#Fondo Musy
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Oltre 2.000 ospiti per il 40° Concerto di Natale: Natalie Imbruglia e Jack Savoretti illuminano Torino
Un evento tra musica, solidarietà e cultura per celebrare Torino Capitale della Cultura d’Impresa 2024
Un evento tra musica, solidarietà e cultura per celebrare Torino Capitale della Cultura d’Impresa 2024 Un grande successo per il 40° Concerto di Natale alle OGR di Torino Il 5 dicembre 2024, la splendida cornice delle OGR di Torino ha ospitato il 40° Concerto di Natale, organizzato dal Gruppo Giovani Imprenditori dell’Unione Industriali Torino. Un appuntamento memorabile, arricchito dalle…
#Alessandria today#Barbara Graffino#Barbara Graffino discorso#Concerti Internazionali#concerti per beneficenza#concerto di Natale 2024#Concerto di Natale Torino#cultura imprenditoriale#Eredità Culturale#eventi a Torino#eventi di successo#FONDAZIONE COMPAGNIA DI SAN PAOLO#Fondo Musy#futuro inclusivo#Giovani Imprenditori#Google News#Gruppo Giovani Imprenditori#impegno sociale#imprenditoria responsabile#Inclusione sociale#Iniziative Culturali#innovazione inclusiva#italianewsmedia.com#Jack Savoretti#Musica e solidarietà#Natale 2024 eventi.#Natale a Torino#Natalie Imbruglia#Nicola Russo#OGR Torino
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Il giardino dei musi eterni
Il giardino dei musi eterni - Il tempo, il dopo, il sempre. Un romanzo giallo che parla di animali e di eternità.
Gli umani che guardano negli occhi gli animali lo sospettano già. E se in fondo non ci fosse da cercare così lontano? E se gli eterni fossero proprio i loro cani, i loro gatti, le loro tartarughe? Ginger, una splendida gatta Maine Coon, si è appena risvegliata nel Giardino dei Musi Eterni, un cimitero per animali. Anche lei adesso è un fantasma, anzi un Àniman, uno spirito che fa parte dell’anima…
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Dunque si può. Dire mi dispiace
dire perdonate e ottenere il perdono,
subito. Essere del tutto ripuliti.
Nuovi. Si può. Allora perdonate.
Se ho sempre favorito me
la mia persona. Se ho pensato
d’essere migliore d’ogni altro animale.
d’ogni altro organismo vegetale.
Se ho messo me. Se ho messo me
per prima. Il capriccio di me, l’estetica di me.
Il sollievo di me.
Perdonate se non ho guardato
con la dovuta attenzione tutte le meraviglie
quotidiane. I passaggi di luce. Le stagioni.
Certe facce. O musi. Se non ho adorato
la varietà mutevole del mondo,
se non l’ho servita, protetta da me stessa,
non abbastanza cantata, fatta entrare,
appoggiata sul fondo mio a farmi
più intonata e vigile. Perdonate
Se ho riso troppo poco. Se poco ho ringraziato
per le camminate nel bosco, per quell’ebbrezza
di gambe nell’andare, accordo delle mani in ogni semplice fare.
Se non ho ringraziato
per il dolce dormire e tenerci abbracciati
sulla sponda del buio spaventoso.
Se mai ho ringraziato perché c’erano gli altri
e anzi ne ho patito la presenza e spesso
ho preferito la voce scritta dei morti.
Perdonate ogni omissione mia, la cecità
che mi ha fatto sentire ad essere buona, l’ipocrisia
con cui mi sono assolta, la misura
del mio volere bene. E se il cane
Che festeggia al mattino la mia entrata in cucina
se è per mia consolazione inviato
affinché sia alleggerita, come del resto il sole,
le arance sul tavolino, il cioccolato, il vino.
Se tutto questo è disposto e animato perché io sia migliore, più lieta-
Perdonate le mattine scure
e l’umore nero – la testa chiusa murata
nelle sue tortuose galere, la prigionia
interiore in cui mi relego, muta e scontrosa
dimentica dei doni.
Se non sono del tutto e sempre
innamorata del mondo, della vita,
sedotta e vinta dalla rivelazione
d’esserci d’ogni cosa, e d’altro
non troppo ben nascosto – dietro l’evidenza.
Questo più d’ogni altra cosa perdonate.
La mia disattenzione.
Mariangela Gualtieri
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Quando torni da un viaggio
ti manca il “mondo là fuori“, quello lontano dalla tua comfort zone.
Ti mancano i monumenti che hai visitato con ammirazione e in religioso silenzio.
Ti manca l' intimità con il tuo io più profondo.
Ma c’è un’altra sensazione che ogni viaggiatore conosce bene.
Quando torni a casa e realizzi che nulla è cambiato.
Perché raramente qualcosa cambia davvero “a casa”.
E forse è proprio per questo che la chiamiamo “casa”.
Perché non cambia mai.
Ti fai tanti viaggi mentali quando viaggi fisicamente.
Ti chiedi: “Chissà se mi sto perdendo qualcosa“.
Pensi che qualcuno potrebbe star male.
Pensi che una volta tornato ti sentirai perso.
Hai la sensazione di perderti qualcosa di importante.
Senti quell’angoscia tipica di chi ha paura di essere rimasto indietro mentre tutti sono andati avanti.
Poi torni, scopri che le persone sono sempre le stesse. Sono rimaste quelle che ricordavi.
E non solo le persone.
Le strade della tua città, che immaginavi irriconoscibili quando eri lontano, sono identiche a come le ricordavi.
I sapori, i profumi, il paesaggio, il clima.
Il traffico, i musi lunghi della gente, gli abbracci con i tuoi cari, i tuoi gatti, la casa in cui sei cresciuto.
Tutto è uguale all’ultima volta in cui eri partito.
Le telefonate di bentornato, le serate con gli amici, le esclamazioni di sorpresa o finta sorpresa.
“Ma quanto sei dimagrito!”
Tutto è uguale all’ultima volta che eri tornato.
Non è cambiato niente.
A parte te.
Tu sei cambiato.
Tiri fuori i vestiti e ognuno di essi porta con sé ricordi travolgenti. Giorni e giorni di incontri, sorrisi ed emozioni.
Tu hai subito la vera trasformazione.
Il viaggio ti ha cambiato.
In quel momento, provi una sensazione di orgoglio ma anche un po’ di amarezza.
Orgoglio, perché improvvisamente senti il peso di tutti i chilometri che hai percorso.
Senti la responsabilità di tutte le scelte che hai dovuto prendere.
Senti tutto il valore delle esperienze che hai fatto in luoghi così lontani, non solo fisicamente, da quello in cui ti trovi ora.
E non ti importa se è andata bene o è andata male.
Ti importa di avercela fatta.
Amarezza, perché sai che le persone intorno a te non potranno mai capire cosa significa.
Pur sforzandosi, non potranno mai comprendere cosa hai passato.
E tu non sarai mai in grado di spiegarlo.In fondo viaggiamo anche per questo.
Viaggiamo anche per continuare a sentirci diversi.
Quelli con l’erba che cresce sotto i piedi.
Quelli che non si accontentano.
Quelli che non hanno alcuna intenzione di mettere la testa a posto.
Arrendersi, smettere di sognare, morire lentamente.
C’è un momento in cui capisci tutto questo.
Il momento in cui il puzzle dei tuoi pensieri si risolve all’improvviso.
Quel momento in cui capisci che nulla è cambiato intorno a te.
E sorridi.
Perché capisci che l’unica cosa che è cambiata non è una cosa.
Sei tu.
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I CAVALLI NELL’OCEANO
A Ilja Erenburg
I cavalli sanno nuotare.
Ma – non bene. Non in lontananza.
“Gloria” in russo si dice “Slava”.
Questo vi è facile ricordarlo.
La nave andava, orgogliosa del suo nome,
cercava di superare l’oceano.
Nella stiva, dondolando i musi miti,
mille cavalli calpestavano giorno e notte.
Mille cavalli! Quattromila ferri di cavallo!
Eppure non hanno portato fortuna.
Una mina squarciò la nave nel profondo
lontano, lontano dalla terra.
La gente salì sui canotti, si arrampicò sulle scialuppe.
I cavalli cominciarono semplicemente a nuotare.
E che altro potevano fare, poveretti,
se non c’era posto sulle barche e sulle scialuppe?
Nuotava lungo l’oceano un’isola color del rame.
Nell’azzurro del mare nuotava un’isola baia.
E dapprima sembrava fosse facile nuotare,
l’oceano sembrava loro un fiume.
Ma la riva di questo fiume non si vedeva,
mentre si esaurivano le forze equine
all’improvviso i cavalli si misero a nitrire, ribattevano
a quelli che nell’oceano li avevano mandati a picco.
I cavalli andavano giù e nitrivano, nitrivano sguaiatamente
finché tutti non andarono a fondo.
Ecco è tutto. Eppure io provo pena per loro –
ramati, che non hanno raggiunto la terra.
Boris Sluckij
#boris sluckij#fotografia#andaradagio#photography#nadiadagaro#poesia#animal liberation#liberazione animale#cavalli#photographer in tumblr
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Non che sia nuova a vedermi male, ho quaranta+6 anni e mi sembra di aver avuto con i miei difetti la relazione più lunga e duratura della vita.
C’è da dire che più sorrido più si vedono le rughe in un rassicurante giro giro tondo dove casca il mondo casca la terra, ma anche le chiappe, le palpebre, il sotto braccia, le tette… tutto giù per terra...
Nonostante questo bandisco i musi lunghi (ed io sono una campionessa olimpica di musi rancorosi...) e sorrido...perché quello che in fondo davvero mi manca è l’allegria 😊
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En los últimos años, los pescadores han estado recuperando tesoros antiguos por valor de millones del fondo del río Musi en Sumatra. ¿Son estos tesoros los restos del desaparecido Imperio Srivijaya?
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Bello, bello, bello mondo, bello ridere di
mondo in luce mattutina in
colorazione di mondo con stagioni e
popolazione e animali. Bello mondo
questo ricordo, questo io lo ricordo
bello, molto bello mondo, con cielo
diurno e notturno, con facce che
mi piacevano e musi e zampe e
vegetazione che mi sospirava e mi
sospirava leggera leggera, tirando
via chili e scarponi interiori che mi
infangavano, tirando via ferri da stiro
che mi portavo nel petto, e gran pulitura
di dentro. Bello, questo io lo ricordo
bello.
Io ho avuto soccorso a volte da
una piccola foglia, da un frutto così
ben fatto che dava sollievo a mio
disordine di fondo. Sì sì.
Mariangela Gualtieri (Cesena, 1951), da Fuoco centrale e altre poesie per il teatro (Einaudi, 2003)
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Perdonate se non ho guardato con la giusta attenzione
Dunque si può. Dire mi dispiace
dire perdonate e ottenere il perdono,
subito. Essere del tutto ripuliti.
Nuovi. Si può. Allora perdonate.
Se ho sempre favorito me
la mia persona. Se ho pensato
d’essere migliore d’ogni altro animale.
d’ogni altro organismo vegetale.
Se ho messo me. Se ho messo me
per prima. Il capriccio di me, l’estetica di me.
Il sollievo di me.
Perdonate se non ho guardato
con la dovuta attenzione tutte le meraviglie
quotidiane. I passaggi di luce. Le stagioni.
Certe facce. O musi. Se non ho adorato
la varietà mutevole del mondo,
se non l’ho servita, protetta da me stessa,
non abbastanza cantata, fatta entrare,
appoggiata sul fondo mio a farmi
più intonata e vigile. Perdonate
Se ho riso troppo poco. Se poco ho ringraziato
per le camminate nel bosco, per quell’ebbrezza
di gambe nell’andare, accordo delle mani in ogni semplice fare. Se non ho ringraziato
per il dolce dormire e tenerci abbracciati
sulla sponda del buio spaventoso.
Se mai ho ringraziato perché c’erano gli altri
e anzi ne ho patito la presenza e spesso
ho preferito la voce scritta dei morti.
Perdonate ogni omissione mia, la cecità
che mi ha fatto sentire ad essere buona, l’ipocrisia
con cui mi sono assolta, la misura
del mio volere bene. E se il cane
Che festeggia al mattino la mia entrata in cucina
se è per mia consolazione inviato
affinché sia alleggerita, come del resto il sole,
le arance sul tavolino, il cioccolato, il vino.
Se tutto questo è disposto e animato perché io sia migliore, più lieta-
Perdonate le mattine scure
e l’umore nero – la testa chiusa murata
nelle sue tortuose galere, la prigionia
interiore in cui mi relego, muta e scontrosa
dimentica dei doni.
Se non sono del tutto e sempre
innamorata del mondo, della vita,
sedotta e vinta dalla rivelazione
d’esserci d’ogni cosa, e d’altro
non troppo ben nascosto – dietro l’evidenza.
Questo più d’ogni altra cosa perdonate.
La mia disattenzione.
Mariangela Gualtieri
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Bello, bello, bello mondo, bello ridere di
mondo in luce mattutina in
colorazione di mondo con stagioni e
popolazione e animali. Bello mondo
questo ricordo, questo io lo ricordo
bello, molto bello mondo, con cielo
diurno e notturno, con facce che
mi piacevano e musi e zampe e
vegetazione che mi sospirava e mi
sospirava leggera leggera, tirando
via chili e scarponi interiori che mi
infangavano, tirando via ferri da stiro
che mi portavo nel petto, e gran pulitura
di dentro. Bello, questo io lo ricordo
bello.
Io ho avuto soccorso a volte da
una piccola foglia, da un frutto così
ben fatto che dava sollievo a mio
disordine di fondo. Sì sì.
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Credo che succeda anche ai migliori di stropicciare la propria vita come se fosse un vecchio foglio di carta, una brutta copia di qualcosa che reputiamo importante, parole che si cercano per descrivere la bellezza di un’emozione, ma troppo effimere per rivelare la perfezione di un concetto.
È capitato anche a me.
Ho perso il controllo del mio io relazionandomi con gli altri. L’ho perso pian piano, come quando lasciamo andare una corda perché non riusciamo a reggere il peso delle nostre paure. L’ho perso ogni volta che sono stata delusa, ferita, abbandonata da chi credevo fosse il mio “per sempre”. L’ho perso e non l’ho più cercato. Per tanto tempo. L’ho lasciato andare e basta. L’ho lasciato andare e mi sono seduta sul fondo del baratro diventando qualcuno che odiavo.
Poi ho preso diversi aerei per destinazioni casuali: Venezia, Milano, Lugano, Budapest, Napoli, Parigi. E in ogni luogo ho abbandonato sentimenti che ero stanca di provare. Ho abbandonato le mie giornate storte, i miei musi lunghi, il nervosismo senza senso e persino l’apatia. E pur non rendendomi conto l’ho ritrovato. Era nascosto in ogni risata spontanea, in ogni battito del cuore un po’ più intenso, dentro ad ogni goccia di pioggia caduta sul viso, nei granelli di sabbia che mi scivolavano dalle mani, in un abbraccio sincero che come una coperta ho portato addosso. Era lì che mi fissava e non lo riconoscevo. Il mio io è diventato un compagno di viaggio silenzioso e non aspetta altro che ricongiungersi con me.
Sono pronta? Lo spero.
Veronica D.
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Dunque si può. Dire mi dispiace
dire perdonate e ottenere il perdono,
subito. Essere del tutto ripuliti.
Nuovi. Si può. Allora perdonate.
Se ho sempre favorito me
la mia persona. Se ho pensato
d’essere migliore d’ogni altro animale.
d’ogni altro organismo vegetale.
Se ho messo me. Se ho messo me
per prima. Il capriccio di me, l’estetica di me.
Il sollievo di me.
Perdonate se non ho guardato
con la dovuta attenzione tutte le meraviglie
quotidiane. I passaggi di luce. Le stagioni.
Certe facce. O musi. Se non ho adorato
la varietà mutevole del mondo,
se non l’ho servita, protetta da me stessa,
non abbastanza cantata, fatta entrare,
appoggiata sul fondo mio a farmi
più intonata e vigile. Perdonate
Se ho riso troppo poco. Se poco ho ringraziato
per le camminate nel bosco, per quell’ebbrezza
di gambe nell’andare, accordo delle mani in ogni semplice fare. Se non ho ringraziato
per il dolce dormire e tenerci abbracciati
sulla sponda del buio spaventoso.
Se mai ho ringraziato perché c’erano gli altri
e anzi ne ho patito la presenza e spesso
ho preferito la voce scritta dei morti.
Perdonate ogni omissione mia, la cecità
che mi ha fatto sentire ad essere buona, l’ipocrisia
con cui mi sono assolta, la misura
del mio volere bene. E se il cane
Che festeggia al mattino la mia entrata in cucina
se è per mia consolazione inviato
affinché sia alleggerita, come del resto il sole,
le arance sul tavolino, il cioccolato, il vino.
Se tutto questo è disposto e animato perché io sia migliore, più lieta-
Perdonate le mattine scure
e l’umore nero - la testa chiusa murata
nelle sue tortuose galere, la prigionia
interiore in cui mi relego, muta e scontrosa
dimentica dei doni.
Se non sono del tutto e sempre
innamorata del mondo, della vita,
sedotta e vinta dalla rivelazione
d’esserci d’ogni cosa, e d’altro
non troppo ben nascosto - dietro l’evidenza.
Questo più d’ogni altra cosa perdonate.
La mia disattenzione.
Mariangela Gualtieri
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Le acque della fortuna
Le acque della fortuna
Era una calda sera d'estate, e a spasso lungo la costa del Pacifico, Winter non riusciva a darsi pace. Tutt'altro che tranquillo, non smetteva di nuotare ormai da ore, e più il tempo passava, più il suo mal di testa aumentava. Ad essere sincero, non aveva davvero idea di cosa gli stesse accadendo, ma una cosa era certa, non era piacevole. Solo poco tempo prima aveva deciso di allontanarsi dalla sua famiglia alla ricerca di un pizzico di solitudine, certo che anche solo un attimo gli sarebbe bastato, ma con il liquido specchio in cui nuotava ormai diventato capace di raffreddargli il corpo ad ogni movimento, e la luce della luna vi si rifletteva danzando sulla superficie, elegante e leggiadra, all'improvviso non era più così sicuro. Scuotendo la testa, tentò di allontanare i brutti pensieri, e fallendo anche in quel misero intento, si arrese. Richiuso in sè stesso e nel suo silenzio, si mise in ascolto, sperando di sentire, anche in lontananza, le grida della sua famiglia, ma nonostante tutto, niente. Il nulla più totale. Sconfortato, si sforzava nella speranza di riuscire a sentirli, ma attorno a lui, oltre al buio e al freddo di quelle profondità che si era ora azzardat a toccare, neanche il minimo cambiamento. Nessuno chiamava il suo nome, nessuno lo stava cercando, e senza più la luce del giorno a fargli da guida in quel così vasto oceano, lottò per tenere gli occhi aperti e orientarsi al meglio, fermandosi non appena notò qualcosa nell'acqua. Spinto dalla curiosità, si mosse in fretta in quella direzione, e fu allora che la vide. Sobria, splendente e abbandonata sul fondale, una vecchia collana fatta interamente di conchiglie bianche come la sabbia che per qualche istante gli oscurò la vista. A suo dire troppo bello per essere dimenticato, quel rudimentale gioiello non meritava una fine tanto triste, così, inabissandosi ancora, si decise. Veloce, il delfino la raccolse muovendo appena le pinne, e in silenzio, lo indossò come se gli appartenesse. Era un maschio, non una femmina, era ovvio, ma almeno per il momento, decise, l'avrebbe conservato. In totale onestà non sapeva se in origine quella collana fosse appartenuta a un altro animale marino, ad un umano a lui sconosciuto o a un membro della sua specie, e qualunque fosse la verità, lui aveva intenzione di scoprirla. Fu quindi questione di attimi, e animato da una forza che non credeva di possedere, il giovane Winter ignorò la stanchezza, continuando a nuotare senza fermarsi e sfidando la corrente che intanto aveva iniziato ad agitarsi, minacciando di vanificare tutti i suoi sforzi. Se aveva iniziato era stato per distrarsi, sgranchirsi le pinne e liberare la mente, ma ora, grazie a quel ritrovamento, tutto cambiava. Più fiducioso e sicuro di sè stesso, ora aveva una missione, e tenendo fede a quella promessa, non osò fermarsi. Passarono così altro tempo, altri minuti e altre ore, e durante quel viaggio improvviso, nato da un desiderio di giustizia, Winter si fermò a pensare. Stava davvero facendo la cosa giusta? Avrebbe soltanto perso tempo? Il legittimo proprietario della collana l'avrebbe almeno ringraziato? O era soltanto una follia. Non lo sapeva, non ne era sicuro nè poteva esserlo, ma stoico, sfidò ancora le acque. Provato da una stanchezza che non riuscì a sopportare, però, si ritrovò costretto a risalire in superficie e respirare, e nel farlo, all'orizzonte, sentì e vide qualcosa. Contrariamente a ciò che pensava, non qualcuno della sua famiglia, nè un suo simile dalla pelle grigio perla, ma bensì una barca. Sorpreso e spaventato, lanciò un grido, e abbassando il capo, sparì di nuovo fra i flutti. Protettiva sin dal giorno della sua nascita, sua madre non aveva fatto altro che metterlo in guardia dai pericoli del mare, fra i quali si annoveravano proprio le barche. "Sta lontano dai loro motori, Winter, e fa attenzione." Gli ripeteva sempre, preoccupata e attenta al suo benessere. Curioso com'era riguardo al mondo esterno, Winter si era sempre limitato ad annuire e ignorarla, troppo impegnato a giocare con gli amici per ascoltarla davvero, e proprio allora, ecco che si malediva. Lenta, la barca scivolava sull'acqua, e nascosto appena sotto il pelo dell'acqua, il giovane delfino chiuse gli occhi, e non osando fiatare, rimase in attesa. Nel silenzio, sentì le vibrazioni dell'acqua colpirgli la pelle, e non appena l'acqua smise di agitarsi, riemerse. Guardandosi intorno, trattenne il respiro senza volerlo, facendo saettare lo sguardo in tutte le direzioni. Così, guardingo, non si muoveva di un millimetro, tentando di ignorare il naturale movimento dell'acqua che lo costringeva a spostarsi di continuo, non sentì nè vide nulla. "Bene, pericolo scampato." Pensò, respirando a fondo per calmarsi. I minuti sembravano ore, e senza più dire o pensare altro, il delfino rimase lì dov'era, tremando di paura. "C'è mancato poco, vero?" disse una voce alle sue spalle, sorprendendolo. Voltandosi di scatto, Winter sentì il cuore perdere un battito, e fu allora che la vide. Dalla pelle chiara e lucente, una femmina della sua specie, con un fiore rosa appena accanto allo sfiatatoio e un sorriso sul muso. "Scusa, cosa?" le chiese lui, confuso e stranito. "La barca. L'ho vista anch'io, per fortuna non ci ha trovati." Gli rispose lei, non riuscendo a trattenere una risata. Alle sue parole, Winter mantenne il silenzio, e soltanto guardandola, potè giurare di vedere un lieve rossore emotivo imporporarle il muso. No, che stava pensando? Si erano praticamente appena conosciuti, avevano scambiato due sole parole, non poteva essere. Incerto sul da farsi, lui agitò la coda smuovendo senza volerlo una massa d'acqua, che spostandosi, solleticò entrambi. "Che stai facendo?" azzardò allora lei, colpita. "S-Scusa, non... non volevo." Balbettò lui in risposta, imbarazzato. "Su, non fa niente, capita. A proposito, sono Pearl." Continuò poco dopo la giovane, presentandosi. "Winter." Rispose subito lui, l'imbarazzo ancora sul muso e negli occhi. "Piacere di conoscerti, Inverno." Scherzò lei in risposta, scoppiando a ridere come la cucciola che più non era. Silenzioso, lui la guardò senza capire, e all'improvviso, il significato di quella battuta lo colpì in pieno. Alzando gli occhi al cielo, decise di stare al gioco, e sfiorandola con la coda, sorrise. "Piacere mio, Perla." Replicò, rigirandole quello scherzo e rispondendo per le rime. Divertita, Pearl rise ancora, e notando appena oltre l'orizzonte qualcosa che l'amico non vide, si voltò. "Mi spiace, devo andare. A presto." Si scusò, per poi abbassare la testa e sparire in quel calmissimo specchio d'acqua. Colpito da tanta fretta, Winter non seppe cosa dirle, e lasciandola andare, sentì mille parole morirgli e spezzarglisi in gola. L'aveva appena conosciuta, ed era vero, ma per quanto ne sapeva avrebbe potuto essere lei la proprietaria della collana che aveva con sè. Perdendosi nei suoi pensieri, si convinse che la nuova amica non l'avesse notata, e relegando quel dettaglio in un angolo della mente, andò per la sua strada. Dopo un tempo che non riuscì a definire, fatto di secondi, minuti e ore interminabili, riuscì finalmente a tornare a casa, accolto dagli sguardi e dalle parole colme di stupore dei familiari. "Winter! Dove sei stato per tutto questo tempo? Sono passati giorni, eravamo preoccupati!" lo riprese la madre, inviperita. "Già, dov'eri?" tentò il padre, dando manforte alla compagna di vita. Silenzioso come sempre, lui non rispose, e abbassando lo sguardo, ben sapendo che quelli di tutti gli altri non avrebbero potuto inseguirlo, si affrettò a nascondere anche la collana trovata per caso sul fondale sabbioso. Grazie al cielo nessuno l'aveva notato, e in caso contrario, che avrebbe potuto dire a riguardo? "Volevo fare l'eroe?" no, non gli avrebbero creduto, o nel peggiore dei casi, l'avrebbero preso in giro. "Avevo bisogno di stare da solo." Si limitò a dire, per poi allontanarsi ancora e sparire dalla loro vista. Trasportato dalle onde dell'oceano, finì per addormentarsi, cullato da quel moto perpetuo e dal tepore delle acque. Poco prima di dormire, volse un pensiero alla luna e alle compagne stelle, sperando ardentemente di compiere la sua missione e ritrovare il proprietario della collana che aveva ancora indosso, e con un pizzico di fortuna, data la stagione, riuscire a trovare una compagnia. Era strano a dirsi, ma ogni volta che lui e i suoi simili finivano per parlarne, lui si riduceva al silenzio, mostrandosi muto e incerto sul da farsi. A ormai quattro anni, l'età più consona, almeno per la sua specie, era convinto di poterne trovare una senza sforzi ma con pazienza, sentendo su di sè, e sul dorso baciato dal sole, il peso di quella sorta di responsabilità. Passarono giorni prima che Winter potesse rivedere Pearl, settimane prima che mille scuse e schizzi d'acqua e sale li avvicinassero sempre di più, e poi, dopo mesi di corte e nuotate in compagnia, sia alla luce del sole che al chiaro di luna, i due si erano delicatamente sfiorati i musi e stretti le pinne come lontre, per poi intrecciare le code e pronunciare l'uno all'altra soltanto tre parole. In verità, il caro Winter non scoprì mai chi avesse perso quella collana, e stanco di cercare, si decise a darla in dono proprio alla sua Pearl, che sorpresa e innamorata, la indossò con orgoglio, felice di aver trovato nel proprio migliore amico, anche un compagno di vita. Ovvio era che i delfini non fossero monogami, ma forse, in quella che il tempo aveva trasformato nell'ultima vera giornata di tiepida estate, sulla costa del Pacifico ci sarebbe stata un'eccezione, e stando a quest'ultima, quelle chiare acque sarebbero state ricordate, da animali umani, terrestri, anfibi e marini allora e per sempre, come acque della fortuna.
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Capitolo 51 - Elvis, la barba e i baci di Schroedinger (Prima parte)
Nel capitolo precedente: Dina, la migliore amica di Angie, la raggiunge a San Diego e le basta qualche ora con lei e Eddie per capire che c’è sotto qualcosa, prova a farglielo ammettere quando sono sole e in parte ci riesce. Incontra Jerry e si stupisce della nonchalance con cui Angie parla e si rapporta con lui nonostante quello che le ha fatto. Alla festa in spiaggia Dina ha ulteriori conferme dell’attrazione tra i due quando li sente parlare assieme a riva, mentre gli altri si sono tuffati per un bagno notturno. Il mattino seguente è quello in cui Angie deve partire per tornare a casa, Eddie non riesce a credere di non aver fatto nulla per dichiararsi nonostante abbia avuto ben due giorni per farlo. Fa per baciare Angie mentre dorme, ma si ferma subito. Mentre la accompagna alla stazione dei pullman hanno un piccolo battibecco quando Angie per scherzo, ma non troppo, gli dice che dovrebbe trovarsi una ragazza e che la sua amica Michelle sarebbe la candidata ideale. Esasperato dalla cecità di Angie rispetto ai suoi sentimenti, la zittisce baciandola. Nel frattempo Angie, la notte prima della partenza, sogna di nuovo Eddie e nel sogno lui la bacia. Quando poi il bacio accade davvero, alla stazione degli autobus, Angie perde la testa e sente la famigerata “musica”: Just can’t get enough dei Depeche Mode.
***
“I'm in love again, been like this before...” forse quella non avrei dovuto metterla nella cassettina, troppo diretta. Beh... le ho appena infilato la lingua in bocca, direi che ormai più diretto di così è impossibile. Appena. Sono già passate ore e presumo di non aver ancora perso il ghigno idiota che mi accompagna da quando ho salutato Angie. Alzo lo sguardo e mi vedo canticchiare allo specchio. Presumevo bene, cazzo. Continuo a ripetere mentalmente tutti i passaggi della nostra conversazione dal risveglio in poi che ci hanno portato a baciarci e... e basta, è tutto quello che riesco a fare mentre butto le mie quattro cose in valigia, pronto a ripartire e lasciare di nuovo questa casa, stavolta a malincuore. Sì, perché mentre prima la mia dimora non era altro che una sorta di rappresentazione delle mie frustrazioni, della mia solitudine e di tutto ciò che non ero riuscito ad essere e ad ottenere pur avendolo sempre voluto, adesso invece possiede un valore aggiunto in più: dei ricordi, momenti piacevoli che ho costruito assieme alla ragazza che amo, la successione di eventi che mi ha portato finalmente a dichiararmi, anche se non con le parole. Ce n'erano state di occasioni perfette prima di questa. Sul divano abbracciati, in spiaggia davanti a un falò, sulla terrazza di Pike Place Market, in cima allo Space Needle, sulla panchina di Balboa Park, perfino l'altra sera sulla pista da ballo, tutte situazioni certamente più propizie e romantiche; eppure di quei baci rubati alla stazione dell'autobus non cambierei nulla, neanche di una virgola. Però c'è da dire che se mi fossi svegliato prima adesso non dovrei aspettare una settimana per il secondo giro. Stamattina, per un attimo, ho pensato di non farla salire su quel cazzo di pullman e riportarmela qui a casa, ma Angie ha l'università, il lavoro e non ho intenzione di mettermi in mezzo tra lei e le sue responsabilità a cui tiene un sacco. E poi non volevo fare la figura del coglione sentimentale. Non ancora.
Qualcuno bussa alla porta. Chiudo la cerniera della borsa, me la tiro su in spalla, do un'ultima occhiata in giro cercando di memorizzare più dettagli possibili di questo posto ed esco.
“Sei già pronto?” Mike indietreggia appena, forse preso alla sprovvista dalla mia rapida uscita.
“E' già pronto” Jeff, al suo fianco, risponde per me.
“Confermo, pronto per partire!”
“Ed è anche contento” aggiunge il chitarrista.
“Già” Ament annuisce.
“Come mai sei contento?” i passi di Stone che sale le scale non si fanno attendere.
“Fammi indovinare: Angie non è partita!” azzarda McCready.
“Viene con noi ad Oakland!” aggiunge il mio coinquilino.
“Ci segue per il resto del tour!”
“Dio, spero di no!” Stone guarda malissimo Mike e poi mi fa un sorriso sornione “Qualcun altro però la pensa diversamente, vero?”
“Di che cazzo state parlando? Che c'entra Angie?” cerco di fare il finto tonto, ma scommetto che se avessi di nuovo di fronte lo specchio della mia stanza vedrei lo stesso sorrisetto del cazzo di prima, quindi la vedo dura.
“Dov'è?”
“Non saprei di preciso, alle 7 di stamattina l'ho messa su un pullman per Seattle, quindi presumo sia ancora là. Beh, tecnicamente era un pullman per Los Angeles, poi da lì doveva prenderne un altro per Seattle. A quest'ora ci sarà già. Sul secondo pullman. Credo” onestamente pensavo che mi avrebbe fatto uno squillo già da lì, cioè, io al suo posto l'avrei chiamata subito, alla prima sosta. Com'era la storia del coglione sentimentale? Angie è più pragmatica, avrà pensato fosse più logico chiamare un po' più in là nel corso del viaggio, a metà strada. Magari pensava stessi riposando in vista della partenza e non ha voluto disturbarmi. Come se fosse possibile chiudere occhio dopo quello che è successo.
“Ah. Quindi è partita?” chiede Jeff come se non fosse proprio convintissimo.
“Sì, certo”
“E allora come mai sei felice?” insiste Gossard, seguito dal suo socio.
“Dovresti essere triste”
“Ahah e perché? Che sono quei musi lunghi?! Non è mica andata in guerra, tra una settimana, neanche, la rivediamo” mi sembra di essere piuttosto convincente nell'includere tutta la band nel dispiacere per la partenza di Angie.
“Ah beh, sì, ovvio...” mugugna Mike.
“E lasciare San Diego? E la tua casa? Non ti dispiace?” continua Jeff con l'interrogatorio.
“Sicuramente, ma-” accenno una risposta, ma sento già che sarà superflua ancora prima di venire interrotto da Stone.
“... ma, come si dice, la casa è dove è il cuore, no?”
“E comunque non sono felice!”
“Ha! Lo dicevo io” esclama Jeff tutto soddisfatto senza alcun apparente motivo.
“Sono solo carico, per il concerto...”
“Ah. Sì, per il concerto, come no” Mikey continua ad annuire da un quarto d'ora, credo sia ancora in coma da ieri sera, l'unica cosa che mi impedisce di averne la certezza sono gli occhiali a specchio giganti che creano una barriera tra lui e il mondo esterno.
“Beh, bisogna pur trovare delle motivazioni, no? Per andare avanti...” Jeff mi mette un braccio attorno al collo e insieme scendiamo le scale e attraversiamo il giardino fino al cancelletto, seguiti dagli altri due “E comunque sei giorni passano in fretta” aggiunge sottovoce strizzandomi l'occhio.
“Ah, prima dobbiamo passare da Craig, devo lasciargli le chiavi da restituire alla padrona di casa. E salutarlo. Faccio veloce.” alzo gli occhi al cielo e cambio argomento al volo. Non vorrei proprio lasciarla questa casetta, ma non posso certo permettermi due affitti.
“Velocissimo, Kelly ci sta già aspettando.” Stone ci richiama all'ordine mentre saliamo tutti sul furgone “Abbiamo giusto quelle cinquecento miglia di strada da fare”
**
Primo squillo. Ok. Secondo squillo. La speranza c'è ancora tutta. Faccio appena in tempo ad accorgermi che sto praticamente trattenendo il fiato. Terzo squillo. Però non è detto, potrebbe esserci uno scarto di... Quarto squillo. Fanculo. Scuoto la testa. Quinto squillo. Metto giù la cornetta con forse troppa forza e lascio cadere la mano con cui mi stavo tappando l'altro orecchio per cercare di isolarmi dal casino del backstage del Real Rock Club. Fanculo il telefono e la segreteria telefonica intelligente di Jeff, che risponde dopo due squilli quando ci sono messaggi da ascoltare. Perché non chiama? Le avevo chiesto espressamente di farlo. Sarà successo qualcosa? Si sarà pentita amaramente dei nostri baci? O magari non si ricorda il numero... Che coglione, dovevo scriverglielo! Dovrebbe saperlo a memoria solo perché potrei piacergli? Recupero le monete e le infilo nuovamente nel telefono a gettoni, componendo un numero diverso dal mio stavolta, cercando di battere l'ansia sul tempo.
“Pronto?”
“Ehi Meg, ciao” grazie al cielo è a casa, è tutto il giorno che parlo da solo o col nostro messaggio da cazzoni sulla segreteria telefonica.
“Ciao Eddie! Come stai? Mi hai beccata per un pelo, stavo giusto uscendo per il turno da Roxy” quando si dice culo.
“Tutto ok, grazie. Stiamo... ehm, stiamo per salire sul palco per il soundceck, tra una mezz'oretta più o meno”
“Figo! Ci sono anche gli altri stronzi lì con te?”
“Uhm no, sono solo io...”
“Ah ecco, dovevo immaginarlo, non ho sentito Stone lamentarsi in sottofondo” Meg cerca di dissimulare la delusione con una battuta. Sicuramente avrebbe preferito parlare con qualcun altro.
“E tu invece? Come va?” le chiedo perché in fondo non voglio fare la figura dello stronzo che la chiama soltanto per chiederle della sua amica.
“Bene, dai, il solito. Allora, come posso aiutarti?” chiede lei senza perdere tempo.
“In che senso?”
“Beh, dubito che tu abbia chiamato solo per sapere come sto. Che volevi dirmi?”
“Va beh, anche per sapere come stai”
“Eddie”
“Ma niente, mi chiedevo se per caso avessi notizie di Angie...”
“Arriva domani pomeriggio, no?”
“Sì, appunto. E' che l'ho messa sull'autobus stamattina e pensavo che boh, magari si era fatta sentire nel frattempo”
“Sì, infatti, mi ha chiamata una mezz'oretta fa”
“Ah”
“E' già a San Francisco, hanno fatto una sosta lì. Mi ha detto che per il momento il pullman è in linea con la tabella di marcia, quindi domani per le due dovrebbe essere qua”
“Capisco. Beh, meglio così, no?” dai Eddie, non prendertela, l'importante è che stia bene, no? Magari la sosta è stata breve e c'era la coda per telefonare. O magari non ne vuole sapere di te, brutto stronzo.
“Già... Ma è tutto ok?”
“Certo, perché non dovrebbe?”
“Non lo so, mi sembri strano... E' successo qualcosa?” strano? Più del solito?
“No, niente! Che doveva succedere?”
“Boh, dimmelo tu”
“E' solo che eravamo rimasti d'accordo che mi avrebbe chiamato per aggiornarmi e invece non si è fatta viva, allora mi ero un po' preoccupato, tutto qui”
“Come fa a chiamarti se siete in giro a suonare?”
“Le avevo detto che poteva lasciarmi un messaggio... la segreteria sta a Seattle, ma posso ascoltarla dappertutto, no?” forse dovrei cercare di essere meno acido.
“Va beh, sai com'è fatta Angie, magari non ti voleva disturbare”
“MA GLIEL'HO DETTO CHE NON DISTURBAVA!” alzo fin troppo la voce, tanto che Meg esita a rispondermi “Ehm, scusa. Eheh”
“Stai calmo Eddie... Forse è per quello o forse non aveva abbastanza moneta per chiamare entrambi e siccome io devo andarla a prendere ha dovuto per forza chiamare me”
“Beh, sì, può essere...” in effetti non ci avevo pensato. Non le ho nemmeno chiesto se aveva moneta per telefonare. Mica solo per me, poteva servirle in generale, in caso di emergenza! Sono un cazzo di irresponsabile che abbandona le ragazze alla stazione degli autobus.
“O magari avete litigato?”
“Che? No!”
“O il contrario?”
“In che senso?” quale sarebbe il contrario di litigare?
“Va beh, va beh, se non è successo niente non hai nulla da temere, ha chiamato me per praticità. Ti chiamerà domani, tranquillo”
Non è successo niente. E' successo tutto. E' successa un sacco di roba. Però Meg ha ragione, devo stare tranquillo. Insomma, ho baciato Angie da dodici ore e sono già in modalità ansiogena. Non sono al centro del mondo, non ruota tutto necessariamente attorno a me: è in viaggio, è stanca, ha chiamato la sua coinquilina per un passaggio, chiamerà anche me appena possibile.
“Lo so. E' solo che... insomma, il viaggio è lungo. Ero in pensiero. E poi mi sento un po' responsabile, se non avessi sbagliato a dirle le date avrebbe preso un comodo aereo e sarebbe già a casa” cerco di buttarla sulla sicurezza stradale e cazzate varie, speriamo abbocchi.
“Dai, Eddie, non ti colpevolizzare. E comunque credo non le sia dispiaciuto affatto allungare la vacanza, sai?”
“Oh... ok, eheh, lo spero” a me non è dispiaciuto per niente, anzi, per quanto mi riguarda la vacanza poteva durare un'altra settimana. E non sarebbe bastata per portarla in tutti i posti che avrei voluto mostrarle, dal ristorante sulla spiaggia di Las Olas alla saletta col biliardo del Casbah, tutti i pezzetti del mio mondo che avrei voluto condividere con lei. Mi sarebbe piaciuto anche solo condividere altro tempo in macchina con lei, a chiacchierare e fare gli scemi; come quando siamo tornati a casa dalla serata allo Yates e, mentre tiravo fuori la sua cassetta dal mangianastri per cambiare lato, alla radio è partita Love reign o'er me degli Who e lei si è messa a cantarla a squarciagola e, nonostante stesse facendo scempio di uno dei miei pezzi preferiti, io non riuscivo a pensare ad altro se non a quanto suonasse perfetta la parola love, amore, pronunciata da lei. E se per caso avevo ancora dei dubbi, ci hanno pensato quei cinque minuti di canzone a togliermeli completamente: io la amo e continuo a innamorarmi di lei ogni volta che la vedo, che le parlo al telefono o che sono anche solo in attesa di fare una di queste due cose, e mi basta osservarla o parlarci un minuto per trovare ogni volta cento cose nuove da amare.
“Sì, Eddie, fidati! Scusami, ma ora ti devo lasciare, Roxy mi fa il culo se arrivo in ritardo”
“Oh certo, figurati, anzi, scusa se ti ho disturbato...”
“Nessun disturbo, ti faccio chiamare da Angie appena arriva, ok? O anche prima se la sento nel frattempo” ormai l'ha intuito anche lei che sono un disperato.
“Grazie”
“Prego. E in bocca al lupo per stasera!”
“Crepi...”
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“Maledetti stronzi” inveisco ad alta voce contro gli ignoti bastardi che hanno deciso di realizzare un'opera di arte astratta con ketchup, maionese e gomme da masticare sul sedile che sto strofinando da ore. I miei colleghi si sono scatenati con i migliori consigli per risolvere la questione e la cucina si è divisa tra i sostenitori del ghiaccio per seccare la cicca e staccarla e quelli del calore per scioglierla. Intanto però quella che deve pulire sono io!
Sento la porta scampanellare e sto per scaricare tutta l'incazzatura sul rompicoglioni di turno, che non sarà certo il colpevole di questo disastro, ma è pur sempre uno stronzo che non sa leggere la scritta CHIUSO sul vetro.
“Siamo chiu...” alzo la testa e rivedo una faccia sparita da un po', anche se me la ricordavo diversa.
“Ehi Meg”
“Da quando in qua hai la barba?” non gli sta male.
“Oh eheh beh, da un po'” risponde ridacchiando e grattandosi il mento insolitamente ricoperto di peli, come una buona parte del viso.
“Provi nuovi look?” solo ora mi rendo conto di essere ancora a carponi sul sedile e mi tiro su di scatto.
“Prova che è iniziata in maniera del tutto casuale, diciamo che ho trasformato la sciatteria in look”
“Ci state invecchiando in quello studio di registrazione, in pratica” scherzo mentre si avvicina e improvvisamente mi tremano le ginocchia.
E a questo punto mi sembra chiaro che ho qualche rotella fuori posto, che ci deve essere per forza qualcosa che non va in me. Perché sono giorni che mi dispero per non essere riuscita a tornare con Mike, per la sua decisione di starsene da solo, la prima decisione che abbia mai preso da quando lo conosco, lui, che non ha mai saputo cosa voleva e proprio adesso che lo sa, sa che non sono io. E insomma, io sono qui a farmi le paranoie sul mio ex, poi arriva Matt e mi bastano due mossette per non capire più un cazzo e... com'è che fa Mike di cognome?
“Più che altro invecchiamo in sala prove, tecnicamente nello studio ci dobbiamo ancora entrare, per l'album vero e proprio”
“E cosa aspettate?”
“Eheh di perfezionare il demo e avere le idee più chiare”
“Da quel poco che ha sentito, mi sembrano già abbastanza chiare”
“Non vedo l'ora di registrare con Ben, credo porterà una ventata d'aria nuova nel disco”
“Concordo. Allora? Quand'è che iniziate a registrarlo? Così mi faccio un'idea di quanto tempo ancora sparirai dalla circolazione...”
“Tra poco, in primavera... Comunque, a questo proposito, avrei proprio bisogno di parlarti, Meg”
“A proposito dell'album?”
“Eheh no, a proposito della mia sparizione. E di altre cose”
“Capito. Ok, spara”
“Uhm no, non qui. Magari quando hai finito. Ti accompagno a casa?”
No. NO. No, Meg, non puoi. Non puoi andare a letto con Matt stasera. Se la prima volta è stata una stronzata, questa sarebbe una stronzata al cubo. Non puoi scopartelo ogni volta che va male con Mike. Mike McCready! Ecco com'era.
“In realtà sono con la mia macchina”
“Hai una macchina? Da quando?” domanda sinceramente sorpreso.
“Probabilmente da quando tu hai la barba, più o meno”
**
E' mezzanotte passata, Matt e io siamo seduti sul cofano della mia Impala a parlare di Ballard, del tour dei Mookie... ehm, dei Pearl Jam e di quanto è insopportabile l'infermiera del secondo piano, passandoci e ripassandoci una bottiglia di vino rosso scadente a vicenda.
“Quand'è che andiamo al sodo, Matt?” gli faccio a un certo punto, correggendo il tiro immediatamente dopo “Cosa volevi dirmi?”
“Ah sì. Beh, ecco... per prima cosa volevo chiederti, ecco, sento di doverti delle scuse”
“Scuse? Per cosa?” qualsiasi cosa sia, ti perdono, a prescindere.
“Per come mi sono comportato, per come ti ho trattata dopo quello che è successo, per come ho trattato la... faccenda in generale”
Nome in codice: Faccenda.
“Ma non l'avevamo già chiarita? La faccenda?” se parlassi di una cosa del passato che vuoi assolutamente rifare entro i prossimi quindici minuti la chiameresti faccenda?
“Non proprio. Cioè, abbiamo semplicemente fatto finta di niente” risponde facendo spallucce.
“E non era forse la cosa migliore da fare?” pongo la mia domanda retorica a cui ovviamente lui non potrà che rispondere no, appena prima di saltarmi addosso.
“Sì, ma...”
COME Sì?
“... ma no” ecco, così va meglio.
“Che vuoi dire?” fingo di non capire e mi preparo psicologicamente alle prossime avances dell'angelo barbuto. Ovviamente non posso starci subito, questo è fuori discussione, devo porre un minimo di resistenza morale all'inizio.
“Che ho fatto lo stronzo. Mi sono reso conto di essermi comportato in maniera molto fredda con te, quasi cinica, non vorrei pensassi che... beh, che quello che abbiamo fatto...”
“Che la faccenda”
“Eheh sì, che la faccenda non contasse nulla per me o cose del genere”
“Ma no, Matt, tranquillo”
“Ok, è stata una cosa avventata e poco ragionata”
“Direi per niente”
“Una cosa sbagliatissima”
“Certo” anche se, addirittura il superlativo, mi pare un tantino esagerato, no?
“La cazzata più grande che potessimo fare”
“Ok” qualcosa mi dice che stasera non si tromba.
“Però se l'ho fatto è perché in quel momento lo volevo e non solo tanto per, come passatempo. Ci tengo a te”
“Lo so, anche per me vale la stessa cosa”
“Abbiamo sbagliato, ma non sono pentito, è stata comunque una cosa bella in fondo, non credi?”
“Sì... molto bella” forse sì, si tromba.
“Ti chiedo scusa se ti ho dato una brutta impressione, se ti ho trattato male e ti ho evitata, è che non sapevo come comportarmi. Allontanarmi mi sembrava la soluzione migliore ed essere freddo con te era la maniera più facile”
“E' tutto ok, Matt, davvero. L'avevo capito”
“E sono pronto anche a dirlo a Mike se vuoi, voglio assumermi le mie resp-”
“NO! Ehm, cioè, non è necessario. Insomma, già non è che sia proprio ansioso di parlarmi e vedermi, se sapesse una cosa del genere con lui avrei chiuso. E poi non mi sembra il caso di fare casino per niente, tanto non succederà più, no?” insomma, succederà o no? Voglio delle risposte.
“Oddio, no, ovvio!” questa risposta fa cagare, avanti un'altra, grazie.
“Ecco, allora meglio lasciare le cose come stanno” qualcuno mi spieghi il senso di questa conversazione se non serve a portarmi a letto.
“Ad April l'ho detto però” sento che sta per arrivarmi la spiegazione.
“April?”
“Sì, la conosci, è amica di Stone...”
“Ma chi, quella che suona il violino?”
“La viola!”
“Beh, quel che è, ci assomiglia. Ma perché le avresti raccontato di noi, scusa? Non sapevo nemmeno vi conosceste, cioè, non credevo foste in confidenza”
“Non lo eravamo. Poi ci siamo conosciuti meglio”
“Ti sei messo con April?”
“No!” ah ecco meno male “Siamo usciti qualche volta, insomma, siamo all'inizio” meno male un cazzo.
“Capisco” inizio di che cosa, scusa?
“L'inizio di cosa non lo so nemmeno io, eheh, comunque, staremo a vedere”
“E com'è che in questo inizio invece siete finiti a parlare di me?”
“Oh beh, ecco, stavamo parlando dei nostri ex e delle nostre esperienze passate e io le ho parlato di te. Senza fare nomi, ovviamente! E mentre le raccontavo la faccenda, April mi ha aiutato a capire, mi ha aperto gli occhi. Grazie a lei mi sono accorto di quanto sono stato stronzo”
“Ah però”
“E' stata lei a dirmi che avrei dovuto chiarire con te. E scusarmi” la tipa ne sa una più del diavolo, non c'è che dire, non voleva che il suo bello avesse questioni in sospeso con altre e gli ha suggerito un bel discorso pacificatore. E di chiusura.
“Wow, beh, io la conosco solo di vista, ma da quel che dici sembra una tipa in gamba”
“Lo è” Matt ha lo sguardo perso che buca il parabrezza e io non mi sono mai sentita tanto fuori posto in tutta la mia vita.
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LATO A
Can't help falling in love (Elvis Presley)
I want to tell you (The Beatles)
You're all I need to get by (Marvin Gaye and Tammy Terrell)
When you dance I can really love (Neil Young)
Can't keep it in (Cat Stevens)
Two hearts (Bruce Springsteen)
LATO B
I wanna be your boyfriend (Ramones)
You really got me (The Kinks)
Love you more (Buzzcocks)
Here comes my girl (Tom Petty)
Thank you (Led Zeppelin)
Don't talk (put your head on my shoulder) (The Beach Boys)
Afferro il foglietto su cui ho annotato i titoli delle canzoni della cassetta di Eddie e faccio per rimetterlo a posto quando stiamo per arrivare. Non ho visto il cartello BENVENUTI A SEATTLE, a dire il vero non l'ho mai visto, né la prima volta che ci ho messo piede né tutte le altre volte che ho fatto avanti e indietro dalla mia città di adozione, quindi potrei essermelo perso, ma potrebbe anche darsi che non esista nemmeno un cartello del genere. Appoggio il foglio sullo zaino che tengo sulle gambe e ne osservo le pieghe fatte e disfatte ogni volta che l'ho tirato fuori e rimesso nella custodia, la grafia resa incerta dalle buche, dalle frenate e dalle parole inattese. Il primo pezzo mi ha spiazzata perché Elvis era onestamente l'ultima persona che mi aspettavo di sentire fra i preferiti di Eddie, per nessun motivo in particolare, semplicemente non l'ho mai associato a lui, anche se da lì ho cominciato a scorrere mentalmente vari brani del Re e a pensarli coverizzati da lui. I Beatles me li aspettavo un po' di più e immaginavo anche che avrebbe scelto un pezzo un po' più ricercato rispetto ai soliti noti. Sul Motown sound di Marvin e Tammi mi è caduta la mascella e forse anche la penna con cui man mano scrivevo, perché quel pezzo è uno dei miei preferiti in assoluto e non me lo aspettavo per un cazzo. Neil Young e Springsteen erano i più telefonati, un po' come i Ramones ad aprire il lato B, mentre quella di Cat Stevens è stata un'altra chicca che mi ha stupita positivamente. Sulla parola got del pezzo dei Kinks la penna ha ceduto, perché mentre sorridevo tra me e me, pensando al fatto che anche in quel caso avesse in un certo senso risposto alla mia cassetta selezionando un pezzo diverso di una band scelta anche da me, mi sono messa a scorrere con lo sguardo tutti i titoli precedenti, leggendoli di seguito come se si trattasse di un'unica frase, di un messaggio e... Ovviamente no, non diciamo cazzate, è un caso. Quando ho sentito i Buzzcocks ho pensato che forse il lato B sarebbe stato quello più punk e più movimentato e ho scritto il titolo della canzone in caratteri piccolissimi; invece poi è arrivato Tom Petty e mi stavo giusto chiedendo quando l'avrebbe messo, seguito dai Led Zeppelin, che mi fanno stare lì a pensare al motivo per cui Eddie dovrebbe ringraziarmi. Io non ho fatto nulla e forse è da lì che parte tutto il casino, perché non ho fatto altro che essergli amica e stargli vicino in alcune situazioni e lui magari si sente in debito e forse proprio per questo motivo ha fatto altrettanto. E ha confuso questa vicinanza per qualcos'altro. E quindi i casi sono due, o ha pianificato tutto, cassetta e baci, o la cassetta non vuol dire un cazzo, i pezzi sono solo un caso, e mi ha baciata solo perché... boh, perché gli è venuto di farlo. Magari era fatto. Si vede che non sono solo gli acidi a renderlo affettuoso. Mentre facevo queste considerazioni, l'ultima canzone poi, dei Beach Boys, al momento giusto, quasi potessero sentirmi, come se avessero ascoltato il mio monologo delirante interiore e mi avessero invitata a stare zitta, facendomi tacere proprio come aveva fatto qualcun altro qualche ora prima, senza parlare. Con la coda dell'occhio vedo la sagoma del Kingdome alla mia sinistra entrare prepotentemente nel mio campo visivo, distogliendomi dai miei pensieri insensati. Piego il foglio, prendo la cassetta dalla tasca anteriore dello zaino e ce lo rimetto dentro, per poi cacciare il tutto di nuovo in borsa molto rapidamente.
Quando scendo dal pullman non mi sento più il culo, faccio una specie di stretching piuttosto imbarazzante e non mi sembra vero di poter stendere le gambe e camminare e non doverci salire mai più, tanto che quando attraverso la strada e vedo Meg che si sbraccia dal finestrino della sua macchina quasi mi dispiace: me la farei volentieri a piedi fino a casa.
“Poi mi spieghi come cazzo hai fatto a sopravvivere 30 ore su un pullman” è il saluto della mia coinquilina non appena lancio lo zaino nel bagagliaio, per poi richiuderlo e buttarmi sui sedili di dietro.
“Non lo so nemmeno io, comunque ciao anche a te”
“Ciao Angie, benvenuta sul mio taxi, dove ti porto?” scherza ironizzando sul mio essermi seduta dietro.
“A morire a casa, perché le ore sono state precisamente 32 e stasera lavoro pure”
“Va beh, anche tu ti vuoi male, perché non hai chiesto un'altra giornata a Roxy?” chiede come se fosse la cosa più facile del mondo, come se non ci lavorasse anche lei e non sapesse com'è l'andazzo.
“E' già tanto che mi abbia dato questi giorni, non volevo tirare troppo la corda” rispondo sbadigliando e accasciandomi sullo schienale.
“NON PENSERAI DI DORMIRE ADESSO?” la voce perentoria di Meg mi fa spalancare gli occhi di colpo proprio quando stavo cominciando a sbavare sulla camicia di Morfeo.
“Perché no?”
“Perché devi raccontare!”
“Raccontare cosa?” trovo un elastico uscito da chissà dove nella tasca della giacca e mi lego i capelli.
“Come cosa? Tutto! Com'è andata a San Diego?”
“Bene”
“Bene?” insiste voltandosi completamente verso di me.
“Sì, tutto bene. Non dovresti guardare la strada comunque?”
“Bene... e poi?” continua seguendo il mio consiglio.
“E poi niente, tutto ok”
“Ahah sì va beh, pensi seriamente di cavartela così?”
“Penso che sarai così gentile e carina da rimandare questa conversazione a domani”
“Sì, ma dammi qualche anticipazione, raccontami qualcosa!”
“Stone e Jeff hanno scommesso con gli altri sul fatto che qualcuna di noi sarebbe andata a trovarli in tour e i perdenti si sono esibiti in un tributo ai Village People in una squallida discoteca in stile anni Settanta” dico tutto d'un fiato sperando di averla spiazzata abbastanza da impedirle di fare altre domande.
“Questo l'hai sognato sul pullman o qui in macchina nei dieci secondi in cui hai chiuso gli occhi?”
“Ahahah nessuno dei due, è successo davvero”
“Dimmi che stai scherzando oppure dimmi che hai delle prove fotografiche di questa cosa” si gira di nuovo a intermittenza, cercando di capire dalla mia espressione se la sto prendendo per il culo o no.
“La seconda che hai detto”
“ODDIO LE DEVO VEDERE ASSOLUTAMENTE”
“Guarda avanti, Meg!”
“A casa me le fai vedere”
“Se ci arriviamo”
“Ok, faccio la brava... E per il resto?” no, a quanto pare la botta dei Village People non è stata abbastanza forte.
“Tutto ok, il concerto è stato figo, metà del pubblico erano amici di Ed” resto vaga, come se non sapessi dove vuole andare a parare.
“Hai conosciuto i suoi amici? Come sono?” lei non insiste, probabilmente ha deciso di cambiare strategia e assecondarmi per poi fregarmi in un'altra maniera.
“Simpatici. E tutti surfisti praticamente”
“Uhm interessante! E Eddie com'era?” appunto.
“Oh è stato bravo, ormai sta diventando un animale da palcoscenico, non è più timido come prima”
“Bene, benissimo. E giù dal palco, com'è stato?” ri-appunto.
“In che senso?” forzo un altro sbadiglio e appoggio la testa al finestrino.
“Sì, insomma, com'è andata con lui?”
“Bene”
“Mi spieghi cosa cazzo vuol dire bene?! Sii più chiara!”
“Ehi non ti agitare! Bene, nel senso che mi ha salvato la vita, ospitandomi eccetera. E mi ha fatto fare la turista portandomi in giro, me e anche Dina che è venuta da Los Angeles!”
“Alla fine ce l'ha fatta! Anche lei ospite a casa di Ed?”
“No, è venuta solo il giorno del concerto, dal pomeriggio, ed è andata via la sera stessa. Beh, più notte che sera. Quasi mattina, ecco, dopo la festa in spiaggia”
“E com'è andata la festa in spiaggia?”
“Bene”
“Angie, quant'è vero iddio...”
“Bene, è stata una bella festa! C'era la musica, c'era da bere, la compagnia... a un certo punto si sono tuffati tutti nell'acqua gelida” io ci riprovo a buttare tutto su aneddoti che riguardano altre persone, magari alla lunga funziona.
“E sono sopravvissuti?”
“Sì, strano ma vero. Inutile dire che io non ho partecipato”
“Chi l'avrebbe mai detto! Eddie invece?”
“Eddie neanche, si è rovinato il divertimento stando con me a farmi da balia” gli ho guastato la festa e ho dato modo ai suoi amici di rendersi conto che sono una specie di ameba.
“Sì, me lo immagino. Comunque non mi hai ancora risposto...”
“Ah no?”
“No”
“E qual era la domanda?”
“Stai cercando di esasperarmi?” no, sto solo cercando di non dirti un cazzo.
“No! Ho solo sonno, ho dormito poco e male”
“Com'è andata con Eddie? E' successo... qualcosa?” Meg cerca di incrociare il mio sguardo nello specchietto retrovisore e io la evito maldestramente.
“In che senso?”
“Beh, non so... sei stata lì due giorni... la casa era piccola...”
“E allora?”
“Magari avete dormito assieme?”
“MEG!”
“Che ho detto?! L'avete già fatto, no?”
“Quante volte te lo devo dire che abbiamo dormito e basta?”
“Ma guarda che ti credo, infatti anch'io ho parlato di dormire e basta”
“E comunque è stato un incidente”
“Niente incidenti a San Diego?”
“No” a parte il frontale con le sue labbra, niente.
“Nemmeno un pisolino a due sul divano?”
“No, Meg”
“Un bacetto in spiaggia al chiaro di luna?”
“No” sarò stata abbastanza convincente?
“Due coccole al parco?”
“Nooo”
“Una mano sul culo in discoteca?”
“Ahah no! Almeno non da parte Eddie. Comunque abbiamo ballato ass-”
“COSA VUOL DIRE NON DA EDDIE?”
“E' una lunga storia. Comunque è ufficiale: Eddie balla di merda anche da sobrio”
“Ok, ma io voglio sapere di chi era la mano incriminata!”
“Mike Starr. Lui sì che sa ballare”
“CHE COOOSA?!”
“Abbiamo ballato così, per ridere! Comunque sa ballare davvero, mi ha detto che ha preso lezioni”
“Oh cazzo... ha preso lezioni anche di mano morta”
“E' stato un incidente”
“La tua vita è costellata di piacevoli incidenti, te ne sei accorta?”
“In netta minoranza rispetto a quelli spiacevoli, fidati”
“Comunque, Eddie non si è fatto avanti nemmeno stavolta allora? Non ci posso credere, è proprio un coglione”
“O forse semplicemente non gli interesso, no? Sei tu che ti sei fissata con questa storia”
“Adesso capisco perché non l'hai chiamato”
“Che vuoi dire?” abbandono la mia posizione accasciata e mi raddrizzo, mettendomi a sedere in modo quasi normale.
“Eddie mi ha telefonato ieri per sapere se avevo tue notizie, era preoccupato perché gli avevi detto che l'avresti chiamato e invece non ti sei fatta sentire. E ora capisco anche il perché”
“Ma... figurati! Non l'ho chiamato perché avevano il concerto, non volevo rompere le palle”
Cazzo.
“Il ragazzo invece aspettava ansiosamente un tuo messaggio in segreteria”
Cazzo cazzo cazzo.
“Chiamerò più tardi, prima di andare al lavoro”
“Perché non adesso? Dopotutto devi solo dirgli che sei viva e stai bene?”
“Ma sì, ora vedo...”
“Invece ora torniamo alla mano di Mike Starr per favore?”
“Meg, piantala e pensa a guidare, PER FAVORE”
**
E' ovvio il perché, è tutto chiaro: vuole sapere se sono arrivata perché vuole chiamarmi, vuole chiamarmi per parlare di cosa è successo ieri mattina, vuole parlare di ieri mattina per dirmi che è stata una grandissima stronzata e che non si ripeterà più e che spera che questo non rovini la nostra amicizia. Insomma, tutte cose che so già da me e che quindi gli risparmio volentieri. Il pisolino è stato deleterio perché ho più sonno di prima, ma la doccia mi sveglia abbastanza da permettermi di sgattaiolare lesta via di casa evitando ulteriori domande da parte di Meg. Salgo in macchina e faccio per mettere su la cassetta di Eddie che mi sono portata dietro, ma all'ultimo ci ripenso, la infilo nel vano portaoggetti assieme alle altre e accendo la radio. E io ci provo a concentrarmi sulla strada e sui Fleetwood Mac che partono proprio in quel momento, ma com'è che invece continuo a sentire i Depeche Mode e il tocco dei polpastrelli di Eddie sui miei polsi e il sapore della sua bocca? Sono così concentrata nella guida che ho praticamente messo il pilota automatico e mi ritrovo nel parcheggio della tavola calda senza aver capito bene come ci sono arrivata. Stringo il volante e lo prendo a leggerissime testate un paio di volte, non so perché, forse nel tentativo di far uscire letteralmente Eddie dalla mia testa. Un'ascia bipenne penso mi sarebbe più utile, dopotutto con Zeus e Atena ha funzionato. Una volta al lavoro non c'è tempo per le chiacchiere, un paio di minuti per il bentornata da parte dei colleghi, una battuta di Brian sulla mia mega-abbronzatura Californiana (guance e punta del naso vagamente rosati), e sono subito sotto a servire i clienti. Lavorare non mi dispiace, almeno mi posso distrarre ed evitare di pensare ad altro. Il problema è che riesco a pensarci lo stesso. Almeno fino a quando uno dei miei tavoli non viene occupato da un vecchio amico e dal cantante cagacazzo della sua band, forse l'unico in grado di non farmi pensare a Eddie per cinque minuti. Il cagacazzo ovviamente, non l'amico.
“EHI PURPLE RAIN!” il sopracitato mi accoglie col suo solito sorrisetto del cazzo.
“Idaho è passato di moda?”
“Ciao Angie”
“Ciao Dave, come stai?”
“Ho deciso di svecchiare un po' il mio repertorio” Kurt risponde aspettando diligentemente il suo turno.
“Tutto ok, grazie. Anche se non mi sono ancora comprato la moto. Tu? Ti vedo bene, mi piacciono i tuoi capelli!”
“Grazie. Comunque per comprarti la moto devi prima pubblicare l'album. E venderne qualche copia”
“Per pubblicarlo dobbiamo prima registrarlo, cosa che ufficialmente non abbiamo ancora iniziato a fare” Kurt, strano ma vero, dice una cosa seria, normale e non sarcastica nei miei confronti.
“E che aspettate?”
“Tra un mesetto dovremmo andare in California per le registrazioni vere e proprie. Tu invece ci sei già stata, giusto? A proposito, com'è andata?” mi chiede Dave come se nulla fosse.
“Come... che ne sai che ero in California?”
“Già, che ne sai?” chiede anche Cobain, guardandolo di sottecchi.
“Beh, sono passato ieri e il tuo collega me l'ha detto.” rivela indicando Brian che non si fa mai gli affari suoi, dopodiché porta le mani in avanti come per difendersi “Ma giuro che non ti sto stalkerizzando!”
“Anche perché in tal caso non mi sarei mai prestato a fargli da complice” aggiunge il biondo.
“E non ci saranno serenate o stronzate del genere, promesso!”
“Gli ho detto che se succede ancora lo caccio dalla band”
“Uhm... ma per cacciarlo deve essere nella band... Hai capito Dave? E' ufficiale: TI HANNO PRESO!”
“ODDIO Sì! EVVAI!” Dave mi batte il cinque e Kurt ci guarda schifato.
“Forse avete sbagliato locale, l'open mic è al comedy club dall'altra parte della strada”
“Comunque... ero passato perché ti cercavo”
“Ma va, davvero?” ironizza il cantante per poi iniziare a spulciare il menù.
“Devo chiederti una cosa e ti assicuro che non è come sembra” Dave mette già le mani avanti e com'è che invece ho l'impressione che sarà proprio come apparirà?
“Ok, spara”
“Usciresti con me domani sera?”
Appunto.
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I ghiacciai dell’emisfero nord si stanno ritirando dal mare
I ghiacciai dell’emisfero nord si stanno ritirando dal mare
2000 – 2020. In tutto l’emisfero settentrionale, più di 1.700 ghiacciai alla loro base immergono i loro musi ghiacciati nell’oceano. Molti di questi fronti glaciali galleggiano, con alcuni che si estendono in ampie piattaforme di ghiaccio piatte. Altri sono a terra, collegati al fondo marino sottostante. Quasi tutti si stanno ritirando. Questa è la conclusione di una recente ricerca di William…
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[ Hunter & Joshua _ 31/08/20 _ Night _ #Ravenfirerpg _ ]
* La vita era come un giro di Poker, come quel giro di Poker che sicuramente sarebbe finito male, che avrebbe portato le persone allo sbaraglio, in bancarotta. Spesso, però, ad andare in bancarotta non erano le tasche di pantaloni già bucati, ma le anime che si nascondevano dietro a quei brutti musi, a quegli eleganti vestiti, dietro ad un paio di occhiali da vista impolverati o sporchi di sogni che mai avrebbero potuto avverarsi. La vita era sempre pronta a far perdere la dignità ad un piccolo fanciullo e, come una matrigna, quel fanciullo non era selezionato, era un fanciullo qualsiasi. Quel fanciullo, quella sera, era proprio il giovane Cook. La vita non era mai stata ciò che quel tipo si era aspettato e seppur fingeva sorrisi, eleganza e positività, Hunter era un umano segnato dal rifiuto, da circostanze non favorevoli, da evasioni e ritorni, da vittore e da sconfitte, troppe sconfitte così come troppe consapevolezze. Non vi era mai stata religione in quel giovane, ma quella sera non vi era neppure etica e politica. Era soltanto un umano. Un umano perso nei meandri delle sue allucinazioni. Barcollava con una bottiglia di vodka fra le dita, vuota, o pressoché vuota. Nessuno, neppure lui, conosceva la strada del ritorno, di qualsiasi ritorno, in qualsiasi senso. Passo dopo passo, la sua mente, forse la parte più recondita, segreta, particolarmente disagiata, trasportò quel corpo suo davanti casa dei Maffei. I Maffei. Ah, i Maffei. * « Quando finirà di girare la terra, moriremo? » * Gli occhi chiusi, le labbra socchiuse, ma l’anima, quella, leggibile, forse fin troppo. * Joshua Maffei " La vita è una. Goditela finché puoi " . Così si diceva, eppure per Joshua tutto era cambiato da qualche mese a questa parte. La vita era un gioco, una menzogna, un incubo. Egli lo sapeva bene e a causa di ciò aveva iniziato a fare delle cose che fino a poco tempo prima non avrebbe mai pensato di fare. Il fumare era una di quelle. Come il suo migliore amico, anche lui era caduto in quel circolo vizioso ed al momento nemmeno la sua famiglia ne era a conoscenza. Con solo un giacchetto di jeans /lasciato sbottonato/ a coprirgli le spalle, il veggente si trovava a fumare in cortile. Tuttavia, sentendo dei passi avvicinarsi sempre più alla sua dimora, buttò la cicca per tornare e rientrare in casa. Pensava fosse Nicole, invece si ritrovò davanti la figura di un ragazzo che conosceva fin troppo bene. Hunter. Eppure non era "solo". L'umano aveva con sé una bottiglia d'alcool /che pareva quasi finita/. Che cosa ci faceva lì? Non solo il Maffei non sopportava il suo comportamento, quella sera avrebbe dovuto affrontarlo persino ubriaco? 《 È probabile che siamo già morti e non ce ne siamo accorti. 》 Mormorò, roteando gli occhi al cielo. Era già bello che andato. 《 Hunter, sei ubriaco. Perché non torni a casa? Ti accompagno, a patto che non ti lamenti e non critichi. 》
Hunter Adam Cook Carpe Diem. Si era sempre nominato fra i banchi di scuola quel concetto, ma Hunter non aveva mai compreso che quel concetto sarebbe stato allo stesso tempo la sua benedizione e la sus condanna. Carpe diem: l’aveva conto quel fiore della giovinezza e dei sogni, aveva compiuto quell’azione quando era tornato a Ravenfire dall’esperienza italiana, ma quella sera quel fiore gli era scivolato fra le mani o forse ne aveva colto più di uno. Tutto in quel /suo/ mondo interiore era lecito, perfino mentire a se stesso. E avrebbe continuato a mentire per una vita intera se gli fosse bastato per stare bene, se gli fosse bastato per mettere al proprio posto ogni tassello di quella perduta e maledetta città che lo faceva sognare, maledicendolo. Barcollava, d’altra parte Hunter aveva sempre barcollato nella sua vita, anche quando in realtà tutto sembrava andare per il meglio. Si sentiva costantemente sul filo del rasoio, sul filo del giudizio degli altri, sul filo di una vita sognata in modo diverso. Quella sera barcollava, ma non sembrava mollare, dopotutto, non fino a quando il suo corpo fu fermato dall’udir quella voce insolita e orribile di... Maffei. Per un momento gli occhi di Hunter si aprirono meglio per osservare il ragazzo e non riuscì a fingere di notare quei muscoli nascosti. Sorrise leggermente per poi guardare la bottiglia. * « Signor Maf-Coso, dovrebbero denunziarti perché vai in giro così! » * Accennò una risata e poi continuò dopo non aver compreso neppure un’acca di quello che gli aveva detto il giovane. * « Vuoi assaggiare anche tu? È squi-si-to. » * Fece per sculettare ad ogni sillaba di quell’aggettivo. * « Ah... quindi siamo tutti morti. Mi dispiace di non .... come si dice? Di non aver avuto tempo di litigare ancora con te! » * Rise ancora ed incrociò i piedi, sarebbe caduto. Sarebbe caduto, davvero! * Joshua Maffei I protagonisti di quella serata erano esattamente i due ragazzi appartenenti alle famiglie rivali. Price e Maffei. Il Maffei, però, buono, gentile e altruista, non considerava l'altro un vero e proprio nemico. Egli non era mai stato ostile nei confronti dell'altra famiglia, se non nei comportamenti del singolo, che molte volte lo aveva deriso per motivi a lui sconosciuti. 《 Non assaggio niente, non mentre tu stai così. E sì, avrai modo di litigare quando starai meglio. 》 Disse a quel singolo che si trovava di fronte a lui e che, purtroppo o per fortuna, non avrebbe avuto la forza di prenderlo in giro, né di opporsi ad un possibile aiuto, perché sì, non appena lo vide barcollare di nuovo e incrociare i piedi, Joshua si affrettò ad avvicinarglisi, posando un braccio attorno alle sue spalle per evitare che cadesse. Aveva fatto quel gesto senza se e senza ma, mandando al diavolo le possibili lamentele da parte del Cook. 《 Forza, vieni con me. 》 Dicendo ciò, si avviò verso la macchina, con l'altro tra le braccia, che a stento riusciva a camminare. Hunter Adam Cook * Non vi era rivalità che non poteva nascere da interessi comuni, o forse da un interesse e basta. Era un concetto estremamente delicato eppure nel mondo molti rapporti sociali funzionavano secondo questo meccanismo contorto. Si vedeva l'altro come un rivale eppure quell'altro non era nient'altro che una persona molto, ma davvero molto vicina, o forse addirittura un'anima fin troppo simile. Ma la rivalità, quella rimaneva, quella era la punta visibile di un iceberg che sembrava poter emergere solo grazie all'alcool. Maffei e Price e... un alcolico, una sbronza. Era in questo senso che l'alcool, trasformandosi in un sottotitolo di un libro politico, avrebbe trasformato quella serata, avrebbe spinto i due nemici ai due poli diversi o forse li avrebbe messi spalla contro spalla, o meglio occhi contro occhi. Quel sottotitolo avrebbe fatto la differenza; esso era esattamente come quell'ultimo dato di un problema di socioeconomia che avrebbe potuto cambiare tutto lo scenario. Un Maffei ed un Price acquisito non peggio della chimica, erano un boom economico. Alla risposta di Joshua, gli occhi di Hunter si assottigliarono, cercando di metterlo a fuoco meglio, e alla fine scoppiò in una risata contenta. Avrebbe litigato, ah! Che bello! Ma, l'attimo dopo fece una faccia strada come se fosse pronto a fare una smorfia. * - Non c'è gusto se.... Litighiamo senza alcool. Sei troppo piccolo e brillantinato, dovresti... bere... I brillantinati bevono meglioooooooooooo - * Disse ed era pronto a cadere, a sfracellarsi letteralmente la faccia, provando a fare lo stilista sexy ubriaco, ma.... Joshua lo toccò, gli mise un braccio intorno alla spalla. Gli occhi di Hunter si sciolsero, nessuno gli aveva mai salvato la faccia. Sbatté le palpebre, avrebbe voluto dire qualcosa, ma erano tutte cazzate. Avrebbe voluto, ma le disse anche. * - Devo insegnarti anche a fare la barba... hai un pelo qui. - * E con fare bambinesco gli indicò con l'indice una parte tra il naso e la bocca e poi rise, comprendendo che ora forse era al sicuro del nemico . *
joshua Maffei
La rivalità, quella che mancava al giovane dagli occhi color cielo nei confronti dei suoi relativi nemici. Ma come avrebbe mai potuto essere nemico di qualcuno che lo era di se stesso? L'unica e vera rivalità era l'uomo, fatto di desideri a cui poter aspirare e contraddizioni che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita. La rivalità esterna era solo frutto di una liberazione che partiva dall'interno. Eppure a volte vi si incontravano degli ostacoli. L'alcool, altro protagonista di quella serata, ne era un esempio. Esso era un'ostacolo che /però/ avrebbe taciuto un possibile scontro tra i rappresentanti dei due partiti politici; un ostacolo che avrebbe alleviato la tensione che si sarebbe potuta venire a creare. Ora, infatti, vi era solo un Maffei intento a recuperare un Price ormai lontano dalla realtà che lo circondava. 《 Mhmh, potremo litigare una volta a casa. 》 Gli rispose per accontentarlo, per zittirlo, così da poter fare ciò che andava fatto. Di certo non poteva lasciarlo lì in quelle condizioni, non era il tipo e, dato il suo essere accondiscendente grazie al liquore ora in circolazione, Hunter non pareva insistere o negare le azioni del minore. 《 E tu non sai quello che stai dicendo. 》 Disse, non riuscendo a trattenere una piccola risata all'affermazione bambinesca del giovane umano. Quasi quasi lo preferiva in quello stato. 《 Ora stai buono e fermo. 》 Facendolo entrare in macchina, egli fece altrettando nel lato opposto. Accese l'auto, mise in moto e partì, diretto a casa del suo /nemico/. Hunter Adam Cook * La rivalità era qualcosa che avrebbe potuto nuocere alle menti di chi la provava dentro, ma in fondo la rivalità non era nient’altro che un profondissimo odio educato, un odio quieto che, però, era soltanto il preludio di una tempesta. Fra i Maffei e i Price non vi si poteva mai fingere che quella tempesta non fosse in corso, non per chi alla politica ci credeva davvero, proprio come Hunter. Eppure, in quello stato di cose Hunter non poteva che vedere in quel suo nemico uno zuccherino pronto a non chiudergli la porta in faccia, pronto a qualsiasi cosa che fosse... cura. Ubriaco, pronto a far parlare e muovere l’alcool invece di se stesso, Hunter era diventato un co-protagonista della serata lasciando spazio all’alcool ad essere un vero e proprio divo. Inoltre, questo bisognava sottolinearlo, il gran divo alcool rendeva persone migliori o peggiori, ma, ancor più in fondo alla questione, esso poteva rendere « leggibile » una persona: il giovane Maffei aveva la possibilità, per la prima volta, di leggere il suddetto Cook-Price. Ma cosa avrebbe mai letto dal quel libro nemico e politico intitolato Hunter sarebbe rimasto un mistero. * « Si... meglio. Ho bisogno di odiarti T-U-T-T-O. » * Ridacchiò mentre gli occhi nocciola diventavano fessura e cercavano di metterlo a fuoco meglio. * « Io so tutto quello che sto dicendo » * Rivolse l’indice al proprio petto e alla fine si abbandonò alla sicurezza del suo nemico e della sua macchina. La casa del nemico di uno e dell’altra erano diventate solo la partenza e la fine di un lungo viaggio che sarebbe stato soltanto la metafora del rapporto turbolento a cui entrambi erano destinati. * / Fine ♥️
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