#Librone Magno delle famiglie manduriane
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fondazioneterradotranto · 6 years ago
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La freccia e il delfino: alla scoperta di un antico (e dimenticato) palazzo di Manduria
Fig. 1 – Manduria, palazzo Ciracì, angolo fra vico Commestibili e vico Carceri Vecchie, particolare dello stemma
  di Marcello Semeraro
Lo stemma oggetto del presente studio si trova a Manduria, posto sull’angolo dell’edificio dove si incontrano vico Commestibili e vico Carceri Vecchie (fig. 1). Si tratta di una porzione dello storico palazzo Ciracì (oggi De Laurentiis), il cui prospetto principale domina il tratto iniziale di via del Fossato. Il palazzo attuale si presenta pesantemente rimaneggiato, fra abbellimenti del XVIII secolo e trasformazioni successive, ma conserva ancora tracce di architetture cinquecentesche, a testimonianza di una storia piuttosto movimentata[1].
L’esemplare araldico, rimasto fino ad ora anonimo, è costituito da uno scudo sagomato e accartocciato, il cui campo appare suddiviso in due metà da una linea di partizione chiamata partito: a destra[2] si vede una freccia cadente (vale a dire con la punta verso il basso), mentre a sinistra compare un delfino uscente da un mare ondato e accompagnato in capo da tre gigli male ordinati (cioè posti 1, 2). Dall’osservazione del contenuto blasonico si evince chiaramente che la composizione in oggetto, databile al XVI secolo[3], presenta tutte le caratteristiche di un’arma di alleanza matrimoniale, una combinazione araldica che si ottiene associando due stemmi diversi in uno stesso scudo per mezzo di una partizione (generalmente un partito o un inquartato).
In questo tipo di rappresentazione araldica l’arma del marito precede quasi sempre quella della moglie ed è così anche nel nostro caso. Lo stemma visibile nel primo quarto è attribuibile ai Saetta, famiglia di «nobili viventi» originaria di Lecce, che nella prima metà del XVI secolo si trasferì a Manduria-Casalnuovo, dove si distinse nel commercio di grano e nell’esercizio di importanti cariche amministrative (alcuni dei suoi membri furono sindaci, auditori, erari e luogotenenti)[4].
Tale attribuzione trova un importante riscontro nell’arma assegnata ai Saetta che figura nello stemmario Montefuscoli – un manoscritto araldico risalente al XVIII secolo, conservato presso la Biblioteca Universitaria di Napoli –, la quale differisce dall’esemplare manduriano per la presenza di due stelle ai lati della freccia (fig. 2).
Fig. 2 – Arma Saetta, Imprese ovvero stemme delle famiglie italiane raccolte da Gaetano Montefuscoli da diversi libri genealogici, blasonisti ed altri, Napoli, Biblioteca Universitaria, MSS. 121, vol. III, p. 131
  Quest’ultima figura è evidentemente allusiva al cognome (freccia-saetta) e riconduce l’insegna innalzata da questa famiglia alla categoria delle armi parlanti, un tipo di composizione molto frequente nel blasone europeo[5].
Proseguendo nella lettura dello stemma litico in esame, si nota che la figura principale che carica il secondo quarto del partito è un delfino, il «re dei pesci», un animale non molto frequente in araldica, impiegato spesso come figura parlante[6] (fig. 3).
Fig. 3 – Stemma della famiglia veneziana Dolfin, Insignia …VII. Insignia Venetorum nobilium II (A-IP), Monaco di Baviera, Bayerische StaatsBibliothek, Cod. icon. 272, fol. 136r
  Grazie all’ausilio dei dati genealogici contenuti nel Librone Magno – il celebre manoscritto iniziato dall’arciprete Lupo Donato Bruno nel 1572 e continuato da altri dopo la sua morte, che contiene le genealogie di tutte le famiglie casalnovetane dalla metà del Quattrocento alla fine del Settecento – è stato possibile risalire con certezza all’unione matrimoniale che rese possibile la rappresentazione contenuta nel nostro scudo (fig. 4)[7]. Mi riferisco alle nozze fra Bonifacio Saetta, un mercante di origini leccesi, capostipite del ramo casalnovetano, e Giulia Maria Delfino, appartenente ad un’influente famiglia di notai locali[8], alla quale, ovviamente, si riferisce lo stemma raffigurato nel secondo quarto[9].
Fig. 4 – Genealogia della famiglia Saetta, Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, MS. Rr/1-3, fol. 641r
  Il nostro Saetta fu un personaggio di primo piano nella vita politica ed economica casalnovetana della seconda metà del XVI secolo. Fu auditore (assessore) nel 1564-1565 e nel 1567-1568, luogotenente-castellano nel 1558-1559 e infine sindaco nel 1575-1576[10]. Lo storico Gérard Delille lo descrive come uno dei principali alleati e partner commerciali di Pirro Varrone, l’ebreo convertito al cristianesimo che per circa un trentennio fu il vero detentore del potere politico ed economico del paese[11].
Una volta assodata con certezza l’attribuzione dello stemma al nostro Bonifacio e alla moglie Giulia Maria, ho provveduto ad interpellare altre fonti storiche alla ricerca di riscontri sul nome dei Saetta quali antichi proprietari del palazzo. La prova decisiva, in tal senso, è arrivata dagli Stati delle Anime, vero e proprio censimento della popolazione locale, che veniva compilato dai parroci solitamente in occasione della benedizione pasquale.
Dagli Status Animarum del 1693, in particolare, si evince che i discendenti di Bonifacio abitavano in una casa di loro proprietà sita «in via vulgariter dicta delle Stalle» (fig. 5)[12]. Nell’antica toponomastica di Casalnuovo, con questa denominazione, attestata sin dal 1508, si indicava proprio quella poi sarebbe diventata l’attuale vico Carceri Vecchie, esattamente dove si affaccia uno dei due prospetti sul cui angolo campeggia il nostro stemma[13].
Fig. 5 – Status Animarum (1693-1726), Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti , Manoscritti, MS. Rr/9, fol. 270r
  Malgrado le trasformazioni subite dall’attuale palazzo nel corso del tempo, non vi sono ragioni per credere che l’insegna in esame si trovi al di fuori del suo contesto originario. È da ritenere, pertanto, che l’edificio di cui essa marca la proprietà sia effettivamente quello dove vissero i Saetta.
Gli studi più recenti dello storico svizzero Manfred Welti – che saranno pubblicati prossimamente e ai quali ho avuto modo di contribuire – dimostrano che lo stipite del ramo casalnovetano ebbe ottimi rapporti con Giovanni Bernardino Bonifacio (1517-1597), marchese d’Oria e signore di Casalnuovo e Francavilla, noto agli studiosi per il suo duplice aspetto di fine umanista e di precoce aderente alla riforma protestante, fuggito in modo rocambolesco nel 1557 con la conseguente confisca dei feudi[14].
Sul lato opposto di vico Carceri Vecchie si vedono ancora oggi i resti di un portale in stile catalano-durazzesco che secondo i più recenti studi sarebbe stato l’ingresso del cinquecentesco palazzo dei Bonifacio, feudatari di Casalnuovo[15]. Va da sé che se tale ipotesi fosse dimostrata, significherebbe le due famiglie abitavano proprio nelle immediate vicinanze.
Giunti a Casalnuovo in un periodo di eccezionale sviluppo, dovuto sia alla ricchezza derivata dall’agricoltura, sia al notevole flusso immigratorio [16], e approfittando della relativa apertura della nobiltà locale, i Saetta divennero in poco tempo una delle casate più potenti e cospicue del paese, arrivando a ricoprire più volte la carica più importante, quella di sindaco, alla quale, all’epoca, potevano avere accesso solo i maggiorenti del posto. Tuttavia, del loro stemma e del loro antico palazzo, situato in prossimità della cinta muraria, non è rimasta alcuna traccia nella storiografia locale. Ma il colpo più duro alla loro memoria è sicuramente quello inferto dall’incuria dell’uomo, che ha avuto come conseguenza il degrado dell’area compresa fra vico Commestibili e vico Carceri Vecchie. Se è vero che il compito della ricerca storica è anche quello di far conoscere il passato al fine di preservarne la memoria, l’auspicio è che i risultati di questa breve indagine possano contribuire alla conoscenza, alla valorizzazione e al recupero di un pezzo importante della storia e dell’architettura dell’antico centro abitato di Casalnuovo.
    [1] Sul palazzo si veda C. Caiulo, Schede sull’architettura storica a Manduria, in «Quaderni Archeo», 8 (2007), p. 51.
[2] Va ricordato che in araldica la destra corrisponde alla sinistra dell’osservatore (e viceversa), perché lo scudo va considerato dal punto di vista del portatore.
[3] Al di sotto dello scudo, nello spazio di muro ricavato per collocare lo stemma sull’angolo, si legge il numero 62, probabilmente ciò che resta della data relativa all’anno in cui fu collocata l’insegna (1562?).
[4] Cfr. G. Delille, Le Maire et le Prieur. Pouvoir central et pouvoir local en Méditerranée occidentale (XVe-XVIIIe siècle), Roma 2003, pp. 181, 190 e cap. 7 (tab. 1); B. Fontana, Le famiglie di Manduria dal XV secolo al 1930, Manduria 2015, p. 173. Per le informazioni sulle cariche ricoperte dai Saetta, si vedano le schede (ad vocem) compilate dallo storico francese Gérard Delille, conservate in un apposito fondo presso della Biblioteca comunale Marco Gatti di Manduria; per la lettura dell’albero genealogico, invece, cfr. Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, MS. Rr/1-3, fol. 641r.
[5] Si chiamano armi parlanti quelle che contengono figure che richiamano, direttamente o indirettamente, il nome della famiglia del possessore dello stemma. Si tratta di una tipologia di armi che esiste sin dalla nascita del sistema araldico nel XII secolo e che costituisce circa il 20% degli stemmi medievali, con un aumento significativo in epoca moderna, grazie soprattutto alla diffusione che esse ebbero fra i non nobili e le comunità (cfr. M. Pastoureau, Une écriture en images: les armoiries parlantes, in «Extrême-Orient, Extrême-Occident», 30 [2008], pp. 187-198). L’indice di frequenza di questa categoria di armi è particolarmente elevato anche in Terra d’Otranto, Manduria compresa, come dimostrano i seguenti casi: un basilisco per i Basile, una candela per i Candeloro, un calice per i Coppola, un cuore per i Corrado, un leone per i De Leonardis, un fagiano per i Fasano, una fontana per i Fontana, un Gatto per i Gatti, un lupo per i Lupo, un colombo per i Palumbo, ecc. (cfr. N. Palumbo, Araldica civica e cenni storici dei comuni di Terra Jonica, Manduria 1989, pp. 355-362).
[6] Occorre ricordare che araldica il delfino è considerato un pesce e non un cetaceo, nozione, quest’ultima, che si affermerà solo a cavallo fra XVIII e il XIX secolo. È il re della fauna marina del blasone, l’equivalente acquatico del leone e dell’aquila. La sua rappresentazione araldica ha ben poco di naturalistico e risente, invece, di un tipico processo di «demonizzazione» dell’antico. Si raffigura normalmente in palo, con il corpo ricurvo a semicerchio, la testa e la coda rivolte verso il fianco destro dello scudo. Il muso ha un aspetto ferino, mentre la testa (che talvolta è coronata) è munita di bargigli e di cresta. Sul delfino araldico si vedano soprattutto M. Pastoureau, Traité d’héraldique, Paris 20085, pp. 152, 153, e M. C. A. Gorra, Il delfino nel mito, nell’estetica, nell’araldica, in «Il delfino e la mezzaluna», 1 (2012), n. 1, pp. 7-12.
[7] Cfr. Librone Magno cit., fol. 641r; sul manoscritto, invece, si veda G. Delille, Famiglia e proprietà nel Regno di Napoli (XV-XIX secolo), Torino 1988, p. 207.
[8] Sulla famiglia Delfino si vedano Fontana, Le famiglie di Manduria cit., p. 74, e P. Brunetti, Manduria tra storia e leggenda, dalle origini ai giorni nostri, Manduria 2007, p. 253.
[9] Benché non sia stato possibile trovare ulteriori riscontri sull’uso di tale stemma da parte di questa antica famiglia casalnovetana, faccio comunque notare che molte delle casate italiane il cui nome evoca un delfino presero proprio il cetaceo come figura parlante del proprio scudo (fig. 3). Qualche esempio di trova in G. B. di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890 (rist. anast. Bologna 1965), vol. 1, pp. 355, 363.
[10] Fra i suoi discendenti si segnalano: il figlio Giovanni Bernardino, che fu erario negli anni Ottanta del Cinquecento; Giacinto, figlio di un altro Bonifacio Saetta e di Argentina Bruna, priore del Monte di Pietà (1655-1656, 1656-1657), erario (1657-1658, 1669-1670) e sindaco (1659-1660, 1676-1677, 1683-1684); e, infine, il figlio di quest’ultimo, Bonifacio, sposato con Anna Rosa Papatodero, sindaco nel 1697-1698. Anche queste informazioni sono state desunte dalle già citate schede di Gérard Delille (v. supra, nota 4). Da un atto notarile del 1588, inoltre, si ricava il succitato Giovanni Bernardino fu anche barone di Giurdignano (cfr. M. Alfonzetti, M. Fistetto, I protocolli dei notai di Casalnovo nel Cinquecento: regestazione degli atti notarili dei notai casalnovesi conservati nell’Archivio di Stato di Taranto, Manduria 2003, p. 342, n. 399).
[11] Cfr. Delille, Le Maire cit., pp. 190, 212.
[12] Cfr. Status Animarum (1693-1726), Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti , Manoscritti, MS. Rr/9, fol. 270r.
[13] Cfr. P. Brunetti, Manduria-Casalnuovo: le strade, le piazze, Oria 1999, p. 24; Id., Manduria tra storia cit., p. 268.
[14] Su Giovanni Bernardino Bonifacio si veda M. E. Welti, Dall’umanesimo alla riforma. Giovanni Bernardino Bonifacio marchese di Oria (1517-1557), Brindisi 1986.
[15] Cfr. Caiulo, Schede sull’architettura cit., p. 53; N. Morrone, Architettura del Rinascimento a Manduria, disponibile al seguente indirizzo: <http://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/09/architettura-del-rinascimento-a-manduria/>.
[16] Brunetti, Manduria tra storia cit., pp. 258-263.
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fondazioneterradotranto · 7 years ago
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Uno stemma coniugale nella biblioteca di Manduria
DUE SPOSI, UNO SCUDO: ANALISI E ATTRIBUZIONE DELLO STEMMA CONSERVATO NELLA BIBLIOTECA COMUNALE MARCO GATTI DI MANDURIA
di Marcello Semeraro
L’araldica intrattiene stretti rapporti con l’antroponimia. Gli studi di Michel Pastoureau sulle armi parlanti – sono così chiamate quelle armi che contengono figure che richiamano direttamente o indirettamente il nome della famiglia del possessore dello stemma[1] – dimostrano come in questo particolare ambito gli interessi delle due discipline convergano[2].
Si tratta di una tipologia di armi che esiste sin dalla nascita del sistema araldico nel XII secolo e che costituisce circa il 20% degli stemmi medievali, con un aumento significativo in epoca moderna grazie soprattutto alla diffusione che queste armi ebbero fra i non nobili e le comunità[3].
L’individuazione della natura parlante di uno stemma può talvolta costituire l’unico mezzo che l’araldista ha per riconoscere armi che altrimenti, a causa della lacuna nelle fonti araldiche di un determinato territorio, resterebbero anonime. Istruttivo è il caso dell’esemplare araldico oggetto di questa disamina.
Si tratta di uno stemma litico di grandi dimensioni, privo del suo contesto originario, che giace come pezzo erratico all’ingresso della biblioteca comunale “Marco Gatti” di Manduria (fig. 1).
Non esistono, che io sappia, studi specifici su questa insegna, ma solo descrizioni occasionali e attribuzioni parziali che certamente non aiutano a individuarne committenza, cronologia e provenienza[4]. La presente indagine si propone dunque di colmare questa lacuna, cercando altresì di situare il manufatto nello spazio e nel tempo. Osservando la composizione dello stemma, l’araldista riconosce facilmente all’interno dello scudo ovale e accartocciato[5] un’arma d’alleanza matrimoniale che riunisce, per mezzo di uno scudo partito[6], due insegne araldiche differenti, appartenenti di due persone sposate. Associazione del blasone del marito (posto a destra, sinistra per chi guarda) con quello del padre della sposa (a sinistra, destra per chi guarda) lo scudo partito rappresenta, sin dal XIII secolo, il procedimento più impiegato per indicare due famiglie unite in matrimonio e mostra, in particolare, come una donna sia stata donata da un uomo a un altro uomo.
Dal punto di vista cronologico, la forma dello scudo[7] e lo stile generale della composizione invitano a datare il manufatto in esame a un periodo compreso fra la seconda metà del XVI secolo e gli inizi del XVII.
Nel secondo quarto[8] del partito si riconosce chiaramente l’arma della famiglia Pasanisi[9], dalla quale proviene la sposa: d’azzurro, inquartato da un filetto in croce d’argento: nel 1° e nel 4° un leone d’oro; nel 2° e nel 3° tre anelletti intrecciati del secondo[10].
Se dunque l’identificazione della famiglia di provenienza della moglie non pone problemi, non altrettanto si può dire per quella del marito, rappresentata nella prima parte dello scudo. Il blasone che si vede (troncato: nel 1° tre stelle male ordinate[11]; nel 2° un quadrupede[12] dormiente) costituisce, infatti, un vero e proprio apax che non trova altre attestazioni su stemmari, monumenti o altre testimonianze materiali o narrative.
In casi di questo genere può rivelarsi fruttuoso il ricorso alla genealogia familiare, restringendo ovviamente il campo di ricerca al periodo documentato dalla cronologia dello stemma. Per Manduria, la fonte per eccellenza per questo genere di ricerche è il Libro Magno delle famiglie di Casalnuovo, il celebre manoscritto iniziato dall’arciprete Lupo Donato Bruno nel 1572 e continuato da altri dopo la sua morte, che contiene le genealogie di tutte le famiglie casalnovetane dalla metà del Quattrocento alla fine del Settecento[13].
Ebbene, fra tutte le famiglie i cui membri, fra seconda metà del XVI secolo e gli inizi del XVII, presero in moglie una Pasanisi, solo una può aver portato uno scudo recante un quadrupede rappresentato nell’atto di dormire, posizione, quest’ultima, piuttosto rara nelle armi, tanto da costituire nel caso specifico la chiave di lettura per la decifrazione dell’intero manufatto araldico. Mi riferisco alla famiglia Dormio, di origine mesagnese, definita “nobile” dal Foscarini, diramata a Lecce nel XVII secolo, estinta nel 1883 e titolare di vari feudi in Terra d’Otranto[14].
Sebbene di questa schiatta non sia noto il blasone, l’estrema caratterizzazione della posizione del quadrupede che si vede nel quarto in esame, la sua natura parlante allusiva al cognome (Dormio/animale dormiente) e l’impossibile sovrapposizione con lo stemma di altre casate imparentate con i Pasanisi nel periodo di riferimento contribuiscono a rendere inequivocabile tale l’attribuzione. Dall’esame comparato dei dati provenienti dal Libro Magno e dagli atti notarili emerge che negli anni ottanta del XVI secolo i fratelli Donato Antonio e Alessandro, figli di Francesco Dormio di Mesagne, impalmarono le sorelle Minerva e Pollonia Pasanisi, figlie del notaio Carlo e di Isabella Barbera[15].
Lo stemma partito per alleanza matrimoniale è attribuibile, dunque, a una di queste due coppie. Ci chiediamo, a questo punto, se sia possibile risalire all’edificio sul quale lo stemma era originariamente collocato. Purtroppo la decontestualizzazione del manufatto e l’assenza di informazioni sulle circostanze che ne determinarono il trasferimento in biblioteca non permettono di dare risposte adeguate a questo quesito. Occorre dunque indirizzare la ricerca altrove, segnatamente agli atti notarili.
Una prima verifica effettuata sui regesti dei rogiti del XVI secolo ha offerto, da questo punto di vista, un quadro interessante ma parziale che va necessariamente approfondito attraverso ulteriori e più complete indagini. Le ricerche, in particolare, vanno condotte sia su eventuali beni immobili facenti parte del patrimonio dotale assegnato ai due fratelli mesagnesi, sia su quelli da loro acquisiti per compravendita[16]. Come si vede, il materiale documentario per future e auspicabili investigazioni non manca.
L’attribuzione dello stemma conservato nella biblioteca Marco Gatti pone comunque l’accento sull’importanza dell’araldica come scienza documentaria della storia, in particolare sulla sua utilità nella risoluzione di problemi legati alla committenza e alla cronologia di un determinato manufatto. L’auspicio è che gli storici e gli storici dell’arte ne facciano tesoro!
  Note
[1] Qualche esempio: una scala per gli Scaligeri, una colonna per i Colonna, tre pignatte per i Pignatelli, un castello per Castiglia, un leone per León, ecc. La relazione parlante che si stabilisce fra le figure dello scudo e il cognome può articolarsi in modo diretto, allusivo o attraverso un gioco di parole.
[2] Cfr. M. Pastoureau, Une écriture en images: les armoiries parlantes, in “Extrême-Orient Extrême-Occident”, 30 (2008), pp. 187-198.
[3] Anche in Terra d’Otranto l’indice di frequenza delle armi parlanti fu particolarmente elevato, Manduria compresa, come dimostrano i seguenti casi: un basilisco per i Basile, una candela per i Candeloro, un calice per i Coppola, un cuore per i Corrado, un leone per i De Leonardis, un fagiano per i Fasano, una fontana per i Fontana, un Gatto per i Gatti, un lupo per i Lupo, un colombo per i Palumbo, ecc. Cfr. N. Palumbo, Araldica civica e cenni storici dei comuni di Terra Jonica, Manduria 1989, pp. 355-362.
[4] Vedi, ad esempio, P. Brunetti, Manduria: tra storia e leggenda, dalle origini ai giorni nostri, Manduria 2007, p. 253. L’autore assegna genericamente lo stemma alla famiglia Pasanisi, ma, come vedremo più avanti, questa attribuzione è vera solo per la seconda parte dell’arma.
[5] Dietro lo scudo si vedono inoltre dei nastri svolazzanti, aventi una semplice funzione decorativa.
[6] Si dice partito lo scudo diviso in due parti uguali da una linea verticale.
[7] Sull’evoluzione della forma dello scudo v. O. Neubecker, Araldica: origini, simboli e significato, Milano 1980, pp. 76-77.
[8] Il quarto (detto anche punto dell’arma) indica ciascuna delle singole armi che, nella loro interezza, compongono stemmi più complessi, purché ognuno di essi rappresenti un’arma separata.
[9] Una delle più importanti e antiche famiglie di Manduria, proveniente da Pasano, antico villaggio costiero in agro di Sava e forse originaria dell’area greco-bizantina. Documentata sin dal XIV secolo con Pietro Pasanisio, la casata (tuttora fiorente) annoverò fra i suoi membri notai, giureconsulti, chierici e sindaci e si imparentò con importanti famiglie feudali come i Montefuscolo, i Luzzi e i dell’Antoglietta. Cfr. B. Fontana, Le famiglie di Manduria dal XV secolo al 1930: capostipiti, provenienza, uomini illustri, Manduria 2005, pp. 153-154.
[10] Lo stemma inquartato dei Pasanisi, del quale esistono varianti soprattutto nella rappresentazione degli smalti, è stato impropriamente blasonato dallo studioso Nino Palumbo come Pasanisi-Dragonetti (cfr. Araldica civica cit., p. 361), dal nome della diramazione omonima generata agli inizi del Settecento dal matrimonio fra Francesco Antonio Pasanisi e Laudonia Dragonetti. L’esame comparato delle testimonianze araldiche superstiti e della genealogia familiare permette invece di affermare che l’uso dell’inquarto è comune a tutti i rami della famiglia, perlomeno sin dal XVI secolo. Istruttivo è, sotto questo profilo, il caso dell’esemplare Pasanisi che appare nel secondo quarto dello scudo partito oggetto di questo studio. Allo stato attuale delle ricerche non è possibile fornire una spiegazione certa circa l’origine dell’arma inquartata innalzata dalla storica famiglia manduriana.
[11] Si dice di più figure uguali fra loro e poste a triangolo, ma con la maggior parte di esse verso la punta dello scudo anziché, come invece avviene di norma, verso il capo.
[12] Utilizzo volutamente il termine quadrupede perché non è stato possibile individuarne l’esatta natura. Potrebbe essere un felino o un cane, ma comunque si tratta di un animale non inquadrabile in una specifica tipologia araldica.
[13] Cfr. Libro Magno delle famiglie di Casalnuovo, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, MS. Rr/1-3; G. Delille, Famiglia e proprietà nel Regno di Napoli (XV-XIX secolo), Torino 1988, p. 207.
[14] A. Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Lecce 1903, rist. anast. Bologna 1978, p. 88.
[15] L’atto di costituzione della dote apportata da Minerva a Donato Antonio fu rogato a Casalnuovo dal notaio Felice Pasanisi l’11 novembre 1581. Il dotante fu Isabella Barbera, madre della futura sposa, in quanto vedova del notaio Carlo Pasanisi. Un altro istrumento, rogato dallo stesso notaio il 22 ottobre 1588, riporta invece i capitoli matrimoniali firmati da Francesco Dormio e Isabella Barbera in occasione delle nozze dei rispettivi figli Alessandro e Pollonia, celebrate nella chiesa matrice di Casalnuovo il giorno dopo. Cfr. M. Alfonzetti, M. Fistetto, I protocolli dei notai di Casalnovo nel Cinquecento: regestazione degli atti notarili dei notai casalnovesi conservati nell’Archivio di Stato di Taranto, Manduria 2003, pp. 212 (n. 14) e 239 (nn. 31, 32). Grazie al Libro Magno (cfr. cc. 487r e 811r) sappiamo inoltre che Donato Antonio e Minerva ebbero tre figli (Teodoro, Giovanni Giacomo e Artemisia) e che altrettanti ne ebbero Alessandro e Pollonia (Francesco Antonio, Anna e Caterina).
[16] L’1 marzo del 1592 Geronimo delli Fiori, di Casalnuovo, vende a Alessandro e Donato Antonio Dormio una casa dotata di un giardino retrostante e di un luogo aperto davanti, sita nel Borgo della Porta Grande, nel luogo detto avante la Porta Grande, per 110 ducati. Il 3 agosto 1592 Antonio Schiavone, di Casalnuovo, vende a Donato Antonio Dormio 10 pezze di vigna, site in Casalnuovo, in località Piterta, ed un clausorio parietato, con dentro una casa, corte, giardino e 30 tomoli di zafferano, sito nello stesso feudo, alla via della Vetrana, per 190 ducati. Il 20 febbraio 1587 Donato De Ugento vende a Donato Antonio Dormio una casa palacciata, sita intus terram Casalis novi, in Plateam pubblicam dicte terre, per 70 ducati. Cfr. Alfonzetti, Fistetto, I protocolli cit., pp. 264 (n. 55), 271 (n. 109) e 320 (n. 253).
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fondazioneterradotranto · 7 years ago
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L’antica casa Carcioffa di Manduria e il suo stemma
di Marcello Semeraro
Fra gli stemmi più curiosi che si possono osservare nel centro storico di Manduria, un posto di primo piano spetta sicuramente a quello della famiglia Carcioffa, antica casata di origine albanese, oggi estinta.
L’arma si trova scolpita sulla facciata dell’edificio sito al civico n° 15 di Piazza Plinio ed è racchiusa da uno scudo ovale, con contorno a cartoccio (nella parte superiore) e a foglie di acanto (in quella inferiore), ornato da nastri accollanti e svolazzanti (fig. 1).
  Fig. 1 – Manduria, casa Carcioffa, particolare dello stemma murato sulla facciata
  Il manufatto, diversamente da quanto dovette essere in origine, si presenta oggi acromo e costituisce l’unica attestazione a noi nota del blasone di questa antica famiglia. All’interno dello scudo è rappresentata una pianta di carciofo, gambuta e fiorita di sette pezzi, sostenuta da due leoncini controrampanti; il tutto è posto su un terreno e accompagnato, nei cantoni destro e sinistro del capo, da due stelle di otto raggi. L’araldista riconosce subito che si tratta di un caso di stemma parlante, una particolare tipologia di arma, cioè, che contiene raffigurazioni che alludono (direttamente o indirettamente) al nome di famiglia.
Nel caso specifico, la relazione che si stabilisce fra la figura principale dello scudo e il cognome (ovvero fra il significante e il significato) è talmente diretta da risultare chiara e comprensibile anche a chi sia digiuno di cose araldiche. Cronologicamente parlando, l’esemplare litico è databile alla prima metà del Seicento e presenta, nella tipologia di scudo e nei suoi ornamenti esterni, delle affinità stilistiche con altri manufatti coevi, come ad esempio l’arma della baronessa Filippa di Cosenza, visibile all’interno della chiesa di San Giovanni Battista di Oria e realizzata, come recita la sottostante epigrafe, nel 1613, ovvero quasi tre secoli dopo la sua morte (1348).
Seicentesca è, del resto, la stessa casa Carcioffa, un edificio che ricalca una tipologia costruttiva che proprio in quel secolo si sviluppò a Casalnuovo (l’antico nome di Manduria) durante la signoria degli Imperiali. Come abbiamo già accennato, la famiglia Carcioffa è di origine albanese e come tale viene annoverata nel Librone Magno delle famiglie manduriane, il celebre manoscritto iniziato nel 1572 dall’arciprete della Collegiata Lupo Donato Bruno, sulla cui attendibilità non sussistono dubbi (figg. 2 e 3).
Fig. 2 – Note genealogiche sulla famiglia Carcioffa. Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, ms. Rr/1-3 (1572-1810), c. 806v.
  Fig. 3 – Frontespizio stemmato del Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, ms. Rr/1-3 (1572-1810), c. 3r. La pluralità di insegne disegnate e acquerellate mette in scena la gerarchia dei poteri (religiosi e laici) esistenti all’epoca della compilazione del manoscritto (1572): il papa Gregorio XIII (in alto a sinistra), il re di Napoli Filippo II di Spagna (in alto a destra), l’arcivescovo di Oria Bernardino Figueroa (in basso a sinistra), il feudatario Davide Imperiali (in basso a destra). Al centro, lo stemma dell’Universitas, in alto quello del Capitolo della Collegiata di Manduria e in basso, quello dell’arciprete Lupo Donato Bruno.
È noto che il fenomeno dell’immigrazione albanese, iniziato nella seconda metà del ‘400 a seguito della caduta dell’Impero bizantino (1453), interessò una vasta area del tarantino ed ebbe una presenza significativa anche nella stessa Manduria.
  Fra le famiglie manduriane di sicura origine albanese ricordiamo i Bianca, i Biasca, i Greca, i Magiatica, i Masculorum, i Piccinni, i Pellegrina, gli Sbavaglia e gli stessi Carcioffa.
Grazie agli studi condotti da Benedetto Fontana su documenti d’archivio, sappiamo quest’ultima famiglia ebbe una forma cognominale molto variabile fra i secoli XVI e XVII. Nel Libro dei Battezzati e negli Status Animarum, infatti, i Carcioffa sono indicati anche come “Fercata” (LB 1579), “Forcata alias Carcioffo” (LB 1584), “Scarcioppola” (SA 1665) e “Schiaccioppola” (SA 1693).
Se le origini di questa famiglia sono note, non altrettanto si può dire invece della sua supposta “nobiltà”. Secondo Pietro Brunetti, essa sarebbe provata proprio dall’uso dello stemma, “segno che tra gli immigrati vi furono anche famiglie nobili o, col tempo, divenute tali”. Si tratta, tuttavia, di un’affermazione priva di fondamento, che si basa su una percezione errata, ma purtroppo molto diffusa, del fenomeno araldico: la limitazione alla sola classe nobile del diritto allo stemma.
La realtà è invece un’altra: in nessuna parte dell’Europa occidentale, in nessun momento storico, l’uso dello stemma è stato appannaggio di una sola classe sociale. Ogni individuo, ogni famiglia, ogni gruppo è sempre stato libero di adottare un proprio stemma e di farne un uso privato, a condizione di non usurpare quelli altrui.
Le rare restrizioni documentate – che tuttavia restarono spesso lettera morta – hanno riguardato semmai l’uso pubblico delle armi, ma queste limitazioni non hanno mai interessato il Regno di Napoli, dove non è possibile rinvenire alcuna specifica regolamentazione in tal senso. In Terra d’Otranto, in particolare, sono numerosi gli esempi di armi appartenenti a famiglie borghesi o notabili che dir si voglia.
Del resto, il principio della libera assunzione degli stemmi fu enunciato già nel XIV dall’insigne giurista Bartolo da Sassoferrato, il quale nel suo trattato De insigniis et armis, assegnando all’arma una funzione simile a quella del nome, a tal proposito così scrisse: “[…] sicut enim nomina inventa sunt ad cognoscendum homines [… ] ita etiam ista insignia ad hoc inventa sunt […]”. Quanto ai Carcioffa, essi non raggiunsero mai nessuno status nobiliare, ma furono sicuramente una famiglia borghese e agiata. Tutto ciò non gli impedì affatto di dotarsi di un’insegna araldica e di impiegare, al momento della scelta, il procedimento più facile per crearsene una: l’arma parlante. Così facendo, aderirono a una pratica emblematica molto diffusa nell’araldica europea, il cui indice di frequenza, pari a circa il 20% degli stemmi medievali, crebbe ancora di più in epoca moderna, quando numerose famiglie non nobili e comunità fecero uso di insegne.
Quello delle armi parlanti, del resto, fu un fenomeno ben noto a Manduria. Ne cito qualche esempio, tratto dal saggio di Nino Palumbo Araldica civica e cenni storici dei comuni di Terra Jonica: una candela (Candeloro), un calice (Coppola), un leone (De Leonardis e Leo), un fagiano (Fasano), un ferro di cavallo (Ferri), una fontana (Fontana), quattro X (Quaranta), ecc.
La figura principale che campeggia nello scudo in esame – la pianta di carciofo, figura rarissima nelle armi – conferma, inoltre, una tendenza specifica che caratterizza l’araldica non nobile rispetto a quella nobile, vale a dire una maggiore diversificazione nel repertorio delle figure utilizzate. Gli studi di Michel Pastoureau hanno dimostrato come tale repertorio comprenda un maggior numero di oggetti della vita quotidiana, strumenti vari e figure vegetali, come quella che appare nell’arme Carcioffa.
Ora, agli occhi dell’osservatore moderno un emblema come può apparire burlesco e peggiorativo, ma occorre sottolineare che così facendo si incorre nell’anacronismo, il cancro della ricerca storica. Allo storico dei segni, invece, tale stemma appare per quello che è, ovvero un autentico documento di storia culturale e sociale, che, come tale, va compreso e contestualizzato. All’epoca, la famiglia era fiera di esibire il proprio emblema araldico, tanto che, nel pieno dello sviluppo urbanistico di Casalnuovo nel XVII secolo, decise di collocarlo non su un posto qualsiasi, ma sulla facciata della propria abitazione, con la triplice funzione di segno di riconoscimento, marchio di proprietà e motivo ornamentale.
Ancora oggi, dopo quattro secoli, lo stemma campeggia su questo antico edificio e si accompagna al motto di famiglia, CONSTANTIA ET LABORE, inciso sull’architrave della sottostante finestra, che risuona come una dichiarazione programmatica di intenti, un’ideale di vita che si beffa del trascorrere del tempo e delle mode. “Le blason est la clef de l’histoire“, disse Gérard de Nerval: mi piace concludere così queste brevi note.
  Bibliografia
Brunetti, Manduria, tra storia e leggenda. Dalle origini ai giorni nostri, Manduria 2007.
Fontana, Le famiglie di Manduria dal XV secolo al 1930. Capostipiti, provenienza, uomini illustri, Manduria 2015.
Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Lecce 1903, rist. anast. Bologna 1978.
Greco, Immigrazione di albanesi e levantini in Manduria desunta dal Librone Magno, in “Rinascenza Salentina”, 8 (1940), pp. 208-220.
Palumbo, Araldica civica e cenni storici dei comuni di terra jonica: genealogie ed armi di feudatari e di casate estinte e viventi, Manduria-Bari-Roma 1989.
Pastoureau, Medioevo simbolico, Bari 2014.
Pastoureau, Une écriture en images: les armoiries parlantes, in “Extrême-Orient Extrême-Occident”, 30 (2008), pp. 187-198.
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