#Filippa di Cosenza
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Oria. Un caso di araldica pontificia immaginaria
In anteprima pubblichiamo in versione ridotta l’articolo sullo stemma papale della chiesa di S. Giovanni Battista che apparirà prossimamente sulle pagine della rivista Nobiltà
Fig. 1 – Oria, chiesa di S. Giovanni Battista, facciata
  UN LEONE RAMPANTE CON UNA FASCIA A TRAVERSO: LO STEMMA PAPALE DELLA CHIESA DI S. GIOVANNI BATTISTA DI ORIA, UN CASO DI ARALDICA PONTIFICIA IMMAGINARIA
di Marcello Semeraro
Sulla facciata della chiesa di S. Giovanni Battista di Oria si trova scolpito l’esemplare araldico a cui è consacrata la seguente indagine (figg. 1, 2). La presenza delle chiavi e della tiara, poste come insegne di dignità all’esterno dello scudo, indica chiaramente all’araldista che si tratta di un’arma papale, ma per l’attribuzione del manufatto è necessario conoscere la storia dell’edificio su cui esso è apposto. Scopriremo che non si tratta di uno stemma vero e proprio, o forse sì…
Fig. 2 – Oria, chiesa di S. Giovanni Battista, particolare dello stemma papale
IL LUOGO
Il monastero e la chiesa di S. Giovanni Battista furono eretti nel 1344 per volere della baronessa oritana Filippa di Cosenza (†1348), vedova di Guglielmo dell’Antoglietta, barone di Fragagnano, la quale fece costruire sul suo palazzo paterno una sontuosa dimora per i monaci della Congregazione Celestina[1], come si ricava da una lapide commemorativa datata 1613, murata sulla parete destra della chiesa, e dallo spoglio di altre fonti storiche[2]. Si tratta di una delle primissime fondazioni celestine attestate in Puglia, seconda solo a quella di S. Eligio in Barletta[3].
L’arrivo dei Celestini in Oria coincise con il periodo d’oro della nuova Congregazione monastica, che proprio nel Trecento, sotto l’impulso della diffusione del culto di Celestino V seguita alla sua canonizzazione (5 maggio 1313), registrò il massimo sviluppo e la più ampia estensione, propagandosi anche nel Regno di Napoli, dove godette della protezione e del sostegno dei sovrani angioini[4].
Nella prima metà del XVIII secolo i monaci oritani utilizzarono parte delle loro cospicue risorse per avviare una radicale ristrutturazione che trasformò l’antica costruzione trecentesca in un grande complesso in stile barocco[5]. L’opera fu intrapresa dall’abate Oronzo Bovio e poi continuata dal suo successore Tommaso Marrese e prese la forma di un complesso di vaste e solenni proporzioni che divenne il più cospicuo della città[6]. Agli inizi dell’Ottocento la Congregazione fondata nel XIII secolo da Pietro del Morrone fu vittima delle leggi eversive napoleoniche[7]. La legge del 13 febbraio 1807, promulgata da Giuseppe Bonaparte, soppresse in tutto il Regno di Napoli gli ordini religiosi delle regole di S. Bernardo e di S. Benedetto.
A Oria il provvedimento colpì i Benedettini Cassinesi di Aversa – a cui apparteneva il santuario di S. Pietro in Bevagna – e ovviamente i Benedettini Celestini[8]. Il colpo decisivo alla loro memoria fu però inferto dal sindaco Gennaro Carissimo, che nel 1912 fece abbattere il grandioso palazzo settecentesco, trasformando quella che era una perla del barocco pugliese nell’attuale edificio scolastico[9].
Dell’antico palazzo, ammirabile in tutta la sua grandiosità in alcune preziose foto d’epoca, non restano che pochi reperti: un balcone monumentale e qualche rudere erratico conservato nella Biblioteca comunale De Pace-Lombardi[10].
Dell’imponente complesso celestino, invece, rimangono la chiesa, che dopo la soppressione napoleonica svolse funzioni diverse e che oggi non è più adibita al culto[11], e l’attuale Parco Montalbano, un suggestivo giardino pensile risalente alla prima metà del Settecento.
LO STEMMA PAPALE
Lo stemma in questione, di grandi dimensioni, venne collocato al termine dei lavori costruzione della facciata settecentesca voluta dall’abate Tommaso Marrese nel 1718[12]. Timbrato da una tiara priva di infule e accollato alle chiavi petrine decussate, di cui restano solo le impugnature[13], lo scudo presenta una foggia ovale accartocciata e raffigura al suo interno un leone rampante attraversato da una fascia diminuita (fig. 2). L’analisi del manufatto e del contesto di committenza non lascia dubbi sulla sua attribuzione. Si tratta dello stemma di Celestino V, al secolo Pietro di Angelerio (1209/10-1296), il celebre papa eremita, fondatore dell’omonima Congregazione monastica, che rinunciò al soglio petrino dopo appena cinque mesi dalla sua elezione e che finì i suoi giorni prigioniero di Bonifacio VIII nel castello di Fumone[14]. Tuttavia, quello scolpito sulla facciata della chiesa oritana non è lo stemma pontificio realmente innalzato da Pietro del Morrone, semplicemente perché egli non ne ebbe mai uno vero. Si tratta, invece, di un’insegna fittizia, di un’arma di fantasia che qualcuno gli attribuì a posteriori, di un vero e proprio falso, insomma, di cui restano, come vedremo, numerose testimonianze. Com’è noto, il primo pontefice di cui si possa attestare con certezza l’uso di uno stemma nell’esercizio della sua carica fu Bonifacio VIII (1294-1303), ma è con Clemente VI (1342-1352) che la conformazione dell’arma papale si canonizza nella forma che diventerà classica (scudo ornato da tiara e chiavi decussate, legate da un cordone)[15], mantenendosi tale fino al pontificato di Benedetto XVI[16]. Quanto a Celestino V, le prime attestazioni della sua arma leonina non rimontano oltre il XVI secolo. Sull’origine di questa insegna sono state avanzate alcune ipotesi suggestive ma prive di qualsiasi riscontro storico e documentario[17]. Secondo alcuni studiosi, si tratterebbe dell’arma parlante dei Leone (o de Leone), nobili di Alife e Venafro, dai quali discenderebbe Maria, madre del pontefice[18]. Secondo altri, invece, l’insegna sarebbe stata ricalcata su quella del cardinale Guglielmo Longhi (†1319), che fu fra i porporati creati da Celestino V nel corso del suo breve pontificato. Quest’ultima ipotesi è quella che ha goduto di una maggiore fortuna[19]. Lo stemma del cardinale Longhi, apparentemente simile a quello attribuito ex post a papa Celestino, si trova scolpito in coppia ai lati del sarcofago del suo pregevole monumento funebre ammirabile nella basilica di S. Maria Maggiore di Bergamo[20]. All’interno di una cornice modanata compare un leone attraversato da una banda diminuita e trinciata, ma il manufatto non contiene alcuna indicazione cromatica utile alla ricostruzione degli smalti originari[21] (fig. 3).
Fig. 3 – Bergamo, basilica di S. Maria Maggiore, monumento funebre del cardinale Guglielmo Longhi, particolare dello stemma (foto di Alessandro Savorelli)
  Il Longhi apparteneva a una nobile famiglia bergamasca e fu anche intimo della corte angioina, abile diplomatico nonché amico di Bonifacio VIII, per incarico del quale gestì la delicata fase di abdicazione del papa eremita. Dopo la morte di quest’ultimo nel castello di Fumone, inoltre, ne prese in custodia il corpo e presenziò alla sua sepoltura nella tomba terragna posta al centro della chiesa di S. Antonio Abate a Ferentino. Secondo lo studioso Fabio Valerio Maiorano, è possibile che «in ricordo dell’evento, il cardinale de Longhi abbia fatto incidere sulla lastra sepolcrale la propria insegna araldica, in epoche successive “interpretata” e scambiata erroneamente per lo stemma papale di Celestino V»[22]. Tale supposizione appare verosimile anche perché all’epoca in cui visse il cardinale Longhi il galero rosso non si era ancora diffuso come timbro della dignità cardinalizia e, quindi, è possibile che qualcuno abbia confuso erroneamente lo scudo del porporato, privo di ornamenti esterni, con quello del papa del Gran Rifiuto[23]. Quello che è successo veramente non lo sapremo probabilmente mai perché la lastra tombale originaria è andata purtroppo persa[24]. Occorre tuttavia sottolineare che le ipotesi finora avanzate sull’origine di questo pseudostemma si limitano ad indagini isolate che non tengono conto del contesto storico-culturale che ne favorì l’apparizione nel corso del XVI secolo e la rapida diffusione nel periodo successivo. Intorno alla metà del Cinquecento prese piede un fenomeno nuovo, figlio dell’erudizione rinascimentale, che divenne poi dilagante in epoca barocca. Mi riferisco alla moda dell’araldica papale immaginaria e alla fantasia che si scatenò nell’attribuire stemmi d’invenzione ai pontefici vissuti prima di Bonifacio VIII[25]. L’araldista francese Édouard Bouyé ne ha individuato l’origine all’epoca del Concilio di Trento (1545-1563), quando nacquero, con intenti eruditi e apologetici, le prime raccolte di stemmi contenenti anche le armi dei pontefici vissuti in epoche pre-araldiche e proto-araldiche. L’Epitome pontificum romanorum a S. Petro usque ad Paulum IIII, scritta da Onofrio Panvinio e pubblicata a Venezia nel 1557[26], può essere annoverata fra le prime testimonianze del fenomeno, ma furono soprattutto le varie edizioni sulle vite dei papi scritte dal Platina e dal Ciacconio a dare un impulso decisivo alla diffusione di questa pratica[27]. Col tempo tale usanza travalicò anche l’ambito strettamente librario, trovando la sua massima espressione nella celebre serie araldica presente nella galleria dei papi di palazzo Altieri a Oriolo Romano. Iniziata intorno al 1671, la pinacoteca della località viterbese costituisce una delle fonti araldiche più importanti e mature per lo studio della materia, giacché contiene la prima e unica raccolta completa di tutti gli stemmi pontifici da San Pietro in poi[28]. Quanto a Celestino V, la sua personalità e la brevità del suo pontificato gli impedirono di innalzare un’arma papale vera e propria, ma ciò non ostacolò l’operazione di «risarcimento» araldico finalizzata a dotarlo retrospettivamente di un’insegna che mai si sarebbe sognato di avere, un’insegna della quale non sono note con certezza le origini, ma la cui circolazione fu sicuramente favorita dalla nascente e poi dilagante voga dell’araldica pontificia immaginaria. Le testimonianze relative all’uso di tale stemma abbondano e si trovano disseminate su opere a stampa, monumenti e altri manufatti. Fra gli esemplari su stampa, segnalo quello che accompagna il ritratto di Celestino V presente nel Pontificum romanorum effigies di Giovanni Battista Cavalieri (Roma 1580) e quello inciso sul frontespizio dell’edizione del 1627 delle Costituzioni celestine, approvate l’8 luglio dell’anno prima da Urbano VIII[29] (figg. 4, 5).
Fig. 4 – Ritratto di Celestino V accompagnato dallo stemma. G.B. Cavalieri, Pontificum romanorum effigies, Roma 1580, ad vocem
  L’incisione presente sul frontespizio, in particolare, mostra in chiave allegorica San Pietro Celestino e San Benedetto da Norcia ai lati di un altare, sulla cui base, al centro, campeggia lo scudo di Maurizio di Savoia, cardinale protettore dei Celestini, affiancato da due scudi più piccoli (quello di papa Celestino e quello della Congregazione da lui fondata[30]) sottostanti ai due santi, mentre sulla trabeazione spicca l’arma di papa Barberini, sormontata da uno scudo con la Vergine e il Bambino posto sul fastigio. Si tratta di una testimonianza significativa perché mostra come agli inizi del Seicento questo stemma, nato senza il presupposto storico di un possessore che lo abbia effettivamente portato, si sia ormai «istituzionalizzato».
Fig. 5 – Frontespizio delle Costituzioni celestine, Roma 1627
  L’insegna leonina era del resto ben nota a uno dei più accreditati biografi seicenteschi di Celestino V, Lelio Marini, abate generale della Congregazione Celestina dal 1630 al 1633, che in un passo della sua opera Vita et miracoli di San Pietro del Morrone già Celestino papa V descrisse l’arma del santo eremita in questi termini: «L’insigne nondimeno, che si chiama Arma, al nostro Pietro si trova in tutte le sue imagini antiche attribuito un Leone rampante con una fascia a traverso dalla coscia al piede destro, essendo come appoggiato sù il lato sinistro, si come è descritto da tutti gli autori, e in tutte le imagini, e anco da Alfonso Ciaccone nell’opra, che hà fatto della vita de i Sommi Pontefici con le armi e nomi ancora de i Cardinali di Santa Chiesa»[31]. L’opera del Ciacconio a cui si riferisce Marini è una raccolta sulle vite dei papi e dei cardinali, uscita in varie edizioni a partire dal 1601, nella quale si illustra la narrazione delle biografie dei pontefici con il rispettivo ritratto accompagnato dalla riproduzione dello stemma[32]. Il Ciacconio assegna a Celestino V uno scudo d’oro, al leone d’azzurro, attraversato da una banda abbassata e diminuita di rosso (fig. 6).
Fig. 6 – Stemma di Celestino V, tratto da A. Chacòn, Vitae et res gestae pontificum romanorum et S.R.E. cardinalium ab initio nascents ecclesiae usque ad Urbanum VIII Pont. Max., I, Roma 1630, p. 794
  Un blasone simile si osserva sulla tela di Celestino V conservata nella galleria dei papi di Palazzo Altieri a Oriolo Romano[33]. La rappresentazione dell’arma, tuttavia, non fu stabile nel corso del tempo. La bicromia oro/azzurro del campo e della figura principale, ad esempio, risulta talvolta invertita, come si vede nell’esemplare ad intarsio marmoreo ammirabile sulla parete della cappella di Celestino V, in fondo alla navata destra della basilica di S. Maria di Collemaggio all’Aquila: d’azzurro, al leone d’oro, lampassato di rosso e attraversato da una banda abbassata e diminuita dello stesso[34] (fig. 7).
Fig. 7 – L’Aquila, basilica di S. Maria di Collemaggio, navata destra, cappella di Celestino V, particolare dello stemma papale (foto di Fabio Valerio Maiorano)
  Gli studi condotti sul corpus araldico relativo a Pietro del Morrone mostrano, in effetti, un’arma caratterizzata da un’estrema variabilità blasonica, comprensibile per un’insegna come questa nata senza il vincolo di un uso storico effettivo e di un titolare che l’abbia davvero voluta. Le varianti, insomma, abbondano e se ne trovano versioni col campo d’argento[35], con la banda modificata rispetto alla sua posizione e alla sua forma ordinarie, tanto da assumere talora la forma di una fascia tout court (figg. 2, 5, 8), col capo caricato dalle insegne papali[36], col leone rivolto (figg. 4, 9) oppure rampante su un monte alla tedesca[37], e così via.
Fig. 8 – Mesagne (Brindisi), chiesa di S. Maria di Bethlehem, cantoria, stemma di Celestino V
  Fra tutti gli stemmi di fantasia della cronotassi papale anteriore a Bonifacio VIII, l’insegna araldica attribuita al papa eremita vanta il primato di essere quella che presenta la configurazione più instabile e variabile nel corso del tempo.
Fig. 9 – L’Aquila, basilica di S. Maria di Collemaggio, stemma di Celestino V sulla balaustra del presbiterio (foto di Fabio Valerio Maiorano)
  CONCLUSIONI
Nel XVIII secolo la Congregazione Celestina si attesta sulle posizioni consolidate nel periodo precedente, recependo alcune caratteristiche proprie del monachesimo settecentesco, come la prevalenza degli aspetti istituzionali e giuridici, la celebrazione dei fasti e delle glorie del passato, la corsa ad accaparrarsi titoli e dignità per il decoro dell’istituzione, lo sforzo per incrementare le rendite con cui provvedere alla manutenzione e al restauro degli edifici[38]. I monaci oritani non furono da meno ed è in questo contesto che vanno collocati l’ampliamento settecentesco del complesso monastico e l’apposizione delle insegne del loro fondatore, dell’Ordine[39] (figg. 10, 11) e dell’abate generale Ludovico Grassi[40] (figg. 12, 13, 14) in vari punti del monastero, della chiesa e del giardino.
Fig. 10 – Oria, Parco Montalbano (ex giardino dei Celestini), stemma della Congregazione Celestina scolpito sui due lati del parapetto negli anni 1726-1730
Fig. 11 – Oria, chiesa di S. Giovanni Battista, interno, all’altezza della cupola, stemma della Congregazione Celestina
  In questa araldizzazione degli spazi sacri, lo stemma del papa del Gran Rifiuto, benché non autentico, era ormai diventato parte integrante dell’iconografia araldica dell’Ordine e, come tale, funzionale alla strategia comunicativa messa in atto dai Celestini oritani nella prima metà del Settecento. Sopravvissuto alle ingiurie del tempo e ai cambi di destinazione a cui è stato sottoposto l’edificio nel corso del tempo, il leone di Celestino campeggia ancora oggi, beffardamente, sulla superba facciata, perpetuando il mito e la memoria del fondatore della Congregazione Celestina:   un bel risultato, se ci pensiamo, per uno stemma immaginario attribuito a un papa che giammai ne fece uso.
Fig. 12 – Oria, cortile della scuola elementare E. De Amicis, balcone monumentale, stemma dell’abate generale dei Celestini Ludovico Grassi
  Fig. 13 – Sulmona, abbazia di S. Spirito al Morrone, altare sinistro della chiesa interna, stemma dell’abate generale dei Celestini Ludovico Grassi, privo del quarto di religione (foto di Fabio Valerio Maiorano)
  Fig. 14 – L’Aquila, basilica di S. Maria di Collemaggio, altare principale, stemma dell’abate generale Ludovico Grassi con il quarto della Religione Celestina
  [1] Sulla storia della Congregazione Celestina segnalo soprattutto il fondamentale studio di U. Paoli, Fonti per la storia della Congregazione Celestina nell’Archivio Segreto Vaticano, Cesena 2004.
[2] Cfr. S. Ammirato, Della famiglia dell’Antoglietta di Taranto, Firenze 1597, p. 26; M. Matarrelli-Pagano, Raccolta di notizie patrie dell’antica città di Oria nella Messapia, a cura di E. Travaglini, Oria 1976, p. 84; D. T. Albanese, Historia Dell’antichità d’Oria Città della Provincia di Terra d’Otranto. Raccolta da molti antichi e moderni Geografi, ed Historici Dal Filosofo e Medico Domenico Tomaso Albanese della stessa Città, nella quale anco si descrive l’origine di molti luoghi spettanti alla sua Diocesi, Brindisi, Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo, Manoscritti, ms. D/15, cc. 314r e v; G. Papatodero, Della Fortuna di Oria Città in Provincia di Otranto nel Regno di Napoli, con giunte dell’arcidiacono Giuseppe Lombardi, Napoli 1858, pp. 319-320. Per una sintesi, mi sia consentito il rinvio al mio saggio M. Semeraro, Insignia. Saggi su Oria araldica, Oria 2015, pp. 14, 18-20 e relative note.
[3] Cfr. Paoli, Fonti per la storia cit., p. 28.
[4] Ivi, pp. 25-26.
[5] Sull’argomento v. P. Malva, M. Mattei, Oria, l’organo dei Celestini, Oria 2007, pp. 11-14; P. Spina, Oria, strade vecchie, nomi nuovi. Strade nuove, nomi vecchi, Oria 2003, pp. 59-63.
[6] Spina, Oria, strade vecchie cit., p. 62-63.
[7] Tra il 1807 e il 1810 tutti i monasteri celestini caddero sotto i colpi delle leggi napoleoniche (Paoli, Fonti per la storia cit., p. 83).
[8] Cfr. C. Turrisi, La diocesi di Oria nell’Ottocento, Roma 1978, p. 285.
[9] Spina, Oria, strade vecchie cit., p. 59.
[10] Il balcone era originariamente collocato sulla facciata del monastero settecentesco. Fu poi smontato e ricostruito da Floriano Stranieri nel cortile dell’attuale scuola elementare Edmondo De Amicis (v. Malva, Mattei, Oria, l’organo cit., p. 21, nota 16). Sul fastigio della trabeazione del portale che dà sul balcone, fa bella mostra di sé lo stemma di Ludovico Grassi, abate generale della Congregazione Celestina per tre mandati: 1704-1707, 1707-1710, 1719-1722 (cfr. Paoli, Fonti per la storia cit., pp. 528-530). Il Malva ha erroneamente attribuito tale stemma all’abate oritano Oronzo Bovio (v. Malva, Mattei, Oria, l’organo cit., p 11). Per il blasone, v. infra, nota 40.
[11] Malva, Mattei, Oria, l’organo cit., pp. 14-15.
[12] Come si evince dall’epigrafe incisa sul drappo litico che sormonta lo stemma papale (cfr. ivi, p. 21, nota 17).
[13] Sull’uso e sulla simbologia della tiara e delle chiavi v. B.B. HEIM, L’araldica nella Chiesa Cattolica. Origini, usi, legislazione, Città del Vaticano 2000, pp. 50-55; A. Cordero Lanza di Montezemolo, A. Pompili, Manuale di araldica ecclesiastica nella chiesa cattolica, Città del Vaticano 2014, pp. 38-40.
[14] Pietro di Angelerio (chiamato anche del Morrone) nasce tra il 1209 e il 1210, penultimo di dodici fratelli, da una famiglia modesta, probabilmente a Sant’Angelo Limosano, anche se Isernia, Sulmona e altre città se ne contendono i natali. Negli anni 1233-1234 si reca a Roma, dove probabilmente riceve l’ordinazione sacerdotale. Intorno al 1235 si ritira in località Sigezzano, presso Sulmona, ai piedi del monte Morrone, dove accoglie i primi discepoli. Da sempre attratto dall’austerità della vita monastica, fonda una comunità di religiosi di cui si hanno le prime notizie certe a partire dal 1259. Con la bolla Cum sicut del 1263 di Urbano IV si registra la prima regolarizzazione della famiglia eremitica, incorporata nella regola benedettina, e confermata in seguito da Gregorio X nel 1275. Il 5 luglio 1294 viene eletto papa nel conclave di Perugia; il 28 luglio entra all’Aquila a dorso di un asino; il 29 agosto viene incoronato col nome di Celestino V sul piazzale antistante a S. Maria di Collemaggio. Con la bolla Et si cunctos del 1294, papa Celestino stabilisce la struttura giuridica e istituzionale della comunità religiosa da lui fondata, che ormai ha assunto ufficialmente la denominazione di Orso Murronensis o Ordo S. Spiritus de Murrone. Il suo pontificato, tuttavia, si rivelerà difficoltoso e lontano dalle sue aspirazioni eremitiche. Il 13 dicembre del 1294, dopo appena cinque mesi dalla sua elezione, il papa annuncia la sua decisione di rinunciare al sacro soglio davanti ai cardinali riuniti in concistoro. Il nuovo pontefice, Bonifacio VIII, dapprima lo fa sorvegliare, poi, dopo un tentativo di fuga, lo relega nella rocca di Fumone, dove muore il 19 maggio del 1296. La Congregazione Celestina ha assunto nel corso del tempo varie denominazioni: Ordo S. Spiritus de Maiella, Ordine di fra’ Pietro del Morrone, Ordo Murronensis, Ordo S. Spiritus de Murrone, Ordo Caelestinorum, mentre dalla seconda metà del XV secolo diventerà prevalente quella di Congregatio Caelestinorum. Cfr. Paoli, Fonti per la storia cit., pp. 3-21.
[15] Sulle origini e l’evoluzione dell’araldica papale v. Heim, L’araldica cit., pp. 98-102; E. Bouyé, Les armoiries pontificales à la fin du XIII siècle: construction d’une campagne de communication, in «Médiévales», 44 (2003), pp. 173-198; D. L. Galbreath, Papal heraldry, 2nd ed. revis. by G. Briggs, London 1972.
[16] Com’è noto, Benedetto XVI abolì l’uso della tiara come timbro dello stemma papale, sostituendola con una mitria d’argento ornata da tre fasce d’oro, unite da un palo dello stesso colore. Il suo successore, Francesco, ha mantenuto tale uso.
[17] La questione relativa alle ipotesi sulle origini dello stemma di Celestino V è stata affrontata da F.V. Maiorano, S. Mari, Gli stemmi superstiti dell’abbazia di S. Spirito del Morrone e l’enigma di un’insegna trecentesca, in «Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria», 103 (2012), pp. 93-95.
[18] In realtà i cognomi de Angeleriis e de Leone sono sconosciuti ai primi biografi di Celestino V e sono stati tirati fuori per accreditarne l’origine isernina, basandosi su due documenti la cui autenticità è stata giudicata dubbia da studiosi del calibro di Peter Herde. Cfr. P. Herde, Celestino V, santo, in «Encicplopedia dei Papi», disponibile al seguente indirizzo: http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-celestino-v_%28Enciclopedia-dei-Papi%29/.
[19] V. anche A. Savorelli, Il papa e il leone, in «Medioevo», XI, n° 7 (126), Novara 2007, p. 92.
[20] In origine il monumento, opera di Ugo da Campione, era collocato nella chiesa di S. Francesco, nella cappella di San Nicolò che lo stesso cardinale Longhi fece edificare. Nel 1843 fu trasferito in S. Maria Maggiore. Cfr. G. Cariboni, Longhi, Guglielmo, in «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. 65 (2005), disponibile al seguente indirizzo: http://www.treccani.it/enciclopedia/guglielmo-longhi_(Dizionario-Biografico)/.
[21] Sugli smalti dello stemma gentilizio del cardinale Longhi le fonti, tutte successive all’epoca in cui egli visse, non concordano. Secondo il Ciacconio, il cardinale portava uno scudo d’argento, al leone d’azzuro, attraversato da una banda abbassata, diminuita e trinciata del primo e di verde, mentre nel blasone fornito dal Crollalanza la banda è di rosso e di verde. Lo stemmario Camozzi-Vertova, alla voce Longhi degli Alessandri di Adrara, riporta invece uno scudo d’argento, al leone d’azzurro, lampassato di rosso, attraversato da una banda abbassata e trinciata d’oro e del terzo. Il Maiorano, infine, riporta un’arma d’argento, al leone di nero, lampassato di rosso e attraversato da una banda abbassata e trinciata d’oro e di verde. Cfr. A. Chacón, Vitae et gesta summorum pontificum ab Innocentio IV usque ad Clementem VIII necnon S. R. E. cardinalium cum eorumdem insignibus, II, Roma 1601, p. 638; G.B. Di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane, estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890, rist. anast. Bologna 1965, II, p. 31; Stemmario Camozzi-Vertova, Bergamo, Biblioteca civica Angelo Mai, Manoscritti, ms. AB016, n. 2323; Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., p. 94.
[22] Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., p. 95.
[23] Il cappello di rosso, concesso nel 1245 dal papa Innocenzo IV ai cardinali in occasione del Concilio di Lione, fece la sua comparsa in araldica nella prima metà del Trecento, ma fino alla fine del secolo il suo uso non si era ancora generalizzato. Fu solo a partire dal XV secolo che il suo impiego divenne abituale. Su tale questione v. M. Prinet, Les insignes des dignités ecclésiastiques dans le blason français du XV siècle, in «Revue de l’Art Chretien», Paris 1911, p. 23; Cordero Lanza di Montezemolo, Pompili, Manuale di araldica cit., p. 19.
[24] Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., p. 95, nota 78.
[25] Quello degli stemmi d’invenzione, in realtà, è un fenomeno più vasto, non circoscritto ai soli papi, osservabile sin dai primordi dell’araldica. La rapida diffusione sociale delle armi vere, apparse nei tornei e nei campi di battaglia nella prima metà del XII secolo, fece sì che ben presto, sin dalla seconda metà dello stesso secolo, se ne attribuirono altre a personaggi immaginari o vissuti in epoche precedenti alla comparsa dell’araldica (cfr. M. Pastoureau, Figures de l’héraldique, Paris 1996, p. 25). Fu però nel periodo a cavallo fra il Rinascimento e il Barocco che il fenomeno coinvolse massicciamente la chiesa, investendo non solo i papi ma anche i cardinali pre-araldici (cfr. M. C. A. Gorra, L’arma di Pietro: ipotesi per un blasonario dei pontefici anteriori a Bonifacio VIII, in «Nobiltà», a. VIII, n. 39, novembre-dicembre 2000, pp. 557-576; Bouyé, Les armoiries pontificales cit.).
[26] Cfr. O. Panvinio, Epitome pontificum romanorum a S. Petro usque ad Paulum IIII, Venezia 1557.
[27] A. Chacòn (Ciacconius), Vitae, et res gestae pontificum romanorum et S.R.E. cardinalium, edizioni diverse fra 1601 e 1751; B. Platina, De vitis pontificum romanorum (Le vite de’ pontefici), edizioni diverse fra 1540 e 1703.
[28] Gorra, L’arma cit., p. 560.
[29] Cfr. Constitutiones monachorum Ordinis S Benedicti Congregationis Coelestinorum, sanctissimi domini nostri Urbani papae VIII iussu recognitae et eiusdem auctoritate approbatae et confirmatae, Roma 1627; Paoli, Fonti per la storia cit., p. 57.
[30] Lo stemma innalzato dai monaci della Congregazione Celestina non ebbe nel corso del tempo una configurazione stabile. Manca lo spazio per approfondire la questione. In questa sede mi limito pertanto a dire che in origine i monaci portarono uno scudo d’argento, alla croce latina accollata alla lettera S, il tutto di nero: la bicromia bianco/nero rappresenta l’araldizzazione dell’abito monastico, mentre la lettera S sta probabilmente per Santo Spirito (ma altre spiegazioni sono state addotte), al quale Pietro del Morrone era particolarmente devoto, come provano anche i numerosi monasteri eretti sotto questo titolo e alcune fra le denominazioni primitive della Congregazione (v. supra, nota 14). Successivamente lo stemma fu incrementato con l’aggiunta di altre figure di carattere allusivo: un monte all’italiana di tre cime, probabile allusione ai monti Morrone e Maiella, cari al papa eremita, e due gigli, in ricordo della speciale protezione e del sostegno accordati ai Celestini dai sovrani angioini di Napoli e da quelli di Francia. Lo stemma divenne così d’azzurro, alla croce latina di nero (alias d’oro), accollata alla lettera S d’oro, accostata da due gigli dello stesso e fondata su un monte all’italiana di tre cime di verde, movente dalla punta. Ma vi furono varianti sia negli smalti, sia nella foggia della croce. Talora la lettera S assunse una forma serpentina. Cfr. Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., pp. 80-88; G. Zamagni, Il valore del simbolo: stemmi, simboli, insegne e imprese degli Ordini religiosi, delle Congregazioni e degli altri Istituti di perfezione, Cesena 2003, pp. 53-54.
[31] L. Marini, Vita et miracoli di San Pietro del Morrone già Celestino papa V, Milano 1630, p. 4.
[32] V. supra, nota 27.
[33] Gorra, L’arma cit., p. 576.
[34] Ibid.; Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., p. 93.
[35] V. il blasone riportato da X. Barbier de Montault, Armorial des Papes, Arras 1877, p. 15.
[36] Gorra, L’arma cit., p. 576.
[37] Come si vede nell’esemplare raffigurato sull’altare di S. Antonio di Padova nella chiesa di S. Maria di Bethlehem di Mesagne. La chiesa e l’ex convento ad essa attiguo (antica dimora dei Celestini, oggi palazzo di Città) custodiscono vari esemplari dello stemma attribuito a Celestino V. Dato il loro interesse, sarebbe interessante farne oggetto di un’indagine specifica.
[38] Cfr. Paoli, Fonti per la storia cit., p. 76.
[39] V. supra, nota 30. Dall’osservazione di alcune foto d’epoca scattate prima dell’abbattimento del 1912, si evince che un altro stemma della Congregazione Celestina era collocato sul portale d’ingresso del palazzo. Altri esemplari, che sicuramente erano presenti all’interno dell’edificio, sono andati purtroppo persi. Lo stemma dei Celestini scolpito, negli anni 1726-1730, sui due lati del parapetto del giardino di Parco Montalbano (fig. 10) è stato da taluni erroneamente confuso con il bastone di Asclepio, noto simbolo della medicina, deducendo da ciò l’ipotesi che il giardino sia stato adoperato dai monaci come luogo per la coltivazione di erbe medicinali. A questa tesi strampalata sembra credere anche l’autore delle note storiche su Parco Montalbano presenti nel sito del comune di Oria: cfr. http://www.comune.oria.br.it/territorio/da-visitare/item/parco-montalbano.
[40] Lo stemma in questione mostra l’arma gentilizia propria dell’abate Grassi (troncato: nel 1° un’aquila coronata, rivolta e posata sulla partizione; nel 2° scaccato di quattro file) abbassata, per mezzo di uno scudo troncato, sotto il quarto della Religione Celestina. Il timbro è costituito da un cappello prelatizio (di nero) da cui pendono due cordoni terminanti con dodici nappe, sei per lato (1.2.3), delle quelli si vedono solo quelle terminali. L’arma si presenta acroma, ma per la ricostruzione degli smalti può essere utile il raffronto con stemma dello stesso abate, privo tuttavia del quarto celestino, visibile nell’abbazia di S. Spirito al Morrone, nell’altare sinistro della chiesa interna, così blasonabile: d’argento, all’aquila al volo abbassato di nero, coronata e rostrata d’oro, posata su una campagna scaccata di cinque file dell’ultimo e del secondo. Lo scudo è timbrato da un cappello prelatizio a sei nappe per lato (1.2.3), il tutto di nero (fig. 13). Altri esemplari del suo stemma si trovano in Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., pp. 73-75.
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fondazioneterradotranto · 8 years ago
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L’antica casa Carcioffa di Manduria e il suo stemma
di Marcello Semeraro
Fra gli stemmi più curiosi che si possono osservare nel centro storico di Manduria, un posto di primo piano spetta sicuramente a quello della famiglia Carcioffa, antica casata di origine albanese, oggi estinta.
L’arma si trova scolpita sulla facciata dell’edificio sito al civico n° 15 di Piazza Plinio ed è racchiusa da uno scudo ovale, con contorno a cartoccio (nella parte superiore) e a foglie di acanto (in quella inferiore), ornato da nastri accollanti e svolazzanti (fig. 1).
  Fig. 1 – Manduria, casa Carcioffa, particolare dello stemma murato sulla facciata
  Il manufatto, diversamente da quanto dovette essere in origine, si presenta oggi acromo e costituisce l’unica attestazione a noi nota del blasone di questa antica famiglia. All’interno dello scudo è rappresentata una pianta di carciofo, gambuta e fiorita di sette pezzi, sostenuta da due leoncini controrampanti; il tutto è posto su un terreno e accompagnato, nei cantoni destro e sinistro del capo, da due stelle di otto raggi. L’araldista riconosce subito che si tratta di un caso di stemma parlante, una particolare tipologia di arma, cioè, che contiene raffigurazioni che alludono (direttamente o indirettamente) al nome di famiglia.
Nel caso specifico, la relazione che si stabilisce fra la figura principale dello scudo e il cognome (ovvero fra il significante e il significato) è talmente diretta da risultare chiara e comprensibile anche a chi sia digiuno di cose araldiche. Cronologicamente parlando, l’esemplare litico è databile alla prima metà del Seicento e presenta, nella tipologia di scudo e nei suoi ornamenti esterni, delle affinità stilistiche con altri manufatti coevi, come ad esempio l’arma della baronessa Filippa di Cosenza, visibile all’interno della chiesa di San Giovanni Battista di Oria e realizzata, come recita la sottostante epigrafe, nel 1613, ovvero quasi tre secoli dopo la sua morte (1348).
Seicentesca è, del resto, la stessa casa Carcioffa, un edificio che ricalca una tipologia costruttiva che proprio in quel secolo si sviluppò a Casalnuovo (l’antico nome di Manduria) durante la signoria degli Imperiali. Come abbiamo già accennato, la famiglia Carcioffa è di origine albanese e come tale viene annoverata nel Librone Magno delle famiglie manduriane, il celebre manoscritto iniziato nel 1572 dall’arciprete della Collegiata Lupo Donato Bruno, sulla cui attendibilità non sussistono dubbi (figg. 2 e 3).
Fig. 2 – Note genealogiche sulla famiglia Carcioffa. Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, ms. Rr/1-3 (1572-1810), c. 806v.
  Fig. 3 – Frontespizio stemmato del Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, ms. Rr/1-3 (1572-1810), c. 3r. La pluralità di insegne disegnate e acquerellate mette in scena la gerarchia dei poteri (religiosi e laici) esistenti all’epoca della compilazione del manoscritto (1572): il papa Gregorio XIII (in alto a sinistra), il re di Napoli Filippo II di Spagna (in alto a destra), l’arcivescovo di Oria Bernardino Figueroa (in basso a sinistra), il feudatario Davide Imperiali (in basso a destra). Al centro, lo stemma dell’Universitas, in alto quello del Capitolo della Collegiata di Manduria e in basso, quello dell’arciprete Lupo Donato Bruno.
È noto che il fenomeno dell’immigrazione albanese, iniziato nella seconda metà del ‘400 a seguito della caduta dell’Impero bizantino (1453), interessò una vasta area del tarantino ed ebbe una presenza significativa anche nella stessa Manduria.
  Fra le famiglie manduriane di sicura origine albanese ricordiamo i Bianca, i Biasca, i Greca, i Magiatica, i Masculorum, i Piccinni, i Pellegrina, gli Sbavaglia e gli stessi Carcioffa.
Grazie agli studi condotti da Benedetto Fontana su documenti d’archivio, sappiamo quest’ultima famiglia ebbe una forma cognominale molto variabile fra i secoli XVI e XVII. Nel Libro dei Battezzati e negli Status Animarum, infatti, i Carcioffa sono indicati anche come “Fercata” (LB 1579), “Forcata alias Carcioffo” (LB 1584), “Scarcioppola” (SA 1665) e “Schiaccioppola” (SA 1693).
Se le origini di questa famiglia sono note, non altrettanto si può dire invece della sua supposta “nobiltà”. Secondo Pietro Brunetti, essa sarebbe provata proprio dall’uso dello stemma, “segno che tra gli immigrati vi furono anche famiglie nobili o, col tempo, divenute tali”. Si tratta, tuttavia, di un’affermazione priva di fondamento, che si basa su una percezione errata, ma purtroppo molto diffusa, del fenomeno araldico: la limitazione alla sola classe nobile del diritto allo stemma.
La realtà è invece un’altra: in nessuna parte dell’Europa occidentale, in nessun momento storico, l’uso dello stemma è stato appannaggio di una sola classe sociale. Ogni individuo, ogni famiglia, ogni gruppo è sempre stato libero di adottare un proprio stemma e di farne un uso privato, a condizione di non usurpare quelli altrui.
Le rare restrizioni documentate – che tuttavia restarono spesso lettera morta – hanno riguardato semmai l’uso pubblico delle armi, ma queste limitazioni non hanno mai interessato il Regno di Napoli, dove non è possibile rinvenire alcuna specifica regolamentazione in tal senso. In Terra d’Otranto, in particolare, sono numerosi gli esempi di armi appartenenti a famiglie borghesi o notabili che dir si voglia.
Del resto, il principio della libera assunzione degli stemmi fu enunciato già nel XIV dall’insigne giurista Bartolo da Sassoferrato, il quale nel suo trattato De insigniis et armis, assegnando all’arma una funzione simile a quella del nome, a tal proposito così scrisse: “[…] sicut enim nomina inventa sunt ad cognoscendum homines [… ] ita etiam ista insignia ad hoc inventa sunt […]”. Quanto ai Carcioffa, essi non raggiunsero mai nessuno status nobiliare, ma furono sicuramente una famiglia borghese e agiata. Tutto ciò non gli impedì affatto di dotarsi di un’insegna araldica e di impiegare, al momento della scelta, il procedimento più facile per crearsene una: l’arma parlante. Così facendo, aderirono a una pratica emblematica molto diffusa nell’araldica europea, il cui indice di frequenza, pari a circa il 20% degli stemmi medievali, crebbe ancora di più in epoca moderna, quando numerose famiglie non nobili e comunità fecero uso di insegne.
Quello delle armi parlanti, del resto, fu un fenomeno ben noto a Manduria. Ne cito qualche esempio, tratto dal saggio di Nino Palumbo Araldica civica e cenni storici dei comuni di Terra Jonica: una candela (Candeloro), un calice (Coppola), un leone (De Leonardis e Leo), un fagiano (Fasano), un ferro di cavallo (Ferri), una fontana (Fontana), quattro X (Quaranta), ecc.
La figura principale che campeggia nello scudo in esame – la pianta di carciofo, figura rarissima nelle armi – conferma, inoltre, una tendenza specifica che caratterizza l’araldica non nobile rispetto a quella nobile, vale a dire una maggiore diversificazione nel repertorio delle figure utilizzate. Gli studi di Michel Pastoureau hanno dimostrato come tale repertorio comprenda un maggior numero di oggetti della vita quotidiana, strumenti vari e figure vegetali, come quella che appare nell’arme Carcioffa.
Ora, agli occhi dell’osservatore moderno un emblema come può apparire burlesco e peggiorativo, ma occorre sottolineare che così facendo si incorre nell’anacronismo, il cancro della ricerca storica. Allo storico dei segni, invece, tale stemma appare per quello che è, ovvero un autentico documento di storia culturale e sociale, che, come tale, va compreso e contestualizzato. All’epoca, la famiglia era fiera di esibire il proprio emblema araldico, tanto che, nel pieno dello sviluppo urbanistico di Casalnuovo nel XVII secolo, decise di collocarlo non su un posto qualsiasi, ma sulla facciata della propria abitazione, con la triplice funzione di segno di riconoscimento, marchio di proprietà e motivo ornamentale.
Ancora oggi, dopo quattro secoli, lo stemma campeggia su questo antico edificio e si accompagna al motto di famiglia, CONSTANTIA ET LABORE, inciso sull’architrave della sottostante finestra, che risuona come una dichiarazione programmatica di intenti, un’ideale di vita che si beffa del trascorrere del tempo e delle mode. “Le blason est la clef de l’histoire“, disse Gérard de Nerval: mi piace concludere così queste brevi note.
  Bibliografia
Brunetti, Manduria, tra storia e leggenda. Dalle origini ai giorni nostri, Manduria 2007.
Fontana, Le famiglie di Manduria dal XV secolo al 1930. Capostipiti, provenienza, uomini illustri, Manduria 2015.
Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Lecce 1903, rist. anast. Bologna 1978.
Greco, Immigrazione di albanesi e levantini in Manduria desunta dal Librone Magno, in “Rinascenza Salentina”, 8 (1940), pp. 208-220.
Palumbo, Araldica civica e cenni storici dei comuni di terra jonica: genealogie ed armi di feudatari e di casate estinte e viventi, Manduria-Bari-Roma 1989.
Pastoureau, Medioevo simbolico, Bari 2014.
Pastoureau, Une écriture en images: les armoiries parlantes, in “Extrême-Orient Extrême-Occident”, 30 (2008), pp. 187-198.
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