontano, Nella Natura, come con una fanciulla — appagato.
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La mia bohème (Fantasia)
Con i pugni nelle tasche bucate camminavo; Finanche il mio cappotto diventava ideale; Vagavo sotto il cielo, e ti ero sempre leale; Oh! là! là! Musa, che amori splendidi che sognavo!
Le mie uniche braghette, ormai da buttare. — Sgranavo rime in corsa, Pollicino sognatore. Il mio solo albergo era nell’Orsa Maggiore. — Le mie stelle su nel cielo, che dolce sussurrare
E le ascoltavo seduto sul bordo della strada, Le notti di settembre in cui sentivo la rugiada Fresca sulla fronte come un vino di vigore;
E allora in mezzo a ombre fantastiche facevo Rime, e come delle lire le stringhe tendevo Delle mie scarpe ferite, a un piede dal cuore.
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ANCONA – Ha preso il via venerdì scorso e proseguirà fino a venerdì 24 agosto una serie di concerti a cura del FAI ospitati in un luogo d’eccezione, la Chiesa del Gesù. L’iniziativa, che va ad arricchire la programmazione dell’estate anconetana, si intitola “CONCERTI PER L’ARTE” e ha l’obiettivo di fare ascoltare ottima musica insieme e finanziare le opere di restauro e ricollocazione sull’altare della tela “L’Assunta” di Michele Gisbel.
L’ingresso è a offerta. L’inizio dei concerti è fissato per le ore 21.15. Di seguito il calendario e i dettagli dei singoli appuntamenti:
13/7 L’AMORE AI TEMPI DEL RINASCIMENTO ASSOCIAZIONE CORALE GIOVAN FERRETTI Direttore, MICHELE BOCCHINI L’amore ai tempi del Rinascimento. Rossori, sguardi languidi, sotterfugi, lacrime, rancori, malcelati (nemmeno troppo) doppi sensi! Si potrebbe definire così il programma che presenta la Coral Giovan Ferretti che racconta comunque e sempre la bellezza dell’amore e della musica. L’associazione, costituita nel 1979 ad Ancona dal direttore Cesare Greco, si intitola ad un compositore marchigiano del XVI secolo le cui opere sono state riscoperte ed eseguite grazie al lavoro di ricerca e trascrizione patrocinato dalla stessa Associazione. Oltre 400 concerti, oltre 600 composizioni presentate, circa 250 soci tra le file delle varie formazioni, cameristiche o di grandi dimensioni. Formazione duttile e atipica, l’Associazione ha proposto negli anni un repertorio particolarmente vasto di musiche sacre e profane di ogni epoca, sia polifoniche che corali-strumentali. 27/7 SUONI E SUGGESTIONI DAL MONDO CHITARMONIA GUITAR ORCHESTRA Soprano CLAUDIA CARLETTI Direttore GIANLUCA GAGLIARDINI Il concerto vedrà l’esecuzione di brani originali, trascrizioni e colonne sonore che metteranno l’ascoltatore in condizione di viaggiare attraverso stili ed epoche provenienti da varie regioni e da varie culture musicali del mondo. Il tutto impreziosito dalla voce del soprano Claudia Carletti.
La Chitarmonia Guitar Orchestra nasce nel 1994 per iniziativa dell’attuale presidente M° Sandro Giannoni. Subito si impone all’attenzione del pubblico grazie a un repertorio che comprende sia opere originali scritte per questo organico, sia trascrizioni che spaziano dalla musica rinascimentale a quella contemporanea e moderna. Brillantemente diplomato in Chitarra Classica e in Didattica Musicale, nel 1994 è tra i fondatori dell’orchestra. Appassionato cultore della musica antica e rinascimentale, dal 1999 collabora con varie formazioni vocali specializzate in questi repertori. 14/8 ERRANDO, RECITAL DI CHITARRE ARMONIE DELLA SERA INTERNATIONAL MUSIC FESTIVAL Chitarre, GIOVANNI SENECA Giovanni Seneca propone un recital di chitarra completamente incentrato su composizioni originali. Nei brani presentati in programma troviamo le caratteristiche del suo percorso estetico che ha come tratti salienti la contrapposizione e a volte la fusione tra cantabilità e ritmo, tra modernità e tradizione e tra colto e popolare. L’utilizzo di diversi tipi di chitarre durante il concerto esalta le sfumature di ogni composizione. Di particolare interesse l’utilizzo della chitarra battente, un antichissimo strumento della tradizione del sud Italia (Campania, Puglia, Calabria) ancora molto usato e che nelle mani di Seneca approda a nuove sonorità. La sua musica sorprende tra un accordo e un altro mescolando stili e accompagnandoci nel ricordo. Si approda nei porti più disparati, e i suoni misti alla salsedine ci investono prima di scendere dalla nave chitarra.
Giovanni Seneca consegue il diploma al conservatorio Gioacchino Rossini di Pesaro con il massimo dei voti e la lode. E’ vissuto sei anni in Francia a Parigi dove si e’ specializzato all’Ecole Normale de Musique e al conservatorio Ravel. “Una musica seria e intensa quella del chitarrista Giovanni Seneca, che assomiglia a un crocevia di culture, o forse è sempre la stessa ma coniugata in tante lingue Composizioni evocative e immaginifiche che nulla lasciano all’improvvisazione. Melodie e temi semplici e immediati ma costruiti su un tessuto armonico e contrappuntistico maturo e complesso”. Ennio Morricone
24/8 J.S. BACH SUITES A VIOLONCELLO SOLO SENZA BASSO (versione originale) Violoncello da spalla, ROBERTO VALLESI Le “Suites a violoncello solo senza basso” di J.S. Bach rappresentano un autentico percorso Liturgico di Fede Cristiana volto a un’analisi costantemente introspettiva che si compie nel “SOLI DEO SIT GLORIA” del manoscritto settecentesco di J.P.Kellner. Nulla è più barocco di questa musica, per il rapporto tra progetto e realizzazione, per lo spazio figurativo e visionario tra disegno e illusione, per l’eterno dualismo tra la morte e la trascendente luce di vita eterna: in Bach abbiamo l’esaltazione della tridimensionalità propria della geometria dei solidi. Bach completò così, con le ”Suites a violoncello senza basso”, persino l’opera riformista luterana: depurò da qualsiasi eccesso e verticalizzazione un’armonia che invece va necessariamente analizzata da un punto di vista orizzontale.
Roberto Vallesi è violinista, violista barocco, violoncellista “da spalla” suona in questo concerto con un violoncello piccolo che ha costruito nel 1998 (su modello personale e con una speciale vernice di sola propoli ), con un arco che ha realizzato nel 2012 (secondo studi compiuti su importanti fonti iconografiche) e corde che ha prodotto nel 2013 (secondo l’antica “prassi storicamente informata”).
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