#Falce Fantasma
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La luna di pomeriggio nessuno la guarda, ed è quello il momento in cui avrebbe più bisogno del nostro interessamento, dato che la sua esistenza è ancora in forse. E' un'ombra biancastra che affiora dall’azzurro del cielo, carico di luce solare; chi ci assicura che ce la farà anche stavolta a prendere forma e lucentezza? E' così fragile e pallida e sottile; solo da una parte comincia ad acquistare un contorno netto come un arco di falce, e il resto è ancora tutto imbevuto di celeste. E' come un’ostia trasparente, o una pastiglia mezzo dissolta; solo che qui il cerchio bianco non si sta disfacendo ma condensando, aggregandosi a spese delle macchie e ombre grigiazzurre che non si capisce se appartengano alla geografia lunare o siano sbavature del cielo che ancora intridono il satellite poroso come una spugna.
In questa fase il cielo è ancora qualcosa di molto compatto e concreto e non si può essere sicuri se è dalla sua superficie tesa e ininterrotta che si sta staccando quella forma rotonda e biancheggiante, d’una consistenza ancora più solida delle nuvole, o se al contrario si tratta d’una corrosione del tessuto del fondo, una smagliatura della cupola, una breccia che s’apre sul nulla retrostante. L’incertezza é accentuata dall'irregolarità della figura che da una parte sta acquistando rilievo (dove più le arrivano i raggi del sole declinante), dall’altra indugia in una specie di penombra. E siccome il confine tra le due zone non è netto, l’effetto che ne risulta non è quello d’un solido visto in prospettiva ma piuttosto d’una di quelle figurine delle lune sui calendari, in cui un profilo bianco si stacca entro un cerchietto scuro. Su questo non ci sarebbe proprio nulla da eccepire, se si trattasse d’una luna al primo quarto e non d’una luna piena o quasi. Tale essa infatti sta rivelandosi, man mano che il suo contrasto col cielo si fa più forte e la sua circonferenza si va disegnando più netta, con appena qualche ammaccatura sul bordo di levante.
Bisogna dire che l’azzurro del cielo ha virato successivamente verso il pervinca, verso il viola (i raggi del sole sono diventati rossi), poi verso il cenerognolo e il bigio, e ogni volta il biancore della luna ha ricevuto una spinta a venir fuori più deciso, e al suo interno la parte più luminosa ha guadagnato estensione fino a coprire tutto il disco. E' come se le fasi che la luna attraversa in un mese fossero ripercorse all’interno di questa luna piena o luna gobba, nelle ore tra il suo sorgere e il suo tramontare, con la differenza che la forma rotonda resta più o meno tutta in vista.In mezzo al cerchio le macchie ci sono sempre, anzi i loro chiaroscuri si fanno più contrastati per rapporto alla luminosità del resto, ma ora non c'è dubbio che è la luna che se li porta addosso come lividi o ecchimosi, e non si può più crederli trasparenze del fondale celeste, strappi nel manto d’un fantasma di luna senza corpo. Piuttosto, ciò che ancora resta incerto è se questo guadagnare in evidenza e (diciamolo) splendore sia dovuto al lento arretrare del cielo che più s’allontana più sprofonda nell'oscurità, o se invece è la luna che sta venendo avanti raccogliendo la luce prima dispersa intorno e privandone il cielo e concentrandola tutta nella tonda bocca del suo imbuto. E soprattutto questi mutamenti non devono far dimenticare che nel frattempo il satellite è andato spostandosi nel cielo procedendo verso ponente e verso l’alto.
La luna è il più mutevole dei corpi dell’universo visibile, e il più regolare nelle sue complicate abitudini: non manca mai agli appuntamenti e puoi sempre aspettarla al varco, ma se la lasci in un posto la ritrovi sempre altrove, e se ricordi la sua faccia voltata in un certo modo, ecco che ha già cambiato posa, poco o molto. Comunque, a seguirla passo passo, non t'accorgi che impercettibilmente ti sta sfuggendo. Solo le nuvole intervengono a creare 1’illusione d’una corsa e d’una metamorfosi rapide, o meglio, a dare una vistosa evidenza a ciò che altrimenti sfuggirebbe allo sguardo.
Corre la nuvola, da grigia si fa lattiginosa e lucida, il cielo dietro è diventato nero, è notte, le stelle si sono accese, la luna è un grande specchio abbagliante che vola. Chi riconoscerebbe in lei quella di qualche ora fa? Ora è un lago di lucentezza che sprizza raggi tutt'intorno e trabocca nel buio un alone di freddo argento e inonda di luce bianca le strade dei nottambuli. Non c'è dubbio che quella che ora comincia è una splendida notte di plenilunio d’inverno. A questo punto, assicuratosi che la luna non ha più bisogno di lui, il signor Palomar torna a casa.
(Italo Calvino, da "Palomar": Luna di pomeriggio)
nell'ansia del momento ho trovato un bel brano. mi piace.
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Quando l’incubo ritorna
Non è possibile che ogni volta che provo a portare avanti un rapporto umano, per la mia impulsività ed il mio istinto io riesca a mandarlo a puttane. Veramente divertente vedere le persone a cui voglio un bene dell’anima o per cui provo qualcosa vederle lasciarmi una dietra l’altra. Non ce la faccio più a vivere in questo genocidio, dove il più idiota (io) non riesco a mantenere il rapporto umano con quelle persone che vorrei accanto tutta la vita. Qua non si parla per forza di relazione sentimentale, ma anche di relazione amicale. Ed ogni volta che uno di loro scappa per le mie contraddizioni mi si lacera il cuore ed il mio vuoto esistenziale si espande a macchia d’olio. La mia famiglia che non tent neanche di capire il mio bisogno di farmi le mie esperienze anche a costo di sbagliare. Nessuno nasce imparato, io non faccio sicuramente eccezione. Se dovessimo continuare a litigare e bastonarci in questo modo, ovvero a mantenere il rapporto malsano e nocivo privo di qual si voglia comprensione io mi distaccherò totalmente da loro e me ne andrò per conto mio. Tanto non fa differenza se devo continuare a vivere in questo inferno e la nostra relazione deve continuare ad essere nociva perché non vogliono provare a capirmi, tanto vale vivermela da solo o arrivare direttamente a levarmi da solo perché non voglio passare la mia vita sentimentale affettivo da solo. Devo trovare il modo di calmarmi e provare a creare quel legame di fiducia che un giorno mi consentirà di trovare il mio equilibrio interno, dandomi così la persona di legarmi ad una o più persone in una relazione sentimentale. Mi chiedo se loro siano realmente disposti a venirmi incontro, trovando un accordo fra le loro mappe mentali la mia mappa mentale. Il motivo per cui cerco solo scopamicizie, è semplicemente uno: al momento non sarei in grado di portare avanti nessun tipo di relazione sentimentale, per quanto la possa desiderare, finirei soltanto per far soffrire l’altra/le altre persone e ferire me stesso ancor più di quanto non abbia già fatto. Se continuo in questo modo, finirò palesemente per annichilirmi da solo ed arrivare al suicidio senza alcun problema. Preferirei non arrivarci, ho troppe cose da fare in questo mondo, per quanto i ritardati che non rispettano la vita sia in senso letterale sia in senso figurato mi diano immensamente fastidio, come quelle persone che non sanno fare da guida nemmeno a sé stesse. Mi chiedo perché sono così bravo a dare consigli agli altri, ma mai a mantenerli quando si tratta di qualcosa che riguarda me, in particolar modo quando si parla di mantenere legami interpersonali. Io questa vita da fantasma rifiuto veramente di farla, mi sta dilaniando anima e corpo. Troppo anche per me, nonostante ciò continuo a camminare con la mia falce insanguinata in mano e non perdo occasione per combattere per i miei sogni, ovviamente uno di essi è riuscire a mantenere una relazione in piedi senza che si spezzi a velocità supersonica, per riuscire a diventare il superuomo che Nietzsche descriveva nella sua letteratura mi manca il controllo delle mie emozioni messe in paragone con la realtà circostante. Sinceramente parlando mi chiedo quanto ancora devo soffrire prima di riuscire a raggiungerla. Stavolta sono disposto veramente a tutto pur di non perdere nessuno a cui voglio realmente bene. Purtroppo un’altra persona a cui tengo o meglio dire tenevo se ne sta andando dalla mia vita e non ricomparirà mai più, come molte altre hanno già fatto per il mio inesistente controllo delle emozioni. Il sentirlo lontano, mi sta facendo solo aumentare le emozioni negative che provo verso me stesso. A questo punto dirmi che mi odio non è affatto eccessivo, avrei voluto veramente stringerci un forte legame con lui e chissà forse sarebbe potuta anche finire in relazione, ma in queste condizioni sarebbe stato impossibile, si sarebbe solo sentito preso in giro o non amato totalmente da me nonostante sia l’esatto opposto. Se va via, non ho diritto di replicare anche se la cosa mi dilanierà fortemente stavolta perché ci tenevo veramente un sacco. Se deciderà di restare nella mia vita, farò di tutto per tenerlo stretto a me e fargli capire quanto io gli voglio bene. Tanto non resterà, di questo ne sono già sicuro quindi perché perderci tempo a discutergli. Questa volta sono pronto a rinascere e poter vivere la mia vita.
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Le voci e le ombre
Per far tacere le voci che parlano nella mia testa ho cercato tante strade. Le voci parlano di morte, di sconfitta, dolore, solitudine, insuccesso. Riempiono i momenti silenziosi, quelli in cui non sono occupata, l’attimo prima del sonno, il momento che segue il risveglio. Mi afferrano alle spalle, quando sono distratta, e non tacciono mai. A volte non le ascolto, a volte spariscono nel rumore di fondo della vita, coperte dai discorsi di mia madre, dalla voce del traffico, delle venditrici del mercato. Si allontanano mentre le mie mani impastano e tagliano, mentre zappo e pianto, mentre inseguo i cani al parco. Ma non smettono mai di ricordarmi ogni mio fallimento e battono, battono ogni tasto dolente fino a diventare un unico grande concerto che copre ogni suono, riempie ogni respiro e fa traboccare lacrime salate. Ho provato, provo a farle tacere da sempre. Ho cercato di farmi scudo con l’amore ma l’amore ha buttato altra legna sul fuoco del mio dolore. Mia figlia è un antidoto potente, lo è stato dal momento in cui ho saputo della sua esistenza, l’ho tenuta con me sapendo che finalmente qualcuno sarebbe stato in mia difesa. Ma adesso fa la sua vita, è lontana e la sua voce mi arriva attutita e deformata dalle scariche elettriche di tutto quello che non sono riuscita a fare per lei. La musica rende le voci più forti, cantano e vibrano con le note. Le storie, i libri, i film le zittiscono, si siedono al mio fianco e scelgono vicende sempre più cupe, thriller, gialli, inquietanti distopie fino all’horror. La paura le ha fatte tacere per un periodo, le sentivo pensare e caricarsi, come il brontolio del temporale oltre le colline. Quando il pericolo è sfumato, sono arrivate impetuose, una cavalcata furibonda a chiedermi perché non sono morta, a ricordarmi che qualunque cosa io faccia alla fine il male mi prenderà, a spingermi a scegliere la strada più facile, la più veloce, nessuno sentirà la mia mancanza, tutti staranno meglio senza di me. Adesso che sono qui, nei secoli bui, il buio mi circonda e la vita, le persone, la città rumorosa, le conversazioni, gli incontri sono ogni giorno più lontane, come la visione che si restringe, un cerchio nero che mangia la luce quando stai svenendo. E veramente non ho la forza di avanzare, non ho la forza di camminare verso la luce. Così mi sono voltata verso le ombre. Tutti i morti della mia casa mi circondano. Qui ogni cosa parla con la voce di qualcuno, la falce, che mio padre affilava e tentava di insegnarmi ad usare la primavera in cui è morto, i quadri di mio nonno e il suo diventare cieco, la poltrona dove sedeva una delle mie nonne, dove è ritratta, con un vestito blu, i piatti con il bordino dorato, le lettere di mia sorella alle sue amiche d’infanzia, le foto di persone in posa, quando ci voleva del tempo per scattare e sempre qualcuno si muoveva e si sfuocava come un fantasma passeggero. Ecco tutti questi morti mi parlano e io li interrogo: chi siete? cosa facevate? cosa sognavate? di cosa avete goduto? cosa avete perso? E le loro voci coprono le mie, i loro passi le allontanano e le loro ombre mi circondano come uno scudo. Non sono mai sola qui, è pieno di fantasmi. E così mi volto, volto le spalle alla luce e seguo le ombre. Ma almeno le mie voci tacciono.
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EDS4
14) Il sorriso di Monna Lisa
FIRENZE, estate 1944
Lisetta faceva la fornaia in via degli Speziali, quasi all’angolo con via de’ Calzaiuoli. La chiamavano Lisetta da quando era bambina, ma aveva passato la trentina e, anche se nell’aspetto non li dimostrava, le vicissitudini familiari e gli anni di guerra l’avevano segnata profondamente. Suo padre non era più tornato dal fronte durante la Grande Guerra, ufficialmente disperso insieme a tanti altri; Lisetta era una bimba ancora attaccata alle sottane della mamma e a stento ricordava quell’uomo buono e smilzo che le faceva fare “vola vola” e le permetteva di giocare imprimendo le impronte delle manine sulla farina, soffice come una candida nuvola. Solo queste cose ricordava, poi non c’era stato quasi più nulla di bello da ricordare: la mamma non aveva avuto più tempo di prenderla in braccio, perché da quando suo padre era partito soldato si era occupata a tempo pieno del forno, aiutata da Luciano, il suo fratellone, che al tempo era solo un ragazzino di tredici anni. Così Lisetta era cresciuta praticamente in bottega, tra i sacchi di farina e le dormite nella brandina scomoda dello stanzino sul retro, quando la mamma preparava l’impasto e poi dopo si stendeva accanto a lei per riposare qualche ora, in attesa che si compisse la magia della lievitazione naturale. Allora, in silenzio, ben prima che l’alba salutasse il nuovo giorno, la mamma si alzava dal giaciglio e, insieme a Luciano, infornavano le pagnotte. Lisetta ormai era abituata e si svegliava con il profumo buono del pane appena sfornato, caldo e invitante come l’abbraccio della mamma. Anche quello, l’abbraccio della mamma, le era mancato troppo presto: aveva solo dieci anni quando, nel 1920, la febbre spagnola se la portò via in pochi giorni: il fisico, già debilitato dal lavoro e dai dispiaceri, cadde come un tenero giunco sotto la falce della grande mietitrice. Lisetta era una bimba forte, così le dissero tutti, vedendo come affrontò il lutto con grande compostezza, senza versare neanche una lacrima e riprendendo subito ad andare a scuola e ad aiutare Luciano in bottega. Ormai erano rimasti solo loro due, non c’era tempo neanche di fermarsi a piangere; la vita doveva andare avanti, nonostante tutto.
Nell’estate del 1944 Firenze era quasi una città fantasma: ancora parzialmente occupata dai tedeschi, sventrata dai bombardamenti, i ponti distrutti, quasi tutti gli uomini chiamati alle armi. Luciano era stato ferito in battaglia un anno prima ed era stato congedato, non era più utile all’esercito con una gamba deturpata da una granata, ma era stato contento di tornare a casa e dalla sorella Lisetta. Ufficialmente non era più buono per imbracciare le armi, ed era stata quasi una fortuna: già prima dell’armistizio detestava combattere per quell’esercito che obbediva a ordini e ideali che ormai aborriva. Era tornato a Firenze, dove gli alleati non erano ancora riusciti a sfondare e, nonostante il controllo tedesco, teneva occhi e orecchie attente. Amava la sua patria e in segreto aveva aderito al Comitato di Liberazione Nazionale, principalmente passando informazioni, tramite una rete di passaparola, ai partigiani nascosti subito fuori città.
Lisetta in bottega stava principalmente al banco di vendita: le derrate alimentari scarseggiavano ma i tedeschi, che avevano sequestrato i mulini, facevano in modo che le scorte di farina non mancassero, perché il pane lo consumavano anche loro e lo volevano fresco tutti i giorni, ovviamente per le tavole degli ufficiali. Che la truppa mangiasse pure quello raffermo. Le forniture di farina arrivavano quindi abbastanza regolarmente e il forno di Lisetta, così come le zone limitrofe, era presidiato quasi sempre da alcuni soldati che controllavano le strade, ma Lisetta sapeva come renderli buoni. Donna ormai matura ma non ancora sfiorita, aveva sempre cura di mostrarsi con qualche bottone della veste aperta sul generoso petto; i capelli, spesso raccolti nella cuffia, facevano sfuggire alcune ciocche voluttuose, e gli occhi scuri intelligenti, contornati da lunghe e folte ciglia, osservavano con attenzione. Dispensava sorrisi a tutti, ma soprattutto ai soldati tedeschi, aggiungendo ogni tanto alla fornitura di pane un semplice dolce appena sfornato, come omaggio personale. Questo le aveva permesso di entrare in confidenza con alcuni soldati e, con il passare dei mesi, e l’aiuto di alcuni di loro che conoscevano un rudimentale italiano, aveva imparato un po’ di tedesco. Questo le consentiva di ascoltare, con fare distratto, anche alcune conversazioni “riservate”, che poi riferiva a Luciano. Certo, alcuni avevano preso un po’ troppo alla lettera la sua cordialità, scambiandola per disponibilità, e si erano fatti più disinvolti, allungando le mani più volte in zone proibite. Lei, molto cinicamente, li lasciava fare, tanto ormai non credeva più nell’amore. Non c’era spazio per quel sentimento in periodo di guerra, e anche se in passato aveva donato la sua femminilità ad alcuni giovani, non era mai stata davvero coinvolta sentimentalmente.
Solo ad una persona sembrava che i suoi sorrisi non facessero effetto: il comandante Kesser, con il suo profilo spigoloso e lo sguardo di ghiaccio, sembrava sempre trafiggerla e passarla al setaccio, come se cercasse qualche difetto in quel suo fare disinvolto, nonostante la situazione così seria. Lo vedeva di rado davanti al forno, ma lo incrociava spesso in piazza della Signoria, dove andava a ritirare la farina, e lo trovava intento a dare ordini in tono secco ai suoi uomini. L’ufficiale nazista la salutava rigidamente con un segno del capo e lei, nonostante tutto, provava uno strano turbamento nell’incrociare quegli occhi di un azzurro purissimo. O forse era solo la paura di essere scoperta nelle sue attività a favore dei partigiani. Il suo forno ormai lavorava quasi solo per il contingente tedesco, che aveva occupato Palazzo Strozzi; manteneva costanti le forniture per i nazisti ma ogni tanto riusciva a mandare anche delle piccole scorte di pane, tramite Luciano, ai partigiani nascosti nei boschi tra i colli. Oltre, ovviamente, a informazioni che otteneva dalle conversazioni in tedesco che riusciva a carpire e capire, almeno in parte.
Un giorno la fornitura di farina arrivò che era già buio pesto, perché i convogli con le vettovaglie erano stati attaccati durante il tragitto in un'imboscata da parte degli alleati asserragliati fuori città, e parte delle scorte erano andate perdute. Luciano non c’era: spesso la sera, dopo aver preparato l’impasto, si allontanava furtivamente per incontrarsi in periferia con un gruppo di partigiani. Lisetta prese quindi il camioncino scoperto, si presentò al punto di consegna, due sorrisi ammiccanti ai soldati preposti e i sacchi furono prontamente caricati sul mezzo. Il tragitto era breve ma i sacchi erano grandi. Arrivata davanti al forno si presentò la necessità di scaricarli: lei era in forze, ma pesavano comunque venti chili l’uno. La strada era deserta e poco illuminata, nessuna ronda al momento; peccato, si sarebbe fatta aiutare volentieri dal soldatino di turno. Con pazienza cominciò a scaricare i sacchi di farina, trasportandoli all’interno della bottega. A un tratto sentì un vociare in lontananza, drizzò le orecchie e poi vide sbucare da via dei Calzaiuoli un gruppo di ufficiali nazisti, sicuramente reduci da una cena innaffiata con tanto Chianti in una delle vicine trattorie. Vociavano e cantavano, barcollando. Si, erano mezzi ubriachi. Due di loro sembravano tuttavia impassibili a quelle manifestazioni goliardiche: Kesser camminava impettito, le mani dietro la schiena, chiacchierando con un altro ufficiale, anche lui molto composto. Lisetta, intenta a scaricare i sacchi, drizzò le orecchie, ma il vociare chiassoso degli altri non le faceva capire nulla. Le passarono accanto senza degnarla di uno sguardo. Tutti tranne Kesser, che si fermò e fece un cenno all’ufficiale che gli stava accanto, invitandolo a proseguire con gli altri verso il comando. Dopodiché si avvicinò a Lisetta e, nel suo italiano spigoloso, le disse:
“Permette che la aiuti?”
Lisetta sgranò gli occhi stupita ma, orgogliosa com’era, ribattè “Meglio di no, si sciuperebbe la sua bella uniforme” e si protese per acchiappare un nuovo sacco dal cassone del camioncino.
Ma Kesser non si fece scoraggiare dal rifiuto testardo di Lisetta: si sbottonò velocemente la giacca, la tolse insieme al cappello e li appoggiò malamente sul veicolo, allungando a sua volta le mani verso il sacco che Lisetta, già stanca, tentava di spostare per avvicinarlo al bordo del cassone. Lo afferrò saldamente tra le mani nell’intento di caricarselo sulla spalla, ma Lisetta lo strattonava dall’altra parte, in un cocciuto tira e molla. Per quanto di tela resistente, il sacco doveva essere già difettoso, perché si strappò vistosamente, liberando uno sbuffo di candida farina che investì in pieno i due. Lisetta per la sorpresa fece un salto all’indietro, poi prese coscienza della situazione: aveva il vestito, le braccia e probabilmente parte del viso cosparso di farina e, cosa peggiore, anche Kesser risultava coperto in abbondanza, persino in viso e tra i capelli. Per un attimo un sudore freddo attraversò la schiena della donna, per il timore che questo banale incidente potesse scatenare l’ira del tedesco, con chissà quali pesanti conseguenze. Poi però, vedendo la sua espressione imbarazzata dalla sorpresa per l’accaduto, il modo in cui cercava malamente di liberarsi della farina dalla camicia, dai calzoni, quando ancora dai capelli pioveva polvere bianca, tutto questo le parve così grottesco che le faceva venire voglia di ridere. E, cosa ancor più bizzarra, l’ufficiale la stava fissando, forse tra poco l’avrebbe pure schiaffeggiata, quindi non c’era assolutamente da ridere, anzi. E invece, inaspettatamente, fu proprio Kesser a scoppiare a ridere, fragorosamente, piegandosi sulle ginocchia, senza riuscire a smettere. E allora anche Lisetta non si trattenne più e rise. E rise di cuore e di gola, cercando inutilmente di contenersi, o forse senza contenersi affatto, mentre si avvicinava all’uomo e, con le mani, tentava di rimuovere la farina dai vestiti di lui e dai capelli, continuando a ridere di gusto.
D’un tratto però Kesser smise di ridere e tolse la mano di Lisetta dai suoi capelli, afferrandola saldamente per il polso e inchiodando gli occhi cerulei in quelli di lei. Lisetta quasi si spaventò di questa presa salda, e del fuoco che leggeva negli occhi dell’ufficiale, che le paralizzava ogni movimento. Non aveva idea della prossima reazione dell’uomo, e mai si sarebbe aspettata quello che sarebbe successo l’istante successivo. Kesser si avventò su Lisetta, stringendole ancora fermamente il polso, mentre con l’altra mano cinse il suo collo e, chinato il viso, si gettò sulle sue labbra. Lisetta si sentì come investita da un’esplosione mentre Kesser premeva le labbra contro le sue, con irruenza, costringendola a indietreggiare fino alla porta d’ingresso del forno. Lì la appoggiò, continuando a baciarla, questa volta infilando la lingua a cercare quella di Lisetta. Il terrore si trasformò prima in stupore, ma lo stupore divenne presto calore e desiderio. Lisetta non seppe spiegare perché né come, ma si trovò clamorosamente a ricambiare quel bacio, con un trasporto incontenibile. Appoggiata con la schiena alla porta della bottega ne cercò a tastoni, con la mano libera, la maniglia. Quando la porta si aprì si infilarono dentro continuando a baciarsi, voraci e ansimanti, mentre Kesser armeggiava con i bottoni della veste di Lisetta svelando i seni pieni e generosi, e lei gli accarezzava il petto attraverso il tessuto della camicia, scoprendo un corpo di uomo solido e vigoroso. L’ufficiale la spinse contro il muro accanto alla porta, bloccandola con il suo corpo.
“Dov’è tuo fratello?” chiese l’uomo a bassa voce.
“Di sopra che dorme” mentì Lisetta in un lampo di lucidità, ansimando.
Per il tedesco fu come un segnale di via libera: liberò prima un seno florido dal reggiseno e lo imprigionò in una mano, affondando le dita nella pelle soffice, poi abbassò la testa e catturò il capezzolo fra le labbra, torturandolo con la lingua, mentre Lisetta soffocava a stento i gemiti di piacere. La teneva bloccata al muro premendo con il bacino, facendole sentire il suo sesso gonfio e duro, mentre cominciava a sollevarle la veste, intrufolando poi la mano in mezzo alle sue cosce. Lisetta si sentì invasa da un piacere stupefacente, misto a uno strano di senso di colpa, per non provare alcun tipo di pudore in quel momento; ma fu solo un istante e scacciò anche la minima remora, consentendo a Kesser di esplorare con le dita la sua intimità, facendogli constatare quanto fosse impregnata dei suoi umori. Mai con uomo aveva provato un piacere così carnale, così animalesco e, soprattutto, così naturale. Mentre ancora la toccava in quel modo selvaggiamente intimo, il tedesco le ordinò: “Tiralo fuori” e lei, soggiogata da quell’ordine, seppe cosa doveva fare. Stordita dall’eccitazione armeggiò con la fibbia della cintura dell’uomo, la slacciò, aprì i bottoni del pantalone, e, senza coraggio di guardare, infilò la mano dentro la sua biancheria, toccando la carne calda e palpitante del sesso dell’ufficiale. Kesser ebbe un sussulto a quel tocco ma ripeté, più dolce e persuasivo: “Tiralo fuori”. Lisetta accarezzò il membro turgido e lo aiutò a uscire dal boxer, finalmente lo guardò in tutta la sua fierezza e desiderò ardentemente averlo dentro di sé. Kesser allora le abbassò le mutande, che lei fece scivolare fino alle caviglie e liberandosene; poi le sollevò una gamba, accompagnandola a circondargli un fianco mentre, guardandola fissa negli occhi, la invitò a guidare con la mano il glande verso la sua intimità ormai dischiusa. Un battito di ciglia e il suo membro affondò, e insieme liberarono un gemito strozzato. Uno, due, tre affondi, sempre più forti, urgenti, scivolosi, palpitanti e cadenzati. Ormai danzavano intrisi del loro stesso piacere, mentre le bocche ricominciavano a baciarsi. Poi Kesser lasciò la presa, la girò e la fece chinare appoggiandosi con la pancia sui sacchi di farina accatastati lì all’ingresso. Le sollevò la gonna da dietro, ammirando lo schiudersi del suo fiore di carne, le tirò su il bacino prendendola dai fianchi affinché fosse alla giusta altezza e la penetrò da dietro con decisione, mentre con una mano le stuzzicava il turgido clitoride. Lisetta non aveva mai avuto un’esperienza intima così intensa e devastante, capiva ora che la fugace intimità che aveva assaporato nel passato con sporadici amanti era nulla in confronto al piacere che la stava attraversando in quel momento, e abbandonò ogni freno. Il suo corpo fu attraversato come da una scarica elettrica e una sensazione di piacere intenso la invase mentre raggiunse l’orgasmo, mordendo la stoffa di un sacco per non gridare. Kesser si accorse che lei aveva raggiunto l’apice e proseguì fino a al proprio piacere, riempiendola del suo seme caldo. Ansimò dentro di lei ancora per altre due spinte poi, completamente svuotato, uscì dal suo corpo e si rivestì, mentre la gonna di Lisetta scivolò pudicamente sui fianchi occultando di nuovo la vista delle sue parti intime. A Lisetta a quel punto cedettero le gambe e si accasciò in ginocchio, aggrappandosi ai sacchi di farina, senza coraggio di guardare Kesser in viso. Era stremata e ubriaca dal piacere dell’orgasmo, ma la sua testa cercava di prendere coscienza di quello che era appena successo. Ma cosa era successo, esattamente? Com’era potuto accadere che il suo corpo avesse reagito in quel modo, abbandonandosi al piacere carnale per un uomo che avrebbe solo dovuto odiare con tutta sé stessa?
Non ci fu tempo per rispondere a queste domande: Kesser, rivestitosi, si inginocchiò davanti a lei, le scostò una ciocca di capelli dal viso, la guardò serio e le disse, semplicemente: “Domani voglio rivederti”. L’ufficiale uscì dalla bottega, recuperò giacca e cappello e si avviò lungo la strada, per rientrare negli alloggi degli ufficiali del contingente. A quel punto Lisetta si rimise in piedi, ancora barcollante, mentre tra le sue gambe colava il seme di lui che, poco prima, aveva accolto nel suo ventre, scossa dal piacere più intenso che avesse mai provato.
Luciano rincasò furtivamente poco prima dell’alba, trovando il camioncino accostato alla bottega con ancora tre sacchi da scaricare e un gran polverone intorno. Portò dentro gli ultimi sacchi e trovò in bottega Lisetta, alle prese con i ceppi da bruciare, le pagnotte già pronte per essere infornate. A capo basso, non osando guardarlo negli occhi, gli spiegò che un sacco si era rotto mentre cercava di scaricarlo e che poi, stanca, era andata a riposare qualche ora. Dell’episodio con Kesser non le sfuggì neanche una parola.
La mattina, insieme ai soliti giovani preposti al ritiro del pane, si presentò un altro soldato che, alla presenza di Lisetta, fece il saluto militare e le riferì impettito che il Comandante Kesser ordinava la sua presenza presso il contingente nazista alle ore 12 precise. E le porse un biglietto che avrebbe dovuto consegnare come lasciapassare.
Kesser chiedeva, anzi ordinava la sua presenza? Improvvisamente le immagini della notte prima le riaffiorarono alla mente: le mani forti di lui sulla sua pelle, i baci, la lingua, il suo profumo di uomo; ancora le mani di lui appoggiate sui suoi fianchi mentre la penetrava in profondità, il piacere indecente provato e che ora, al solo pensiero, le infiammava le gote e il basso ventre. Ringraziò il soldato con un cenno del capo e cercò di scrollare dalla testa le immagini della sera prima, chiedendosi cosa potesse volere da lei Kesser. Forse si era accorto che aveva detto una bugia sulla presenza di Luciano e voleva interrogarla?
Era il 2 agosto e l’aria era afosa. Indossò un vestito leggero di cotone, i capelli trattenuti da un semplice fermaglio. Con il cuore pieno di dubbi si presentò a Palazzo Strozzi, che il contingente tedesco aveva occupato, presidiato da decine di militari. Fu fermata subito da un soldato che le intimò l’alt in modo risoluto. Il cuore batteva all’impazzata ma cercò di scacciare la paura che le procurava vedere tutti quegli uomini in armi, soprattutto al pensiero della morte e della distruzione che avevano causato. Deglutì e con calma porse il biglietto che aveva in mano. Era scritto in tedesco e riportava la comunicazione che il comandante Kesser attendeva la signorina Lisa Fanti alle ore 12 nel suo alloggio privato. Il soldato lesse, poi squadrò Lisetta da capo a piedi e fece una smorfia: era chiaro che il suo superiore si volesse concedere un po’ di divertimento con una puttanella locale. Fece un richiamo secco a un altro soldato poco distante e, una volta vicino, gli diede probabilmente l’ordine di scortare la giovane dal comandante. Lisetta se ne stava impassibile, ma non le sfuggì la parola “hure” pronunciata con sarcasmo. Seguì docilmente il soldato all’interno del palazzo e si preparò ad affrontare il nemico.
Attraversarono un lungo corridoio al secondo piano, poi il soldato che accompagnava Lisetta si fermò, bussò alla porta e, ottenuto un segnale di consenso, la aprì e si affacciò, comunicando all’occupante l’arrivo dell’ospite. Ricevette risposta in tedesco, dopodiché si scostò per far entrare Lisetta, richiudendo la porta subito dopo. Lisetta rimase immobile, osservando l’ampia stanza, illuminata da tre finestre e arredata con mobili antichi e lussuosi, una zona salotto con due severi divani in pelle, una spaziosa scrivania davanti a una delle finestre e, in fondo alla stanza, un grande letto in legno intagliato. La stanza era insolitamente fresca, considerata la temperatura esterna, non poteva spiegare altrimenti il brivido che la percorse quando incrociò lo sguardo di Kesser, fermo accanto a una delle finestre, intento a fissarla. Non portava la giacca dell’uniforme, anche se la camicia era perfettamente abbottonata fino al collo. Un vivido flash della notte precedente le annebbiò la vista per un secondo, al ricordo delle sue mani che si erano appoggiate al petto e alle spalle dell’ufficiale. Kesser ruppe il silenzio e, avvicinandosi, le diede il benvenuto, porgendole un bicchiere di vino. Solo allora Lisetta si accorse che il tavolo al centro della stanza era apparecchiato con piatti, bicchieri, posate, tutto per due persone: quello di Kesser era un invito a pranzo. Smarrita dalla consapevolezza di questa constatazione prese il bicchiere che l’ufficiale le stava porgendo e lo portò alle labbra, assaporando il gusto forte e caldo del vino rosso. Poi guardò Kesser e non seppe trattenere una domanda: “Perché?”. Non riusciva infatti a spiegarsi la ragione di questo invito. L’ufficiale la guardò intensamente e le rispose “Per i tuoi occhi e il tuo sorriso”
“I miei occhi?” chiese Lisetta, sgranandoli per lo stupore
“Si, i tuoi occhi. Così dolci e tristi, e il sorriso malinconico, hanno così tanto da raccontare. Come quelli della Monnalisa di Leonardo da Vinci. Li ho notati subito e non ho desiderato altro che leggervi dentro, e un po’ ieri sera me lo hai concesso”.
Lisetta avvampò al ricordo e, imbarazzata, restituì il bicchiere all’ufficiale, che però la invitò ad accomodarsi a tavola. La donna obbedì ma era così frastornata da quello che stava accadendo, eppure si sentiva così a suo agio con quest’uomo, che sentiva lei stessa di volerlo conoscere più a fondo. Appena si sedettero entrambi bussarono di nuovo alla porta, e un soldato si presentò con un vassoio dal quale servì ai due della carne di vitello (Lisetta si emozionò, da quando erano in guerra non ne aveva più mangiata) e delle verdure stufate; il pane in tavola era quello del forno di Lisetta. Fu un pranzo veloce e semplice e la ragazza non toccò più vino, voleva essere lucida mentre ascoltava parlare l’ufficiale tedesco. Così venne a sapere che il maggiore Hans Kesser in Germania, prima della guerra, era un professore di letteratura, amava l’Italia e la sua arte, ed era stato richiamato al fronte solo da un anno. Non uscirono mai dalla sua bocca parole di odio verso i popoli contro cui combatteva il suo esercito e, pur senza ammetterlo esplicitamente, si capiva che considerava assurda quella guerra, di cui presagiva comunque il termine in poco tempo. Finito di mangiare l’ufficiale si alzò da tavola e si avvicinò a Lisetta, porgendole una mano per invitarla ad alzarsi a sua volta. Lei accolse l’invito e, allontanando la sedia si mise in piedi. Kesser che ancora la teneva per mano, se la portò alle labbra, guardandola intensamente. Da lì a baciarsi il passo fu molto breve quanto inevitabile, nonostante fu lento e molto, molto prevedibile. Semplicemente le loro labbra non poterono farne a meno, e si ritrovarono morbidamente a contatto, assaporandosi con estrema dolcezza.
L’ufficiale d’un tratto le mise una mano sulla schiena e, chinandosi leggermente, la sollevò e la prese in braccio. Tra un bacio e l’altro la condusse verso il letto, dove l’adagiò con delicatezza. Fecero l’amore con dolce passione tutto il pomeriggio, senza la smania del giorno prima ma con il desiderio di conoscersi in ogni centimetro, mentre parlavano, sussurravano, lui a volte anche in tedesco, dimenticandosi che Lisetta non poteva capire; ma lei il suo linguaggio d’amore già lo capiva benissimo e soprattutto lo ricambiava.
Lisetta rientrò a casa in serata, con i capelli sciolti e le guance ancora imporporate. Appena varca la soglia incrociò Luciano, che la squadrò da capo a piedi. Cercò di evitarlo, avviandosi velocemente verso la scala che, dalla bottega, conduceva alle stanze del piano di sopra ma lui la trattenne per un braccio, e la annusò.
“Allora è vero, sei stata dal tedesco” ma sogghignando continuò “brava sorellina, per avere informazioni abbiamo bisogno di andare alla fonte”. Quindi suo fratello pensava che lei si stesse concedendo per carpire informazioni? Era questo che stava facendo? Si liberò con uno strattone e corse al piano di sopra: che suo fratello pensasse quello che le pareva, lei sentiva tutt’altro.
Rivide Kesser il giorno dopo e quello dopo ancora e ancora; l’ufficiale le faceva sapere quando presentarsi e lei puntuale tornava da lui, dalle sue braccia, dai suoi baci, dalle sue parole, dal suo desiderio di condividere qualcosa di bello in questa vita che stava togliendo loro tutto: ideali, speranza, futuro. E insieme vivevano il presente perché il futuro era troppo difficile anche solo da immaginare, se non impossibile. Ma insieme nel presente, mentre erano abbracciati, mentre si baciavano e i loro occhi ridevano, mentre i loro corpi erano fusi l’uno dentro l’altra, ogni presente era possibile, e non importava altro.
La notte del 13 agosto Luciano si apprestava di nuovo a uscire di nascosto, per un incontro con alcuni partigiani. Nel salutare la sorella aggiunse: “Lisetta, se domattina non dovessi tornare, tu non ti preoccupare. Forse sta per succedere qualcosa di importante e voglio esserci, tu stai tranquilla e cerca di essere prudente, me lo prometti?”.
Lisetta non sapeva cosa pensare, ma nonostante la preoccupazione annuì, non aveva la forza di opporsi a suo fratello: inseguiva i suoi ideali, che lei stessa condivideva, quindi era giusto appoggiarlo, anche se il cuore era stretto in una morsa. In fondo, suo fratello era l’unico membro della famiglia rimastole.
Andò a riposare piena di pensieri foschi, e il suo sonno fu turbato da sogni tinti di rosso sangue. Si svegliò di soprassalto, ansimando, ma non spaventata dal ricordo del sogno appena fatto, bensì perché sentì picchiare alla porta della bottega. Si mise in piedi e scese la scala di corsa: fuori c’era Kesser, alle sue spalle un veicolo militare tedesco. L’ufficiale era agitato.
“Lisetta, tuo fratello è stato catturato insieme a un gruppo di partigiani, tra poco verranno a cercarti, prepara le tue cose velocemente, non c’è tempo da perdere”. Lisetta fu sconvolta da quella notizia: suo fratello catturato? Forse morto? E stavano venendo a cercare anche lei, in quanto sospettata di appoggiare i partigiani? Con il cuore in gola recuperò la lucidità, annuì veloce e si precipitò di sopra, dove radunò pochi panni in una borsa di tela e tornò di sotto pronta per seguire l’uomo. A bordo, Kesser la fece sedere sul sedile posteriore e le disse di coprirsi con una coperta che trovò sul sedile stesso, per non farsi vedere. Lisetta era frastornata, le cose stavano accadendo troppo velocemente perché lei potesse capirle. E dove la stava portando Hans? Intanto albeggiava, e Kesser, passato ponte vecchio, attraversò la città verso porta pisana e poi ancora più verso la periferia. Incrociarono solo un paio di posti di controllo, Kesser le intimò di stare giù mentre lui si faceva riconoscere dai soldati per poi proseguire.
Lisetta a un certo punto non seppe trattenersi: “Hans, dove stiamo andando?” chiese.
“Io ti proteggerò mia Monna Lisa, voglio stare con te” le rispose Kesser chiamandola con il nomignolo che ormai le aveva appiccicato, e cercando la sua mano oltre il sedile. Ma si percepiva netta la preoccupazione nella sua voce. Erano ormai in zona Galluzzo quando cominciarono a sentirsi delle deflagrazioni; Lisetta sollevò la testa e vide in lontananza altri veicoli tedeschi, che stavano raggiungendo, e fumo, e uomini a terra che sparavano e sentiva sempre più colpi di arma da fuoco: era in atto uno scontro e si stavano dirigendo proprio lì, sembrava inevitabile. Sgranò gli occhi e incalzò Kesser. “Hans, Hans, cosa sta succedendo? Dimmelo!”
“Lisa” la voce di Kesser era disperata ora “ti ho mentito, tuo fratello non è stato catturato, la verità è che…”
Non fece in tempo a rispondere che una granata esplose proprio davanti al loro veicolo, mandandoli fuori strada. La camionetta sbandò e si rovesciò su un fianco. Stordita dall’impatto, Lisa impiegò alcuni secondi a capire che era ancora viva e intera. Cercò di tirarsi su dalla scomoda posizione dov’era, aprì lo sportello posteriore e si tirò fuori dal veicolo. Cercò al posto di guida ma Kesser non c’era, si guardò intorno e lo vide a terra, fra l’erba, probabilmente sbalzato fuori dall’abitacolo a seguito dell’urto. Si gettò subito su di lui, cercando di capire se fosse ancora vivo. Gli dette alcuni piccoli schiaffi e l’ufficiale si mosse e strizzò gli occhi: grazie a Dio era vivo! Lisa trattenne le lacrime, lo baciò mentre lo chiamava: “Hans, Hans, tirati su per l’amor del cielo”. Kesser riacquistò conoscenza, sorrise pur dolorante e cercò di mettersi in piedi. Ma si era rotto una gamba e aveva bisogno dell’aiuto di Lisetta per tenersi su. Lei lo aiutò, offrendosi come appoggio, e zoppicando lo fece camminare fino al veicolo ribaltato, dove lui si appoggiò esausto. Kesser teneva lo sguardo basso: aveva qualcosa dentro che lo divorava, il pensiero di aver fatto qualcosa di sbagliato, mosso dall’amore sì, ma profondamente egoistico. Nulla che riguardasse Luciano era accaduto quella notte. Semplicemente gli alleati avevano deciso che fosse giunto il momento di liberare Firenze, scacciando via le ultime truppe naziste. Kesser temeva di perdere Lisetta e in un atto disperato quanto stupido aveva solo tentato di portarla con sé nella ritirata delle truppe tedesche. L’ufficiale le spiegò tutto con un filo di voce, mentre le accarezzava il viso e lei liberava le lacrime a lungo trattenute, incapace di provare rancore per quell’uomo che, ora lo sapeva, amava con tutta sé stessa. Hans concluse la sua amara confessione, il cuore finalmente alleggerito, quando d’un tratto si trovarono circondati da militari, non tedeschi, e nemmeno italiani, che puntavano loro contro i fucili. Uno di loro gridò “Hands up! Hands up!” ma entrambi non capivano, anche se le armi puntate contro di loro erano eloquenti. Kesser per primo alzò le braccia ma poi, in un gesto protettivo, si allungò verso Lisetta per stringerla in un abbraccio. La mossa fu disgraziatamente male interpretata come tentativo di farsi scudo con la donna e, dai soldati americani, partì un colpo, e poi un altro, e poi un altro ancora. Lisetta vide tutto come in una scena rallentata del cinema: Kesser che cadeva a terra pesantemente, lei che allungava le braccia inutilmente per non farlo cadere, le sue grida alte e strazianti, la camicia di lui che si tingeva di rosso, gli occhi sbarrati, le urla dei soldati americani che si avvicinavano parlando una lingua a lei incomprensibile. Si accasciò in ginocchio, premendo le mani su quelle ferite dalle quali usciva sangue scarlatto e, insieme al sangue, usciva la vita di Hans Kesser, il soldato dell’esercito nazista che lei aveva amato. Con le mani intrise di sangue gli prese il viso, bagnandolo con le sue calde lacrime e baciandolo ancora una volta. Kesser allora aprì gli occhi, cercò i suoi e in un estremo sforzo sussurrò: “Mia dolce Monna Lisa, sono felice di aver vissuto abbastanza da aver ammirato il tuo sorriso da vicino, averti amata è la cosa migliore che abbia fatto in vita mia”. E richiuse gli occhi per l’ultima volta.
Firenze, 2 giugno 1946
Lisetta uscì dal seggio sospirando: ancora non le sembrava vero di aver espresso per la prima volta il suo voto da cittadina italiana. Si guardò intorno e individuò Luciano, che la aspettava nel piazzale poco distante. Appena lo raggiunse allungò le mani verso di lui, perché le porgesse ciò che teneva tra le braccia. Luciano fu ben lieto di liberarsi di quel fardello, con cui ancora non riusciva ancora a prender la dovuta confidenza. Lisetta lo sgridò bonariamente con gli occhi e prese il fagotto che Luciano le consegnò lesto, per poi salutare e tornare a presidiare il seggio, affinché non si verificassero brogli o altri episodi anomali. Lisetta cominciò a incamminarsi verso casa, il sole era già alto e scaldava la giornata e il suo animo. D’un tratto il fagotto che teneva in braccio dette segni di vita, Lisetta si chinò e scostò il lembo del lenzuolino: Speranza si stava risvegliando. Come ogni volta, quando Lisetta incrociava quegli occhi azzurri trasparenti le veniva una stretta al cuore, perché erano uguali a quelli del padre, morto tra le sue braccia poco più di un anno prima. Sospirò e benedì il ricordo dell’uomo che le aveva donato Speranza, il segno d’amore più grande che avesse mai ricevuto. Posò un bacio sulla gota morbida della figlia e si incamminò verso casa e verso il loro futuro.
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Il ricordo di Enzo “Zigone”Simeone al 15° anniversario della sua scomparsa
Enzo Simeone Lui era un comunista autemntico, di quelli che sono stati coerenti sino alla fine, nonostante che questo ideale politico sia andato nel corso del tempo ormai scemando, che solo pochi e affezionati “rivoluzionari” della sinistra brandiscono autenticamente e coraggiosamente l'ideale che per lunghi tratti della storia italiana ha visto trionfare le tesi del “popolo sovrano” sotto l'ombra di quella “falce e martello” simbolo indiscusso dei lavoratori militanti il Partito Comunista Italiano. Di lui, di Enzo “Zigone” Simeone, ci sono due ricordi commoventi, il primo congiunto della Camera del Lavoro Autorganizzata, del Comitato Autonomo di Lotta Contro Acqualatina e del Collettivo Comunista Autonomo, il quale recita: “Il 28 marzo 2006 veniva a mancare il Compagno Enzo Simeone conosciuto da tutti come “Zigone”, un grande comunista sempre pronto al confronto e alla lotta, sempre disponibile con tutti, anche con chi era da lui ideologicamente lontano. Tutti coloro che hanno avuto modo di conoscerlo non possono che ricordarne la sua infinita umanità. Un uomo semplice e intenso allo stesso momento, un uomo controcorrente che nella sua Formia ha fatto dell' “essere operaio” il senso stesso della sua esistenza, al solo scopo di difendere e dare voce a quanti, lavoratori, precari e disoccupati, non ne avevano, un uomo con una forte personalità, scomodo per alcuni, provvidenziale per molti altri. Ricordare Enzo oggi è per noi anche occasione per riflettere su quanto è stato fatto e quanto ancora c’è da fare nella nostra comunità per la difesa e la rivendicazione quotidiana dei diritti di tutti e di come sia necessario ritornare a confrontarsi nei luoghi pubblici reali dove si vivono quotidianamente le difficoltà e i soprusi. In una città dove l’indigenza e la povertà vengono affrontate dalle istituzioni locali, se non con la carità, con inutili promesse, vernie o carezze, che non solo non risolvono i problemi reali ma che a lungo andare marcano i confini sociali tra persone innescando processi di inferiorizzazione dell’altro, anziché difendere e garantire diritti per tutti. Perché come sosteneva lo stesso “Zigone”: “per uscire da una condizione di indigenza bisogna prima di tutto smettere di sentirsi invisibili, di sentirsi asserviti al politico di turno; smettere di autoconvincersi di non avere speranze di cambiamento; smettere di pensare di essere parte di un sistema di potere che ti relega tra i soccombenti se non ne fai parte; smettere di sentirsi come un fantasma che la società etichetta, fa sparire e dimentica. Bisogna essere profondamente critici, cominciare ad auto organizzarsi, ad analizzare e capire i meccanismi dello sfruttamento quotidiano a cui siamo sottoposti e che ci rende fantasmi e invisibili al maledetto potere di turno; cominciare ad urlare il nostro dissenso per rivendicare spazi e diritti per tutti e ricostruire una realtà più giusta.” Come ormai da tradizione, metteremo il suo faccione/manifesto in bella evidenza sulla piazza principale, a simbolico sostegno di tutti/e coloro che continuano con perseveranza a resistere alle angherie di una realtà sempre più reazionaria ed opprimente. L'occasione del ricordo di Enzo è anche un doveroso e sincero ricordo di compagni come Gaetano FORTE e Aldo Di CUFFA, che in questi ultimi decenni hanno contribuito, con il loro impegno civico e politico, alla costruzione di una Formia più giusta, più solidale, più comunista; compagni che, come Enzo, ci hanno insegnato che le lotte sociali si combattono e si vincono con la partecipazione, la perseveranza e la forza delle proprie idee, diffidando da quanti, opportunisti e voltagabbana, cavalcano mode o momenti per proprio tornaconto.” Il secondo, scritto dal circolo a lui intitolato di Rifondazione Comunista di Formia, redatto sotto forma di lettera indirizzata a lui: “Ciao Zigone, vista da lì, dove stai, la tragedia dei nostri giorni ha una dimensione diversa. L’epilogo della tua esistenza ti ha risparmiato la devastazione del capitalismo degli ultimi venti anni, lo sfruttamento dissennato dell’uomo sull’uomo, il saccheggio delle risorse, la violenza e la prepotenza che i forti usano verso i deboli, spesso giustificando il tutto con l'idea che l'arricchimento personale è il fine ultimo della propria vita. Come spiegare questi tempi di epidemie incontrollate se non come l’effetto di un capitalismo cieco e dissennato, che sfrutta le risorse oltremisura, che costringe gli uomini in agglomerati urbani stretti e bui, con scarsità di spazi pubblici, che li assembra in pochi mezzi pubblici, angusti, scarsi e pure scassati; che li assiste in ospedali inadeguati, malfunzionanti e con pochissimo personale sanitario, a causa dei tagli indiscriminati, figli della progressiva morte dello stato sociale così come l'abbiamo conosciuto nel secolo corso. Oggi – che la situazione è drammatica a causa della pandemia legata al Covid19 - tutti invocano l’intervento dello stato, quando ai tuoi tempi, tutti anche quelli che avevi conosciuto nel partito comunista, invocavano l’intervento del mercato, la liberalizzazione dei servizi, il privato è bello e il pubblico è brutto, arrivando all'offesa e alla derisione. Quante volte insieme a te abbiamo visto quelle “facce storte”, quelli che si presentavano alle assemblee con toni pacifici e concilianti, per poi, alla prima svolta rimangiarsi tutto e vendere il nostro patrimonio ideale per una poltrona. Quante volte Enzo, insieme a te abbiamo imparato a guardare ipocriti, che parlavano per ore, per poi alla prima difficoltà lasciarci soli nella notte a svolgere il nostro dovere di militanti. Tante, ma non fa nulla. Da te abbiamo imparato, l’umiltà di chi con semplici parole parlava con cognizione delle svolte della storia, da te con poche parole abbiamo imparato a conoscere i traditori, quelli che cercavano di imbonire i compagni della bontà delle schifezze che a tutti i livelli, dalla nazione alla regione, dalla provincia al comune, hanno perpetrato negli anni. Nell'occasione del quindicesimo anniversario della tua scomparsa vogliamo liberare il campo dai tristi pensieri e di quanti hanno fatto della politica un'occasione di arricchimento per sé e per il proprio clan, vogliamo ricordare il compagno instancabile dedito alla causa dalle prime ore del mattino, quando attaccava nel turno di lavoro, alla sera quando assisteva alle discussioni dei compagni, ricordiamo l’agitatore politico e sociale tra i cittadini, il curatore della bacheca dove affiggeva le notizie del giornale di partito e del sindacato. Ricordiamo il collega che aiutava gli altri lavoratori nelle disavventure che occorrevano loro contro i padroni, ricordiamo l’uomo umile e taciturno, che se n’è andato senza dire nulla a nessuno, lasciando un vuoto ed un silenzio che, ancora oggi, fa un rumore assordante. Oggi pensando a te e alla tua prematura scomparsa non possiamo che ribadire che il nostro impegno per una società più giusta continua, insomma più comunista. Il comunismo è la società futura, quella che verrà dopo quella capitalista arrivata con la rivoluzione borghese. Quando il lavoro vivo, quello dei lavoratori che ogni giorno guadagnano il proprio salario, prevarrà sul lavoro morto, quello che i capitalisti accumulano estraendo plusvalore dalle merci prodotte dai lavoratori. I caratteri della società futura sono già presenti nella società attuale, si hanno gli esempi nello stato che distribuisce ricchezza per garantire sussistenza ai cittadini impossibilitati ad acquisire i propri mezzi di sussistenza, nei poteri centrali “costretti” ahiloro ad erogare servizi, per tutelare i cittadini. Quando la società nuova arriverà il potere lo avrà chi lavora e non chi sfrutta il lavoro, ed allora, caro Enzo, chi potrà vederne i benefici, sarà salito anche sulle tue spalle, come tante volte nella storia, quando il progresso è arrivato quando l’uomo nuovo è salito sulle spalle dei giganti. I compagni.” Read the full article
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16 GIU 2019 12:01
"MI CALAI NEL POZZO PER SALVARE ALFREDINO MA LO SENTII SCIVOLARE VIA” – PARLA ANGELO LICHERI CHE 38 ANNI FA A VERMICINO PROVO’ A SOCCORRERE ALFREDO RAMPI: "TENTAI DI PRENDERLO PER I GOMITI MA NIENTE, NON SI RIUSCIVA. ALLA FINE L’HO AFFERRATO PER I POLSI E NEL TENTATIVO DI TIRARLO SU GLI HO ROTTO QUELLO SINISTRO. HO SENTITO UN LAMENTO, LIEVE. PROVAI AD AFFERRARLO PER LA CANOTTIERINA, MA HO SENTITO CHE CEDEVA. E ALLORA ME NE ANDAI E DISSI…” – VIDEO
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Giusi Fasano per corriere.it
Angelo rivede se stesso in fondo al pozzo, a testa in giù. «Il bambino era a 64 metri di profondità. Gli ho tolto il fango dagli occhi e dalla bocca e ho cominciato a parlargli, dolcemente. So che capiva tutto. Non riusciva a rispondere ma l’ho sentito rantolare e per me era quella la sua risposta. Quando smettevo di parlare rantolava più forte, come per dirmi: continua che ti sto ascoltando. Dopo vari tentativi andati a vuoto, l’ultimo che ho fatto è stato prenderlo per la canottierina, ma appena hanno cominciato a tirare ho sentito che cedeva... E allora gli ho mandato un bacino e sono venuto via. Ciao piccolino».
Lacrime e fango
Nelle fotografie che scattarono appena uscì dal pozzo, Angelo Licheri aveva le guance rigate da lacrime e fango. E aveva la pelle scorticata, sangue ovunque per le lacerazioni alle gambe, alle braccia, alla schiena. Ma la ferita che faceva più male, quella che non sarebbe guarita mai, era la sconfitta. Non era riuscito a salvare Alfredino, non era stato possibile strapparlo dal buio nel quale era precipitato, chissà come, la sera del 10 giugno 1981.
Alfredo Rampi per tutti Alfredino, aveva sei anni. Era in vacanza con i suoi genitori nella casa di Vermicino, Roma. Il pomeriggio di quel 10 giugno, alla fine di una passeggiata con il padre Ferdinando, fece uno dei suoi sorrisi irresistibili e chiese: «Papà, posso tornare per i campi da solo?». L’uomo acconsentì e lo vide allontanarsi felice verso casa. Due ore dopo lungo quello stesso percorso c’erano decine di persone a chiamare il suo nome. Alfredino era scomparso.
Sua nonna pensò subito al pozzo scavato da poco nel terreno vicino casa, ma su quel pozzo c’era una lamiera e sulla lamiera delle pietre a tenerla ferma. Impossibile che fosse lì dentro, si convinsero tutti. Tutti tranne un agente di polizia che fece sollevare la lamiera e infilò la testa nel buco. Dal fondo arrivavano dei lamenti. Si saprà poi che il proprietario del pozzo, ignaro della tragedia, aveva coperto la superficie poco prima che cominciassero le ricerche.
La decisione
Angelo Licheri, sardo di Gavoi, all’epoca aveva 37 anni, era padre di tre bimbi piccoli e faceva il fattorino per una tipografia, a Roma. Fu anche lui uno dei 32 milioni di telespettatori incollati alla televisione per seguire la diretta no stop della Rai sulle operazioni di salvataggio di quel bambino. Rimase davanti allo schermo per due giorni finché la sera del 12 giugno disse alla donna che allora era sua moglie: «Esco a prendere le sigarette». E lei: «Fra mezz’ora è pronta la cena». Lo vide uscire e - confesserà dopo - le venne spontaneo un pensiero: «Vuoi vedere che quel pazzo vuole andare a Vermicino...».
Nelle ore precedenti lo aveva visto davanti allo specchio fare strane contorsioni con le braccia in alto. «Che fai?» aveva chiesto. «Niente, un po’ di ginnastica», aveva risposto lui. Ma cos’altro poteva essere quella strana ginnastica se non prove immaginarie di movimenti nel pozzo? Lei non disse nulla ma capì.
Anche perché era una delle poche persone a sapere di una vecchia avventura di Angelo, tanti anni prima. C���era stato un incendio sui monti dalle parti di Nuoro e lui, come tutti, stava scappando. Ma si ricordò che lassù c’era una colonia di bambini e allora si mise in mezzo alla strada a urlare agli automobilisti che tornassero indietro a salvarli. Lui stesso lo fece caricando quelli che poteva sulla sella del suo motorino. «Adesso per colpa del diabete non ho più una gamba e sono quasi cieco, ma davanti ai bambini che hanno bisogno di aiuto sarei capace di fare qualsiasi cosa anche così malmesso», giura quest’uomo che sembra ancora più piccolo di quanto lo descrissero le cronache dal pozzo di Vermicino.
La bugia
«Non sapevo nemmeno dove fosse quel posto», racconta lui oggi tornando a quei giorni. «Ricordo solo che ho fatto tutte le infrazioni possibili per arrivarci. Mi sono fatto l’ultimo tratto a piedi, sono arrivato davanti al blocco e non mi hanno fatto passare, ma non avrei ceduto per niente al mondo. Così ho costeggiato una via che portava al pozzo e, come un ladro, sono passato in mezzo a una vigna finché ci sono arrivato davanti. C’era un cordone di militari e mi sono detto: e adesso che faccio? A quello che mi ha bloccato ho detto che mi aspettava il capo dei pompieri: puoi andare a dirgli che è arrivato Angelo? Lui è andato e io mi sono infilato fra i soccorritori. In mezzo a loro c’era Franca, la mamma di Alfredino. Al capo dei vigili del fuoco ho detto: sono piccolo, fatemi scendere. E lui: lei è troppo emotivo. Ha qualche malattia, qualche problema... L’ho interrotto. Gli ho detto: senta, io sto benissimo, voglio solo scendere. La mia determinazione è stata più forte dei loro no alla fine l’ho vinta io».
Discesa fra rocce taglienti e fango che veniva giù dalle pareti sempre più strette. Era la notte fra il 12 e il 13 giugno. Angelo raggiunse Alfredino dopo venti minuti. La luce fioca della sua torcia illuminò quel bambino incastrato in un punto largo 28 centimetri. «Gli tolsi il fango dagli occhietti e dalla bocca e cominciai a fargli promesse che avrei senz’altro mantenuto» ricorda lui. «Gli dissi: ho tre bambini e uno è più piccolo di te. Hanno tutti la bicicletta. Sai che facciamo? Appena usciamo ne compro una anche a te, vedrai che sarai orgoglioso di questa bici nuova. E poi ti compro anche una barchetta, mi hanno detto che sai pescare bene... Lui emetteva quel rantolo che è qui, nella mia testa...» Lo imbragò una prima volta e diede il segnale alla squadra in superficie. Ma lo strattone fu troppo forte e la cinghia scivolò fuori dalle braccia. La rimise e tentarono ancora ma stavolta fu il moschettone a sganciarsi. «Ho provato a prenderlo per i gomiti ma niente, non si riusciva. Alla fine l’ho afferrato per i polsi e nel tentativo di tirarlo su gli ho rotto quello sinistro. Ho sentito un lamento, lieve. Non aveva più forze, povera creatura. Gli ho detto: dopo tutta la sofferenza che hai patito ci mancavo proprio io a farti ancora più male».
Il ricordo
L’avrà raccontata mille volte, Angelo, questa storia. Ma ogni volta, quando arriva qui deve fermarsi. Respirare. Arrendersi al ricordo più amaro: le sue mani aggrappate alla canottiera di Alfredino, il fallimento di quell’ultimo tentativo. La resa. «Gli ho mandato un bacino e sono venuto via».
Angelo è rimasto nel pozzo a testa in giù per 45 minuti, ben oltre i limiti massimi di resistenza ipotizzati. «Quando mi tirarono su mi ritrovai davanti alla mamma di Alfredino. Venne da me e mise le sue mani sulle mie guance: mi dica come sta il mio bambino, chiese. Io fui sincero: signora, è ancora vivo ma se non si fa in fretta non so quanto potrà resistere. Ancora oggi ogni tanto la sento per un saluto».
Alfredino morì poche ore dopo. Oggi la vita di Angelo, 75 anni, è in una casa di cura a Nettuno, sud di Roma. «Una noia indescrivibile e tante sigarette», per dirla con le sue parole. Il fantasma di Alfredino gli vive accanto da 38 primavere. «Per anni», racconta lui, «ho sognato la morte con la falce sulle spalle che veniva a prenderlo. Io stavo lì a proteggere un pozzo e le dicevo: lo vuoi? Devi fare la guerra con me se lo vuoi. Lei se ne andava ridendo e mi diceva: ci rivedremo». Angelo sorride. «Io sono qui, non ho paura».
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esercizi di scrittura creativa Alessandra De Angelis Fogli Sparsi autobiografia tramite racconti sparsi nel tempo archive rss 19 Apr. '13 esercizi di stile Ogni giorno ci rifletto mi guardo allo specchio e vedo una vecchia demente che ricorda tutto con angoscia e amore al contempo, vivo al passato e di ricordi, scavalco l’angoscia leggendo senza fermarmi, se non per un panino e un caffè e se parlo, questo è solo con una dolcissima cagnolina. Una solitudine spessa eppure serena, così voglio io, navigare tra le eroine di carta. Ogni giorno si fa pieno dall’alba al tramonto, di piccoli gesti e letture magnifiche, attingo dalla gigantesca biblioteca che ho in casa, il sorriso si era spento, poi è tornato, la quiete dell’animo sono proprio gli anni trascorsi, la pensione, un interno casalingo dall’aria di bambole e trine, e rifugiarsi serve a difendersi da tutto ciò che fuori accade, e sempre parlando solo con la mia cagnolina, la mia dolcissima cagnolina, e con i libri che sono ovunque, accatastati in disordine, non c’è spazio. Rifuggo dalla vita mondana, preferisco leggere romanzi, ascoltare musica e avvertire il senso forte dell’età mia importante, la giovinezza è tutta al passato. I Patriarchi avevano ragione. Mi ricordo di quando sedevano tutti intorno alla tavola, ognuno come di consueto al posto assegnato da sempre, in un ordine immutabile, nel rispetto di una cerimonia ripetuta infinite volte. Quanto spesso mi ero chiesta se quel ripetersi esatto e misurato non fosse altro che violenza mascherata. Un’ombra mi suggerisce la rivoluzione, mandiamo tutto in rovina fino a toccare il fondo. Insieme sbarcheremo altrove il lunario. Ok tutto all’aria, capovolgiamo tutto in un mondo alla rovescia, ma il tempo è comunque da sempre per tutti un nemico, una partita persa da sempre, una caduta irrimediabile. E il tempo mi tormenta senza lasciarmi la possibilità di voltare la schiena e andarmene, se non sognando tra libri e musica gli spazi infiniti, ma rifletto nei perimetri la sterile mia parvenza e i pensieri sono solo un errore nella cavità del cervello. Una trama tessuta, un’idea solo cerebrale che architetta la fine di un mondo, la mia anima nel tempo. Ricordo che a tavola si parlava di politica,brutto affare sicuramente, mangiando la minestra di pane e brodo di gallina, i ragazzi che eravamo si interessavano al discorso, senza storia, senza capire, e avremmo votato con tutta la voglia fresca di impegno. Le rivoluzioni sono giovani. Ora contemplo silenziosa, mia madre è triste, anni sulla schiena pesanti, siamo rimaste sole, e io non sono moglie, madre neppure, ed era destino obbligato nobile legge per ogni donna rispettabile. Osservo la tavola scarna, piena di briciole, i prodotti della terra, quella rimasta, quella povera che non dà più i suoi frutti, e solo a volte, su invito, ascolto la conversazione delle cugine e dei cugini e dei rispettivi consorti, con la voglia di fuggire senza temere l’abbandono. Solo così renderei giustizia alla volontà mia propria, sollevate le ali del desiderio. Ho fatto amicizia con un uomo su facebook, facebook quel mostro moderno poco adeguato e nutro il desiderio taciuto, e ricambiato, di conoscenza. Un filo di speranza. Mi rende triste il torpore profondo nel quale mi getta una famiglia che ricorda aneddoti, eventi di un passato nel quale ormai io non ci sono più. E io che racconto? Qualche parola sbieca. Un tempo sognavo di diventare scrittrice. E ho scritto un libro bruttissimo che nessuno legge. Mi sono ritirata in soffitta a vivere, una splendida soffitta con un computer e un allaccio internet, lontana dal clamore di chiacchiere su trascorsi troppo lontani che mi annoiano, un sonno profondo dal sentore di morte. Mi sento veramente intontita, ma dolce, remissiva, perché ho anche io una mia compagna di vita, che lenisce ogni ferita, la mia ombra dolcissima, Priscilla o Scilla, una cagnolina dal cuore d’oro e più minuscola di una gatta. La paura comunque ritorna, mi guarda dagli angoli, si insinua nelle conversazioni, è fatta di metallo, e del metallo ha il sapore, tranne di notte quando la luna si apre a ventaglio, e il biancore argenteo ricopre il corpo nudo e dimenticato. Spegne il fuoco, è acqua che miracolosamente riempie l’anima e l’increspa dopo l’arsura. A tavola parlano della passeggiata in centro, un paese di provincia, ma io non ho una storia mia da raccontare, in quel vociante mondo intorno. Con la testa, organo delicato, attraverso verso nuove ragioni, nuovi orizzonti , eppure non c’è tregua. Il tempo governa tutto. Sono lontana perché sola, e sola ci voglio essere, è la mia natura profonda, sola con Priscilla. Sono fatta d’esperienza laboriosa e un cuore di ghiaccio, da sciogliere, non è pietra d’altronde. la pietra impenetrabile e impossibile da scorticare se non lavorando con la falce. La pietra di cui è fatta la provincia. Sono pensieri incoerenti, scherzi della mente. Sono stanca e troppo affaticata da una vita di lavoro e durezze, mi sembra di aver già vissuto, e di vivere un oltre che è una platonica caverna d’ombre ingannevoli, e solo con fatica, e travaglio, si risale alla luce. All’inizio la luce acceca poi è cristallina. E’ uno specchio d’acqua increspato. Lo tocchi e affondi nell’inconsistenza. E’ giusto salpare se il coraggio sostiene i remi ma io resto, e non mi disperdo nell’invidia del mio ostinato silenzio, specchio che riflette reti di amare profondità. Inesplorate. La mia voce ha un timbro delicato, afono, sembra incantata. La voglia di vivere dimessa, non più follie, ma impazzisco come felina in gabbia, e attraverso con la mente scene colossali in cui tutto sembra riemergere dal passato eppure tutto è quotidiano e dimesso. Basterebbe scavalcare il muretto per essere al di là. Ma oltre è il nulla. Oltre è il computer e la lena con la quale scrivo racconti che nessuno legge e chatto su facebook. C’è un uomo in chat che mi attende e forse verrà a trovarmi in soffitta dal Nord. Cucinerà lui, io sono un disastro ai fornelli. Ha appena partecipato al Flash Mob vestita da strega con un vecchio cappello della bisnonna fiorito e con la velina, per le grandi occasioni, ma questo non basta a rendermi simpatica a scuola, la scuola nella quale lavoro. Come sono noiose le insegnanti. Già allora a tavola il nonno raccontava di come le cose fossero proprio storte, mentre la più energica delle cugine, un volto di porcellana, smitizzava e si alzava da tavola per portare i piatti sporchi in cucina e per metterli nella lavastoviglie, con garbo lasciava la sedia vuota per poi ritornare accanto al marito che le cercava la mano intimidito, lui ha meno coraggio, mentre lei sistema i capelli lunghi e biondi con un fermaglio, raccogliendoli sul capo per lasciar scoperto il volto d’angelo. Il nonno ha un modo imperioso e austero, ma è anche piuttosto caustico, e sempre sagace senza mai farsi sgarbato. Ieri Immaginavo: attenderò il mio fantasma, la voce dolce mai udita, che non deve sfuggire come fantasia e inganno. Una misura diversa del tempo se condividerlo è possibile. lo psicanalista che mi cura sbaglia tutto, e il desiderio di ucciderlo è forte. Conficcato nel ventre e nella scatola dei ricordi, ma ora forse ho un uomo, con braccia forti, ancora solo immaginate, ma è un paracadutista, ha coraggio, affronta il cielo. Quella penna gentile in chat, con una foto che ne esalta l’azzurro degli occhi, lui, un uomo solo virtuale, si scalderà al mio seno. Sara La mattina è stata in chiesa. E’ pasqua e vuole credere ai miracoli. Magari esistono davvero. Il sentimento della colpa pesa come una maledizione su chi non sa liberarsene, e il maleficio diventa l’ordigno innescato nel cervello trafitto, la testa arrovellata, in briciole, a pezzi, nel buio di una notte senza precedenti. L’animo sgangherato e guastato dall’orrore del delitto esagera l’oscuramento, la vergogna dell’errore diventa deserto vuoto isolamento, resta un’eccitabilità nervosa che raramente solo a tratti si placa, ribolle il sangue pulsante tra le crepe della testa in fiamme, e ovunque e sempre rimbomba e si ripercuote l’assordante esplosione di un no ripetuto come uno schianto, un colpo d’arma, un tonfo che scuote, un no che è desiderio di pacificazione dal quel chiasso interno implacabile, caos primitivo, voragine oscura, abisso satanico e caduta di ogni intendimento. La notte La luna e una visione da nottambula, quando si fa buio, e tra le visioni allucinate incespico goffamente e potrebbero deridermi. Ma l’ombra torna ogni notte a giustificarmi dal sudario quotidiano. E’ fresca della frescura dei glicini e rigogliosa come uva matura che assapori nei campi quando il tempo ricopre le viti. E’ acqua che lava il bitume. Dopo un tragitto, tra le pietre arse e le strade deserte. Entra come tramontana d’amore e porta con sé il sapore del mare e della spuma, che non c’è perché la città è fatta di pietra, ed è dolce il ricordo dei frangenti puliti e della risacca sciabordante che scomposta richiama all’orizzonte lo sguardo, e la voglia sibellina di fuga. La vita si è prosciugata, un’esile speranza soltanto, da quando con una sorta di dolcezza dell’anima, un uomo ha inciso una speranza profonda che mi rende impaziente, e mi divora la voglia. E’ lontano. La mancanza carnale attraversa ogni tendine, ogni muscolo, mi ricaccia in un disorientamento e un abisso. Solo la notte torna clemente il silenzio, come vento tra i capelli. Ma è avaro di sé e all’alba fugge spezzando l’incanto, per riaffermare la solitudine di sudario e bitume e cenere e mura. Le basta un’occhiata allo specchio per accorgersi che la solitudine incide segni, lacrime, e l’ultima speranza è lui “l’ombra”. Uno sconosciuto, solo un’amicizia facebook, e poi un lui incontrato in un fine settimana giocoso, eppure serio, puro nel senso migliore,il senso con il quale ci si eleva sopra le mille giustificazioni che sei obbligata a fornire rispetto alla vita a ritroso, e alla solitudine improvvisa. E’ stato un atto coraggioso invitarlo a dormire in soffitta in due per fare l’amore, nella frenetica emozione. Ha lasciato segni indelebili, pianti di solitudine, contro i quali non hai rimedi, se non il trucco come apparenza superficiale. Di nuovo al lavoro, di nuovo derisa per il coraggio di mettersi a nudo. Tra le pietre che formano i muri di quella provincia medievale, giocattolo che si svita, prevale il frenetico ricorso a pettegolezzi e malignità, e di lei dicono le megere che è stata ridotta alla demenza per aver preteso troppo. La definiscono pazza perché ha intrapreso uno stupido cammino psicanalitico durato trent’anni. In realtà è solo fragile e timida. Intanto la recessione miete vittime. E autorevoli assassini restano a guardare, indifferenti. Lui scrive un messaggio al cellulare “ti amo”. Ho iniziato allora un colloquio furtivo con me stessa e il computer con il quale scrivo, accudisco e proteggo l’anima nascondendo agli altri il vero. Amo il fantasma di facebook, ora che lo conosco e ci siamo divertiti a letto, nonostante la pessima figura mia, mi sono ubriacata in un’enoteca, e poi ho vomitato anche l’anima, per “l’ombra” come si chiama al Nord, io però l’ho amato appassionatamente, ed è una malattia. Io lo voglio così com’è, con la sua solarità che mi rende sorridente. E’ ritornato, forse gli sono piaciuta, nonostante tutto. Appena ci troviamo in soffitta tolgo gli abiti e lascio che lui mi penetri. Prima mi bacia mi abbraccia, mi accarezza. Lui che è la luce e il vento tra i capelli. Come in un gioco che abbia smesso di essere un gioco nel limite stravolto e rigettato della realtà netta, veritiera, agonizzante, uno spazio di libertà, accarezza i seni e dona il più dolce degli amplessi, sotto il palmo suo, stretta al suo corpo, sento la pelle fino al ventre, soffoco i singulti perché non mi sentano. L’ombra, mi accarezza mi bacia mi tiene stretta. Uno scherzo del tempo che mi ridona la grazia. Lui accarezza i capezzoli, e io mi lascio penetrare dolcemente. “Sei vergine” mi dice. Quando riparte lo accompagno alla stazione, intristita. il sogno di lui che torna come il vento tra i capelli. E’ preziosa la nostra intimità, amplesso che illumina di mistica luce riflessa le lontananze dolorose, e vorrei il suo calore sulla pelle per affermare la presenza-assenza ancora più dappresso e sentire la voce di lui farsi richiamo invincibile, sicuro. Un richiamo ogni giorno del vento, nella casa che dorme. Chiudo dentro il piacere serrando le cosce. Perché si rinnovi l’ardore. Amor mio sei la mia meteora, districhi i miei pensieri sciogli le mie voglie. Volgi a me beato i tuoi occhi, guarda osserva la mia devastazione. Turgidi i capezzoli chiamano induriti di voglia e premono contro la pelle sua. “L’ombra” l’accarezza. Le dita si apprestano a strazianti sfioramenti, il fuoco non si spegne, caldi i seni, i sensi dilatati, la pelle sprigiona umori e chiama il piacere carnale che offre il corpo smunto, non appartengo ad altri, solo per te sorrido, aggrappata a te, grido e gemo. Quando tu te ne vai, amore stralunato e solo quanto me, a volte ostile come in una guerra appena iniziata, il letto resta caldo e bagnato dei miei umori, a te mi consacro per te abbandono tutto, per te si fa sregolata la testa e premono le tempie. Tu sei il mio nido, per te sistemo il cuscino quando tutto tace. E’ un duello mortale e notturno di pazza sonnambula che trapassa il buio per incarnazioni miracolose. Ma l’ombra rinfresca e purifica la terra, e piccoli germogli vergini radici tornano come per incanto a nutrirsi alla fonte sicura. Non appartengo più a me stessa. Appartengo a lui, al vento, alla notte nella mia cameretta. Prima di conoscerlo scrivevo così, ormai pregavo per non restare troppo sola, perché io le parole non le so, e gli eloqui delle donne mi risuonano in testa come mostruosità, e ne fuggo. Nei fogli persi, perché persi il computer e non avevo registrato su chiavetta usb, e poi ritrovati tra il disordine di carte, scrivevo ingenuamente così. Come di seguito: In chiesa. Era troppo veramente troppo. Era necessario cercare un principio essenziale di quiete che tendesse verso il basso, verso la terra per ancorarsi, una forza compiuta, visibile e determinata. Non hanno limiti ora gli angelici cori per le sue orecchie e infinito è il tempo che scioglie l’animo dal mistero di un corpo abbracciato alla carne, ma ora è ricordo, ora è lontano, e ecco affiorare il filo dei pensieri che riunisce tutte le condizioni di possibilità della sua vita, smarrita nei sentieri inessenziali, fra le dita intrecciate in preghiera lei ammette la necessità di confessare a se stessi ciò che le cose dicono per loro natura fuori dai labirinti ossessivi. Requie eterna - eterno riposo- la preghiera si alza in coro, distratta come ogni domenica ma stentorea; la grazia rallegra e definisce il tempo del fantasticare psicotico. Sa comunque di aver perso la strada superba e chiara della ragione, ha osato indagare i misteri e ora è solitudine anche nel viso, che pure manifesta nei tratti ingenui e dolci la disponibilità a rimettere in discussione ogni tentativo di risposta per nuove possibilità. Presa da angoscia incrocia le mani, socchiude gli occhi. Ecco un luogo nel quale protetti dalle volte e dalle arcate in ritrovata pace tentiamo di sfuggire alle tempeste e saldare l’ancora della sorte disancorata, per una donna che si vuol riposare i nervi tesi e i giovani cervelli audaci sono musica stridente. Gocce di sudore le imperlano la fronte, ha disimparato la propria bellezza e l‘ha dissolta nell’oceano del dubbio, e tuttavia non si spezza il sogno, la vittoria non giustifica nessuno né redime, perdere non significa null’altro che sacrificio, trovarsi a soffrire e poi chiedersi nel martirio d’amore se un angelo qualunque giungerà a togliere la croce. Sono il trofeo di questo santuario si dice la donna e vuole scordare; dolcissimo angelo condannato a morte, non fiera ma felina , miagola e graffia ad un tempo, col desiderio di uccidere e poi giacere sulla propria tomba, da quando uno spesso fendente ha trafitto il cuore che s’è imbambolato. Il cuore spalancato…solo non pensava, però, nulla di simile. Implorava Dio di darle un lui, un nuovo amplesso, nuovi baci. Bocca baciata non perde ventura recita il vecchio Falstaff e L’onore non salva lo stinco. Sognava sbattendosi tra preghiere in chiesa e richieste d’amore agli occasionali amanti, richieste rifiutate. Un corpo di bambola, un pulsante facile. Sognava un lui che Le tenesse una mano sulla spalla, così Sara se lo figurava, nei messaggi che lui le inviava al cellulare, nella voce dolce melodiosa, giocoso ma intimamente malato, eppure potente come la terra infinitamente amata. Da tempo lei restava solo ad ascoltare con il mento piegato, ferita da un vecchio doloroso abbandono, senza far altro che fumare e leggere fino a perdere il sonno. Sara Scrive messaggi al cellulare “Amore sono qui, doppia duplice con una cagnolina come compagna”. Non era più stato felice lui da quando l’inverno si era fatto spesso e le stagioni della sua tenerezza morte per mancanza di tempo da riempire di carezze. Le finestre della camera di Sara danno sul presbiterio, allora è lì la domenica appena fuori dalla camera, per musiche maggiori di quelle che riecheggiano nella stanza delle sue astrazioni di chimera. Eppure lui, sempre invisibile, ma presente, sa esattamente, così lei lo immagina, roteare abile le braccia forti e i pugni tesi, squadernare quelle pareti anguste, e scoperchiare le volte gotiche per aprire al cielo le preghiere e attraversare le nuvole, per scrosci di pioggia adamantina, perché i manti verdi non muoiano di siccità e piccoli germogli vergini radici abbiano di che nutrirsi. Ma alla fine resta solo un’ombra, l’angelo, l’anima divina. Gioioso prima, l’incontro un caso fortuito di ace book, solo un’amicizia ace book e dopo, dopo, paura allarmante, che ho fatto mio Dio è peccato? Il senso del peccato è l’arma di delitto, lascia ai singhiozzi la possibilità di farsi strada, perché tutto resti così com’è, marcio dentro, e la scatola chiusa, serrata, trasudante carogne e scheletri del passato. Ma sussurrano le donne litanie alla luna strega. La luna avvicina il mondo, è fedeltà al fantasma, lui solare, affamato di voglia di vivere. Sola nuovamente, Sara è impietrita e fissata su fondo come Dafne fuggitiva, e lei, donna che non si è mai fermata con il tenace desiderio d’amore, lei che ha sempre abbandonato o è stata abbandonata, agogna ora il ritorno scacciando i pensieri di abbandono. Ricordi. Pupazzi di stoffa come le bambole della sua infanzia che conserva, infanzia lontana come matassa inestricabile, perduta freschezza giovanile. L’immediatezza è perduta. Sogna il mare e i suoi flutti, sì, le perle di conchiglia raggianti di splendore femminile. E ascolta; l’amore non sfugge al serpente, è avido di croci ed essicca i cuori perché resti il deserto di morte libagioni. Allontanare il giudizio non è facile. Da bambina era facile riflette la donna, se ritrovassi la fune che mi allaccia al passato resterei a decifrare la concatenazione degli eventi per annodare le trame del destino. Torna però con poca voglia a quei tempi perché il ricordo è una rivendicazione troppo tardiva. E la morte li allontana in una lontananza indefinita. Pensa alla casa, alla famiglia, solcata di rughe, con la fantasia eccitata, da sedare con i farmaci, e ricorda la perduta infanzia e giovinezza come in una saga di fiabesca provenienza. Scorre recitando gli stessi interminabili versi in schemi sempre identici. La casa la solitudine i passi le voci. Tornare a cercare è complicato. Pensa al giorno trascorso, rievoca il limite di attimi, momenti di quiete. Prima del delirio. La sfrontatezza delirante è un ordigno che è la lucida coscienza delle responsabilità, della solitudine e di una guida che ha perso. E’ un’ombra ed è un sogno. Un fantasma e un angelo. Mai indiscreto eppure spregiudicato e imprevedibile le ha concesso la piena libertà delle sue azioni senza fare domande perché non si sentisse intrappolata e suggellando nel cuore un patto d’onestà. Ma battono alle tempie le parole di un cattedratico a lei rivolte. “ora basta sei perversa sterile non comunicativa”. Ora basta. Non comprende, è inverosimile il suo ostinato silenzio, dopo gli insulti, quasi sfacciato di fronte ad una donna che cerca l’intero. Dicono sia pazzo. Eppure tanta sapienza dovrebbe rendere la saggezza. Sei perversa sterile e non comunicativa le ha detto ed è scomparso, si è dileguato come impossibile enigma. Sono iniziate le vacanze di pasqua e lui non telefona. Continua assorta a scrivere disordinate parole, frugando nella borsa piena di libri per cercare le sigarette. È tornata da scuola. Le piacerebbe sfidare la sorte imbrogliare il destino, voglia di rinascere come fiore nella solitudine del deserto senza impronte, e lacrime, e fiori senza i quali si muore di violenza. Ma poi il malinteso si è chiarito. “devi smetterla di sentirti malata, tu ti allontani con questa ossessione della malattia psichiatrica”. Le gambe tremano paura furiosa di camminare. Paura del vento tra i capelli, Paura dell’acqua che lava il corpo. Piuttosto che lavarsi accende un’altra sigaretta. Paura nullificante che schiaccia annienta distrugge incenerisce. Ferite inferte ai prigionieri del tempo, un demone nemico canta un canto macabro sibilando alle orecchie il rumore che soffoca, voci fantasie parole taciute, un orologio esatto ma vuoto. Scavare le parole come in un museo per trovare il resto, i rimasugli della vita che resta da vivere con uno sguardo al cielo. Una terra nuova, un manto d’erba, ciclamini e nasturzi in giardino, sono riposanti, e quando la notte si alzano le stelle si ricrea l’anima che traduce la croce, curvata sotto il peso, inginocchiata, a fatica rialzata la donna chiusa nella sua cameretta di ragazza prende penna carta intreccia parole che la giustifichino . La messa è finita «Sicché tutto qui? Bè, vecchia mia non so che farmene. Dov’è che hai messo le sigarette? Ora non ho tempo, ritorno al circolo per il bridge - il medico ordina di curare la pressione ma dovrei allarmarmi? Trovami il cellulare nella borsa che lo chiamo. Almeno si decide con questa medicina miracolosa!» Nella calca all’uscita una moltitudine ipocrita vocifera mentre correndo i bambini escono scomposti. Il fendente ha trafitto il cuore e i raggi accecano la vista che sbatte e spalanca. Nulla appare più certo, quattro spiccioli al mese e un po’ d’acquisti sfaticati, scarpe tirate a lucido, un cappotto nuovo, la passerella di domenica al centro per non sfigurare. Ma è come essere nudi. Soltanto la donna, che ha sottobraccio un libro nuovo e lucido di zecca, nuovo acquisto, ha un aspetto un po’ diverso. O almeno dà ad intenderlo. Almeno lei ha un libro, un libro mentre passeggia con fare irridente e discosto sotto il cielo, quasi giustificata come in un certo definito tratto d’anima da quel possesso che la distingue, io no, intende, ritorno ai miei libri e non resto a contemplare, non appartengo al corteo di ombrelli in piazza che attraversa la strada sotto la pioggia. Cercava riposo in quella casetta di anticaglie dal suo lavoro infaticabile. Scrive un messaggio a Giulia “Allora? Come va?”. Giunge immediata la risposta “Matteo è impossibile non si fa trovare mai è pieno di amanti non ce la faccio più…aiutami incontriamoci” “ok appena posso. Sono inguaiata anche io tra psichiatri e paure”. Colpevole. Per il momento l’altro, l’intruso amorevole, agognato, spasimato, non c’è. Era il suo quarantesettesimo compleanno quando per la prima volta è entrato nella sua casa nella sua vita. Il concerto lunatico della sua esistenza è una partitura misteriosa, genera sogni e languidi abbagli, e ottenebrata perde ciò che illumina e rischiara la strada nell’ordalia dei suoni strampalati e mutevoli. Orsaggine e selvatichezza si affacciano, la superbia si fa aspra, e si profila spontaneo e immediato il raccapricciante ribrezzo che è la sensazione di restare sospesa nell’aria. Ha sognato che le entrava nel fianco una mucca con sette zanne il corpo bianco come la neve e la testa di smeraldo. L’analista interpreta i sogni. Lei ha sognato la mamma le ha detto. Probabilmente è un sogno di conversione. Vorrebbe nel suo corpo veder nascere un fiore, una rosa, ma avverte che è un desiderio impossibile e forse per questo gli acquisti di creme profumi abiti non la soddisfano comunque e diventano un fatto compulsivo. Le manca il giardino da coltivare, la fertilità, e il corpo lo avverte come fortezza. Il vuoto che dice di percepire nel fianco destro, è il sentimento della sterilità. Lei dice di sentirsi mezza, senza la destra, e forata e che muovendo il braccio destro e la spalla destra sente il vuoto dell’anima. Cerca l’incomparabile e intangibile, cerca l’anima che dice le hanno rubato. Vogliamo provare ad attraversarli gli specchi?” Ma come si fa? Gli occhiali da presbite nella corsa euforica verso il cancello e la strada deserta, dopo quell’ora nella stanzetta d’oro erano caduti, e lei non si era fermata a raccoglierli.. Si ferma a riflettere, non vuole tornare indietro e prosegue. Teme profondamente le responsabilità. E’ l’inizio di un viaggio. Non più sola e senza orizzonti disponibili. Chi farà scudo al nemico? In fondo era un capriccio pensa. E inconfutabile ha fallito. L’indecente in tutto questo è l’averlo previsto. Aveva fatto irruzione nella sua vita un angelo che agitava la corrente delle sue monotone giornate, e poi era mutato cambiato. Forse lei non comprendeva. II medico che sistema le “teste ha cura di un arto complicato”. Sylvia Plath. Un ordine ragionevole ammorbidisce il delirio e trasmette la sensazione di una timidezza che deriva dalla vergogna. Carica di divisi pensieri, rivendica un’imparzialità che non trova, è imparziale con se stessa e insieme iniqua. Una resa a un nuovo amore, si è fatta improbabile davvero? nutre orrore per la dimenticanza. Una donna smaliziata da fantastiche allucinazioni. Non sopporta il freno alle sue briglie che la immobilizza e la priva di dolcezze. Intrisa di frantumate memorie. Ancora pronta a infiammarsi ma con uno sguardo indietro e il pensiero incandescente di aver subito una truffa del destino. Eppure lo sapeva. “ l’idea di qualcuno accanto mi dilania l’anima. Sono all’altezza sono adeguata sarò capace? la risposta è no non sono all’altezza non sono adeguata non sono capace. Pazienza … Ora si tratta di tentare in quella stanzetta d’oro con un estraneo che ascolta e di trovare chiarezza e di sapere perché accade. Far luce in questo tumulto per proteggere l’argine che straripa”. In autobus disegna arabeschi su un foglio, distratta, scarabocchia svolazzi, e viaggia verso future esultanze, ammesso che il buon senso e il criterio dell’analista siano scienza e snocciolino il bandolo dell’anima. Ma l’analista sembra un cialtrone. Comunque è un tentativo. Affaticata, giù di tono, indossa una giaccone e jeans. Si ferma in un bar per prendere una birra e fumare una sigaretta. Lo psichiatra è l’assassino, e anche piuttosto venale. Vede all’angolo del vicolo il suo vecchio professore di università, sciatto, trasandato, occhi bassi, passo lento. C’era stata l’anno precedente una discussione durata ore al tavolino del bar del centro. Era impazzito, colpa di una donna, quell’essere sconosciuto che non aveva osato indagare per viltà misogina e stima del suo intelletto grave ma forte, di pietra, e per lenire ferite si era fatto con gli anni legnoso, un burattino senza forza che ratificava per mera necessità tutte le ingiustizie del mondo. Ora era agonia dubbio scomposizione era diventato un cialtrone biascicava le proprie ragioni camminando a passo lento, senza criterio, allontanato da tutti, tutti schiamazzavano chiacchiere da bar, nei tavolini del centro. Lui con la mente ottenebrata camminava con gli occhi in basso e incurante di quel monologo stralunato e solitario che sfacciatamente ostentava, un canto scandito alla pallida luna rivestita di stelle. Un pensiero grigio cupo, un sogno di riscatto ormai abbandonato, un ricordo che richiama l’illusione, poi il no secco della coscienza e la consapevolezza carica d’odio del male subito senza rimedio. La vendetta impossibile inutile fuorviante. Era un giorno qualunque tra giorni senza importanza; una mattina d’estate inoltrata, dopo una cena in un ristorante del centro, veloce, camminava per il corso con la voglia di distruggere prima di tornare agli studi tra le carte disordinate. All’uscita aveva intravisto un uomo che usualmente ostentava la massima eleganza con una forma di sfacciata caparbia quasi a dire le mie tasche sono piene e se sono piene le mie tasche anche il mio onore, e lo aveva sorpreso a ridere del suo soliloquio da mentecatto. Comunque il ristorante d’angolo dall’insegna sciatta e all’apparenza poco invitante era poco frequentato.. L’uomo pensava e parlava da solo in un monologo strascicato, tornava con angoscia ripetuta a contare gli attimi i minuti che si rivestivano di significati giganteschi, in quel giorno maledetto, in quell’urto improvviso. Battevano le tempie, basta basta, uscire dalla gabbia dimenticare. Bisognava imparare a memoria le regole della comunicazione come la tavola pitagorica, fame una logica del pensiero, conoscere la realtà iscrivendola in un quadrato o mettiamo un cerchio anche, purché sia iscritta perché faccia parte di un universo concentrato e forse rattrappito d’accordo, ma così era solo paura, del futuro, e lui era già vecchio e gli anni si facevano sentire. bastava esaminare la sua andatura incerta gli occhi bassi la vergogna di esserci ancora il desiderio di restare appartato negli angoli nascosti, lontano dalla folla, per capire quanto fosse infelice per quell’anarchia del mondo insensato, come una trottola impazzita e girava e girava e lui non poteva più giocare come un ragazzino con quell’equilibrio incerto su due gambe come moscerini e la rabbia soffocata. Ci sono anch’io raccoglietemi cercate di capire e d’accordo sono superato ma posso esserci, anche se di lato, nascosto, travestito di memorie e rimpicciolito dal peso di una fatica senza speranza, ad occhi chiusi. Regole e leggi nuove da subire in un mondo grande quanto un guscio di noce ma feroce di fronte alle diversità, ostile con chi aveva modi inusuali o non conformi ad uno stile che lui onestamente definiva da bifolchi e straccivendoli da mercato, bifolchi travestiti da nobili per un’osservanza maniacale ad un’esteriorità solo formale. Un’eleganza in fondo triviale come immancabile travestimento e in fondo era l’invidia trasparente negli sguardi curiosi ed avidi. Il rapimento della voluttà. Ma io, si disse, molto più abilmente so volare e levarmi rapido in alto per fuggire da chi non avendo ali cammina e cammina una strada faticosa e sconosciuta senza armi di sorta se non la cura della casa degli anni da trascorrere con quattro spiccioli e un lavoro qualunque, e se ho sottovalutato è per via dell’abitudine alla solitudine e modi da vero selvaggio, come minotauro disabituato alla luce, pensò suo malgrado, ma in fondo era stata sbadataggine, semplicemente uno sguardo poco allenato ai colori e ai riflessi screziati e confusi di un’anima senza traduzioni intellettuali, era l’animo gentile di una donna incrociata per caso; sicuramente in cerca di fuga e con poca sagacia e disabitudine al nuovo aveva lui cieco e sordo al richiamo imprevisto, ascoltato con la noia del già troppo noto e troppo detto, per tornare senza perdere tempo tra i labirintici meandri imperiosi e noti dell’intelletto che ai testi si applica senza posa e non ama distrazioni, eppure era l’animo accorto di una donna forse in pena, ma alla fine chi non lo è a questo mondo? Aveva dimenticato dunque i versi di Dante sull’anima? la creazione dell’anima, da parte di Dio -esce di mano e lui la vagheggia- prima che sia, a guisa di fanciulla- che ridendo e piangendo pargoleggia-l’anima semplicetta che sa nulla. Pensò che per la prima volta in anni aveva dimenticato di recitare le preghiere prima del desinare. Tre volte al giorno recitava le preghiere e regolarmente santificava le feste - Ma la donna era un pasto a cui non si era mai abituato; lo attraversò il pensiero cosi, nudo e macabro, e ne ebbe orrore, lo ricacciò nel fondo perché non riaffiorasse. “Se si recita la preghiera non si giunge comunque alla fine della giornata con la coscienza perfettamente in funzione e a posto. Non basta . E’ vero che la preghiera prima dei pasti rende grazie del bisogno concesso ai bisognosi, ma non basta”. Così pensava a voce alta come gli succedeva spesso ormai. Era sempre stato metodico e severo, estremamente puntuale e sempre attento alle orazioni quotidiane. non esisteva il caffè a metà mattinata, o l’abbondanza di vini nella tavola scarna e appena apparecchiata di pane affettati e prosciutti, né sigarette o droghe inquinanti, il caffellatte o la cioccolata con cornetto a colazione erano proibizioni che risalivano all’infanzia, quando i soldi erano pochi e il cibo misero e da dividere in una famiglia contadina nella quale nessuno portava scarpe che non fossero state mille volte fasciate per chiudere gli strappi e tenere legata la suola che proteggeva dalla neve i piedi intirizziti dai geloni. Ora se possibile, pranzo a mezzogiorno e alle sei la cena! Ma prima mezz’ora di ringraziamento per il nutrimento che non mancava e del quale si era grati al signore che non aveva abbandonato quella tavola, e dunque santificare i suoi doni era dovere d’onestà e rendimento di grazie. Ma era la pazzia di un ordine che si era mutato per sortilegio in un incubo incomprensibile per un uomo che aveva sempre preso sul serio il suo spirito quanto la sua solitudine e che ora, nella vecchiaia, aveva creduto di ricavarne soddisfazione infinita per la quantità di beni accumulata in anni di lavoro. Sara E’ tornata, dopo una lite con un lui che la soffocava, nella soffitta, la sua camera di ragazza. Suona una canzone alla radio in sordina che suggella il limite estremo del giorno, dalla strada sale il rumore frenetico di motori come note strappate di cingoli che stordiscono e abbacinano. Le orecchie. Gli occhi. Di nuovo gli occhi di un’ombra che schiude il mistero superstizioso del suono e ordina il silenzio. La donna guarda di fronte, in una sua immobilità senza movimenti, fedele cerca di apprendere quell’arte che è il silenzio tra le morte cose, avanza e si dilata l’ingiunzione dell’ignoto, seduta con gli occhi verso il muro di fronte, le labbra immobili. Di colpo, nel silenzio delle loro voci ammutolite, sale attimo dopo attimo, veritiero, crudele, il palpito soffocato dei loro respiri, ritmici nell’aria, e l’avversione odiosa, febbricitante, annega in una vibrazione del tempo che scorre mutando i suoni amplificati e disarticolati. Il silenzio è un ombra di luce che ha corpo e nasconde il suono teso a vomitate nauseabonde parole. Denso e grigio si riflette il disgusto, la donna tesa all’estremo urla “non ti voglio io non ti voglio”; l’uomo non risponde non si muove, pietrificato. Nero vibrante catramoso il silenzio, e una lacrima scende riga il volto segnato di Sara , segnato di vergogna, poi lenta un’altra e un’altra ancora, piano si scioglie il tumulto incessante per un attimo di pietà. Il dolore inclemente, chiuso isolato liquefatto poi spalancato di lei intenta ad ascoltare i colpi che intontiscono. L’uomo cerca la domanda cruciale oltre quelle sghembe parole gridate, paziente ascolta quei frammenti allucinati. Una spiegazione semplice del complesso, un ordine, procedere per deduzione e sbrogliare l’intrico, comprendere cosa implica e perché, e perché spontaneamente come un boato si produce quel delirio che fulmina, inintelligibile. Trovare l’armonia dell’anima comprendere l’inganno e sfuggire alla trappola che è diventata il luogo di lei smembrata in uno spazio non suo, fatto di sbarre. Non c’è stata una parola tra loro in tutto il giorno ma se anche il vuoto ha un nome in qualcosa si deve tramutare. E’ necessario scampare a questa miseria d’amore e delirio che ha frantumato l’incanto dei loro corpi abbracciati. “ L’amore non esiste. Esiste la solitudine l’abbandono la paura.” Dice la donna guardando straziata fra le cose a destra a sinistra come a cercare l’orientamento nello spazio quadrato che non riconosce, negli angoli negli oggetti nelle pareti nei mobili nella tavola apparecchiata. Ha creduto di essersi persa in una distanza ignota e tra i singhiozzi ha cercato di orientarsi sorda a ogni muto rimprovero, perché la sopravvivenza è così. Una fine una memoria una fuga un fantasma che appare in mezzo alla più conviviale delle conversazioni ed è un’ombra travestita, nascosta, grave, accesa e spenta all’ombra dell’enigmatico silenzio delle strane cose risucchiate. Trattiene il tempo e ne espande le vibrazioni, ed è come morire senza morire, con un nemico accanto invincibile, sulle prime lo credi un angelo e lo tieni nascosto come l’amante più segreto, sedotta ammaliata , ma il tradimento è vicino, ha un passo e avanza marziale, è un corpo diverso, un vecchio aguzzino rigido travestito di fessure che sono occhi tesi, e annuncia cori di voci disgiunte come parti di un corpo metallico, si prolunga in un’eco sterminata il dialogo forsennato dentro il corpo rattrappito, e si svita la testa di bambola dopo un sonno in cui la ragione conservava fedele i suoi buoni quotidiani argomenti. Un intruso speciale, occhieggiante, non uno come noi, con sguardo imperioso trafuga parole nel vigore estremo del silenzio, cicalecci che incendiano, distruggono, fucilano, prefigurano il gioco temibile di una fuggitiva senza speranza nel brivido della solitudine ad occhi chiusi. Il giorno prima c’era stata una scenata. Piangeva aggrappata ai cuscini del divano e graffiava la stoffa, bella comunque nel suo abito di seta indaco indossato per l’occasione nella speranza di mascherare la prigionia che avvertiva dentro, nonostante si riconoscesse colpevole, e quella gabbia dal canto suo la meritava come ogni altra cosa. singhiozzava”tu mi uccidi mi uccidi io soffoco”. Lui aveva il volto coperto dalle mani. Si offriva paziente a quell’incubo improvviso e atroce. Poi si era alzato e le aveva strappato il bicchiere di mano e aveva urlato “ora mi dici tutto con ordine”. Lei si era schernita e raddoppiando la lontananza aveva respinto il gesto alzandosi con violenza e tornando in cucina a rovistare nell’acquaio tra i piatti sporchi. Io sistemo la casa lavoro fatico. Questo intendeva con le lacrime agli occhi e la testa in fiamme. Le parole cadono e non si vede il loro peso nel vuoto, eppure cadono nel vuoto ma non toccano terra. Un tuono aveva annunciato la pioggia. Lei aveva balbettato piano con un filo di voce “ sei diventato matto? Non vedi come sto tremando? Sei aspro tu non vedi non ascolti non rispondi” E allora lui si era alzato in piedi e le si era avvicinato. Le aveva stretto i polsi per fermarla o strapparla a quella risonanza incomprensibile. Impressionante orrore della verità. Aveva respinto il gesto ed era andata a dormire dopo aver preso un sonnifero per chiudere gli occhi e divorziare nel sonno dal suo incubo. L’ombra scompariva quando il sonno penetrava proiettando ombre, e ancor prima gli occhi si chiudevano e si compiva al massimo grado il divorzio dal mondo. Una pausa prima delle prime ombre del mattino. Cosa realmente vuole quell’immagine, quella maledizione dalla voce ambigua che fascia stonata e uniforme, rumore di tenaglie, ferro, pezzi di ricambio, la testa irta di crepe non rimarginate? La vita si è iscritta nell’ipotesi di un’ombra che non tramonta, non si getta, s’addentra in ogni angolo in ogni vuoto meandro. L’aguzzino non ha amore, implacabile traccia segni, persegue, scoperchia il suo sguardo, consuma ombre e beve il giorno, proietta profezie loquaci che occultano il mondo nelle pieghe della testa; in una danza infernale lei ascolta lo strepito macabro e sordo, ecatombe di tamburi, quel mostro che apre le porte ed è ovunque vince ogni fragile no, perché non creda, lei, di poter fuggire prima che si compia il sacrificio del giorno più lungo, l’eclissi del martirio, tormento, scura parabola, proiezione della vita nell’ombra, con gli occhi pupille che mettono a nudo il vecchio armamentario dei suoi sogni e dei suoi giorni quieti. L’ombra dalle fattezze azzurre, giocose scaccia i pensieri. Tornerà da lei per nuove carezze. Il silenzio è ordine. L’ombra divide lo spazio e divide la memoria martoriata, la speranza è altrove. Fuggire. Sara da qualche giorno, non sa quando, ha perso il senso del tempo diluito tra fantasmi e realtà, è tornata dai suoi. Perché le è impossibile continuare, picchiava sui muri versava lacrime, e allora se ne era andata via per trovare pace. I suoni subivano una sorta di incarnazione ma la gola restava serrata. Aveva sceso ogni gradino con un intensità che era un crescendo di tonalità fino ad un mostruoso forsennato battere. . Ora è al bar della piazza seduta al tavolino. Ha visto il cielo con infinito azzurro e ha sentito il calore del sole Ha visto l’azzurro del cielo. Un sollievo della testa stanca, un risveglio della vita dal dolore riflesso del vuoto. Sorride al cielo ai passanti alle macchine. Io potrei essere o io sono continua a chiedersi? Il fantasma dai tentacoli aveva ferito la sua esistenza tranquilla per tradurla in una infelicità di orizzonti persi. Solo a volte ha occhi suoi per il cielo per il suo cuore libero dallo strazio di quella catena. Il laccio è finito la tela frantumata. Forse. No, , implacabile il nemico s’acquatta e la sorprende e imprigiona, Io ti amo e non mi vuoi. Sussurra piano con un movimento impercettibile delle labbra sottili. Ci separa il tuo orgoglio contro il quale resto inerme , a niente varrebbe scagliarmi. Nelle profondità del cuore inebriate dal sogno abita l’intruso, è li che ha voglia di ucciderla è li che la vuole come in un faccia a faccia che la ammutolisca per sempre. Un orribile battere, una conversazione alla quale finiva per preferire i volgari pettegolezzi cittadini. Le sue guance hanno assunto un colorito appena roseo, l’esemplare condanna a morte sembra scansata nella casa della sua infanzia e adolescenza, ha occhi e parole nelle ore rare di libertà del pensiero incandescente, tra i ciclamini gli oleandri e i limoni, si concede ipotesi di vendetta. Voleva gettare fuori il mondo. I labirinti delle sue ossessioni le toglievano il fiato, la vita si biforca e sente di essere inghiottita da mostruose fauci spalancate in un delirio senza rassegnazione, riemerge alla ricerca di qualcosa contro quell’essere che la fa precipitare, cadere in un’inconcepibile voglia di venir coccolata tutta, stremata implora a se stessa rassegnazione. Combatte la sua psiche da un’analista. Dischiudere un tempio di amarezze e solo fortuite dolcezze. La mattina alla solita ora la seduta, all’uscita ha salutato l’analista cordiale come sempre con un sorriso stampato ed è fuggita vergognandosi di quel timido saluto scambiato e della mano stretta, è scesa a piano terra percorrendo vertiginosamente le scale. II suo analista ha emesso una sentenza. Ha ascoltato lo sconosciuto mentre era distesa sul lettino tutto d’oro. In qualche modo sì sente innocente. Perché non si dovrebbe fuggire? Il professore Quella donna chiedeva risposte che non ho. L’ho invitata comunque a sedersi al tavolino del bar. L’ascoltavo annoiato, e lei chinava la testa. Un bel nome Sara. tornava a rialzarsi e guardarmi, sempre in base al mio discernimento che sapeva dosare le parti, semplicemente misurando il linguaggio in base al tempo e allo scorrere e al dubbio che ogni sospensione lasciava in lei quando le toglievo ogni spontaneità nel trattare con gli oggetti e i cibi di quel tavolino apparecchiato in un caffè piuttosto alla moda del centro, perché tutto diventasse un evento e un paradosso. Giocavo con lei come un’Alice nel paese delle meraviglie, “hai braccia e gambe lunghissime; se abbassi lo sguardo li vedi scomparire i tuoi piedi, e lei guardava in basso perplessa, e il tempo che ti occorre per portare alle labbra il cucchiaino di gelato è fuori portata, senza contorno, ti si scioglie prima che tu riesca a organizzare i movimenti di quest’oblungo braccio segaligno e dinoccolato che ti deve essere piuttosto d’impiccio più che d’aiuto , e finisci naturalmente per sporcarti l’abito di gelato, e lei fermava la mano e riponeva il cucchiaino nella coppa gelato che andava sciogliendosi e gocciolando ai lati. Hai gli occhio strani, stamattina devi esserti svegliata un po’ diversa ma non ti ricordi quando, probabilmente ti chiedevi chi diavolo eri, comunque questa non è una tavola pitagorica e non si tratta della metafisica del numero, spicciati con questo gelato. Finirai per protestare di non averne neanche sentito il sapore e non tossire così mangia piano altrimenti ti strozzi. Vorrà dire che lo lasceremo ai piccioni, questo gelato per essere grande è grande davvero. Le venne il singhiozzo. Nei miti indigeni le fanciulli folli di miele non sono sazie di miele e mai sazie dei piaceri del sesso e finiscono divorate dalle accorte formiche. Guarda una formichina sulla tovaglia un’altra, il tempo passa e tu non ti sbrighi a finire questa coppa sei ancora a metà. E lei osservava la tovaglia di cotone blu pensando di veder comparire un formicaio. Non osava disubbidire. Vorrei vederti con le corone di pan di zucchero, sai cosa sono? La deridevo, sta attenta a quel che fai non sai muoverti….sai qual è la seconda lettera dell’alfabeto ebraico? bet e bereshit significa in principio e bet e ben figlio e figlia e bait casa e banha costruire. A te manca un bereshit e ogni mattone tu poggiassi lo poggeresti sul nulla per questo sei sterile vuota e non comunicativa. Niente principia dal nulla se non il nulla stesso. Non capisco se stai singhiozzando o belando, comunque non sai che strada prendere perché senza bereshit non esiste strada. L’amore comunque dice un grande filosofo non prende mai le strade maestre. Ma per prestare il fianco alle frecce d’amore devi dimenticarti di te e ritrovare il tuo principio, e si vede dagli occhi che sei un angelo vagabondo. Se singhiozzi o beli, non mi è ancora chiaro, è perché ti manca il verbo e in principio è il Verbo. Ti appartiene la strada ma dubito che sarà una strada maestra e sicuramente non il principio di un cammino ma qualcosa di sospeso per caso in un risveglio improvviso in un luogo impreciso, neanche tè saprai quale e perché. Continuava a ricordare, fermo il pensiero a quell’Alice triste eppure forte. Trovare il modo di rivederla. Aveva anche un nome dolce Sara, “Ma ora, che fare? Se solo ci fosse con me il mio collega che ha il dono di saperne di più risolverebbe l’enigma…” Si soffermò con piacere a pensare al vecchio amico. Ma poi facebook è stato il lieto fine di tanti incontri-scontri. Siamo tutti amici su fb. Scriviamo lettere inviamo messaggi e immagini. E sono restata una dolce schizofrenica con un uomo accanto che mi sopporta, non so per quanto tempo ancora mi sopporterà. Ma è lui la conoscenza fb. Un incontro dolce dal primo quasi immediato bacio. Fb nasconde il tempo. Ci amiamo da vegliardi con saggezza e comprensione. E rinunciamo alle liti adeguandoci a quanto esiste. Un diario fb. Siamo piattaforme face book, ma lui è vero in carne ed ossa e l’anima mia carnale ringiovanisce. Un paracadutista. Io ho trovato il farmaco giusto contro la mia liquefazione. Una schizofrenica innocua. Un bacio da lontano amore sto per venire da te. 11:55pm 29 Mar. '13 le brume Le brume Lui -Alle prima luci il canarino inizia i suoi gorgheggi. Lei se ne è andata. Ha telefonato ieri sera in preda all’agitazione. Lei - Vienimi a prendere ne ho bisogno. Lui -Per tutta la sera ha parlato di lui anzi d’amore— Lei- lui lo dimentico, devo — Lui - bene che te ne fai d’altronde Lei - si ma ti pare facile - giro con frammenti di un discorso amoroso sempre tra le mani. Anche a te l’ho regalato per natale? Lo vado regalando a tutti-E ora capisco che è una un’illusione — Lui - piantala con lui ti fa del male – Lei - sì ma vedi lui mi sbarra la strada. — E poi che mi faccio passare la vita così? E il vuoto, lo sai vuoto cos’è no? - Lui -Lei non si stanca delle visioni immateriali di lui che le consumano materialmente il corpo e l’anima - E’ venuta con voce eccitata ma tremante, intesse da anni il putiferio dei suoi ricordi con la fatica tutta sua di non deporli. E’ col cuore e il corpo affamati ostinata nel non voler destituire la coercizione della nostalgia alla quale si appiglia per non ricomporre un ordine già demolito da tempo. Sfavillava luce in quegli occhi castani grandi spalancati che riponevano lo sguardo nello stupore di osservare tutto quanto fosse nuovo, come a scoperchiare in ogni cosa fuori e dentro la materia spirituale, toccando lieve e assorta tutto quanto trovava per scovare mille cose vive e nessuna morta - vuole luce chiara riposante -un riverbero cordiale, per muovere l’anima che si è fermata, rimasta indietro per non correre avanti. L’amore è la corrente che riguarda in lei le cose del passato, quasi un po’ morta per l’altro il futuro. Ma eros è una potenza universale, le ricordo, e per amare bisogna amare in modo rinnovato. Io come amico potevo lenire il suo pensiero incandescente e fame pensiero di carne. Volevo il suo pensiero fatto di carne, il pensiero sensuale del corpo che a lungo ha riposto in un armadio, sicura di renderlo più vivo poi, nell’attesa del ritmo del respiro giusto e simultaneo. Mi ha fatto balzare alla mente inatteso il ricordo di versi di Montale, lei stessa mi è apparsa una donna di Montale e ripetevo dentro le parole de La casa dei doganieri, lo sciame dei suoi pensieri. Erano tanti e si affollavano, e con pazienza volevo placarla, ma rimane lo spettacolo che ho dentro del vivace suo apparire - vivido e mosso, con la visione di un pensiero nascosto, la sua fragile arrendevolezza. Lui -Smettila di girare ti muovi come se avessi l’argento vivo addosso non ti fa bene Lei - ok suonami qualcosa — senti questa è una di quelle case in cui non si fuma vero? Lui - per stasera ti concedo di accendere poi vediamo Lei- l’importanza del sesso per esempio, io credo che in definitiva un sano sesso mi rimetterebbe in piedi, conferisce al corpo di rispondere, e mi renderebbe meno furibonda non credi? pensa al corpo come unico strumento del quale possiamo godere a piacimento Lui - non male Lei - sì ma la sai una cosa, sono anche anorgasmica, però fammi fare sesso stasera ne ho bisogno, il vero sano sesso quello che scalda piano, senza imbarazzo - chiudiamo i miei pensieri prima che faccia giorno e discorriamo di corpi, anzi coi corpi, e per stasera voglio ignorare tutto, anche me stessa che penso per sentire rifluire all’interno il sangue pulsante, non alla testa che mi vincola mi tiene stretta alle sue braccia al solo pensiero che non c’è-prova a stringermi senza che le tue di braccia siano braccia che si accavallano ai pensieri, prova a essere presente e assente. Pensa a Platone, una pedagogia dell’anima e del corpo si rivela effettivamente corretta solo quando è in grado di portare a maturità queste due realtà nel modo più perfetto e armonioso. Un po’ filosofa ci sono. No? Lui -Ma l’armonia in lei difetta della sintesi, eppure è bella ma non lo avverte converte lo spirito in qualcosa di talmente incorporeo da perdere il palpito solo carnale del piacere, per il gusto in realtà di non esserci mai, di esserci senza amore, e se non c’è amore la legge che si dà è che non vi sia al contempo nutrimento per il corpo, solo anima assottigliata, esile come la sua guizzante nervosa figura. E’ la sua dolce arroganza. Le appare un grossolano errore esporsi al pericolo di essere acciuffata e dover restare, si sentirebbe presa al laccio e vuole rimanere inafferrabile, mentre sogna cose inaspettate, possessi troppo sovrumani. Lei - tu credi che le anorgasmiche, quelle che ci diventano o ci sono, abbiamo una qualche possibilità di riuscita? Lui - penso di sì Lei - poi tu pensi ancora a tua moglie Posso farmi una doccia qui? Non ho fatto la ceretta e non mi sono lavata lui si sposa e io conto le mie rughe insieme al tempo- ma è che mi divoro-e l’ansia divora l’ansia per finire in una voragine d’ansia senza fondo, è una caduta - e non sogno che di lui –meglio nascere brutte che diventarci non giochi mai gli specchi che alla fine devi allontanare per cercare l’essenza e nell’essenza trovi il vuoto, un’eco una balbuzie – Lui - sei sempre la stessa, le rughe non contano, è che hai una volontà docile e continui a soffrire, ma perché fai confronti e non sai neanche con chi, torna a rivivere, è ora Lei - lo dici tu — non prendermi per pazza ma l’ho chiamato di nuovo oddio piantala — Ok sesso allora parliamo di sesso — vado a farmi una doccia- c’è un accappatoio? Sai questo bagno è rassicurante? Una doccia calda e poi tutto sesso. Penso che tu sia in grado sai di risolvere la mia situazione per stasera, lo credo seriamente, in fondo l’uomo molto più grande, hai vent’anni più di me necessariamente sei così saggio, è meglio del ragazzo. I tempi per esempio si allungano come le rughe d’altronde— ti piaccio? — Lui - volevo dirtelo da un po’ il tuo modo di entrare di muoverti di parlare mi ricorda una poesia di Montale La casa dei doganieri - desolata t’attende dalla sera in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri - — sì capisco l’anima ma la bellezza non richiede Montale sai e neanche l’anima alla fine - le nostre parole sono le migliori, ma hai ragione “il calcolo dei dadi più non torna” – Lei - insomma ora mi sento prigioniera e non preoccuparti di me mi sento spettrale e non mi finisce non mi riesce di finirla con il pensiero di lui- Lui - Mente a se stessa. Non è lui che vuole, ma rimarcarlo ogni volta le consente di far correre i pensieri a briglia sciolta, e tessere trame d’abbandono per l’idea che vuole dare di una cattività, e di una coercizione non volute. Perché difetta di un io voglio, di una volontà decisa, e perché ogni vincolo allora le sembra catena, richiede il tempo condiviso lo specchio dell’anima che maschera e nasconde per puerile paura, e inizia a soffocare ed è costretta a lasciare. Credo. Forse, comunque il suo discorso non torna. Essere di lui lontano (sarà vero che non la ama?) le serve a non appartenere se non a se stessa. comunque con l’accappatoio e i capelli bagnati sembri un pulcino bagnato — Lei - mi metto a letto— oddio è freddo—ti rendi conto che parliamo di sesso e siamo imbarazzati a darci anche un bacio? — o abbracciarci, impossibile come se fossimo immagini di noi stessi svuotate di qualcosa - cos’è che manca al sesso per essere solo sesso? non oserei darti neanche un bacio l’altro era amore e lo baciavo — noi che facciamo adesso? — Lui - Ti posso massaggiare vuoi? Lei - sì mi tolgo l’asciugamano — oddio bello chi ti insegna? — sembra divino i massaggi hanno qualcosa di divino — le spalle premi sulle spalle e la schiena — ora che fai — Lui - perché cos’hai ho solo posato la testa sulla tua spalla, che hai? — Lei - perché mi blocchi, ti appoggi me e non sappiamo baciarci — ci pensi? io nuda, tu mi frizioni e massaggi tutta tutta, senta paura, e abbracciarci ci atterrisce? Nel massaggio c’è la distanza giusta per essere altrove, in Frammenti io mi leggo nell’Assenza, la scrive con la A maiuscola -è la privazione - so a memoria il passaggio - il desiderio è qui ardente eterno: ma Dio è più in alto e le braccia levate non raggiungono mai l’adorata pienezza - Dobbiamo provare tecnicamente a baciarci? Lui - «ma sei pazza? Il bacio tecnico?» — Lei - e allora il massaggio, mi priva della privazione è incorporeo etereo e insostanziale – Da Frammenti - il desiderio si spegne sul bisogno, ma se togli desiderio e bisogno si spegne l’Assenza, e di conseguenza si dovrà accendere qualcos’altro, forse un modo diverso un cuore diverso, un cuore muscolo che palpita ovunque magari nelle cosce nei gomiti nella mani nei piedi , perché sei bravo e mi fai venire il vero sonno e non mi chiedere di ritornare a casa, la tua di casa è bella è immersa tra la terra e il verde ci sono i vetri appannati come nella casa dei doganieri sembra irreale quanto i luoghi della lontananza, dell’assenza, e del c’era una volta. Altrove non mi sarei fatta manipolare così, ma è poesia questa tua casa, l’accesso anche, nel viottolo sconnesso come un labirinto di sassi e dirupato - sembrava di allontanarsi per entrare in un altro regno, un diversa forma di riposo che viene dal suolo e dalla nebbia, e dalla luce che sa di caldo e di occulto di qualcosa di solitario, il magico interno brumoso di un faro. Ma dicevo di frammenti amorosi - lo so a memoria -nell’Assenza due ideogrammi - le braccia levate del Desiderio e le braccia tese del Bisogno. Il desiderio si spegne sul bisogno. Immagine fallica delle braccia levate, immagine bambinesca delle braccia tese - sì continua così ti prego, i polpacci devi premere e, oddio devo smettere di fumare, e ora dove vai? cosa é questo? è bello, talco — mi stai facendo buttare fuori tutto ciò che mi inquina dentro, è una delizia svuotarsi la mente, un esercizio che ho sempre tralasciato. Lui - Sembra che la sua impressione - timore di me sia verginale. C’è il lei l’onestà della fedeltà al proprio patto con se stessa, si è imparata a conoscere attraversando relazioni ma negando l’anima sua bella. L’anima che tiene chiusa nella sensualità di un no ripetuto, e di un’eccitazione che solo la lontananza di un lui le dona. Non è inconsapevole. Sa di non saper attraversare gli stadi dell’erotismo perché vuole essere presa solo nella parte che di lei è più corporea, l’anima. Il resto dopo. Non vuole per una ragionevole ma involontaria giovanile musicale passione per le ragioni del cuore-anima cervello, e separa con pertinace insistenza il suo io dal resto pretendendo il riconoscimento di un tocco d’anima di due che sono sensualità e spirito in una sferica presenza - fosse pure contro il tempo – e questo solo è presentimento di una reale carnale scoperta, ancora non si accende in lei il desiderio se non attraverso chi le faccia avvertire la materia di cui è fatto l’incontro, ossia una rinnovata verginità dell’anima, per esserci senza memoria, intatti puri come avorio. Credo si avverta ogni volta superiore e recita la parte dell’abbandonata con l’agilità di chi già è altrove. Ma dove? Dove non c’è che lei sicuramente, nel cuore e nella mente. Lei - Una brusca svolta della macchina e sono entrata in un sentiero nel quale discendevo sempre più eccitata, un viottolo ogni volta trasversale e ritorto, discendevo in una nebbia che scioglieva già ogni mia tensione. Mi avvertivo furtiva e clandestina come il luogo, un rifugio nebuloso. Qui il mondo si riposa, pensavo di fronte al cancello, e il freddo bagnato d’umido aveva il sapore delle macchie selvatiche con gli alberi scheletrici e il suolo rosso-ingiallito da cui evaporava brina densa-e solforosa - Ora anch’io mi riposo ho pensato, e così è stato. Ho parlato parlato, le mie parole erano le stesse di sempre, quelle presenti, ma erano un disco incantato, mentre concepivano per me del tutto inversamente i miei piedi maneggiati le ossa dei miei gomiti i polpacci le braccia. Avevo la sfrontatezza del dominio su tutto, su di lui e le sue cose. Imponevo me quasi fossi un impero. E pensavo senza pensare, parlavo per ripetere le solite noiose cantilene, gustando al contrario la forza del meditare realmente carnale, quel bellissimo limpido riposare nella testa, per il quale era facile non ascoltare se non da un’estrema lontananza indefinita le mie solite terribilmente noiose parole, erano vuoti simulacri per i miei piedi e polpacci rinati, chiudevo involontariamente gli occhi e avevo la voce per intimare “io qui ci voglio restare” e non mi alzo. Non avrei potuto avevo il corpo già tutto assopito, meravigliosamente rilassato, e il trauma di alzarmi non glielo avrei concesso. Credo avesse delle preoccupazioni. Ma naturali - spero capisca un giorno quanto il disgregare smembrare ponderose speculazioni troppo ardite è ciò di cui ho bisogno, è questa l’assenza, quell’intelletto sempre attivo rozzo e ineguale, non eguagliabile ai miei piedi polpacci gola giro vita cosce e capelli. Sono una così, con me stessa senza divisione. Ma per parlare ripetevo come la ballerina di un carillon le parole d’amore perduto, i frammenti letti di discorsi d’amore, togliendo alle nostre parole l’autenticità dell’essere solo nostre, con astuzia forse troppo argomentativa, meccanicamente ribadivo il già detto, ormai saputo a memoria. Ma la scatola era vuota, alzato il coperchio le parole se ne volavano dopo aver per troppo tempo traboccato. Avrà sicuramente già capito tutto, o forse non capirà, sentirà di avermi fatto del male e non sa quanto bene mi mostra con la sua docile pazienza. Glielo dirò con un dono gli voglio regalare “Pensare con i piedi” di Osvaldo Soriano. Capirà. E dimenticherà le mie parole, Il carillon incantato, perché sa farmi pensare, finalmente con coraggio, cervello sì, ma con cuore fegato e sesso, e tutto il resto. Lui - sei dura come il diamante Lei— sono legnosa, me ne accorgo tu hai mani d’oro — però non mi rispondi — mi massaggi in un modo che sembra il tuo lavoro da sempre—ma frammenti di un discorso amoroso, che ne dici, ti è piaciuto? — come diceva ti ricordi — sì qui i polpacci pigia più pigi e meglio è così pizzicato è perfetto la schiena le braccia— neanche ti stanchi ? — Ti ecciti? Lui - sì ma non è l’eccitazione che conta — Lei- comunque dicevo niente tenerezze Lui - ti ho già spiegato io non mi impegno, c’è mia moglie, sono separato d’accordo, ma non mi impegno Lei - non fare lo scemo io rifletto — quanti pochi frammenti d’amore — i discorsi amorosi insomma, non ne pensi niente? — ti ho fatto vedere le foto hai visto cos’ero e come sono adesso che sono appena tre anni che se ne è andato e ho solo pensato a lui e si vedono i segni dei pensieri sul viso - ho un’ ossessione — sì ma continua non ti fermare - però non ti sdilinquire in queste tenerezze - insomma è un massaggio con la frizione, il massaggio da massaggiatore - ma voglio dire poniamo i romantici discorsi d’amore - ti rendi conto che il mio corpo è nudo? - non lo temi perché non lo temi? Ma senti il fatto che non lo temi significa anche che non lo scopri? E nell’«amorosa quiete delle tue braccia?». E’ un paradosso sai non c’è nulla di amoroso e c’è qualcosa di mostruoso nella tua facilità a trattare il mio corpo e nella pazienza anche Lui - se ti friziono così puoi anche raggiungere l’orgasmo— Lei - Come puoi solo pensarlo io credo che la citazione di Montale ti sia servita a rendere quel minimo di poesia al movimento delle tue mani - però non fermarti - Penso con insistenza alla bella e la bestia - la fiaba - mi ci fai pensare con insistenza - non parlare di orgasmo, l’orgasmo tecnico non mi appartiene - guarda che se vai all’interno coscia ti accorgi di quanto sono asciutta – Lui - si sei dura durissima ma hai di bello gli incavi gli incavi del tuo corpo sono belli, e sei bella qui sei un loto Lei — sarebbe bello mettersi a litigare d’amore, l’amore ce lo siamo dimenticati — il massaggio è divino ma lo sai che mi sento di non esistere? — insomma chiunque fosse qui donna in queste condizioni si riposerebbe con il tuo frizionamento instancabile — mi chiedo cosa te lo faccia fare — forse sei molto generoso — quelli che mi amavano non mi hanno mai massaggiata così per ore e forse così mi stai aprendo un vuoto -e la vista appannata della tua finestra in alto per tutta la parete ha l’apparenza reale del fiabesco — e l’odore di nebbia e di muschio — ma l’espressione tua è la stessa, hai sempre la stessa espressione di sempre solo un po’ stanco e insonne, si vede che ti manca il sonno, domani non avremo però la sensazione di essere stati in un letto nudi insieme—e lo sai neanche adesso — eppure questa è generosità — vorrei giurare di non fumare più ma è impossibile — Lui – lascia perdere non ci riesci. Lei - Chissà cosa vuole lui scoprire di me, e anzi cosa scopre, il mio irrompere strano e impaziente, le mie sconnessioni disciolgono il suo quotidiano metodico movimento sempre uguale forse, o gli sono l’impiccio di una invasione improvvisa e improvvida, oppure gode giustamente di un’innocente voglia di godere del suo faro, nonostante la trascuratezza delle mie parole, e gli ordini che impartisco, difendendo le zone più intime, negandogli le carezze che forse avrebbe per me ma io non voglio. Mi ostino a ripassare formule svuotate, quelle dello sgabuzzino della memoria, quelle sempre pronte e rigurgitanti, basta attingere, e riafferrare vecchi interludi, quelle overtures sempre uguali. Dovrei dargli tregua, almeno un intermezzo. Il polpaccio l’altro — senti che legno che sono — sono un legnaccio — un pezzo d’albero e lì sono sempre dura — insomma dicevo il bacio la tenerezza— sai io mi pento di un uomo che non ho avuto e era dolce perché era uomo e protettivo e mi parlava con paterna premura e ironia - la schiena inizio a sentire –con l’olio così- una settimana tra le tue mani, diventerei un’altra e brancolerei un po’ meno — sai che ho perso il tatto? —ma hai mani possenti - le immagino pelose - come quelle della bestia – hai anche la dignità alla fine della bestia di fronte alla bella— ma tu perché non parli? – Lui - perché non serve, ascolto lo sciame dei tuoi pensieri — parli te e sei un pulcino impaurito – Lei - mi fai accorgere di una cosa - i piedi sì, dio i piedi ho il cervello nei piedi io le mie molecole migliori sono nei piedi - mi sembra di rinascere, anzi mi fai crollare dal sonno - è la prima volta che non penso niente non ho pensieri - però la riflessione filosofica te la dico - So che c’è tua moglie e io non sono emozionata e non ti bacio perché mi sentirei tecnica e tu saresti tecnico a letto - ma dimmi la verità - tra l’essere folli d’amore e l’essere tecnicamente sempre pronti non mi dire che non ti piacerebbe essere pazzo d’amore - o vuoi che il desiderio si spenga sul bisogno, il tempo fugge e l’attesa ci profana lo sai? aspettare che lei - lui chiami come un condannato a cui si rifiuta la grazia - “squilla squilla accidenti” e ogni volta si fa qualcosa sperando che serva — sai del tipo se accendo una sigaretta e preparo il caffè quando sbuffa la caffettiera allora squilla - ma sono preoccupata sai dimmi un po’ ma tu frizioni passi con le mani nelle zone più dure e contratte e mi sciogli, come se mi smontassi per rimontarmi meglio la testa che ha smesso di funzionare ma inizi dal basso dai piedi- ma è perché hai capito che soffro? - oppure sei un santo? – Lui - anche a me metterebbe in imbarazzo la tenerezza — Lei - figuriamoci se mi penetrassi - non riesco a unire quest’uomo del massaggio - mettiamola così, ti chiamo così - all’uomo che ansima e gode mettiamo alla penetrazione della mia vagina - scusa fammi dire però fica - sennò mi sembra veramente qualcosa troppo meccanico tutto - Io sono sicura che sto bene da morire, ma domani non sarò emozionata, ma senza le tue mani il calore delle tue mani mi sentirò legata- ora provo a non parlare - non dico più una parola - l’altra cosa che ti ho segnato ti ricordi su frammenti del discorso – “Dopo un crollo la psicosi da crollo ci difende dalla psicosi del crollo. La psicosi riproduce psicosi”- Telefonarti mi ha salvato - stavo crollando un’altra volta e questa volta ho trovato la casa dei doganieri e le potenti mani della bestia - io la bella ok? - c’è una cosa che non ti ho detto quella foto di te piccolo sul pianoforte io devo averla sognata - c’è un dejà vu - lì ti vedo - e non credo al modo in cui mi parli della tua separazione - e il tuo ordine spaventa - è un ordine cattolico? Questi libri sui vari Don mi fanno un po’ orrore - bellissimo così continua il giro vita tutto, il giro vita da tutte e due le parti ne ho bisogno - stasera mi sono accorta di una cosa io ho perso il mio corpo - devo fare qualcosa che mi risvegli - si è anestetizzato - si è fatto tardi per attendere - la vitalità richiede che se ne abbia cura perché il successo non dobbiamo concederlo a chi ci sigilla la vita Lui - La materia di cui siamo fatti è uno dei fattori determinanti dell’opera, l’armonia alla quale ritmo e melodia si aggiungono come personali momenti, mai assolutamente coerenti, anzi mutevoli sempre, come tempo che si applica alla materia pensante e irrora trasformazioni che mutano la nostra sorte, se il tempo del ritorno dell’essere sempre ripetuto consente a noi impigliati nella tela di ragno l’apparizione di una improvvisa epifania. E’ ciò che lei vuole, un improvviso inaspettato apparire che muti il corso sempre uguale di un fiume regolare la cui ansa non fa che ritornare su se stessa. Qualcosa la rende perennemente insoddisfatta, e diventa una fortezza inespugnabile. Ma il perché, non si comprende. Lei - Che ne dici della danza o qualcosa che mi ridia il mio corpo? - se oggi ci fosse il bacio e le parole tenere e il discorso amoroso con questo massaggio divino e lungo ci sarebbe un principio - e invece mi fa un sacco bene essere maneggiata ma mi sembra fisioterapia e l’anima scusa? - sembri il medico che mi rimette in sesto - insomma io sono qui nuda tu tocchi tutto intero il mio corpo e una tenerezza mi farebbe tornare indietro guarderei con terrore il tuo corpo - in questo momento il tuo corpo per me non esiste - è solo scienza - voglio dire come se fossi un medico - il resto ci potrebbe solo annoiare - non sarà che il massaggio serve per riempire il tempo come se non avessimo nulla da dirci - perché non ci sono le carezze? - però sei carino forse hai capito quanto sono disperata - ma ora sto zitta ora provo il silenzio. Lui - Si è addormentata. Un sonno profondo. Lui -Ho maneggiato per ore il suo corpo che ha definito legnoso, era diamante. E in effetti era dura e contratta come un blocco di marmo, ma bella però. Io a malapena ho dormito - Per un po’ ho pensato di lei sol una cosa. Pensavo Al la Casa dei doganieri, quando gliel’ho detto e quando glielo dicevo si arrestava confusa, era un pulcino bagnato che chiede premure. il corpo di legno sì ma bello ben fatto solo contratta sofferente. Ho recitato i versi fi Montale mentre lei non riusciva a stare un attimo seduta come se il suo corpo scattasse per lei involontariamente si alzava tornava a sedersi si rialzava girava le stanze assaporava il limoncino di Sicilia e se ne versava per scaldarsi e forse voleva sciogliersi con l’etilico e le sigarette Aveva l’accappatoio e i capelli bagnati e ho capito che si sentiva poco donna. Desolata t’attende dalla sera in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri, le parole di Montale. Si sentiva separata ne sono certo, forse tranne da questa casa che è immersa in un verde disabitato selvatico con la nebbia bassa e quasi sulfurea. Era disarmata di fronte alle sue ragioni, sulle quali deve aver riflettuto molto e da molto, e alle mie risposte si vedeva ferita. Non comprendi non è a te che mi rivolgo quando parlo della tenerezza che ci manca, voleva dire, e io continuavo la mia tiritera involontaria ma non troppo, forse troppo maschile sul fatto che non siamo più ragazzini e ci è nota ogni cosa. Ha ragione a parlare del bacio, e dello scoprire nudità con la semplicità con cui trattiamo oggetti dei quali siamo troppo sicuri. Ho letto in Frammenti di un discorso amoroso - scrutare vuol dire frugare.. sono come quei bambini che smontano una sveglia per sapere cos’è il tempo. Mi ha fatto riflettere. Ho massaggiato il suo corpo e ho parlato con estrema facilità di orgasmo e giustamente mi ripeteva - ma se neanche abbiamo il coraggio di una tenerezza di un bacio? –ma io imponevo il mio io con la pesantezza di un grande ancoraggio, forse l’incoscienza, non ho compreso L’intelligenza delle sue parole, a lei che per non amore mi ha regalato frammenti di un discorso amoroso ho solo risposto “ti ho avvertita non voglio impegnarmi” - non l’ho capita o mi sono difeso? Pretendo che l’abilità delle mie mani potenti da Bestia come le ha chiamate le sostituiscano la tenerezza di un uomo? E la mia presunzione poi, lei è la prima, a non volersi impegnare non con me, ma io maschio mio malgrado stabilisco l’ordine delle priorità sono io a dirlo per primo non voglio impegnarmi -con la sicurezza del no, che è inevitabilmente l’affermazione di una certezza, che dall’altra parte ci sia una richiesta speculare e ribaltata. Non le passave per la testa di volere di più da me, bastava riflettere sulle sue parole, non è una ragazzina e se avesse voluto mi avrebbe semplicemente avuto, con il sesso tutto quanto. Mi diceva qualcosa di grande mi diceva che l’imbarazzo che aveva nei confronti della tenerezza la faceva soffrire, è un imbarazzo da giovaneche ancora non vive il sesso per il sesso e non vuole il tempo però della costruzione, quello dell’età della ragione. La mia risposta era la risposta di un vecchio, riguardava il tempo il fare progetti di vita che proclamavo virilmente impossibili a lei, per la quale nulla di questo poteva interessare, tanto meno trattenerla a pensare al futuro a lei dall’aria così sbalordita che faceva da padrona perché le davo la possibilità di non pensarmi, di sapermi senza sapermi. Io questa note non c’ero per lei, in lei la tenerezza è un pensiero che rimane giovane e senza tempo, è la sua giovane vergine bellezza. Bastava capirlo con un banale volgare ragionamento: che cosa le avrebbe impedito di fare realmente sesso? Nulla non è vergine di certo, e di baci ne ha avuti e ricevuti, e appena ho poggiato la testa sulla sua spalla ha detto no questo no. Per lei sono stato veramente una sorta di massaggiatore. E a lei ho parlato di orgasmo. Ma forse è giusto, solo che ora non ci sarà altro, né tenerezza né parole più intime ho reso tutto poco intimo con la mia povertà di giudizio, e la mia tutta maschile e meccanica possibilità del sesso comunque Ma se esistono due specie di movimento, l’alterazione e la traslazione, qualcosa in lei un passaggio deve esserci stato, un movimento verso uno scopo diversamente determinato. Qualcosa di traslato che le tolga finalmente l’immobilità di non essere in nessun luogo e in nessuna cosa. E l’anima? non me ne sono dimenticato mai, non me ne sono dimenticato con lei nuda nel mio letto - non voleva che le accarezzassi in nessun modo neanche lievemente i seni Montale mi è saltato alla testa involontariamente e ancora rimane nei miei pensieri. Le parole di un poeta. Ma alle mie parole manca l’intimità, alle mie mani nell’Assenza la tenerezza, alla mia bocca, nell’Assenza, il sapore del primo bacio vergine con una donna sconosciuta, ai miei pensieri la giovinezza che queste tre cose insieme consente, al mio ordine il disordine di consentirle al risveglio una sigaretta dopo il caffè, alla mia voce la dolcezza intrisa com’èra dell’asprezza del risveglio al nuovo giorno, spezzato l’incanto (ma quale incanto?) « ieri ti ho consentito le sigarette, stamattina mi dispiace no». Il vero incanto erano i seni che non si faceva neanche sfiorare. Timidamente ha detto, era un canarino vergognoso, perdona il mio russare se ci fosse stato. La mattina cosa era cambiato perché lei non potesse godersi in santa pace una sigaretta? Come quel messaggio di scuse al cellulare, un continuoi “mi dispiace mi dispiace di non poter uscire con te”, un messaggio poi lungo troppo lungo, mentre ho saputo poi che lei era con gli amici fuori e io messaggiavo replicando in scuse per la mia involontaria assenza. Ha ragione lei, siamo immagini della privazione, ma c’è in lei un’invidiabil giovinezza che la rende d’argento. Il desiderio ancora intatto virginale di un lunghissimo bacio, nuove carezze ai seni che difende dal triviale contatto, e il no deciso a me alle mie mani su quelle perfette intatte rotondità, un troppo per le nostre troppo maschili facili disinibizioni. Il mio seno non lo tocchi, intendeva, non lo puoi visitare né ispezionare, è come materia pura dallo spirito umido che vi dimora più denso, solo mio. Li tu non c’entri. L’anima, ciò che muove se stesso. L’anima è l’incorruttibile. Lo stesso furore di lei ha qualcosa di incorruttibile che trapassa senza farsi attraversare dalla molteplicità degli incontri, e non replica se non sempre e tenacemente «io sono altrove». Odia ed Ama con furiosa sconnessione, come molla che si allenta per poi ritornare alla situazione di partenza negando di esserci stata. A che è servito? Direbbe forse qualcosa - ma per fortuna non abbiamo fatto l’amore, aggiungerebbe, questo ti rende nobile, mi dic l’eco delle sue parole rimaste, penserebbe «la tua generosa sottomissione è l’attenzione sensuale di cui ti sono grata nella perfetta armonia che ci rimane, Tu il faro di una notte, sapersi senza l’immane pensiero di sapersi nel tempo insieme». Fugge e so che non vuole in nessun modo restare… per essere imprendibile e salpare altrove con il suo solitario pertinace remare nel vento. E questa è la sua vera Assenza. Ed è la sua essenza, lo sciame dei suoi pensieri. Lui -Sono tornato a casa stanco. Ha squillato il telefono era lei Lei - Ciao, te lo devo dire sei divino, ho un regalo per te spero ti piaccia, è un libro, so che ne hai letti molti ma questo forse ti manca-spero- E’ di Soriano, Pensare con i piedi, il giorno che ci vediamo te lo do. Mi hai offerto il sonno più bello del mondo, e ora penso tutt’altro sai, se ne andasse al diavolo lui, in fondo ero solo arrogante, ero troppo assillata, non me ne importa più niente, so cosa pensare e lo devo alla tua pazienza - di’ chi ti ha fatto così, paziente e generoso, sembri irreale, quasi un’anima a parte. Io sono sempre impaziente e divoro tutto, sabato ci vieni a vedere Prendimi l’anima di Faenza? Lei -Sono tornata a casa con l’idea che mi avesse fatto bene. Ma poi ho riflettuto, sì non nego nulla, è un principio senz’altro. Ma cosa non mi pace di lui? Non sa ridere di sé di noi di me e ha perso l’anima del ragazzo quella che fa di un uomo l’uomo da desiderare e tutto da baciare, riempire fino a traboccarne di tenerezze e giochi e accortezze. E allora ho gettato un cencio di poesia - io non sono un poeta – ma ho nell’anima il mio trobar oscuro. rimani un ragazzaccio. Ho ricordato il mio primo amore e le lezioni della mia insegnante che ci parlava di quel ragazzaccio di catullo Chi mi dice ti amo chi mi guarda e si volta chi mi scruta e non vede chi mi rigetta cento occhi intorno non sono i tuoi occhi importanti smarriti per aver perso l ‘occasione di un campo di margherite di una salita pazza tra capelli scarmigliati e giunchi scostati Il ragazzo vuol essere ragazzo e pellegrino Con l’onestà tesa perché tu salga ripide salite Per discendere placata dal mare Dalle forti bracciate dalle immersioni dagli Schizzi giocosi Dalla risacca sotto il sole Tu e il pellegrino. Con adolescente ridente Scattante preghiera Sii mia ora, intende girandomi Intorno in un divertente Girotondo Mentre le ossa dei morti dimentichiamo Dimenticavo tra le sue zampe feroci, felino E dolce Allacciato alla vita A i fianchi sempre più dimessi Alla pelle che si insabbia mentre sale e sale ancora e ritorna il mare E si scolora L’osso duro del cranio Aggiogato Ai pazzi pensieri sono suoi i pensieri mio L ‘altare mie le braccia mia la pelle di felina Mia la ferita che attraversi Quando con accorto clamore irrompi con il tuo o traboccante spumeggiante liquore Ed ecco allora il ricordo di un prato sterrato intorno plastica smessa e io ora io sopra come un giunco mosso dal vento catturavo l’estasi e lo sfinimento In ricordo di questo ti chiamo Ragazzo Dall‘arco d ‘acciaio Punta sui miei i tuoi occhi se ti cattura la voglia Ritorna esclamo senza vergogna Nei profondo di un recesso incarnato Carne viva essiccata, dimenticata ad asciugare come bianco panno steso Al sole di un’estate vecchia e opaca Abbiamo i luoghi E perdiamo i nostri luoghi Ragazzo ferisci la mia profonda voraginosa Ferocia quando lasci e abbandoni Chi soffre per te Ora è cranio lavorato le tue membra di tigre più non curano lacunose profondità ma se il giunco non spezza ritorna il ricordo di te pellegrino ritorna la tempesta ti invoco dal paese straniero del tempo c’era una volta racconto intorno al camino E soggiogata nel letto di spine Quando vinta la fatica di essere sono fanghiglia Tra il verde fango e le crepe terrene Allora é desiderio esultare Di un giusto santo accordo Ma ora è ricordo Il nostro Di noi ragazzi Luogo santo Un verde prato di margherite Dov’è Ora? Ora Possiamo stringerci Ti fai un po’più in là Non così ora Ma insomma che fai Sgualcisci il lenzuolo, sistema meglio Quella gamba Prova ad alzare un attimo magari così che dici? La carne limpida e levigata Quella di una santa Ma guarda un po’ che santa Il ragazzo non torna Lo invoco Ora è un uomo Si guarda indietro distante? Dove sei e chi sei ora? fra le brume? io torno al mare quando è brumoso perché là giacciono e mi attendo le parole che non dico e lì devo farneticare troverò occhi neri profondi e verdi e troverò le parole sconosciute là sarà la mia consistenza al tramonto sul mare, 5:53pm 25 Mar. '13 http://<script src="http//platform.tumblr.com/v1/share.js"></script> 3:36am 26 Feb. '13 il flauto magico Breve premessa Sintesi della trama dell’opera Il Flauto magico dal Dizionario dell’Opera …In un antico Egitto immaginario. Un paesaggio montuoso con un Tempio sullo sfondo. Il principe Tamino disarmato, è inseguito da un serpente; sfinito cade svenuto. Dal tempio escono tre dame velate che uccidono il serpente, e dopo aver ammirato la bellezza del volto del principe, si allontanano per informare della sua presenza la loro signora, Astrifiammante, la Regina della Notte. Tamino, ripresi i sensi, crede di dovere la propria salvezza a un curioso personaggio comparso nel frattempo: è Papagheno, un uccellatore vagabondo vestito di piume, che canta accompagnandosi con un piccolo flauto di Pan. Papagheno conferma le supposizioni di Tamino, ma subito le tre dame lo smentiscono e gli chiudono la bocca con un lucchetto d’oro. Poi le fanciulle mostrano al principe il ritratto di Pamina, figlia della Regina della notte. Il giovane se ne innamora all’istante. Con fragore di tuono appare nel cielo Astriffiammante: ella spiega a Tamino che la figlia le è stata rapita dal malvagio Sarastro e gli chiede di liberarla , promettendogliela in sposa. Le dame donano al giovane, che si è offerto di salvare Pamina un flauto d’oro dai poteri magici: liberato Papagheno dal lucchetto consegnano anche a lui un dono un carillon fatato e gli ingiungono di accompagnare Tamino nell’impresa. Sala nel palazzo di Sarastro, Pamina che ha tentato di fuggire per sottrarsi alle insidie del moro Monostatos, viene ricondotta indietro da costui con la forza. Sopraggiunge Papagheno, e Monostatos, spaventato dal suo strano aspetto, fugge. Papagheno rivela alla fanciulla di essere stato inviato dalla Regina della notte, insieme con un giovane principe che l’ama, per liberarla. Un bosco. Guidato da tre fanciulli, Tamino giunge dinanzi a tre templi: mentre l’accesso a quelli della Ragione e della Natura gli viene impedito, la porta del Tempio della Sapienza arcanamente si apre. Un Sacerdote spiega a Tamino che Sarastro non è un essere malvagio e che Pamina è stata da lui sottratta all’influenza materna per superiori, giusti motivi… Atto secondo Sarastro chiede ai sacerdoti degli iniziati di accogliere Tamino nel tempio, dove verrà sottoposto alle prove che gli consentiranno di appartenere alla schiera degli eletti e di sposare Pamina…la richiesta viene accolta e tutti invocano Iside e Osiride affinchè donino alla nuova coppia spirito di saggezza. Le prove Prova del silenzio Prova del fuoco Prova dell’acqua Superate le prove i Sacerdoti celebrano la vittoria della luce sulle tenebre. L’amore di Tamino e Pamina Il Flauto Magico” Frequentava le conferenze del ragazzo. Ora il ragazzo è un uomo. Il suo volto ha qualcosa di non definito, non calcolabile. Ha descritto un’opera. Un ingegno particolare, ma oltre a questo molte ombre si addensano intorno a parole troppo irreali e troppo giuste per essere solo frutto di studio. A chi si rivolge, si chiede? A me? «Mi guarda senza guardarmi, mi osserva e non guarda e ascolto quella melodia di strane parole come una funambola all’inizio della sua carriera di artista. Sono attenta, non perdo una parola. Ascolto per non perdere l’equilibrio delle parole». L’opera è il Flauto magico di Mozart. Il ragazzo è molto veloce e si stenta a prendere appunti. «Vorrei ricordare non solo capire, eppure quelle parole sono troppo esatte per non essere comprese e troppo presenti per non essere dimenticate. Capisco le parole, il loro ordine il senso dei gesti, alcuni errori ripetuti, lapsus frequenti, scambi di nomi. C’e però un mistero». C’è un incanto che prende tutte, eppure lei avverte se stessa come non si è mai avvertita. La percezione di un centro e di un centro forse virtuale. «sto leggendo Alice nel paese delle meraviglie e attraverso lo specchio, mi sembra di attraversare meraviglie attraverso giochi di specchi. Alice…non fece neppure in tempo a pensare che era meglio fermarsi, perché si trovò subito a sprofondare lungo quella specie di pozzo veramente profondo. O il pozzo era molto profondo oppure Alice cadeva lentamente: il fatto certo è che , prima d’arrivare in fondo, ebbe tutto il tempo di guardarsi intorno e di chiedersi che cosa le stesse capitando «La presenza di me era così fisicamente percepibile da risultare l’unica presenza all’interno di una folla neanche anonima». Crede di capire eppure non comprende. E non si chiede, solo partecipa e osserva, come negli scaffali di una preziosissima libreria alla quale si è inadeguati, perché è suono vista e qualcosa di non definibile, una memoria, una versione costruita per un fine… E’ tutto questo messo, insieme, «l’artefice è lui ma il centro immancabilmente «sono io» si dice la ragazza, presa da un turbamento che la rapisce. Il giovane. Descrive la corsa in musica, la corsa è giovane i bimbi dice corrono non verso una meta corrono per il solo correre, parla di un’energia interna e dalla natura della corsa dei bimbi come loro propria natura. L’Opera è il flauto magico. Il video mostra Tamino che entra in scena correndo inseguito dal serpente, e la musica è veloce con schiamazzi e come forti pestate. E’ bello è una musica descritta umanamente. Correndo calpestiamo, e allora la musica riproduce esattamente il suono. E’ un giovane pestare, una corsa disordinata, una fuga mal eseguita, perché la direzione di Tamino bambino è la direzione che non può esserci nei bambini. Fugge e sgorga l’energia correndo, trapassando dall’una, la fuga, all’altra la corsa senza un fine e un traguardo. Usa queste parole, come prese da una memoria che torna e da un luogo colto a prestito ma esattamente osservato da una visuale obliqua, come di traverso, «non deforma nulla dice ciò che suona a tutti noi come il nostro proprio vissuto la nostra personale memoria, a volte il rimpianto». Evoca ciò che non si ricorda se non come un passato perduto, c’è una giovinezza il lui invidiabile, la giovinezza di chi già non ha nulla da sapere e racconta agli altri ciò che hanno vissuto e non potranno più vivere. I luoghi santi della giovinezza. E la giovinezza è amore… La sua versione è tale da diventare quella di ognuno. E’ un’arte magistrale, è molto poco in concreto il discorso, brevemente riassumibile, è un dire ipnotico nel quale ognuno vuole riconoscersi per perdersi e ritornare… In tre conferenze di tre ore ciascuna, le parole dette sono molte, l’arte di dire è raffinatissima, e il vissuto di ogni parola è misura del presente, l’ascolto, e della memoria personale di ognuno, il passato. Dentro ognuno si cala il ricordo. La versione appropriata al ricordo la dà l’ascolto delle parole del ragazzo. Ci fa sognare, «a me fa sognare», dice e pensa la giovane. «Io sono il presente, sono l’unica nel presente l’unica lì a sognare ancora e a sognare un futuro d’amore e d’assoluto». Quattro i personaggi in gioco anzi cinque, Tamino e Pamina, lo spirito, Papagheno, uccellatore dalle piume e Papaghena, la carne, ma in realtà non parla di sensi lui, ma dei giovani che di spirito poco vogliono sapere e invece di contorcersi nelle riflessioni di noi che dallo spirito siamo posseduti trascorrono la vita tra discoteche e giochi e spiritosaggini. E Astrifiammante, la Regina della notte, i lati isterici delle donne, delle madri, dice lui. Accenna al suicidio spesso. “Gli adulti si uccidono per denaro, il giovane per altro, anche solo perché è giovane”, Cita aneddoti romantici sul suicidio, Kleist, per esempio, che cerca una donna per uccidersi nell’acqua la trova e poi lascia che sia solo lei a uccidersi. E’ una strana esaltazione del suicidio, Romantico e giovane. Insiste molto poi sul Tempio, l’educazione sacerdotale, e il contrasto tra il flautino di Papagheno e il Flauto magico di Tamino “Ora scusatemi,…pausa, Il flauto di pan il flautino di Papagheno sta per l’organo sessuale” In sala echeggia una risposta soffocata di tutti. E’ piacevole ascoltarlo è divertente, lo sa dire lascia intendere una sua potenza. Il flautino non gli appartiene. E infine il carillon magico che incanta e seduce come in una sospensione, come quando le giostre sembrano fatte apposta per essere solo osservate e fermarsi e fermare i pensieri e perdere la cognizione del tempo e dimenticare di aver vissuto di vivere il dolore.. «Mi avverto diversa. Mi proietto attraverso le sue parole in un futuro senza passato. Non penso alla memoria, la sto abbandonando, e sono troppo giovane per non subire l’incanto di un futuro attraverso l’unità stessa della memoria» pensa la ragazza e torna a casa e prende appunti sul suo diario, ma le appare uno svilimento, perché sono parole troppo presenti sono «le parole se stesse» così le definisce «le mie parole hanno il se stesso, mi ci imbatto, le trovo per caso cerco di sfuggire ed emergere, ma il se stesso delle parole è discordante e mi sembra non di disputare un incontro, ma di allontanarlo» Prova a prendere il dizionario dei luoghi comuni, a modificare, legge Byron e Puskin, Eugenio Onegin, ma è sempre se stessa, variabile mutabile, mentre lui il giovane, discute dei Werther e dei loro tormenti, e al contrario dell’importanza capitale di condurre la vita secondo schemi di regole e leggi fisse e immutabili, come nell’arte della fuga di Bach. Le leggi del contrappunto «E’ inverosimile, o è un falso o un paradosso, è troppo giovane per questo» scrive la fanciulla. .Ed è già memoria, è già tutto detto attraverso l’oblio delle parole. «L’oblio mi spezza le redini. I legami mi si sciolgono e l’unica cosa che avverto smisuratamente fuori luogo sono le mie nude parole. Sono casuali, quelle di sempre quelle inevitabili, quelle senza storia o senza proiezione, semplici parole con tutta la pesantezza delle pietre lanciate. Incanta i miei occhi». Ascoltare con gli occhi dà una specie di euforia. Sembra che gli occhi percepiscano un’eco rimandata da un passato che annuncia un abbandono. Tamino e Pamina, «due assoluti invincibili». E’ lei a dirlo del tutto involontariamente . «Perché invincibili?» Chiede lui. «Pamina non può essere comunque vinta». «Perché?». «Ma Pamina rimane se stessa anche attraverso un’altra veste o qualsiasi veste. L’anima è la volontà di vivere è il combattere, e non solo segue Pamina ma ha l’anima per combattere. Ai quattro angoli manca qualcosa, una forza in più, una pari dignità d’anima. E poi sbagliare, sbagliare per cosa, per rimanere dove, e perché?» «Ma noi capisci cosa sbalglia Pamina? Sbaglia nell’affrontare con lui le prove, sbaglia perché lo segue, mentre dovrebbe fermarsi. Non le appartengono le prove, eppure non rinuncia a lui, non aspetta partecipa».«Ok, sai ciò che trovo veramente orrendo? Che le prove le vedi di lui e non di lei, lei è amore, ma non solo» «Sono nomi strani nomi di nessuno, nomi irreali a non adulti» scrive poi la ragazza nel diario, «perché si ostina a volere Pamina inferiore?. Storna lo sguardo, vede un orrore in me? Forse, forse c’è qualcosa nelle mie parole di troppo. Un tono, un modo, un qualcosa di impossibile. Sento di essere disumana, non sono nessuno, o forse non ho le parole o la voce e comunque non esiste in lui nulla da capire. Sta affermando, è rivolto a me, e alla fine chiedo: “Ma chi sono Tamino e Pamina?” “Allora hai capito risponde“». Nel finale dell’opera interviene in modo strano quanto affascinante. Un finale che colloca Tamina Pamino, In una lontananza offuscata, un mare, un’isola, e da lontano si intravede una veste sacerdotale di entrambi. Si sono persi entrambi, sono sacerdoti, e forse l’immagine è quella di un equilibrio di morte. Le prove, la prova del silenzio del fuoco dell’acqua, sono superate ma ciò a cui sono condannati è la loro stessa serietà, il loro gioco estremamente serio e la vulnerabilità di lei che segue un destino non proprio. «”che destino?» Chiede di nuovo. la ragazza. Tiene il suo diario molto perplessa per le sorti di Tamino e Pamina e infine racconta nel suo diario da cui attingiamo «Mi guarda con occhi vacui e gira la testa guarda in basso. C’è un rovesciamento, un ribaltamento delle prospettive in tutto ciò che dice. Il centro sono Tamino e Pamina, e alla periferia Papagheno e Papaghena. Ma mentre riferisco su questi fogli sparsi il contenuto logicamente catturato, so anche che emotivamente è a me che si rivolge. E mi chiedo quali prove dovrei superare, e in quale Tempio regno dovrei entrare. Ha gesti sensuali , ma un colorito esangue. Gli ossequi alla fine di ogni conferenza sono immancabilmente cerimoniali durante i quali ci allontaniamo, perché le mie parole sono così mie e così carnali, sensuali. Cioè vuote?. Nella circonferenza alla quale appartengono le sue stesse parole carillon io aggiungo un raggio, impulsivamente, per fare da Pamina, vorrei dire, e invece temo cosa? Di essere la solita Papaghena, la solita sciocchina! Non comprendo quello sguardo senza espressione, quel vuoto negli occhi se rovista dentro trova qualche cianfrusaglia e molto poco Spirito. Quando mi si rivolge c’è quell’indecisione della parola che fino a poco prima non c’era in lui. E’ come se scendesse dal pulpito, è un Dio privato del suo regno, della potenza della distanza. Le sue parole ora sono sue e mie, anzi nostre. Altri discutono. Risponde senza guardarmi, ma sento sempre di essere un centro. Le parole ora sono di tutti, sono risposte, e di nuovo manca quell’evanescenza del monologo, quell’intenzione diretta a chi solo ascolta senza nulla dire. Non ci sono contenuti, ma non comprendo ancora. Comprendo però la sua fatica ad avvicinarsi, Capisco quanto orrore abbia ora delle parole, e negli occhi da vicino vedo ombre di incalcolabile vuoto. Qualcosa preme nel petto. Non è un dolore, ma l’affanno di essere troppo osservata, innaturalmente osservata. Quel momento è impresso nella mia mente e ha la nitidezza di una foto a colori.. Gli stessi gesti di lui li ho nella mente come un imprinting, una forma di orrore splendore, lo splendore di un sogno d’assoluto che già va frantumandosi prima ancora di essere pensato. Il destino di una morte in vita per una resurrezione in vita. Ogni volta aggiungo qualcosa una parola una definizione una precisazione e mi accorgo involontariamente di parlare solo d’amore. E’ Mozart o Armony. Eppure lui accoglie le parole con il fastidio di un troppo. Ne sto facendo un’oracolo d’amore. Ma insieme le pesa e le rimanda nella loro esattezza e verità strappalacrime. E impensabile un amore per un nuovo Mozart, ma allora tutti sono dei Mozart? E Papagheno? Aggiungo, non sarà una dialettica di Tamino e Papagheno. “Forse è una rovina, forse lei può rovinarsi, ma non può comunque morire” «Credo di essere presa da una vertigine, è l’amore che sognavo? Ma l’uomo che amo, che per lo più è un ragazzo, e questo lo rende perfetto, può essere tale? Ossia Tamino che in alcuni momenti di raro splendore si scioglie e si rende Papagheno solo per amore?. Tento di risalire da un qualche strano abisso in cui mi si sta collocando. Perché parlo così tanto di Pamina, perché cerco per lei la salvezza, perché sento le parole specchiate, e non riesco a fermarmi, qualsiasi cosa lui affermi io la ribalto in un destino di salvezza. La mia risposta sgorga comunque da un luogo sconosciuto. Mi sento ogni volta gettata a terra e ogni volta mi rialzo frastornata ma sono ancora io. Ho l’impressione di essere schiaffeggiata. Purtroppo è blando, non mi schiaffeggia, non mi insulta, non fugge irritato dalla folla di corteggiatori intorno. Ho paura di qualcosa, la fine è tragica, vorrei concepire una salvezza, eppure è così inutile discutere di amore quando si tratta in realtà di musica solo Musica!. Eppure tutti ci stiamo invischiando in questo desiderio di amore. Le nostre parole sono molto personali e vissute, intorno all’amore. E’ quasi ridicolo. Ognuno senza volerlo parla di sé, e tutti allegramente ognuno col suo bagaglio, migliore di qualsiasi squallido presente, sovrapponiamo aneddoti di amore e abbandono, e la musica è quella chanson che ci fa ricordare il momento in cui decidevamo che sì era meglio amarsi da lontano, amarsi per sempre pur sapendo, e questo lo dice bene Wenders in Paris Texas, dico io per vezzo, citandoun capolavoro, ma non so se c’entra, quanto sia impossibile ed inutile la vicinanza, quanto ci distrugga e ci annienti. E’ molto eccitato anche un uomo che credo stia vivendo una relazione molto difficile, e sembra indeciso sull’esito e sul futuro. Sono giochi involontari. Sta giocando con noi e tira fuori i nostri passati e il nostro presente, e ci mostra come si tratti sempre e solo di amore e di abbandono. “Quello che mi ha lasciata si è sposato ed è ingrassato subito dopo, già lo vedo con le pantofole e il giornale” dico con un fil di voce, è l’unico momento in cui ride sorpreso. Sono l’unica a capire, mi dico. L’altro ragazzo se la prende con me, è irritato, trova sconveniente la mia risposta, non pertinente. “Voglio dire, è comunque Mozart”. Il problema è che è innamorato di me e soffre di gelosia. Lui sorride di nuovo, parliamo di noi o del Flauto Magico?. Ma che situazione è, mi chiedo spaventata, è tutto così affascinante e tutto così strano. Sento di dover allontanare un pericolo, e sono sempre le parole a invischiarmi in qualcosa di sconosciuto, una spirale verso la quale sono attratta dalle parole. Sono parole-calamita, un dire solo per gioco eppure esaltante per tutti e di fatto si tratta di Teatro in musica. E’ un dire che calcola. Una combinazione soffocante. Percepisco tutto questo e già sono in qualche modo legata. E’ il primo laccio. La combinazione delle parole, mi fa avvertire il peso smisurato di ogni mio intervento. Cosa manca? La causalità del dire, la naturalezza di una fondata riflessione intorno ad un oggetto esterno. E’ arte?. E’ sapere? E perché applaudiamo così coinvolti, così affascinati da un mondo solo intravisto nella musica ma profondamente sentito dentro ognuno di noi. Ci ha dato la memoria, ci ha fatto dimenticare Mozart e fa nascere in noi il sogno di un’esperienza da vivere e in parte già vissuta. E’ desiderio sublimato, la musica sostiene la memoria personale con delle sospensioni di ascolto sublime. Peccato non li abbia saputi valutare i miei uomini, penso, ho giocato poco con loro, li prendo troppo sul serio, veramente troppo. L’amore non si calcola. Solo chi avesse un vuoto totale alle spalle, o rimpianti di ciò che non ritorna può sentire un’esclusione e il dolore di una perdita rinnovato da qualcuno che proietta una speranza, se il tempo consente speranze. Le parole. E’ il peso esatto delle parole. Parole in cui ci si rispecchia, parole specchio di un amore, i miei Delly me lo dicevano, parole volute per un fine sconosciuto. Ma il fine è amore? Sembra un gioco molto serio. La passione di quel calcolo esatto di parole e amore, quel modo di costruire un puzzle dandoci l’oblio del passato per un futuro da sognare è il calcolo di qualcosa di impronunciabile? Rispondere è impossibile, le domande lo irritano, significa parlare di sé e solo di sé. Fuori da quell’auletta scarna ma romantica è inevitabile forse per un’incoscienza e un’esaltazione improvvisa non riconsiderare il nostro passato e noi stessi, e seppure alcuni tra di noi hanno una perfetta conoscenza della musica siamo trascinati da qualcosa che forse è sogno, forse illusione, e memoria di libri, aneddotica amorosa, i casi letterari di follia amorosa, e sempre si parla in un coro di voci sovrapposte, di sé, dimenticando il resto, nel caos di un’ esaltazione di nuovi eroi ed eroine, in crocchio allegri e orgogliosi di vivere da sempre ciò che quel giovane di talento, che incanta e seduce, ha descritto come storia della stessa giovinezza. Aggiunge una cosa, sempre con modi e toni che oscillano tra il parlare di sé e il considerare con oggettività il mondo, e attraverso le sue stesse parole gli altri leggono se stessi. “Il giovane supera l’amore. Ma chi di noi non ha lasciato pur amando. Insomma io mi ricordo che l’amavo non avrei voluto altre che lei ma le complicavo comunque la vita con un gusto anche un po’ sadico per la sua sofferenza perché guardavo inevitabilmente oltre, perché già sapevo che l’avrei dovuta lasciare pur amandola ma questo doveva costare, a lei e a me.” Sento una ferita, forse è gelosia, non vedevo altre che lei era lei che amava. Esalta in questo modo l’amore e se stesso, e suscita un desiderio, il desiderio di essere scelta per l’esperienza assoluta, quella dell’amore così descritto, dell’amore potente perché la voce i modi i gesti i giochi stessi della voce creano un’illusione di potenza e di qualcosa di sconfinato mai provato prima, mai sognato perché nessuno fa sognare attraverso poche facili parole un regno così misterioso, un regno difficile da definire, un modo del sogno che si incarna attraverso la sofferenza, ma non riesco a capire di chi sia la sofferenza, di chi parla, descrive in fondo un’intenzione di sacrificio, un sacrificio di una donna, e un dolore mai superato. Allora o scritto un racconto sul primo ragazzo che mi ha lasciata. Vado ad aprire. Alzo la cornetta del citofono, “vieni” e spingo il pulsante. Aspetto, e dopo un pò lo vedo percorrere il corridoio, deve aver fatto una corsa. Ora il tempo passerà ad ascoltare l’impercettibile voce del suo lasciare intendere, è in ogni suo gesto e in ogni sua parola, tutto lascia intendere, che mi ha abbandonata ed è il più forte, ma non vuole lasciar intendere che questo per me non costi sacrifici, lacrime, ferite, mentre io conto i suoi gesti e le sue parole come se manegiassi un giocattolo smontabile. I pezzi sono sempre quelli, si monta e si smonta, ma questo è un suo gioco incosciente, perché gli manca uno specchio ,perché gli manca il cielo per pensare. Tiene il casco con un braccio, e sbuffa per sottolineare il caldo la stanchezza e la giornata di lavoro. Non ci faccio caso, si passa la mano sui capello radi e rasati. Gli dico di entrare e non far caso al disordine. “perché ti sei vestita così?” chiede, e lo trovo come sempre stupido “è un vestito, cos’ha che non va?” “lo trovo eccessivo” ci tiene a dirlo, sottolinea inoltre così la mia timidezza, lo ha sempre fatto, ma non me ne importa, solo un po’, anzi mi infastidisce. Lo fa apposta, so cosa vuole dire, vuole lasciar intendere che non ce n’è bisogno, non per lui, e il mio modo di vestirmi non gli è mai piaciuto. “Come stanno i tuoi?” “bene. Senti siediti, preparo un caffè, ne ho bisogno”. Mi urta subito il modo poco civile di entrare in casa mia, non so se se ne accorge, E’ di fatto il suo modo, è una grossolana scortesia, e un’affermazione di possesso. Si sente di casa ovunque, è la sua alternativa all’essere un “materialista”. Il sentirsi di casa significa possedermi, è purtroppo un cafone nei modi, per quanto la sua famiglia sia tra le migliori. D’altronde l’anticonvenzionalità è il suo orgoglio, e ormai è troppo tardi per educarlo a modi più civili. Si guarda intorno osserva gli oggetti, con lo sguardo e un lieve tentennare del capo mostra l’intenzione esplicita di un giudizio che vuole essere negativo. E’ una sua forma di invidia. Vado in cucina ma lo prego di attendere nel salone, non mi piace essere guardata mentre preparo il caffè e inoltre la cucina è in disordine. Li definisce convenevoli ipocriti, io mi sento inseguita quando qualcuno entra in cucina, desidero preparare il caffè o altro da sola. E’ una delle mie piccole idiosincrasie. Non posso spiegarlo, e quindi spesso le amiche o gli ospiti entrano in cucina. Questo mi rovina il gusto della solitudine, non sono per niente casalinga, ma la mia cucina è così originale che qualsiasi intrusione mi appare una violazione alla privatezza. In cucina mi sento protetta, sono sola e pregusto il caffè. E’ un piacere, e mi distoglie. D’altronde so cosa lui ha da dirmi e non ho nessuna curiosità, le solite parole e il mio silenzio. Vuole spiegare cosa è andato storto. Dovrei dirgli che non me ne importa, ma non lo capirebbe. Odia lasciare senza lasciare rimpianti. Ama i miei rimpianti, in realtà sa quanto avverto volgari le sue parole. Il problema è banale: desidera da me un riconoscimento di una profondità che purtroppo non ha, e ogni volta è sempre peggio. Non riesce a darmi spunti, e io cerco di abbreviare le sue visite. D’altronde se questo lo umilia, gli lascio credere ciò che vuole, non ha da dire molto di noi, e io non ricordo quasi nulla. Il caffè è pronto. Prendo le tazzine, lo zucchero e porto in sala. “hai molti mobili, troppi” “perché troppi?”. “A cosa servono? Che te ne fai di tutta questa roba?”, “Può essere, ma cosa te ne importa?”. So che questo lo irriterà, prende spunto da “cosa te ne importa”. Il suo profondo desiderio è leggere in quel “cosa te ne importa” un rimpianto, un’accusa di abbandono, la ricerca di un contatto” e non trovandoci poi altro che un normale “cosa te ne importa” si sente svilito. Per me è semplice. Gli sto solo sottolineando quanto poco lo riguardi, lui lascia intendere la sua superiorità e la superiorità di chi abbandona, ma non avrebbe senso spiegargli che mi sento libera perché non ama crederlo. La vuole far diventare una lite e non ho voglia di sprecare parole, sono inutili. Non si tratta neanche di un pregiudizio, è il suo desiderio, essere il centro di un’attenzione. E’ un orgoglio forse molto maschile, ma non azzecca mai i modi. Non riesce a darmi un rimpianto. Sente minacciato il suo potere, ma d’altronde non è una richiesta d’amore, forse invidia, del mio silenzio e della mia noia. Trovo sciocco il sorriso, non sincero, potrebbe sinceramente sorridere di tutto e sorridere anche con me di tutto. Ma questo per lui significherebbe perdere. “E’ che ho sempre desiderato il tuo benessere, e non sono riuscito mai a trovarlo, né a vederlo”. Non ho risposte. Il mio benessere non è con lui, lo trovo piuttosto volgare. Ha in odio il mio silenzio, lo sente carico di una verità, di un vuoto che percepisco in lui. Vorrebbe degli orpelli, degli ornamenti di parole per rendere poetico il momento. “mi dispiace” rispondo. Questo lo manderà in bestia. E’ un libro aperto, desidera qualcosa come uno stupore, un sottolineare la profondità del suo animo, la ricercatezza della sua sensibilità, e odia il mio sguardo. So che è vacuo, ma non ho niente da dirgli né da rimproverare, semplicemente trovo il lui un vuoto, e lo privo involontariamente degli orpelli fino a renderlo nudo. Non comprende che non ho nessun desiderio fisico di lui, e questo rende inutile qualsiasi spiegazione. Lui ha conservato intatto il desiderio fisico di me, ma è il desiderio fisico in realtà di qualsiasi donna, e non vuole rendersi conto di quanto poco abbia importanza per me. Nella sua nudità riflessa non vede nulla. Si ama solo quando gli orpelli gli rendono l’illusione di se stesso. Non oso dirglielo. In quel momento il suo vuoto è il mio vuoto. Non mi sfugge il minimo particolare del suo volto, e ne provo fastidio. Le stesse espressioni, non cambiano mai. A volte basterebbe un visibile e improvviso rossore a cambiare tutto. Non arrossisce mai, è un estroverso ma non pensa nulla pur con la sua buona dose di intelligenza. “Te lo dico, ha un certo punto non ce l’ho fatta più, ero sempre io a dover parlare, credevo nella tua sensibilità, ma non la dichiari” “E allora?” “E allora che cazzo vuoi?” alza il tono “io non voglio proprio nulla, non mi serve” Dovrei aggiungere nulla, ma tolgo l’ultima parola. Non mi voglio spiegare, non ho molto da spiegare. “E allora perché ti crei sempre questa fama di ragazza sensibile?” “Cosa c’entra?” Di cosa parla? Chiede parole che non ho per lui e si rispecchia in un vuoto. Quando il silenzio lo sovraccarica sorride come sadicamente “Ecco il tuo sorrisetto” lo sottolineo sempre ma per fargli capire che se vuole parole deve prima averne. “Stronza” lo dice tra i denti, sibilando. E’ lui stesso a non avere parole, ed è molto chiaro. “lei ama il mio coraggio, e la mia forza, è la prima cosa che mi ha detto. Non trova in nessuno lo stesso coraggio” Non gli faccio notare la superficialità dell’affermazione, manca addirittura un contesto. Purtroppo è così, il contesto delle parole gli manca. Ora questo vuole essere anche un suggerimento, del tipo”lo riconosci anche tu finalmente?”. “E’ probabile, ma non so che dirti nel merito”. Mi sto stressando, ho un senso di nausea. Vorrei che se ne andasse. “Senti io mi devo preparare adesso, ho poco tempo da dedicarti, mi spiace” dico in preda alla claustrofobia. “Va bene vado anch’io, sono stato già troppo”, si è alzato di scatto, desiderava rimanere, è stupido dire “vado anch’io” considerato che siamo a casa mia e “sono stato già troppo” quando è lui a desiderare questi incontri. D’altronde è il suo problema. Vorrebbe gli riconoscessi una cultura e una profondità che non ha. Vorrebbe che parlassi di libri letti e di ciò di cui si fa un orgoglio insincero; perché a parte qualche sporadica lettura leggere lo annoia, ma dirglielo è inutile. Finirà col citare il solito libro, lo cita da sempre sottolineando la stessa particolarità, non del libro ma sua personale, il personaggio nel quale si riconosce. “L’hai letto poi L’arte della fuga di Pontiggia?” Non l’ho letto ma gli vengo incontro “In chi ti riconosci?” “E’ strano - intanto accenna a un riso, questo sta per “In quel libro ho scoperto una mia natura speciale” - non accade a nessuno, ma non mi vedo in chi cerca, ma in chi è fuggito. E non si troverà mai più. E’ un giallo senza esito. Chi fugge scompare ed è inutile la ricerca. Vittorio è rimasto piuttosto perplesso. E’ raro identificarsi in chi non c’è, non accade praticamente a nessuno” “Ti ha chiesto Vittorio se questo ti è accaduto durante la lettura o anche nello stesso finale?” (Nel finale la ricerca rimane un’indagine senza soluzione). Vittorio gliel’ha sicuramente chiesto.. Un’ espressione seria “Anche nel finale” Dimentica la domanda ha fretta di arrivare alle sue risposte, e ora la risposta è sempre la stessa. Non capisco una cosa: cerca un riconoscimento, ma di cosa e perché e perché proprio da me? Ha appoggiato intanto il gomito ad una mensola, come a voler proseguire una discussione di raro interesse. tiene il casco nel braccio, e io senza volerlo guardo insistentemente il casco nella speranza che si decida ad andarsene. Nota la direzione del mio sguardo. “Guarda mi dispiace devo proprio andare” e sottolinea le parole spostando il casco nell’altro braccio. Vuole comunque credere nella mia sofferenza. L’idea della mia sofferenza gli è necessaria, forse cambierebbe il suo modo di raccontare questa storia, vuole una ricercatezza della memoria, qualcosa da esibire, un piumaggio ornamentale. Il suo dispiacere è il non avere parole per raccontarmi, ma non le trova in se stesso e io non ho da darne a lui. E poi che rottura, vuole sempre dimostrare qualcosa. E’ solo arrogante. Taglio corto “In effetti” “va be’, comunque” calca sul comunque, sottolinea con questo il suo andarsene altrove, un andarsene molto speciale. “Non scomparire però” non coglie la mia ironia buona, pensavo all’Arte della fuga, “Non ti riguarda” E’ strano come la sua estroversione gli faccia dimenticare sempre l’ironia. Da me in realtà vuole il sesso. Sono bella. Ma io no non ci voglio stare sono stufa e poi perché è finita. Forse perché il suo tono di voce è sempre troppo alto ancora non conosce l’ironia. “Dove vai adesso?” “E vado, non lo so dove vado, e non me lo chiedere sempre” è una domanda come un’altra e conosco già la risposta “Ok comunque adesso vai perché devo veramente preparami”. Lo accompagno alla porta, “ciao” “ciao”, sono intimidita, ogni volta che accompagno qualcuno alla porta mi intimidisco, mi sento poco ospitale, e mi sembra di lasciar andare gli ospiti senza aver dato loro molto. Quando si giunge ai convenevoli del saluto inizio a credere di aver offerto una brutta ospitalità o di non aver saputo godere abbastanza della compagnia, e appena chiudo il portone ho la sensazione macabra di tagliare fuori il mondo o di esserne tagliata fuori. Ne ricavo sempre una reale impressione di solitudine e vuoto. Mi accade sempre così.. Sono i momenti in cui mi sento un po’ abbandonata. La mia casa è molto strana, molto barocca, molto disordinata. E’ carica di oggetti, ha vetrate liberty, tappeti persiani, archi con colonne, soffitti molto alti con stucchi, librerie troppo cariche, collezioni di porcellane, e l’arredamento e la disposizione dei mobili ne fanno una casa d’antiquariato più che un convenzionale appartamento. Sarebbe necessario abituarsi a spolverare regolarmente gli oggetti, trovare un detersivo per i tappeti, migliorare le librerie e ordinarle, riempire sempre il frigorifero e tenere bibite in fresco, rinnovare la biancheria e acquistare qualche tovaglia nuova, ma si può sempre fare, basta decidersi. Insomma scopro improvvisamente un elemento vanitoso, sta dicendo del suo potere nei confronti delle ragazze, di un potere di seduzione, e del sacrificio necessario. Non è diverso dall’altro, ma spero lo sia, perché con l’altro la noia è stata molta, e se veramente è me che vuole mi deve volere bene. Per questo difendo Pamina, il suo essere parimenti spirito contro ogni differenza che la vuole solo accanto e non partecipe come eroina altrettanto potente e carica di tensioni sensuali-spirituali di sostanziale medesima specie, solo donna nel modo più perfetto, recettiva sì, ma anche cielo non solo terra accoglienza, ma cielo simile al cielo di lui. E’ una visione alta, eppure così espressa è in fondo troppo recitata da darmi una pena indicibile. Avverto il dolore, non il suo dolore, ma il dolore impossibile di una donna, qualcosa ha rovinato quella donna, quella giovane che implorava il ritorno. Vedo che parliamo veramente tutti in coro allegri gli altri divertiti, ma io mi smarrisco e alloro riporto tutto ad un ordine oggettivo “Comunque quello che mi ha lasciata si è preso una talmente brutta ma talmente brutta che mi chiedo come possa solo guardarla”. Lui Sorride di nuovo con giocosa ironia. Capisce che sono l’unica ad aver veramente compreso mentre gli altri si lasciano incatenare. Eppure questo è un laccio, sta legando la mia vita a sé forse, oppure è un gioco da ragazzi, oppure ha bisogno di provare il suo effetto su un uditorio attento, e vuole capire cosa è stato catturato da noi estremamente attenti. Non cerca in quel momento complimenti, scopre, e vi riesce, cosa cattura in noi l’ascolto di una musica letta attraverso doppie lenti, l’autore, Mozart, e un altro autore, che inscena uno spettacolo mostrando una conoscenza altissima e quasi ossessiva e al contempo una sua propria produzione di parole per la musica e per l’incanto di una trama tutta da raccontare come in una fiaba per adulti, iridescente come una lampada magica, mi sento vestita dell’iride delle sue adulazioni. Per questo mi chiedo: ma il mio Spirito così tempestoso come quello di Pamina, come può essere improvvisamente pacificato, e divenire mite e mansueto. A tutti mi sono ribellata, e non sono mai stata quieta né placida o imperturbabile. A volte rabbiosa, a volte mansueta, ma mai quieta. Eppure è a Papaghena che si rivolge lo so, perché di Spirito lui ne ha in corpo già in eccesso, e ci vuole qualcuna o qualcosa che mitighi le sue smoderate passioni per i fatti dell’anima. Mi appare tutto come un romanzo nel quale ogni soggetto che legge può trovare parti di sé, o tutto ciò che è depositato nella memoria, ma io in particolare scorgo stupidamente in me un vuoto. Parla di sé dopo essere stato oggetto di ammirazione stupita e parla di amori fuori dall’ordinario. C’è qualcosa di estremamente potente, il racconto di sé è forzato fino a diventare un modo della giovinezza e dell’arroganza. E’ uno strano omaggio alle donne, la potenza del loro amore sembra equivalere alla potenza del loro sacrificio. Sembra dare senso a tutto. Non ha perso nulla, il ricordo di sé è chiaro e netto e filtrato da una volontà sempre attuata. c’è in ciò che descrive un sogno coltivato in segreto, i miei pensieri nascosti, e le complicazioni di cui parla parlando di sé e insieme di ogni giovinezza mi rendono i miei sogni filtrati da letture ottocentesche. Sto rileggendo Alice nel paese delle meraviglie e attraverso lo specchio: mi incanta: «Chissà quanti chilometri di caduta ho fatto fino ad ora» disse ad alta voce. «Ormai debbo essere vicina al centro della terra. Vediamo: sarebbero più di seimila chilometri di profondità, mi …» «Voglio rileggere Viaggio al centro della terra. Deve essere divertente e dolce. Il cadere trasportati è così strano. «Chissà se attraverserò tutta la terra. Sarebbe divertente capitare fra la gente che cammina a testa in giù». I viaggi di Gulliver anche e i Lillipuziani. E The King of the Ring. Il titolo è così affascinanate. Nella lotta si deve perdere l’anello? Perché. Che maleficio è nell’anello?». 12/12/97 Abbiamo fatto l’amore, nella sua casa tutta da amare. Ho poche parole. Solo voglio dire questo. Mi avvertivo “poca” lo voglio dire così, perfettamente insufficiente. Avevo acquistato della biancheria di pizzo e una camicia da notte rosa e una vestaglia di identica seta. Abbiamo atteso mentre la musica riempiva le mie orecchie, perdersi nella trenodia per le vittime di Hiroschima. Forse è la prima prova mi sono detta, e ho ascoltato con un libro in mano, Ho letto per intero Effi Briest. Poi finalmente una cena veloce, un po’ di prosciutto e mozzarella e mi sono preparata. Eravamo tutti e due timidi. Io so di essere poca cosa a letto e invece è accaduto qualcosa. Sono entrata tra le lenzuola e anche lui, ma mi attraversava immancabilmente il pensiero di tutti gli uomini che ho avuto e con i quali non ho goduto. Trattenevo lo sbadiglio, e mi sono avvicinata per il solito usuale abbraccio. Troppo annoiata, troppo già saputo, troppo imperfetto. Allora con un tono deciso forte ma calmo ha detto “Questo no” allontanando le mie braccia con un gesto rigido del suo braccio destro. “Questo è un gesto che hai ripetuto con tutti, non con me, con me non puoi mostrare la tua noia”. Allora mi sono impaurita il silenzio era vero corposo denso. Mi sono girata verso il muro e il suono della seta trascinata era amplificato e quasi era un chiasso di stoffa e corpo e morbide forme. Ero così girata pensando di dovermi addormentare e allora lui ha infilato un braccio sotto il mio a sentire i seni tra la seta rosa. Ha sospirato di un vero sospiro, strepitoso e sommesso. E io mi sono voltata e ero finalmente io solo io, senza le mie convenzionali braccia o i miei convenzionali seni e mani. Mi accarezzava e saliva la voglia di lui solo lui, e della sua potenza. “Vieni dentro ho pregato con una voce esile. Mi devi implorare ha risposto con ironia paterna, giusta, non con sarcasmo, ma con la dolce presenza di chi è di più perché mi ha tra le sue mani. E poi è entrato, ed è stato il mio lago. “E come immergersi in un lago ha detto alla fine”. Lui è il mio Tamino e io sarò la sua Papaghena. No virus found in this outgoing message. Checked by AVG. Version: 7.5.549 / Virus Database: 270.9.9/1809 - Release Date: 24/11/2008 9.03 10:01am 24 Feb. '13 il gelo Il Gelo Per il papà era molto piccola molto brava. E dava pochi baci. Perché? La prendeva tra le braccia con amore e diceva “Questa bambina si vergogna anche di respirare”. La bambina soffriva di laringospasmo e odiava gli ospedali i camici bianchi e le siringhe. A casa della nonna materna - un paesino bello e di provincia, con la chiesa nel vicolo giù basso – aveva giochi animati, che placavano le paure- in campagna prendeva una minuscola ochetta da crescere e allevare, come una vera mamma, e l’ochetta era dolcissima e seguiva passo passo i suoi passi di bambina – bambina che temeva il diavolo il buio, e la possessione del male che ti acchiappa, ed è la cattiveria, quella cattiveria della quale tutti parlano e le appartiene in realtà per difesa, ma lei non dice mai “Sto recitando, gli incubi sono altri, l’incubo è la diversità mi tira fuori dal mondo mi rende un angolo”. Un muro la separa, io voi noi loro, ma chi esiste veramente? Dio esiste? non lo sa – però nella cameretta, dai nonni sente solo uno splendido rassicurante odore di cipria e borotalco. In casa erano tanti, il bene dei nonni erano braccia accoglienti e cibo e letti per tutti, tanti, e tutti cugini zie e zie. Amava le vacanze al mare, sempre in acqua sempre abbronzatissima con i lunghissimi capelli dall’odor di sabbia e salsedine. Il papà sapeva affrontare il mare. Era un sub e un ingegnere. Non si faceva scalfire dalla viltà, educava al coraggio. In un viaggio in India con la mamma aveva affrontato l’oceano indiano su zattere insieme agli indianini, come li chiamava lui. Aveva il colore di pelle di un indiano, e gli occhi. Neri profondo ma cangianti nel blu. Nella provincia la nonna era terziaria francescana, nella parrocchia del vicolo di sotto, e la portava ogni giorno con sé la mattina presto alla messa. E a messa c’erano i gemelli che facevano i chierichetti. Ospiti dei frati, frequentavano il liceo classico con il chiostro e le volte a botte. Un minuscolo gioiello di provincia. Erano grandi e seminaristi e chiamavano la nonna la Regina di Saba. Lei e la nonna insieme, andavano a portare a quei due orfanelli in convento le crostate fatte in casa e la pizza di Pasqua cotta nel forno a legna - e i prosciutti che pendevano dai ganci nella dispensa. La nonna stendeva lesta la pasta sfoglia, tagliava la pasta con arte magistrale, coglieva dall’orto ogni frutto e ne ricava conserve o prelibatezze. La terra donava tutto ma l’arte di coltivarla richiedeva un sapere antico. Lei piccola immaginava e pensava “Chi sono quei due? Perché in convento?”, mentre uno di loro la confessava, e una volta per pentimento le aveva imposto quaranta Padre Nostro e quaranta Ave Maria da recitare - tanto che la nonna si era preoccupata “Ora voglio proprio sapere che hai fatto” aveva esclamato. Giocavano i seminaristi. lei era l’unica bambina a messa e ai vespri, tranne la domenica quando si riempiva la chiesa. Le signore avevano il banco col nome su lamina di bronzo inciso, ma il loro nome di famiglia era il più importante perché erano conosciuti e stimati “la famiglia più onesta” dicevano tutti. Solo a Natale anche il nonno ci andava a messa, e faceva con la solita ironia, la vera totale confessione che durava due ore, e la nonna si ingelosiva e in un tono duro reclamava “Ma che c’avrà da dirgli, io un giorno lo devo sapere”. Il papà non ritorna e neanche il nonno e la nonna. Il papà ha avuto poco amore, anzi no, il dovere l’ha ingannato, nella legge del più forte hanno stritolato quell’uomo dal carattere complesso, ma ricco di energia e voglia di vivere. D’altronde oggi è chiaro. Tolgono il lavoro torturano ti stritolano e spremono fino a che non puoi più uscirne e sono tutti, tutti quanti, con la voglia di denaro facile, gli strozzini gli aguzzini la mafia. E questo è un ricordo oggi sempre più attuale. Ti dicono è sempre accaduto, la storia insegna che il bene non esiste. Sì è vero ma è come dire sempre si nasce e sempre si muore. Lei non è riuscita a comunicare, e non l’ha dimostrato. Il dramma delle parole mancate. Mancano dentro o mancano fuori. Sono state pietre lanciate le parole di lei ragazzina. Anzi le parole intorno, quelle degli amici che vedevano una fanciulla di rarissima bellezza e la prendevano con facilità, come giocando o armeggiando con un oggetto che poi getti a terra, e resta in frantumi. La trasgressione. Nel delirio del pensiero di una identità aveva scelto i più forti, i ragazzi di sinistra con i ciclostili e i comunicati. Ma intanto senza capire la vita, la viveva attraverso i romanzi. E attraverso musica e film. Al cinema era abituata fin piccola, fin dai film di Totò e Anna Magnani e Aldo Fabrizi che la facevano ridere tanto nel salotto della nonna, la sera dopo cena. Nella famiglia di sinistra era diverso. Non si accendeva il televisore, è male, diseduca. Ma non sanno neanche Totò? Se andavano a trovarla nella splendida villa nella quale abitava ridevano di lei e del parco e di quello che loro chiamavano il parco macchine, poi spegnevano il televisore e cianciavano parole ma erano cianfrusaglie. Intanto comunque scoprire il mondo significava leggere. Ma perché quelli con il ciclostile figli dell’insegnante erano tanto bravi senza leggere un libro, era strano da capire. La professoressa esibiva in casa con fare disinvolto tutte le sue nudità, e per questo non c’è niente di male, ma era un orgoglio. Le mutande un orgoglio? Poi parlavano molto della rivoluzione sessuale, ma un’educazione sessuale ai figli non la davano. Chiaramente tra i tanti libri finalmente capitò tra le mani “L’amante di lady Chatterly” e finalmente aveva detto al ragazzo “Io non voglio te voglio un boscaiolo”. Ma l’autrice più affascinante era Jane Austen così dolce raffinata, giochi d’anime intrecciate. Poi Pasolini “Amado mio”, ma i due ragazzi di sinistra, non conoscevano né il libro né il film, non sapevano niente. Ma il silenzio è l’eco delle parole ingoiate e nel silenzio della notte quando tutto tace ecco i mozziconi di parole farle da contrappunto a lei balbuziente che si ascolta. Papà è partecipe a tutto. Così dice la mamma. Il tempo l’allontana da quel giorno maledetto da quei giorni lunghi lenti dolore ripetuto silenzio del dolore che attanaglia. Non vuole dimenticare vuole restare lì, tornare indietro tornare tutti i giorni a ricordare, ma non è proprio così, le pugnalate subite dopo l’immane fiducia riposta sono una ferita prolungata nel tempo. Lei oggi è bipolare non si risolve il binomio modernità tradizione. In fondo era approdata nella capitale dopo aver giocato per strada nel calore di una famiglia patriarcale. Aderire o dividersi, e l’io resta diviso perché lo scarto non si ricompone. Andare via fuggire per essere uguale agli altri. Una follia. Era partita di nascosto per un viaggio in autostop con il ragazzo di sinistra, il giro d’Europa. E a Barcellona era finita la dittatura e il fumo era legale ed era stato bello. Le visioni. Ma premeva il giudizio di un mondo generoso fatto di chiacchiere femminili intorno al fuoco e camini abitabili, dovere portato all’estremo. Ma perché era così, perché sbagliare così tanto era facile, non è comprensibile neanche a lei che ora adulta riflette e legge i vecchi presagi come parole d’indovini mentre si macchiava di sangue. La colpa. Leggere i casi clinici di Freud era come leggere straordinari gialli sempre a lieto fine. Ma quel Dio solo punitivo lei non lo pregava non riconosceva la Croce come simbolo non capiva. Bisognerebbe essere indulgenti con se stessi. Pretendevano la verginità come valore assoluto e solo dopo il matrimonio la donna poteva congiungersi. A casa c’era stato uno scandalo. Che orrore questa parola priva di ogni intimità. Comunque la cugina più bella aveva sedici anni e aspettava un bambino. Il matrimonio era un obbligo. Papà e mamma avevano implorato gli zii di non commettere un delitto così inutile. E lei ragazza era testimone di nozze ma il bambino non c’era e nessuno lo sapeva. Non c’era più, un aborto spontaneo. Ma lei ascoltava De Gregori, e ascoltava musica “Ma io non ci sto più ridò lo sposo e poi, tutti pensarono dietro ai cappelli lo sposo è impazzito oppure ha bevuto ma la sposa aspetta un figlio e lui lo sa non è così che se ne andrà”. Nella casa di sinistra discutevano il problema “Ma io non posso farci niente” diceva lei. Ma poi è stato un matrimonio d’amore. E i ragazzi di sinistra in realtà sono diventati dei veri borghesi, distanti inutili, e in fondo la Storia si ripete, matrimoni borghesi una casa borghese una famiglia borghese. La morte è accadimento inevitabile. Non è il giudizio né la memoria di un lutto non risolto a porre il problema, ma un dubbio sulla storia del se impossibile da scrivere, ma bella da pensare. Se quella sinistra lei non l’avesse mai incontrata sarebbe oggi diversa, una donna felice forse. Forse. In fondo a cosa è servito, proprio a nulla. Perché quando è restata senza tetto e senza nulla il ragazzo di sinistra diceva come se fosse pazzo “mors tua vita mea” e intanto la voleva scopare, lasciare e scopare. Era una violenza. L’amico di sinistra del ragazzo scriveva libri bruttissimi ed esaltava le scopate. Scopare era tutto. Ma realmente tutto non è, una dolcezza ricambia l’anima bella. Quella violenza e quel dissidio hanno scatenato una schizofrenia mai risolta. Le parole sono un errore insieme ai gesti. Per le parole bisogna pensare e pensare è complicato, non è vivere tranne quando lei vuole fare di testa sua, con confusione e poi tutto si sistema anche dopo un gran caos. La somma degli attimi non l’ha mai capita. Come si dovrebbero sommare gli attimi. E sommarli a cosa equivale. Prendiamo la matematica. Il comune denominatore in una relazione, io tu lui noi o gli altri? Ogni relazione si compone dei suoi elementi. E’ unità? Somma? Qualcosa manca dalla visuale. Sarà la zona d’ombra di Lacan. E’ troppo vasta forse, nella relazione lei è la zona d’ombra e una parte di sè minima si disperde ai lati. Ai lati sfuma in qualcosa e a malapena lei si percepisce come fattore determinante in positivo. D’altronde il problema non è la relazione. Il problema è l’ordine poetico. Per esempio: Scrivere una poesia d’amore, o concepire un prato fiorito e qualcosa come una resurrezione dei sensi. Esercizio quotidiano: Descrivere angoli della casa settecentesca unico incantevole nido. Costruita seguendo lo schema di una quinta teatrale e di una casba, l’elemento estetico dannunziano è palese. Si trasforma muta cambia appena un frammento del tutto si modifica anche solo per la posizione o visuale o punto di vista. E’ un arte sublime e da questa si comincia. Ha bisogno della cosa più semplice del mondo. La vita le si fa contro con il peso di qualcosa di insopportabile. Questo scriveva anni or sono ma ritorniamo all’oggi e oggi si tratta di ricordare ed ecco prima di tutto un po’ di cronaca. Il bacio mancato, la principessa ranocchio, la pietra l’assenza. Lei era andata in analisi appena vent’enne, dopo un lutto. Il mito del secolo, l’analista. Per conto suo aveva trovato soluzioni ideali nella musica e nei libri. Ma l’analisi prometteva tutto. Con altri termini si nominavano le sofferenze, da sempre ritenute sacrificio necessario dai cattolici, e pazienza sopportazione crocifissione avevano finalmente nomi diversi, atei o agnostici. Non eri abbandonato da un Dio punitivo, soffrivi di nevrosi associata a sindrome abbandonica. Non eri una donna ferita ma soffrivi di una comune risolvibilissima frigidità. Ma il suo problema - da sempre suo da quando era piccina e il maestro chiamava i genitori preoccupato – questa bambina è un libro chiuso diceva - era quello di una timidezza patologica dall’origine infantile, e nell’adolescenza una incapacità a raggiungere l’orgasmo. E un pensiero ossessivo. In realtà non comprendeva l’essenza. In cosa consiste un’unione come sola condizione della donna in un abito nuziale di fronte ad un sacerdote. Il bacio era il primo passo e l’unico prima delle nozze. E del poi non sapeva nulla tutto era il bacio consentito e non negato, il resto erano atti impuri. Il suo bacio prima di bambina poi di fanciulla era incantevole. Aveva incubi. Due sogni ossessivi. I nazisti identificati in persone conosciute soprattutto per caso la inseguivano e lei faticava faticava in maniera immane nella ricerca di fuga. E l’altro sogno molto ricorrente ed emblematico – mentre cercava di parlare le davano un gomma da masticare. La gomma diventava una gigantesca palla di cemento che cementificava i denti e la bocca e le impediva la parola e la rendeva muta. Una psicosi. Manie di persecuzione. Era bellissima. Lei adolescente già si arrovellava nel cervello. Si sentiva diversa. Quando con il ragazzo, un ragazzo all’apparenza simpatico, con il quale, piuttosto per moda che per altro, o meglio lei solo per inquietudine pura, ricerca di vita avventurosa, ma ancor più quel voler essere “come gli altri”- quando con il ragazzo lei appena sedicenne girava il mondo in autostop, si arrovellava in silenzio mentre facevano l’amore e lei non capiva - fingeva con gridolini acuti l’orgasmo - come nei film d’amore deve essere - rifletteva. E lui non si accorgeva di nulla mentre cresceva dentro di lei il risentimento. Una volta sola l’aveva raggiunto l’orgasmo, e aveva diciassette anni e improvvisamente aveva avvertito straordinarie forti incontrollate contrazioni delle mucose vaginali. Non sapeva perché. Non era cambiato nulla era successo improvvisamente. Aveva avuto paura, qualcosa di improvviso che sfuggiva al controllo. E un’altra volta aveva avvertito un piacere intensissimo mentre facevano l’amore distesi sul prato di margherite della Pineta Sacchetti o ancora tra la sabbia e la risacca delle dune di Ostia. Godeva senza volerlo. Ciò che l’allarmava era l’impossibilità della scelta razionale e di un io voglio deciso e di un ora sì ora vengo ora lo voglio. Ora. Di nascosto aveva aperto il dizionario enciclopedico alla parola frigidità e aveva letto: incapacità femminile a raggiungere l’orgasmo si cura con la psicanalisi. Aveva poi annunciato nel salone di fronte alla televisione ai genitori “Io andrò dallo psicoanalista” “Ah cominciamo bene!” aveva risposto il padre. Frigidità, timidezza, complessi adolescenziali - temeva furiosamente il suo odore, il bacio. Di baci il fidanzato la tormentava e di carezze, alla scoperta di quello oscuro arcano che era il corpo di fanciulla, ma lei credeva tutt’altro – lui, giovane dal raro fascino e talento e dall’acuta sensibilità - lui non si sottraeva alla rinuncia per un aiuto necessario, al sacrifico, il sacrificio di un giovane che si dona nonostante i rovelli, le parole mancate, i silenzi tra un libro e l’altro, la voce stonata quando pronunciava debolmente un sì o un no. Nel nido tutto era più accogliente rispetto a quell’intruso speciale ma nemico. Nel nido erano cento persone in una tavola riccamente apparecchiati con cristalli lavorati e piatti di ceramica con oro zecchino all’interno di un ordine sempre identico. A capotavola il nonno, a sinistra la nonna poi tutti gli zii e poi i ragazzi per ultimi, i più chiassosi. Non aveva mai capito la fatica che questo comportava. La nonna era sempre elegante non trapelava mai la stanchezza nonostante la tavola abbondante. Comunque uscire era un dovere oppure una necessità In televisione e ovunque si parlava di quanto accadeva. Gli attentati i sequestri le stragi. Il femminismo. La vita della donna era complicata perché non si capiva molto. D’accordo il femminismo e combatto per i miei diritti. Non la verginità fino al matrimonio il piacere la liberazione. Eppure la nonna e il nonno erano splendidi per l’amore e la passioni che li teneva uniti da sempre. “Ti amo come se fosse il primo giorno” diceva il nonno. Ma quando provavi a dire “ma fuori di qui è tutto diverso e non sanno neanche giocare come facciamo noi e non sanno le torte, le tavole non sono apparecchiate e le donne si vantano di non saper cucinare e il sesso è libero e la coppia deve essere aperta” non trovavi una strada giusta una risposta ai due lati opposti di un volto. Tradizione rivolta. Pazzia. Ma questo ragazzo accanto è noioso non legge è strano, d’accordo di sinistra ma la destra allora cos’è. Comunque abbiamo sbagliato tutti. La tradizione liberale del nonno, antinazista sfuggito alla fucilazione, è stata tradita dalla Storia, la Democrazia Cristiana, il voto della nonna, non aveva scoperto il suo volto oscuro. Gli intenti erano onesti, ma quelli di molti di tutti forse. Con innocenza ero femminista non poteva sicuramente essere maschilista. Forse sfugge l’arte alle determinazioni non la Storia. Da Alda Merini no, non chiudermi ancora – “no, non chiudermi ancora nel tuo abbraccio,/ atterreresti in me quest’altra vena/che mi inebria dall’oggi e mi matura./ lasciami alzare le mie forze al sole, lascia che mi appassioni dei miei frutti,/lasciami lentamente delirare…/e poi còglimi solo e primo e sempre/nelle notti invocato e nei tuoi lacci/amorosi tu atterrami sovente/come si prende una sventata agnella.” In realtà troppo tardi dopo quattro lunghi anni aveva scoperto la vera natura di quel ragazzo, un ragazzo volgare triviale - quando il padre era morto e lei doveva occuparsi del fallimento ossessivamente e con gusto dopo averla immediatamente abbandonata amava ripeterle “mors tua vita mea”- era stata solamente fanciulla, una agnella in mani selvagge. Nella stanzetta che lei aveva preso in affitto lui si presentava per scopare e insultare- scopava e diceva – Mors tua vita mea – Lei non intendeva essere il suo ostacolo un sinistrorso sicuramente di talento. Oggi è un uomo oggi forse comprende. la vita. La vita non è violenza carnale e se lei restava acquiescente era solo per la solitudine nella quale l’avevano gettata e la miseria. Ecco perché questi rovelli - e donnaccia da mercato poi che voleva dire. Questo. Un lui triviale che ti usa per uno sfogo. Il tempo passa gli anni sul groppo giunge il perdono. Ma è rimasta frigida- e sola. Ma il male peggiore era in lei. Una psicosi per la quale non riusciva a tradurre i pensieri già adulti, buoni, in parole. Un distacco pensiero-espressione. La parola strideva. Era d’altronde un’adolescente. Aveva aderito insieme a quel ragazzo e ad un gruppo di giovani al partito radicale…aborto carcerazione preventiva Cicciolina deputato il drammatico caso Tortora che ancora oggi dovrebbe far riflettere soprattutto intorno alle cause sociali del tumore. E le ingiustizie solo subite da uno Stato assassino. Poi aveva preso presto le distanze dal partito radicale e considerava la politica un inganno. Ma quelle prime battaglie avevano un valore poi la direzione è mutata in modo catastrofico Comunque era vissuta dai nonni che adorava e di fatto aveva perso la verginità prima del matrimonio non dopo e la nonna diceva che era peccato. Non prima dopo. Che pensieri bambini. Non si è mai sposata però. Peccato ha stima del matrimonio. Il sogno della giovinezza – una vita da dividere insieme. Ora è frammentata. Gli uomini hanno solo voglia di scopare. Era assolutamente incapace di comunicare e solo rideva o sorrideva, ma era di una bellezza incantevole, un modello di bellezza diceva ingenuamente il ragazzo. Temeva la bocca. Le parole stridevano. Irrompevano e straziavano e poi il silenzio. Le parole sono pietre. Si nutriva di letture e cinema. Tutti i casi clinici di Freud, Jung Ricordi sogni riflessioni, Psicologia e alchimia. Libri che l’incantavano. E grazie ad una insegnante che assegnava letture integrali leggeva e sognava e amava. Tutta l’autobiografia di Simone De Beauvoir Dostoevskij Delitto e castigo e I fratelli Karamazov, Puskin, L’Eugenio Onegin. Checov, l’aveva incantata Colette, e La peste di Camus… forse è il senso? Discuteva così con gli amici e tutti leggevano e sognavano grandiosi futuri. “Grandi speranze illusioni perdute”. Una piccola Don Chisciotte. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse. Un segnalibro. Dostoevskij le apparteneva nel profondo e il romanticismo tutto l’incantava come il primo casto pudico esaltante bacio. Io leggo - diceva fin da bambina - quando il nonno e la nonna, odorosa di cipria, la chiamavano a tavola e per toglierle il libro di mano dicevano sempre “ chi mangia e ride a tavola e a letto è un matto perfetto” e lei aveva paura di diventare matta e chiudeva il libro per sedere composta a tavola. Nel girovagare pazzo con il primo ragazzo, erano gli anni settanta, aveva solo uno zaino un sacco a pelo lunghissimi capelli sciolti, scatolame per mangiare qualcosa e i libri di Jane Austen che leggeva a “letto prima di dormire”, ossia nel sacco a pelo matrimoniale dopo aver fatto l’amore sopra un verde campo di margherite. Ma rimuginava nella testa, e serpeggiava tra le “crepe del cervello” – come scrive Sylvia Plath - la pazzia, il “medico che cura le teste ha cura di un arto complicato” sempre da Sylvia Plath, cita a memoria forse sbaglia. La vita è un assurdo e un paradosso. Un fallimento economico, ogni tentativo di aiutare il padre imprenditore costruttore è inutile, il padre si uccide la famiglia resta senza tetto, il ragazzo prende ad odiarla l’abbandona, le ripete ossessivamente mors tua vita mea mentre lei si occupa del fallimento e di cercare un riparo, non hanno più casa una famiglia dispersa, e lei sola come una cagna randagia che abbia perso anche il fiuto. Lei non ha una casa non ha radici non ha una città- la madre torna in provincia. Vive ospite della sorella e insegna in un liceo in provincia. La ragazza è sola in una cameretta in affitto a Roma e singhiozza per un anno intero poi il pianto si placa. Mors tua vita mea. La frigidità è diventata incurabile. Il disorientamento totale. Durante il natale trascorso a casa della sorella della madre giungono a breve distanza due lettere anonime di minaccia alla madre. Parlano della vita dei figli con minacce di morte. Dopo il no secco a Mister x e Missis y – dopo spese inutili e danni irreparabili ripara anche lei in provincia e chiede a Her Doctor la giusta cura. Anche Her Doctor non comprende, pazienza è comunque un riparo, ma sembra uno qualunque. Non concepisce un’anamnesi neanche lui. Dottori dell’anima l’anamnesi conta ascoltate e non parlate- siete dei sordi pieni di soldi. Lo dice così non ha troppe parole. Comunque pazienza, questo passa il convento, e chiede all’illustre Her Doctor di rimetterle in sesto il cervello. O l’anima. Neuropsichiatra cioè medico. Lei sa già che esiste un corpo e lo sta disprezzando e conosce la timidezza di ragazza che tace. Il dramma della parola me lo spieghi lei Her Doctor, la imploro Her doctor, le parole puzzano sono pietre lanciate, preferisco la mia eco nel silenzio della casa che tace, la parole hanno peso ma cadono nel vuoto. Posso baciare. Mi dicono tutti che profumo e sono bella Her doctor intensa e bella da baciare. Ho paura sono delicata. Il pene è violento l’uomo non lo conosco. Perché mors tua vita mea e perché quello voleva comunque scopare, suonava scopava insultava e se ne andava. Un sinistrorso pieno di soldi che non mi offriva un pranzo o un cinema. Her Doctor di droga ce ne era tanta io ho una mia origine in provincia Ecco che ritrova la prima versione della prefazione vecchia di anni ora la lascia intatta così, cela timidezza, nasconde la verità della malattia. E così un’idea del tempo dispiegata attraverso i pensieri in un oggi ieri domani riassorbiti in unità. Eppure un’altra versione ancora dell’anima, così un tempo scriveva e descriveva la giovinezza e l’età adulta le lacrime e le risa, un modo forse più astratto ma ciò che conta è proprio questo “anni or sono” con il quale si restituisce l’idea del tempo come in una scatola cinese, un altro tempo ancora, l’identità è la stessa nel tempo eppure muta. Muta ovviamente, ma come restituire le trasformazioni se non scrivendo piano nel tempo mentre gli anni oggi hanno imbiancato i capelli, mentre quanto segue è frutto di una lingua giovane di un’energia diversa. Un modo di tradurre il tempo forse è questo, attraverso scartafacci, legati da una comune intenzione. Parole mutate forme indefinite. Gli ostacoli tra il nostro desiderio di liberare l’anima che si è rappresa e assottigliata per sofferenza e le possibilità offerte dal mondo ribadiscono forse per un’incosciente sbadata disattenzione il tragitto faticoso verso la conquista di sé che ogni paziente analitico tenacemente intraprende pure tra mille difficoltà e naturali insicurezze. Legge da GillesDeleuze «La scrittura è inseparabile dal divenire: scrivendo si diventa-donna, si diventa-animale o vegetale, si diventa molecola fino a diventare-impercettiibile» Un tempo, da giovanissima, quante cose credeva di sé, anzi credere non è esatto, e di sé ancora meno, aveva però la perfetta illusione di essere un giorno qualcosa di cui meravigliarsi, qualcosa intravisto attraverso specchi labirintici dei suoi puerili pensieri, eppure già arroganti. Illusioni sogni di futuro, sognare sempre lì nel presente con il dominio della giovinezza a far da guardia a giorni pieni di sofferta mai compiaciuta inconcludenza! Ma non era certamente l’odio a renderla inetta, quanto una forma di insicura incapace inedia, per la quale era adatta solamente alle letture e tutte ottocentesche. Quelle, del sogno e dell’educazione tutta femminile, un regno per le donne che amano e finiscono per denutrirsi anche per amore. Era secca come un chiodo. Un fuscello, esile e nervosa. Sempre da Deleuze «come dice Lawrence, “se io sono giraffa, e gli inglesi ordinari che scrivono su di me dei bravi cani beneducati, è tutto qui: sono animali diversi …voi detestate istintivamente l’animale che sono io» La Provincia Quindi i sogni. Ciò significava credere involontariamente qualcosa di importante di sé, e senza progetti che le sfiorassero seppur minimamente la mente. Era l’esperienza a renderla estrema? O le condizioni, impossibile essere forti nella privazione di tutto. Era come avvolta in una vulnerabilità che la rendeva indomabile, bizzarra e spesso imbizzarrita, faceva appello alle sue ragioni con scompigliata insolenza, cercando di attribuirsi l’importanza che la giovinezza chiede… A volte passava alla descrizione del dolore, poi all’ironia che mitiga e al pianto, dell’agnello sgozzato, dicevano. Giovane e timida…Questo perché era in parte un po’ esclusa realmente, impacciata, priva di una possibile collocazione nel mondo, le dispiaceva il suo non sapersi collocare. Esile come ragazzina, un po’ troppo assottigliata, e assolutamente indifesa. E non le riusciva di crederci però. Il quotidiano confronto le dava il tormento. Essere senza difese Troppo forti gli altri, le altre. Non desiderava pensarsi insufficiente o carente. Bastava poco ad annichilirla, in una perfetta invidiabile incoscienza. Di fronte agli ostacoli ne cercava altri mille però, perché il tempo non la curava, e il tempo si faceva rarefatto, e le mancavano curiosità importanti, conoscenze che le ridonassero il terreno perduto dall’anima che si andava assottigliando, il desiderio di un uomo che ti coccola più di quelli già avuti. Ora la solitudine ha forma di sacro terrore. E l’uomo spaventa atterrisce. Inizia a pensare di più alla solitudine protratta. Forse alla noia, teme di non riuscire a trovare ciò che realmente per anni ha cercato senza mai arrestarsi. Percorre strade tortuose intrecci di vicoli e viuzze per il timore in corpo di essere sprovvista di qualcosa, nutre una tale ansia per il futuro. E la città è fatta di anfratti e viuzze trasversali, di salite illuminate da un cielo di un azzurro violetto ghiacciato per il freddo pungente, sferzante… Ma la posizione è cambiata. Ricorda i suoi ventidue anni. Nonostante il dolore di un abbandono, l’impaccio la solitudine, un uomo oltre i quaranta, che aveva scelto per essere accanto ad un uomo qualsiasi, (orrore della solitudine sentimentale, orrore di trovarsi nel vuoto), le ricordava sempre la sua natura e la sua bellezza al risveglio, rispetto agli impossibili risvegli delle quarantenni, sosteneva l’uomo con l’amarezza nella voce, fin troppo decorate la sera dal trucco, e spoglie di ogni orpello la mattina, irriconoscibili. Ora sa cosa intendeva quell’uomo il cui ricordo è solo appena percepito, troppa memoria e troppa esperienza nelle donne, vergini le menti ragazzine. E ora?…E’ fondamentale poter credere di ritrovarsi la mattina tra la braccia di un uomo senza che neanche il tempo sia intervenuto a modificare se non per un accrescimento la natura propria, riuscire a sapersi nel tempo con l’esatta sensazione di una continuità e di un orizzonte di fronte allo sguardo pur sempre smarrito, nell’incertezza del futuro che ognuno di noi ha. Immancabili gli sfoghi, ma quanto veri anche. Ma il rovello esiste, è ora una donna così la chiamano quando per strada ragazzi e ragazze chiedono con timida cortesia all’adulta indicazioni o informazioni… Deve farsi schermo con le parole, provare con questo. Le parole fanno da specchio e da schermo, riflettono l’immagine esattamente come il luogo di promanazione del principio vitale, del respiro spirituale, dell’orizzonte che si chiede. . Ma è illusione, e comunque questo le rende necessario il vuoto che suppongo nutra dentro. Non sono più io non sono più la stessa. Ma forse sta acquisendo anche un ordine. Forse ora sono me stessa? Un ordine finalmente. E suppongo anche che assorba per questo gli elementi di un’associazione giusta tra sé e il mondo esterno. Ma è sempre povera in canna… Si lascia accompagnare dalla musica, La musica è senza tempo, e la memoria le dona spettacolarità… E questo sempre, con regolarità, attraverso il tempo con modi e forme diverse, ogni volta con qualcosa che sfugge come una maglia persa, da riprendere con altri anelli, migliori. Fruisce delle sue stesse parole dette o non pronunciate come in un libro tutto da sfogliare, le parole e i pensieri. La preparazione filosofica, approssimativa, e molte sigarette, insieme a piccole ferite da rimarginare, le consentono di certo un ordine all’interno del disordine, una forma all’interno del caos, un esserci all’interno di un possibile svanire. Svanire era questo, io credo per lei: privarsi dell’amore. Ma per lei Amore significa qualcosa come un orizzonte, e nel mentre avverte la perdita di uno sguardo sul futuro allo stesso tempo avverte la sconfitta dell’Amore. Ha perso la terra amata. Amore dunque, ma non solo per qualcuno anche per qualcosa o per se stessa, oltre la noia che l’attanaglia, e rende vacuo il risveglio e utile il primo caffè e la prima sigaretta. Solo che ora l’amore è diventato il suo straccio vecchio. La coperta di linus troppo logorata dall’usura e non più così rassicurante. La incontriamo così, ora. Ha sognato molto e cerca amore, quello personale soprattutto. Ha fumato troppo ed è stato così parziale l’ordine in cui è vissuta che non sa più esattamente come collocarsi, che spazio il mondo mi assegna, si chiede, credo deliri di nuovo intorno a qualcosa, una meta irraggiungibile. Il sogno. Si dice che il delirio sia un superamento del terreno coltivabile, lo scavalcamento sterile verso l’altrove che non si può non si deve frequentare perché è terreno sterile, sterilizzato. Ma il non coltivato oltre il limite non può forse essere fertilizzato? E divenire allora memoria di carta, per la natura che è identica nel tempo ma soggetta a trasformazioni, da un’origine verso una metamorfosi-accrescimento trasformazione sempre riproponibili, o rinnovati o da rinnovare. Perché il cuore viene spesso divorato, ma si può riconquistare, basta la tenacia di sapersi, forse riuscire a non confondere l’anima impigliata dalla potenza che lo stesso arresto dell’anima ha in fondo con sé, il principio di un cammino per un cuore-anima da riconquistare. Domande sostanziali come: ami? Sei buona? Conosci la bontà? Le risuonano come corde stese ad essiccare e che il sole abbia prosciugato per il frequente utilizzo-abuso. Musica troppo innaturalmente suonata. Preferisce allora nuove forme. Musica che non sia musica, credo, musica anche prosciugata da troppo sole e troppo fragore ma non abbandonata, musica che si concepisca nuovamente. Un delirare oltre, oltre i confini del già stato, oltrepassare lo steccato per coltivare una nuova forma-natura al di là della soglia del disseccato, ma senza oblio, perché la memoria torna come fertile presenza ma dimessa. Fertilizzare oltre il confine. Con le parole. Non lo sono forse sempre fertili le parole anche nel de-lirare, nel delirio di coltivare il non coltivato, dell’essere e dell’essere stato ma anche del sarà. Aveva voglia di morire un po’ e poi rinascere alla pace e al risveglio. Concepire se stessa nuovamente, delirare di nuovo forsennatamente, con animata sostanziale voglia di non arrendersi al quotidiano esserci senza speranza, ossia privandosi d’orizzonte, ma vagabondare invece con le parole per una nuova indeterminatezza e forse un orizzonte di parole di carta. Tentare non nuoce, si ripete. Parole-orizzonte… Il tutto per non morire, e protrarsi così come vorrebbe essere, cervello cuore fegato sesso, e armonia delle parti - una parola un circuito denso di parole, uno spirito rinnovato e come ribaltato, una carezza nuova e protratta, danno la cura, quella del cuore rinato liberato. E questo solo attraverso poche facili dimesse parole. GELO Un coro di voci sovrapposte rende faticosa la percezione dei suoni. Il bar è affollato i tavolini disordinati e sporchi raccolgono gruppi scomposti e disordinati di ragazzi e ragazze in una gazzarra di voci sovrapposte, sovrapposto fragore di suoni scomposti e andirivieni distratti. E’ un’inedia estiva, ultima propaggine di un sole che non scotta, le prime piogge allenano all’autunno e all’inverno sotto altro cielo, meno libero, più convenzionale, più sacrificio, meno scomposizione. La ragazza siede misurando gli angoli dei tavoli insieme alla sua angosciante magrezza. Al lato, seduta accanto alla colonna di marmo, sente spigolose le profondità di quel bailamme allegro, putiferio e sarabanda di buona sana festiva dimenticanza. “Quella?” Dice uno agli amici. Parlano di lei i giovani accanto. Ascolta la ragazza - fingendosi partecipe al gruppo al lato dal quale in realtà si ritrae, e così in fondo può meglio catturare il brusio e il mormorare poco sommesso dei ragazzi che la indicano con voglia. “Da’ retta a me, quella non te la dà, anzi sapete che vi dico non la dà ne a te né a te né a me” La ragazza pensava ai funerali, al decoro con il quale ogni cosa era stata disposta. Il suicidio del papà l’uomo generoso dagli occhi vivacissimi nero profondo a volte trascoloranti nel verde, il Fallimento, l’ossessione claustrofobica dei creditori. Dopo un Fallimento, senza più un tetto, come continua la vita, e come si cura un fallimento e qual è il futuro quando si perde tutto? Il papà non c’è più. Prima di morire hanno tutti tentato di salvarlo, non credere al denaro abbiamo l’amore, ma un giorno il papà ha detto non avrò più mille lire da dare ai miei figli e parlava di banche e banchieri con un rovello che lo ossessionava fino a smungerlo, tanto era bello, comunque. Occhi vivaci profondi nerissimi a volte verdi, barba folta scura capelli lunghi neri morbidissimi, ancora un ragazzo. E un giorno ha poggiato con un gesto d’abbandono, un addio, whight rose la barboncina dolcemente tra le braccia della tata della figlia, non l’aveva mai fatto, a lei la padrona di casa - così umana aveva eletto il papà a capo branco e impazziva al ritorno del papà la sera tardi dall’ossessivo lavoro. Le voci, sempre le voci, tante voci e tanti passi, l’avevano distolta. L’amica era venuta a portare qualcosa da mangiare.”Dovete nutrirvi” diceva Concetta e lo ripeteva sempre più volte “Io vengo per ripetere solo questo, voi vi arrabbierete e io lo ripeterò sempre” “Ma che c’entra adesso” risponde qualcuno in un tono alto, in un caos. “Non mi interessa, tu arrabbiati, io vengo solo per questo. Voi dovete sedervi e mangiare e assaporare” Lei avverte giustizia in quelle parole ma teme il coraggio di Concetta. “E se non la capissero?” Concetta è la filosofa collega della madre, e i filosofi possono non essere compresi. Concetta è un angelo. Diceva sempre di essere stata troppo puritana e un tempo si raccontavano ridendo di quanto l’avesse sconvolta la lettura di Anna Karenina “Continuavo a pensare ma che vuole questa, abbandona la famiglia e un figlio? e ha un amante!” e tutte ridevano, perché la mente di Concetta non è così, è alta, bella e troppo intelligente. Lei teme per tutti. Cambia tutto. Il papà non c’è più. E tutti discutono, vorrebbe chiudersi in cucina con Concetta, o sdraiarsi sul divano e chiudere gli occhi, ma tante persone discutono e sono discussioni accese, definire i termini della questione del fallimento, chi se ne occupa, non si sa ancora. Concetta porta piatti che mostra e dice con il vassoio alto tra le mani “questo ve lo mostro” - dell’insalata russa, un piatto ovale giallo canarino decorato con uova e tonno ad arte, e pasticcini mignon, molti perché molti in casa aspettavano discutendo non proprio sommessamente. “Si ma non sono da offrire ma da masticare e ingoiare”. Le parole complicavano tutto, trovare cercare parole adatte. Risposte del cuore? Complicato. Dov’è il cuore? “Dove preferite che sia sepolto?” “ per me fa lo stesso” risponde senza la voce giusta la ragazza e non trova la risposta. “Forse non qui è meglio la tomba di famiglia, è più in ordine “ dice qualcuno. “E’ meno disperso”. Sente il peso di averlo detto, con tono tanto aspro, forte, per prendere la decisione finale, ciò che rimane. “Non credo che conti comunque” aggiunge, ma desidera tanto la tomba di famiglia, dove ci sono gli altri, e il Nonno materno. E’ una bellissima tomba di famiglia, e da piccola coi nonni il giorno dei morti si chiamava un frate e si faceva dire la messa nella cappella e lei partecipava con l’acqua da svuotare e portare e si divertiva molto perché c’erano tante bellissime foto sul marmo, ognuno aveva scelto un modo e si parlava delle cappelle di ognuno, sempre fiorite. Lei andava col cugino più piccolo perché stavano sempre dai nonni, la Nonna e il Nonno. “Dovete comunque scegliere “ Si sceglie la tomba di famiglia, la famiglia di mamma, e ora la ragazza è più serena, non sarà perso nel Verano, è più vicino. Con la nonna paterna, dal nome di Stella Alpina ogni volta era complicato andare a cercare il figlio perso giovane, perché la nonna piangeva e si confondeva e lei non trovava la strada. Il papà, fratello di quel giovane zio dalla vita stroncata in un incidente a soli ventiquattro anni, solo un bambino, soffriva e continuava a soffrire quella perdita incolmabile. Ora anche il papà non c’è più. Franco, papà, E Carlo, zio Carlo. Alla ragazza il papà e la mamma hanno messo nome Alessandra Giulietta perché la mamma voleva Giulietta ma Franco e la nonna paterna, Alessandra. Così Anna la mamma si era trovata Alessandra tra le braccia mentre aspettava Giulietta. Secondo nome. I parenti e gli avvocati hanno infinite questioni da decidere, Il fallimento le Banche i creditori, Prima di morire il papà aveva pagato gli operai tutti, ma le Banche - alle ultime questioni ancora non ci si pensa, ora riordinare sbrigare accertare fogli numeri calcoli. Denaro. E’ complesso. Carte sul tavolo al centro, fogli analizzati e non riposti. Gli incartamenti si tengono nell’armadio della stanza accanto, dice qualcuno, una voce di donna, ricordarsi di trovare una disposizione - ”Qua manca qualcosa, Sei sicura di aver letto tutto?” – c’è una registrazione dei regali “costosi” tangenti ai quali il papà era costretto. Ma la mamma teme per i figli, hanno voglia di portare quella registrazione alla polizia e la mamma sa che è potere e il potere annienta due giovani. Anna è mamma e lo sarà sempre fino a diventare nonna lei stessa. Insegna Italiano e Latino è un’insegnante forse amata forse da qualcuno dileggiata, i giovani sono così e la scuola è così. La casa - le vetrate mandavano l’eco del buio nel giardino ed oltre, spazio chiuso dalla notte. Una casa splendida dalle pareti esterne solo di vetro e un parco immenso e selvaggio da ammirare con incanto distesi in poltrona con un libro in mano e la dolcezza del verde intenso delle querce secolari dei salici del cielo bizzarro dell’arcobaleno o del sole cocente o la pioggia furiosa. Amore per il passato trascorso così nel mondo incantato scelto per il bene della famiglia. Il papà simpatico e bello di una bellezza immane terribilmente forte ed esuberante amava ridere e dire sempre: “melius abundare quam deficere – prendi il meglio offri il meglio e avrai il meglio –“ Sarà il passato non è più il presente né il futuro”. Di notte invisibile, di giorno la brina fitta ricoprirà il prato fuori, il giardino così bello e scomposto. Selvaggio. La mattina c’è stato il boato. I figli sono a letto, dormono. Due piccole quadrate camere divise da un ulteriore quadrato e due archi con tendaggi ocra, poggiati ad aste dorate attraverso grandi anelli che pendono come giganteschi gioielli. Il primo suono è un boato, e schianta il cuore che batte. Il pensiero non cede. Non è non bisogna crederci. Cos’è un incubo suono? E’ la prima volta. Un incubo-suono che squarcia il petto e toglie il respiro. Un urlo. la madre urla chiama «correte papà s’è ammazzato». La porta del bagno. Papà è nel sangue. Respira ancora forse si può salvare c’è speranza aiutateci. Muore all’ospedale, in sala rianimazione. Lei lo vede mentre lo trasportano di corsa in sala rianimazione. La testa è fasciata ricomposta. Gli occhi aperti, i suoi splendidi occhi. Specchio di un dolore anima animazione da sempre incolmabile. Una signora anziana madre semplice e bella dice esclama dal cuore « povero ragazzo» amare lei e le sue splendide parole del cuore. Ragazzo è il papà di fronte all’anziana madre in quel momento madre di ogni ragazzo finito. Si ritorna a casa. Lei è in macchina con gli zii materni. Ripete lo zio sempre con tono alto come con un canto urlo lamento funebre “pover’uomo, l’ha ucciso la sua generosità, pover’uomo, pover’uomo, l’ha ucciso la sua generosità”. Accanto l’altro zio soffre smarrito col silenzio e l’ascolto per il quale l’ha sempre amato, perché è un uomo che ha la bontà scritta nel viso e negli occhi. Ogni parola, a volte gli sguardi, sono elogi funebri, Ragazzo generoso. Le parole degli altri quelle esclamate ripetute gridate col tono del lamento lo ricordano già per ciò che sempre sarà, il ragazzo generoso che amava il mare e la pesca subacquea. Wight Rose, la barboncina aspetta alla porta di casa, seduta come sempre aspetta da ore come faceva ogni sera, riconosceva da lontanissimo il rumore della macchina, e andava a suonare i campanelli che pendevano dalla porta di vetro e ferro lavorato oltre la quale delle scale di leggero ferro battuto portavano al grande cancello di ferro chiuso con una semplice catena e un lucchetto da ferramenta. Poi c’è stata la grande nevicata. A Roma. Dio ha in qualche modo salvato con la neve, che contemplare dalle grandi vetrate era riposo. E la neve è tanta è attesa silenzio bianco immacolato. Lenta la neve fiocca fiocca fiocca. La poesia che la mamma le raccontava prima di andare a letto da piccina perché a lei piaceva tanto la neve che fioccava e la vecchina che cantava la ninna nanna – ancora una volta mamma - E così di fronte alle vetrate con la distesa di bianco e la bufera di bianchi fiocchi aveva letto l’Idiota di Dostoevskij e se l’era divorato e poi molti libri, ma la madre era preoccupata per il tetto e voleva farsi ospitare dalla zia paterna per sicurezza. La madre è venuta a ferirla con le sue paure, la solitudine già l’attanaglia, e per lei, la madre, la solitudine è amplificata dalla neve, è naturale forse, è giusto. Teme per i figli. Ora dovrà essere padre e madre insieme, lei che era la giovane di rarissima incalcolabile bellezza si è trasformata. Un infarto. Il medico per i farmaci. Il metabloccante. La neve la separa da quel che resta, e restare significa unirsi ai figli. Crescerli? Ma la madre ha però interrotto spezzato la calma di un momento di divina grazia. La neve pacificava, il silenzio sopiva, la neve è manto di pacata placida remissione. La neve fiocca. La neve tanta in giardino da calpestare il meno possibile, la neve che cadeva dai rami, era l’intermediario giunto improvvisamente per una strana sorte a dare attimi giorni di conciliazione. La ragazza ritorna in sé, il fragore, scalpore di applausi concitati. Le risa brillanti di ognuno e sono tanti le servono a non essere comunque presente. Non può essere di fatto brillante in nessun modo. . “Sai l’ora?” le chiede urlando il ragazzo dalla bella testa riccia e nera girata verso gli occhi volti a lui, occhi profondi occhi negli occhi. “Non ho l’orologio” Manca le verve di una risposta al richiamo, si smorza l’allegro sorriso dell’altro, lei reclina involontaria l’invito alle chiacchiere, troppo composta, troppo seria nei modi, poco adatta al clamore della folla che ride. La ragazza ritorna al fragore, L’ultimo libro l’aspetta nel silenzio della camera. Emily Bronte. Leggendo spinge brutalmente da parte le voci, sempre le voci nella casa questa volta del mare, quella che c’è ancora quella che è rimasta, della nonna materna, Sempre con gli oleandri e i glicini in fiore e i limoni. Con tutti i parenti, zie zii cugine. Se nulla e nessuno l’avesse fermata al cancello al ritorno sarebbe stata riconoscente. Le parole divine di Caty la facevano tremare d’ansia per il ritorno, non riusciva a tener testa a tutta quella felicità intorno, alle voci, un coro, non si univa la sua. Però se Caty e Heatclif si sono amati si può amare anche così: Come solitari randagi abbandonati. “Non posso non amarlo, è più me di me stessa” le parole di Caty, la brughiera asseconda il pensiero colorato di verde e selvaggio di vento. Il selvaggio Heatclif è perso per Caty e per se stesso. Ma il ragazzo chi è, si chiede la ragazza e si volta. Un ragazzo che siede scomposto con una voce fragorosa . Il ragazzo si alza veloce “ Dimmi una cosa, tu non me la racconti giusta” prende una sedia e con un giro abile si porta al suo tavolino e le siede accanto “sei molto timida?” “Perché, mi trovi timida?” “Non ti ci trovi?” “La timidezza è giusta, dimostra rispetto, in fondo la sottovaluti” “Complicato, fai discorsi complicati” “Sì studio filosofia” “Io faccio architettura” “Bravo”. Niente paura mormora a se stessa. Senza casa e con una famiglia già disfatta, il peso di esserci non si sa come, né dove. La casa del mare è un riparo, sempre la stessa, da quando la madre e il padre lì si erano conosciuti e fidanzati. Ma lei non è desiderata, perché non sta benissimo, e oggi ha tolto il pezzo di sopra del costume e la zia ha fatto una scenata ”Non sarai più considerata figlia nostra, per noi questo eri, più che nipote, figlia, io mi chiudo in camera, come hai potuto, ci ha svergognato.” “il vostro puritanesimo è inclemente, riguarda sempre le vostre figlie, le altre sono perfette, noi imperfette”. E’ la sorella della madre, e in due generalmente dosano discordia e accordi. Ma ora è diverso. Ogni giorno mangiano come sempre da sempre tutti assieme, con i cugini e le cugine, ma loro stanno bene e lei sa di essere malata non ha aiuti ma si immagina nugoli di critiche piovute addosso non sa perché, se non perché deve inventarsi un futuro, ed è incapace. Rimane seduta in silenzio per ore sulle scale della grande scalinata d’ingresso alla casa anni cinquanta semplicemente cubica e immensa, un labirinto di camere una cucina con il camino. I tre scalini in alto prima del portoncino d’ingresso con la madonnina di ceramica sopra sono sempre il luogo ambito per le chiacchiere femminili. Chissà perché. “andiamo sugli scalini” si chiedono le cugine “no sono occupati ci sono la mamma e la zia”. Tre scalini una sigaretta e le chiacchiere riposanti. Siede e passa tutto, non vorrebbe spostarsi di lì, siede con un libro in mano. finge di niente e accumula qualcosa di non buono nella testa. Le parole ripetute di Concetta “Dovete sedervi masticare ingoiare digerire, sentire i sapori”. Cerca di darsi l’identità. Dopo le critiche, il disonore arrecato al pudore, è andata ad asciugare i piatti in cucina e ha pianto. Ma il pianto non era vero. Le lacrime però sono vere. La zia ha ragione. In quel gesto togliersi il reggiseno c’è già un insulto, di fronte al padre non l’avrebbe fatto. Quel gesto urla la solitudine e la morte del padre. Il naturale pudore non lo avrebbe voluto. Però pensava anche a quei film in cui la cucina è un riparo e le donne piangono in cucina. Si vede così come ripresa dall’esterno, e l’interno è la calma e l’accortezza con cui ogni goccia viene tolta col panno di cucina, piano lentamente, lucidando posate, riponendo ordinatamente. Teme le chiedano sforzi eccessivi. L’amore può salvare. L’incanto amoroso che lenisce le ferite. I libri evocano i mondi intorno al fuoco, la tranquillità del sacrificio, tessere ricamare aspettare. Il Sogno di Zola l’orfana tessitrice tesse pepli con arte straordinaria nell’attesa di Cristo, il suo amore lo sarà. Lo avrà per un giorno per il giorno delle nozze per poi morire. Sogno della vita la nuova aurora. Il ragazzo si chiama M. fa architettura, è bello, forse coraggioso e molto estroverso. A lei l’altro l’ha lasciata, la situazione in famiglia era troppo complicata. Le lacrime per l’abbandono sono anche nella secchezza della pelle. Asciuga i piatti, perché pensa che la cucina le ridia la vita. Nei film anche è così. E Jane Eyre ha sofferto, un collegio, l’esclusione, ma forte e decisa ha superato il suo calvario e si e sposata, perché ha una grande anima anche se la ricchezza le manca e anche la bellezza. Comunque la musica. La musica è la soluzione. Segue in provincia le conferenze di musicologi sulla sinfonia e la musica lirica, teatro in musica, e sono tornati come conferenzieri i due chierichetti della chiesa giù il vicolo. Sono affascinanti o è affascinante la musica e ha appuntamento per una cena con uno dei due che ora è un uomo e bello e libero dai conventi ma incarna una tradizione sacerdotale forte. Avrà amore da entrambi il giovane architetto e l’ex seminarista ora musicologo. Sense and sensibility scrive Jane Austen. E grazie al genio estetico della madre con quel poco che resta avrà un nido, una casa antiquaria in provincia preziosissima e di rarissimo fascino. Un inno alla gioia. Per dimenticare o ricordare sempre e per sempre. Una scalinata di marmo rosa di Venezia al centro della casa fatta d’archi e colonne di porfido rosa una balaustra liberty in ghisa vetrate liberty putti d’oro settecenteschi una collezione di madame in trine lampadari di cristallo di Venezia, la cucina con marmi di Carrara e libri e musica ovunque, una casba una quinta teatrale una casa d’artisti. Con quel poco che resta e i quattr’occhi lungimiranti della madre che studia molto e ha genio attraverso lenti speciali che le restituiscono il mondo. Segue le conferenze del chierichetto fatto uomo su “Il flauto magico” di Mozart. 1:30am 24 Feb. '13 il flauto magico Breve premessa Sintesi della trama dell’opera Il Flauto magico dal Dizionario dell’Opera …In un antico Egitto immaginario. Un paesaggio montuoso con un Tempio sullo sfondo. Il principe Tamino disarmato, è inseguito da un serpente; sfinito cade svenuto. Dal tempio escono tre dame velate che uccidono il serpente, e dopo aver ammirato la bellezza del volto del principe, si allontanano per informare della sua presenza la loro signora, Astrifiammante, la Regina della Notte. Tamino, ripresi i sensi, crede di dovere la propria salvezza a un curioso personaggio comparso nel frattempo: è Papagheno, un uccellatore vagabondo vestito di piume, che canta accompagnandosi con un piccolo flauto di Pan. Papagheno conferma le supposizioni di Tamino, ma subito le tre dame lo smentiscono e gli chiudono la bocca con un lucchetto d’oro. Poi le fanciulle mostrano al principe il ritratto di Pamina, figlia della Regina della notte. Il giovane se ne innamora all’istante. Con fragore di tuono appare nel cielo Astriffiammante: ella spiega a Tamino che la figlia le è stata rapita dal malvagio Sarastro e gli chiede di liberarla , promettendogliela in sposa. Le dame donano al giovane, che si è offerto di salvare Pamina un flauto d’oro dai poteri magici: liberato Papagheno dal lucchetto consegnano anche a lui un dono un carillon fatato e gli ingiungono di accompagnare Tamino nell’impresa. Sala nel palazzo di Sarastro, Pamina che ha tentato di fuggire per sottrarsi alle insidie del moro Monostatos, viene ricondotta indietro da costui con la forza. Sopraggiunge Papagheno, e Monostatos, spaventato dal suo strano aspetto, fugge. Papagheno rivela alla fanciulla di essere stato inviato dalla Regina della notte, insieme con un giovane principe che l’ama, per liberarla. Un bosco. Guidato da tre fanciulli, Tamino giunge dinanzi a tre templi: mentre l’accesso a quelli della Ragione e della Natura gli viene impedito, la porta del Tempio della Sapienza arcanamente si apre. Un Sacerdote spiega a Tamino che Sarastro non è un essere malvagio e che Pamina è stata da lui sottratta all’influenza materna per superiori, giusti motivi… Atto secondo Sarastro chiede ai sacerdoti degli iniziati di accogliere Tamino nel tempio, dove verrà sottoposto alle prove che gli consentiranno di appartenere alla schiera degli eletti e di sposare Pamina…la richiesta viene accolta e tutti invocano Iside e Osiride affinchè donino alla nuova coppia spirito di saggezza. Le prove Prova del silenzio Prova del fuoco Prova dell’acqua Superate le prove i Sacerdoti celebrano la vittoria della luce sulle tenebre. L’amore di Tamino e Pamina Il Flauto Magico” Frequentava le conferenze del ragazzo. Ora il ragazzo è un uomo. Il suo volto ha qualcosa di non definito, non calcolabile. Ha descritto un’opera. Un ingegno particolare, ma oltre a questo molte ombre si addensano intorno a parole troppo irreali e troppo giuste per essere solo frutto di studio. A chi si rivolge, si chiede? A me? «Mi guarda senza guardarmi, mi osserva e non guarda e ascolto quella melodia di strane parole come una funambola all’inizio della sua carriera di artista. Sono attenta, non perdo una parola. Ascolto per non perdere l’equilibrio delle parole». L’opera è il Flauto magico di Mozart. Il ragazzo è molto veloce e si stenta a prendere appunti. «Vorrei ricordare non solo capire, eppure quelle parole sono troppo esatte per non essere comprese e troppo presenti per non essere dimenticate. Capisco le parole, il loro ordine il senso dei gesti, alcuni errori ripetuti, lapsus frequenti, scambi di nomi. C’e però un mistero». C’è un incanto che prende tutte, eppure lei avverte se stessa come non si è mai avvertita. La percezione di un centro e di un centro forse virtuale. «sto leggendo Alice nel paese delle meraviglie e attraverso lo specchio, mi sembra di attraversare meraviglie attraverso giochi di specchi. Alice…non fece neppure in tempo a pensare che era meglio fermarsi, perché si trovò subito a sprofondare lungo quella specie di pozzo veramente profondo. O il pozzo era molto profondo oppure Alice cadeva lentamente: il fatto certo è che , prima d’arrivare in fondo, ebbe tutto il tempo di guardarsi intorno e di chiedersi che cosa le stesse capitando «La presenza di me era così fisicamente percepibile da risultare l’unica presenza all’interno di una folla neanche anonima». Crede di capire eppure non comprende. E non si chiede, solo partecipa e osserva, come negli scaffali di una preziosissima libreria alla quale si è inadeguati, perché è suono vista e qualcosa di non definibile, una memoria, una versione costruita per un fine… E’ tutto questo messo, insieme, «l’artefice è lui ma il centro immancabilmente «sono io» si dice la ragazza, presa da un turbamento che la rapisce. Il giovane. Descrive la corsa in musica, la corsa è giovane i bimbi dice corrono non verso una meta corrono per il solo correre, parla di un’energia interna e dalla natura della corsa dei bimbi come loro propria natura. L’Opera è il flauto magico. Il video mostra Tamino che entra in scena correndo inseguito dal serpente, e la musica è veloce con schiamazzi e come forti pestate. E’ bello è una musica descritta umanamente. Correndo calpestiamo, e allora la musica riproduce esattamente il suono. E’ un giovane pestare, una corsa disordinata, una fuga mal eseguita, perché la direzione di Tamino bambino è la direzione che non può esserci nei bambini. Fugge e sgorga l’energia correndo, trapassando dall’una, la fuga, all’altra la corsa senza un fine e un traguardo. Usa queste parole, come prese da una memoria che torna e da un luogo colto a prestito ma esattamente osservato da una visuale obliqua, come di traverso, «non deforma nulla dice ciò che suona a tutti noi come il nostro proprio vissuto la nostra personale memoria, a volte il rimpianto». Evoca ciò che non si ricorda se non come un passato perduto, c’è una giovinezza il lui invidiabile, la giovinezza di chi già non ha nulla da sapere e racconta agli altri ciò che hanno vissuto e non potranno più vivere. I luoghi santi della giovinezza. E la giovinezza è amore… La sua versione è tale da diventare quella di ognuno. E’ un’arte magistrale, è molto poco in concreto il discorso, brevemente riassumibile, è un dire ipnotico nel quale ognuno vuole riconoscersi per perdersi e ritornare… In tre conferenze di tre ore ciascuna, le parole dette sono molte, l’arte di dire è raffinatissima, e il vissuto di ogni parola è misura del presente, l’ascolto, e della memoria personale di ognuno, il passato. Dentro ognuno si cala il ricordo. La versione appropriata al ricordo la dà l’ascolto delle parole del ragazzo. Ci fa sognare, «a me fa sognare», dice e pensa la giovane. «Io sono il presente, sono l’unica nel presente l’unica lì a sognare ancora e a sognare un futuro d’amore e d’assoluto». Quattro i personaggi in gioco anzi cinque, Tamino e Pamina, lo spirito, Papagheno, uccellatore dalle piume e Papaghena, la carne, ma in realtà non parla di sensi lui, ma dei giovani che di spirito poco vogliono sapere e invece di contorcersi nelle riflessioni di noi che dallo spirito siamo posseduti trascorrono la vita tra discoteche e giochi e spiritosaggini. E Astrifiammante, la Regina della notte, i lati isterici delle donne, delle madri, dice lui. Accenna al suicidio spesso. “Gli adulti si uccidono per denaro, il giovane per altro, anche solo perché è giovane”, Cita aneddoti romantici sul suicidio, Kleist, per esempio, che cerca una donna per uccidersi nell’acqua la trova e poi lascia che sia solo lei a uccidersi. E’ una strana esaltazione del suicidio, Romantico e giovane. Insiste molto poi sul Tempio, l’educazione sacerdotale, e il contrasto tra il flautino di Papagheno e il Flauto magico di Tamino “Ora scusatemi,…pausa, Il flauto di pan il flautino di Papagheno sta per l’organo sessuale” In sala echeggia una risposta soffocata di tutti. E’ piacevole ascoltarlo è divertente, lo sa dire lascia intendere una sua potenza. Il flautino non gli appartiene. E infine il carillon magico che incanta e seduce come in una sospensione, come quando le giostre sembrano fatte apposta per essere solo osservate e fermarsi e fermare i pensieri e perdere la cognizione del tempo e dimenticare di aver vissuto di vivere il dolore.. «Mi avverto diversa. Mi proietto attraverso le sue parole in un futuro senza passato. Non penso alla memoria, la sto abbandonando, e sono troppo giovane per non subire l’incanto di un futuro attraverso l’unità stessa della memoria» pensa la ragazza e torna a casa e prende appunti sul suo diario, ma le appare uno svilimento, perché sono parole troppo presenti sono «le parole se stesse» così le definisce «le mie parole hanno il se stesso, mi ci imbatto, le trovo per caso cerco di sfuggire ed emergere, ma il se stesso delle parole è discordante e mi sembra non di disputare un incontro, ma di allontanarlo» Prova a prendere il dizionario dei luoghi comuni, a modificare, legge Byron e Puskin, Eugenio Onegin, ma è sempre se stessa, variabile mutabile, mentre lui il giovane, discute dei Werther e dei loro tormenti, e al contrario dell’importanza capitale di condurre la vita secondo schemi di regole e leggi fisse e immutabili, come nell’arte della fuga di Bach. Le leggi del contrappunto «E’ inverosimile, o è un falso o un paradosso, è troppo giovane per questo» scrive la fanciulla. .Ed è già memoria, è già tutto detto attraverso l’oblio delle parole. «L’oblio mi spezza le redini. I legami mi si sciolgono e l’unica cosa che avverto smisuratamente fuori luogo sono le mie nude parole. Sono casuali, quelle di sempre quelle inevitabili, quelle senza storia o senza proiezione, semplici parole con tutta la pesantezza delle pietre lanciate. Incanta i miei occhi». Ascoltare con gli occhi dà una specie di euforia. Sembra che gli occhi percepiscano un’eco rimandata da un passato che annuncia un abbandono. Tamino e Pamina, «due assoluti invincibili». E’ lei a dirlo del tutto involontariamente . «Perché invincibili?» Chiede lui. «Pamina non può essere comunque vinta». «Perché?». «Ma Pamina rimane se stessa anche attraverso un’altra veste o qualsiasi veste. L’anima è la volontà di vivere è il combattere, e non solo segue Pamina ma ha l’anima per combattere. Ai quattro angoli manca qualcosa, una forza in più, una pari dignità d’anima. E poi sbagliare, sbagliare per cosa, per rimanere dove, e perché?» «Ma noi capisci cosa sbalglia Pamina? Sbaglia nell’affrontare con lui le prove, sbaglia perché lo segue, mentre dovrebbe fermarsi. Non le appartengono le prove, eppure non rinuncia a lui, non aspetta partecipa».«Ok, sai ciò che trovo veramente orrendo? Che le prove le vedi di lui e non di lei, lei è amore, ma non solo» «Sono nomi strani nomi di nessuno, nomi irreali a non adulti» scrive poi la ragazza nel diario, «perché si ostina a volere Pamina inferiore?. Storna lo sguardo, vede un orrore in me? Forse, forse c’è qualcosa nelle mie parole di troppo. Un tono, un modo, un qualcosa di impossibile. Sento di essere disumana, non sono nessuno, o forse non ho le parole o la voce e comunque non esiste in lui nulla da capire. Sta affermando, è rivolto a me, e alla fine chiedo: “Ma chi sono Tamino e Pamina?” “Allora hai capito risponde“». Nel finale dell’opera interviene in modo strano quanto affascinante. Un finale che colloca Tamina Pamino, In una lontananza offuscata, un mare, un’isola, e da lontano si intravede una veste sacerdotale di entrambi. Si sono persi entrambi, sono sacerdoti, e forse l’immagine è quella di un equilibrio di morte. Le prove, la prova del silenzio del fuoco dell’acqua, sono superate ma ciò a cui sono condannati è la loro stessa serietà, il loro gioco estremamente serio e la vulnerabilità di lei che segue un destino non proprio. «”che destino?» Chiede di nuovo. la ragazza. Tiene il suo diario molto perplessa per le sorti di Tamino e Pamina e infine racconta nel suo diario da cui attingiamo «Mi guarda con occhi vacui e gira la testa guarda in basso. C’è un rovesciamento, un ribaltamento delle prospettive in tutto ciò che dice. Il centro sono Tamino e Pamina, e alla periferia Papagheno e Papaghena. Ma mentre riferisco su questi fogli sparsi il contenuto logicamente catturato, so anche che emotivamente è a me che si rivolge. E mi chiedo quali prove dovrei superare, e in quale Tempio regno dovrei entrare. Ha gesti sensuali , ma un colorito esangue. Gli ossequi alla fine di ogni conferenza sono immancabilmente cerimoniali durante i quali ci allontaniamo, perché le mie parole sono così mie e così carnali, sensuali. Cioè vuote?. Nella circonferenza alla quale appartengono le sue stesse parole carillon io aggiungo un raggio, impulsivamente, per fare da Pamina, vorrei dire, e invece temo cosa? Di essere la solita Papaghena, la solita sciocchina! Non comprendo quello sguardo senza espressione, quel vuoto negli occhi se rovista dentro trova qualche cianfrusaglia e molto poco Spirito. Quando mi si rivolge c’è quell’indecisione della parola che fino a poco prima non c’era in lui. E’ come se scendesse dal pulpito, è un Dio privato del suo regno, della potenza della distanza. Le sue parole ora sono sue e mie, anzi nostre. Altri discutono. Risponde senza guardarmi, ma sento sempre di essere un centro. Le parole ora sono di tutti, sono risposte, e di nuovo manca quell’evanescenza del monologo, quell’intenzione diretta a chi solo ascolta senza nulla dire. Non ci sono contenuti, ma non comprendo ancora. Comprendo però la sua fatica ad avvicinarsi, Capisco quanto orrore abbia ora delle parole, e negli occhi da vicino vedo ombre di incalcolabile vuoto. Qualcosa preme nel petto. Non è un dolore, ma l’affanno di essere troppo osservata, innaturalmente osservata. Quel momento è impresso nella mia mente e ha la nitidezza di una foto a colori.. Gli stessi gesti di lui li ho nella mente come un imprinting, una forma di orrore splendore, lo splendore di un sogno d’assoluto che già va frantumandosi prima ancora di essere pensato. Il destino di una morte in vita per una resurrezione in vita. Ogni volta aggiungo qualcosa una parola una definizione una precisazione e mi accorgo involontariamente di parlare solo d’amore. E’ Mozart o Armony. Eppure lui accoglie le parole con il fastidio di un troppo. Ne sto facendo un’oracolo d’amore. Ma insieme le pesa e le rimanda nella loro esattezza e verità strappalacrime. E impensabile un amore per un nuovo Mozart, ma allora tutti sono dei Mozart? E Papagheno? Aggiungo, non sarà una dialettica di Tamino e Papagheno. “Forse è una rovina, forse lei può rovinarsi, ma non può comunque morire” «Credo di essere presa da una vertigine, è l’amore che sognavo? Ma l’uomo che amo, che per lo più è un ragazzo, e questo lo rende perfetto, può essere tale? Ossia Tamino che in alcuni momenti di raro splendore si scioglie e si rende Papagheno solo per amore?. Tento di risalire da un qualche strano abisso in cui mi si sta collocando. Perché parlo così tanto di Pamina, perché cerco per lei la salvezza, perché sento le parole specchiate, e non riesco a fermarmi, qualsiasi cosa lui affermi io la ribalto in un destino di salvezza. La mia risposta sgorga comunque da un luogo sconosciuto. Mi sento ogni volta gettata a terra e ogni volta mi rialzo frastornata ma sono ancora io. Ho l’impressione di essere schiaffeggiata. Purtroppo è blando, non mi schiaffeggia, non mi insulta, non fugge irritato dalla folla di corteggiatori intorno. Ho paura di qualcosa, la fine è tragica, vorrei concepire una salvezza, eppure è così inutile discutere di amore quando si tratta in realtà di musica solo Musica!. Eppure tutti ci stiamo invischiando in questo desiderio di amore. Le nostre parole sono molto personali e vissute, intorno all’amore. E’ quasi ridicolo. Ognuno senza volerlo parla di sé, e tutti allegramente ognuno col suo bagaglio, migliore di qualsiasi squallido presente, sovrapponiamo aneddoti di amore e abbandono, e la musica è quella chanson che ci fa ricordare il momento in cui decidevamo che sì era meglio amarsi da lontano, amarsi per sempre pur sapendo, e questo lo dice bene Wenders in Paris Texas, dico io per vezzo, citandoun capolavoro, ma non so se c’entra, quanto sia impossibile ed inutile la vicinanza, quanto ci distrugga e ci annienti. E’ molto eccitato anche un uomo che credo stia vivendo una relazione molto difficile, e sembra indeciso sull’esito e sul futuro. Sono giochi involontari. Sta giocando con noi e tira fuori i nostri passati e il nostro presente, e ci mostra come si tratti sempre e solo di amore e di abbandono. “Quello che mi ha lasciata si è sposato ed è ingrassato subito dopo, già lo vedo con le pantofole e il giornale” dico con un fil di voce, è l’unico momento in cui ride sorpreso. Sono l’unica a capire, mi dico. L’altro ragazzo se la prende con me, è irritato, trova sconveniente la mia risposta, non pertinente. “Voglio dire, è comunque Mozart”. Il problema è che è innamorato di me e soffre di gelosia. Lui sorride di nuovo, parliamo di noi o del Flauto Magico?. Ma che situazione è, mi chiedo spaventata, è tutto così affascinante e tutto così strano. Sento di dover allontanare un pericolo, e sono sempre le parole a invischiarmi in qualcosa di sconosciuto, una spirale verso la quale sono attratta dalle parole. Sono parole-calamita, un dire solo per gioco eppure esaltante per tutti e di fatto si tratta di Teatro in musica. E’ un dire che calcola. Una combinazione soffocante. Percepisco tutto questo e già sono in qualche modo legata. E’ il primo laccio. La combinazione delle parole, mi fa avvertire il peso smisurato di ogni mio intervento. Cosa manca? La causalità del dire, la naturalezza di una fondata riflessione intorno ad un oggetto esterno. E’ arte?. E’ sapere? E perché applaudiamo così coinvolti, così affascinati da un mondo solo intravisto nella musica ma profondamente sentito dentro ognuno di noi. Ci ha dato la memoria, ci ha fatto dimenticare Mozart e fa nascere in noi il sogno di un’esperienza da vivere e in parte già vissuta. E’ desiderio sublimato, la musica sostiene la memoria personale con delle sospensioni di ascolto sublime. Peccato non li abbia saputi valutare i miei uomini, penso, ho giocato poco con loro, li prendo troppo sul serio, veramente troppo. L’amore non si calcola. Solo chi avesse un vuoto totale alle spalle, o rimpianti di ciò che non ritorna può sentire un’esclusione e il dolore di una perdita rinnovato da qualcuno che proietta una speranza, se il tempo consente speranze. Le parole. E’ il peso esatto delle parole. Parole in cui ci si rispecchia, parole specchio di un amore, i miei Delly me lo dicevano, parole volute per un fine sconosciuto. Ma il fine è amore? Sembra un gioco molto serio. La passione di quel calcolo esatto di parole e amore, quel modo di costruire un puzzle dandoci l’oblio del passato per un futuro da sognare è il calcolo di qualcosa di impronunciabile? Rispondere è impossibile, le domande lo irritano, significa parlare di sé e solo di sé. Fuori da quell’auletta scarna ma romantica è inevitabile forse per un’incoscienza e un’esaltazione improvvisa non riconsiderare il nostro passato e noi stessi, e seppure alcuni tra di noi hanno una perfetta conoscenza della musica siamo trascinati da qualcosa che forse è sogno, forse illusione, e memoria di libri, aneddotica amorosa, i casi letterari di follia amorosa, e sempre si parla in un coro di voci sovrapposte, di sé, dimenticando il resto, nel caos di un’ esaltazione di nuovi eroi ed eroine, in crocchio allegri e orgogliosi di vivere da sempre ciò che quel giovane di talento, che incanta e seduce, ha descritto come storia della stessa giovinezza. Aggiunge una cosa, sempre con modi e toni che oscillano tra il parlare di sé e il considerare con oggettività il mondo, e attraverso le sue stesse parole gli altri leggono se stessi. “Il giovane supera l’amore. Ma chi di noi non ha lasciato pur amando. Insomma io mi ricordo che l’amavo non avrei voluto altre che lei ma le complicavo comunque la vita con un gusto anche un po’ sadico per la sua sofferenza perché guardavo inevitabilmente oltre, perché già sapevo che l’avrei dovuta lasciare pur amandola ma questo doveva costare, a lei e a me.” Sento una ferita, forse è gelosia, non vedevo altre che lei era lei che amava. Esalta in questo modo l’amore e se stesso, e suscita un desiderio, il desiderio di essere scelta per l’esperienza assoluta, quella dell’amore così descritto, dell’amore potente perché la voce i modi i gesti i giochi stessi della voce creano un’illusione di potenza e di qualcosa di sconfinato mai provato prima, mai sognato perché nessuno fa sognare attraverso poche facili parole un regno così misterioso, un regno difficile da definire, un modo del sogno che si incarna attraverso la sofferenza, ma non riesco a capire di chi sia la sofferenza, di chi parla, descrive in fondo un’intenzione di sacrificio, un sacrificio di una donna, e un dolore mai superato. Allora o scritto un racconto sul primo ragazzo che mi ha lasciata. Vado ad aprire. Alzo la cornetta del citofono, “vieni” e spingo il pulsante. Aspetto, e dopo un pò lo vedo percorrere il corridoio, deve aver fatto una corsa. Ora il tempo passerà ad ascoltare l’impercettibile voce del suo lasciare intendere, è in ogni suo gesto e in ogni sua parola, tutto lascia intendere, che mi ha abbandonata ed è il più forte, ma non vuole lasciar intendere che questo per me non costi sacrifici, lacrime, ferite, mentre io conto i suoi gesti e le sue parole come se manegiassi un giocattolo smontabile. I pezzi sono sempre quelli, si monta e si smonta, ma questo è un suo gioco incosciente, perché gli manca uno specchio ,perché gli manca il cielo per pensare. Tiene il casco con un braccio, e sbuffa per sottolineare il caldo la stanchezza e la giornata di lavoro. Non ci faccio caso, si passa la mano sui capello radi e rasati. Gli dico di entrare e non far caso al disordine. “perché ti sei vestita così?” chiede, e lo trovo come sempre stupido “è un vestito, cos’ha che non va?” “lo trovo eccessivo” ci tiene a dirlo, sottolinea inoltre così la mia timidezza, lo ha sempre fatto, ma non me ne importa, solo un po’, anzi mi infastidisce. Lo fa apposta, so cosa vuole dire, vuole lasciar intendere che non ce n’è bisogno, non per lui, e il mio modo di vestirmi non gli è mai piaciuto. “Come stanno i tuoi?” “bene. Senti siediti, preparo un caffè, ne ho bisogno”. Mi urta subito il modo poco civile di entrare in casa mia, non so se se ne accorge, E’ di fatto il suo modo, è una grossolana scortesia, e un’affermazione di possesso. Si sente di casa ovunque, è la sua alternativa all’essere un “materialista”. Il sentirsi di casa significa possedermi, è purtroppo un cafone nei modi, per quanto la sua famiglia sia tra le migliori. D’altronde l’anticonvenzionalità è il suo orgoglio, e ormai è troppo tardi per educarlo a modi più civili. Si guarda intorno osserva gli oggetti, con lo sguardo e un lieve tentennare del capo mostra l’intenzione esplicita di un giudizio che vuole essere negativo. E’ una sua forma di invidia. Vado in cucina ma lo prego di attendere nel salone, non mi piace essere guardata mentre preparo il caffè e inoltre la cucina è in disordine. Li definisce convenevoli ipocriti, io mi sento inseguita quando qualcuno entra in cucina, desidero preparare il caffè o altro da sola. E’ una delle mie piccole idiosincrasie. Non posso spiegarlo, e quindi spesso le amiche o gli ospiti entrano in cucina. Questo mi rovina il gusto della solitudine, non sono per niente casalinga, ma la mia cucina è così originale che qualsiasi intrusione mi appare una violazione alla privatezza. In cucina mi sento protetta, sono sola e pregusto il caffè. E’ un piacere, e mi distoglie. D’altronde so cosa lui ha da dirmi e non ho nessuna curiosità, le solite parole e il mio silenzio. Vuole spiegare cosa è andato storto. Dovrei dirgli che non me ne importa, ma non lo capirebbe. Odia lasciare senza lasciare rimpianti. Ama i miei rimpianti, in realtà sa quanto avverto volgari le sue parole. Il problema è banale: desidera da me un riconoscimento di una profondità che purtroppo non ha, e ogni volta è sempre peggio. Non riesce a darmi spunti, e io cerco di abbreviare le sue visite. D’altronde se questo lo umilia, gli lascio credere ciò che vuole, non ha da dire molto di noi, e io non ricordo quasi nulla. Il caffè è pronto. Prendo le tazzine, lo zucchero e porto in sala. “hai molti mobili, troppi” “perché troppi?”. “A cosa servono? Che te ne fai di tutta questa roba?”, “Può essere, ma cosa te ne importa?”. So che questo lo irriterà, prende spunto da “cosa te ne importa”. Il suo profondo desiderio è leggere in quel “cosa te ne importa” un rimpianto, un’accusa di abbandono, la ricerca di un contatto” e non trovandoci poi altro che un normale “cosa te ne importa” si sente svilito. Per me è semplice. Gli sto solo sottolineando quanto poco lo riguardi, lui lascia intendere la sua superiorità e la superiorità di chi abbandona, ma non avrebbe senso spiegargli che mi sento libera perché non ama crederlo. La vuole far diventare una lite e non ho voglia di sprecare parole, sono inutili. Non si tratta neanche di un pregiudizio, è il suo desiderio, essere il centro di un’attenzione. E’ un orgoglio forse molto maschile, ma non azzecca mai i modi. Non riesce a darmi un rimpianto. Sente minacciato il suo potere, ma d’altronde non è una richiesta d’amore, forse invidia, del mio silenzio e della mia noia. Trovo sciocco il sorriso, non sincero, potrebbe sinceramente sorridere di tutto e sorridere anche con me di tutto. Ma questo per lui significherebbe perdere. “E’ che ho sempre desiderato il tuo benessere, e non sono riuscito mai a trovarlo, né a vederlo”. Non ho risposte. Il mio benessere non è con lui, lo trovo piuttosto volgare. Ha in odio il mio silenzio, lo sente carico di una verità, di un vuoto che percepisco in lui. Vorrebbe degli orpelli, degli ornamenti di parole per rendere poetico il momento. “mi dispiace” rispondo. Questo lo manderà in bestia. E’ un libro aperto, desidera qualcosa come uno stupore, un sottolineare la profondità del suo animo, la ricercatezza della sua sensibilità, e odia il mio sguardo. So che è vacuo, ma non ho niente da dirgli né da rimproverare, semplicemente trovo il lui un vuoto, e lo privo involontariamente degli orpelli fino a renderlo nudo. Non comprende che non ho nessun desiderio fisico di lui, e questo rende inutile qualsiasi spiegazione. Lui ha conservato intatto il desiderio fisico di me, ma è il desiderio fisico in realtà di qualsiasi donna, e non vuole rendersi conto di quanto poco abbia importanza per me. Nella sua nudità riflessa non vede nulla. Si ama solo quando gli orpelli gli rendono l’illusione di se stesso. Non oso dirglielo. In quel momento il suo vuoto è il mio vuoto. Non mi sfugge il minimo particolare del suo volto, e ne provo fastidio. Le stesse espressioni, non cambiano mai. A volte basterebbe un visibile e improvviso rossore a cambiare tutto. Non arrossisce mai, è un estroverso ma non pensa nulla pur con la sua buona dose di intelligenza. “Te lo dico, ha un certo punto non ce l’ho fatta più, ero sempre io a dover parlare, credevo nella tua sensibilità, ma non la dichiari” “E allora?” “E allora che cazzo vuoi?” alza il tono “io non voglio proprio nulla, non mi serve” Dovrei aggiungere nulla, ma tolgo l’ultima parola. Non mi voglio spiegare, non ho molto da spiegare. “E allora perché ti crei sempre questa fama di ragazza sensibile?” “Cosa c’entra?” Di cosa parla? Chiede parole che non ho per lui e si rispecchia in un vuoto. Quando il silenzio lo sovraccarica sorride come sadicamente “Ecco il tuo sorrisetto” lo sottolineo sempre ma per fargli capire che se vuole parole deve prima averne. “Stronza” lo dice tra i denti, sibilando. E’ lui stesso a non avere parole, ed è molto chiaro. “lei ama il mio coraggio, e la mia forza, è la prima cosa che mi ha detto. Non trova in nessuno lo stesso coraggio” Non gli faccio notare la superficialità dell’affermazione, manca addirittura un contesto. Purtroppo è così, il contesto delle parole gli manca. Ora questo vuole essere anche un suggerimento, del tipo”lo riconosci anche tu finalmente?”. “E’ probabile, ma non so che dirti nel merito”. Mi sto stressando, ho un senso di nausea. Vorrei che se ne andasse. “Senti io mi devo preparare adesso, ho poco tempo da dedicarti, mi spiace” dico in preda alla claustrofobia. “Va bene vado anch’io, sono stato già troppo”, si è alzato di scatto, desiderava rimanere, è stupido dire “vado anch’io” considerato che siamo a casa mia e “sono stato già troppo” quando è lui a desiderare questi incontri. D’altronde è il suo problema. Vorrebbe gli riconoscessi una cultura e una profondità che non ha. Vorrebbe che parlassi di libri letti e di ciò di cui si fa un orgoglio insincero; perché a parte qualche sporadica lettura leggere lo annoia, ma dirglielo è inutile. Finirà col citare il solito libro, lo cita da sempre sottolineando la stessa particolarità, non del libro ma sua personale, il personaggio nel quale si riconosce. “L’hai letto poi L’arte della fuga di Pontiggia?” Non l’ho letto ma gli vengo incontro “In chi ti riconosci?” “E’ strano - intanto accenna a un riso, questo sta per “In quel libro ho scoperto una mia natura speciale” - non accade a nessuno, ma non mi vedo in chi cerca, ma in chi è fuggito. E non si troverà mai più. E’ un giallo senza esito. Chi fugge scompare ed è inutile la ricerca. Vittorio è rimasto piuttosto perplesso. E’ raro identificarsi in chi non c’è, non accade praticamente a nessuno” “Ti ha chiesto Vittorio se questo ti è accaduto durante la lettura o anche nello stesso finale?” (Nel finale la ricerca rimane un’indagine senza soluzione). Vittorio gliel’ha sicuramente chiesto.. Un’ espressione seria “Anche nel finale” Dimentica la domanda ha fretta di arrivare alle sue risposte, e ora la risposta è sempre la stessa. Non capisco una cosa: cerca un riconoscimento, ma di cosa e perché e perché proprio da me? Ha appoggiato intanto il gomito ad una mensola, come a voler proseguire una discussione di raro interesse. tiene il casco nel braccio, e io senza volerlo guardo insistentemente il casco nella speranza che si decida ad andarsene. Nota la direzione del mio sguardo. “Guarda mi dispiace devo proprio andare” e sottolinea le parole spostando il casco nell’altro braccio. Vuole comunque credere nella mia sofferenza. L’idea della mia sofferenza gli è necessaria, forse cambierebbe il suo modo di raccontare questa storia, vuole una ricercatezza della memoria, qualcosa da esibire, un piumaggio ornamentale. Il suo dispiacere è il non avere parole per raccontarmi, ma non le trova in se stesso e io non ho da darne a lui. E poi che rottura, vuole sempre dimostrare qualcosa. E’ solo arrogante. Taglio corto “In effetti” “va be’, comunque” calca sul comunque, sottolinea con questo il suo andarsene altrove, un andarsene molto speciale. “Non scomparire però” non coglie la mia ironia buona, pensavo all’Arte della fuga, “Non ti riguarda” E’ strano come la sua estroversione gli faccia dimenticare sempre l’ironia. Da me in realtà vuole il sesso. Sono bella. Ma io no non ci voglio stare sono stufa e poi perché è finita. Forse perché il suo tono di voce è sempre troppo alto ancora non conosce l’ironia. “Dove vai adesso?” “E vado, non lo so dove vado, e non me lo chiedere sempre” è una domanda come un’altra e conosco già la risposta “Ok comunque adesso vai perché devo veramente preparami”. Lo accompagno alla porta, “ciao” “ciao”, sono intimidita, ogni volta che accompagno qualcuno alla porta mi intimidisco, mi sento poco ospitale, e mi sembra di lasciar andare gli ospiti senza aver dato loro molto. Quando si giunge ai convenevoli del saluto inizio a credere di aver offerto una brutta ospitalità o di non aver saputo godere abbastanza della compagnia, e appena chiudo il portone ho la sensazione macabra di tagliare fuori il mondo o di esserne tagliata fuori. Ne ricavo sempre una reale impressione di solitudine e vuoto. Mi accade sempre così.. Sono i momenti in cui mi sento un po’ abbandonata. La mia casa è molto strana, molto barocca, molto disordinata. E’ carica di oggetti, ha vetrate liberty, tappeti persiani, archi con colonne, soffitti molto alti con stucchi, librerie troppo cariche, collezioni di porcellane, e l’arredamento e la disposizione dei mobili ne fanno una casa d’antiquariato più che un convenzionale appartamento. Sarebbe necessario abituarsi a spolverare regolarmente gli oggetti, trovare un detersivo per i tappeti, migliorare le librerie e ordinarle, riempire sempre il frigorifero e tenere bibite in fresco, rinnovare la biancheria e acquistare qualche tovaglia nuova, ma si può sempre fare, basta decidersi. Insomma scopro improvvisamente un elemento vanitoso, sta dicendo del suo potere nei confronti delle ragazze, di un potere di seduzione, e del sacrificio necessario. Non è diverso dall’altro, ma spero lo sia, perché con l’altro la noia è stata molta, e se veramente è me che vuole mi deve volere bene. Per questo difendo Pamina, il suo essere parimenti spirito contro ogni differenza che la vuole solo accanto e non partecipe come eroina altrettanto potente e carica di tensioni sensuali-spirituali di sostanziale medesima specie, solo donna nel modo più perfetto, recettiva sì, ma anche cielo non solo terra accoglienza, ma cielo simile al cielo di lui. E’ una visione alta, eppure così espressa è in fondo troppo recitata da darmi una pena indicibile. Avverto il dolore, non il suo dolore, ma il dolore impossibile di una donna, qualcosa ha rovinato quella donna, quella giovane che implorava il ritorno. Vedo che parliamo veramente tutti in coro allegri gli altri divertiti, ma io mi smarrisco e alloro riporto tutto ad un ordine oggettivo “Comunque quello che mi ha lasciata si è preso una talmente brutta ma talmente brutta che mi chiedo come possa solo guardarla”. Lui Sorride di nuovo con giocosa ironia. Capisce che sono l’unica ad aver veramente compreso mentre gli altri si lasciano incatenare. Eppure questo è un laccio, sta legando la mia vita a sé forse, oppure è un gioco da ragazzi, oppure ha bisogno di provare il suo effetto su un uditorio attento, e vuole capire cosa è stato catturato da noi estremamente attenti. Non cerca in quel momento complimenti, scopre, e vi riesce, cosa cattura in noi l’ascolto di una musica letta attraverso doppie lenti, l’autore, Mozart, e un altro autore, che inscena uno spettacolo mostrando una conoscenza altissima e quasi ossessiva e al contempo una sua propria produzione di parole per la musica e per l’incanto di una trama tutta da raccontare come in una fiaba per adulti, iridescente come una lampada magica, mi sento vestita dell’iride delle sue adulazioni. Per questo mi chiedo: ma il mio Spirito così tempestoso come quello di Pamina, come può essere improvvisamente pacificato, e divenire mite e mansueto. A tutti mi sono ribellata, e non sono mai stata quieta né placida o imperturbabile. A volte rabbiosa, a volte mansueta, ma mai quieta. Eppure è a Papaghena che si rivolge lo so, perché di Spirito lui ne ha in corpo già in eccesso, e ci vuole qualcuna o qualcosa che mitighi le sue smoderate passioni per i fatti dell’anima. Mi appare tutto come un romanzo nel quale ogni soggetto che legge può trovare parti di sé, o tutto ciò che è depositato nella memoria, ma io in particolare scorgo stupidamente in me un vuoto. Parla di sé dopo essere stato oggetto di ammirazione stupita e parla di amori fuori dall’ordinario. C’è qualcosa di estremamente potente, il racconto di sé è forzato fino a diventare un modo della giovinezza e dell’arroganza. E’ uno strano omaggio alle donne, la potenza del loro amore sembra equivalere alla potenza del loro sacrificio. Sembra dare senso a tutto. Non ha perso nulla, il ricordo di sé è chiaro e netto e filtrato da una volontà sempre attuata. c’è in ciò che descrive un sogno coltivato in segreto, i miei pensieri nascosti, e le complicazioni di cui parla parlando di sé e insieme di ogni giovinezza mi rendono i miei sogni filtrati da letture ottocentesche. Sto rileggendo Alice nel paese delle meraviglie e attraverso lo specchio: mi incanta: «Chissà quanti chilometri di caduta ho fatto fino ad ora» disse ad alta voce. «Ormai debbo essere vicina al centro della terra. Vediamo: sarebbero più di seimila chilometri di profondità, mi …» «Voglio rileggere Viaggio al centro della terra. Deve essere divertente e dolce. Il cadere trasportati è così strano. «Chissà se attraverserò tutta la terra. Sarebbe divertente capitare fra la gente che cammina a testa in giù». I viaggi di Gulliver anche e i Lillipuziani. E The King of the Ring. Il titolo è così affascinanate. Nella lotta si deve perdere l’anello? Perché. Che maleficio è nell’anello?». 12/12/97 Abbiamo fatto l’amore, nella sua casa tutta da amare. Ho poche parole. Solo voglio dire questo. Mi avvertivo “poca” lo voglio dire così, perfettamente insufficiente. Avevo acquistato della biancheria di pizzo e una camicia da notte rosa e una vestaglia di identica seta. Abbiamo atteso mentre la musica riempiva le mie orecchie, perdersi nella trenodia per le vittime di Hiroschima. Forse è la prima prova mi sono detta, e ho ascoltato con un libro in mano, Ho letto per intero Effi Briest. Poi finalmente una cena veloce, un po’ di prosciutto e mozzarella e mi sono preparata. Eravamo tutti e due timidi. Io so di essere poca cosa a letto e invece è accaduto qualcosa. Sono entrata tra le lenzuola e anche lui, ma mi attraversava immancabilmente il pensiero di tutti gli uomini che ho avuto e con i quali non ho goduto. Trattenevo lo sbadiglio, e mi sono avvicinata per il solito usuale abbraccio. Troppo annoiata, troppo già saputo, troppo imperfetto. Allora con un tono deciso forte ma calmo ha detto “Questo no” allontanando le mie braccia con un gesto rigido del suo braccio destro. “Questo è un gesto che hai ripetuto con tutti, non con me, con me non puoi mostrare la tua noia”. Allora mi sono impaurita il silenzio era vero corposo denso. Mi sono girata verso il muro e il suono della seta trascinata era amplificato e quasi era un chiasso di stoffa e corpo e morbide forme. Ero così girata pensando di dovermi addormentare e allora lui ha infilato un braccio sotto il mio a sentire i seni tra la seta rosa. Ha sospirato di un vero sospiro, strepitoso e sommesso. E io mi sono voltata e ero finalmente io solo io, senza le mie convenzionali braccia o i miei convenzionali seni e mani. Mi accarezzava e saliva la voglia di lui solo lui, e della sua potenza. “Vieni dentro ho pregato con una voce esile. Mi devi implorare ha risposto con ironia paterna, giusta, non con sarcasmo, ma con la dolce presenza di chi è di più perché mi ha tra le sue mani. E poi è entrato, ed è stato il mio lago. “E come immergersi in un lago ha detto alla fine”. Lui è il mio Tamino e io sarò la sua Papaghena. No virus found in this outgoing message. Checked by AVG. Version: 7.5.549 / Virus Database: 270.9.9/1809 - Release Date: 24/11/2008 9.03 1:24am 24 Feb. '13 remissione clochard Costruiamoci una scala per la luna “Costruiamoci una scala per la luna” Scrive un poeta su facebook. Ecco, è così, così è sognare. La luna, raggiungere il sogno, l’argento di notte. Un lume di speranza, la luna e i suoi bagliori. Un faro, un porto. Un sonno sereno con i raggi notturni, un miracolo improvviso, tra le persiane i bagliori, e nei brandelli di carne, nelle viscere, una sorella, la luna, un sollievo dopo estenuanti profezie di calici frantumati. Sono una puttana, e l’anima se la sono fottuta tutta fino in fondo. Ormai il tempo è trascorso. Inizia l’analisi del Tempo. La vecchiaia è un mistero, insinuante dubbio sul Tutto, scopre e scoperchia le ombre nella fissità estrema di una deposizione, si attorciglia nella suppurazione della pelle, nel sudore, nelle piastrelle del bagno, e l’odore di cicche impregna la malattia. la caverna dell’ io è cervello, la maschera un corredo di abiti sportivi, jeans e giacconi e sciarpe. Un letto d’ospedale in un reparto psichiatrico. La vecchiaia di una puttana è un bagno caldo e profumato, è sentire di nuovo sulla pelle le emozione di un tempo, di quando era allegria, e i fiori si aprivano come ventagli. Il volto livido la mattina, i capelli irsuti e tinti. Ricordo appena qualcosa degli anni trascorsi. Non la storia che si studia sui libri. Dei libri ho dimenticato tutto. Ricordi furtivi che ingannano il Tempo. E il delirio, paradossale, tragicamente sottratto al futuro, il Tempo è perso, si fa strada una scala che conduce alla luna. La morte e la fanciulla di Schubert. Resta qualche vago ricordo appena percepito. Sono assorta, di notte, una ruota che non gira, un penombra, presenze vaghe, le inferriate dell’anima, i ricordi senza emozioni. Un video. il Tutto, il Tempo, la Parola. La fuga e la circonferenza che chiude e rinserra. La pioggia e l’amore in uno scrigno e in un anello perduto, in un bicchiere affogo e annacquo il cervello. Ricordo un tempo nel quale tutto era più facile. Un tempo lontano, ero giovane e bella. Ma perché ricordare se la storia si dimentica. Il poeta parla di emozioni. Dove sono, nel cuore? O sono ripudiate, hanno perso la grazia della rugiada mattutina? Tempo per trascorrere il tempo, come pregando. Resto confusa. Gli amici si sono allontanati, sono sola e non cerco nulla. Scavalcare il tempo, il muro oltre la siepe. Depressa. Ma che significa depressa. Forse svitata, mi deridono quando esco di casa e senza proferire parola prendo un caffè e una sigaretta al bar di fronte. Che caos la vita. Ti riducono alla fame. E se resti sola non hai risorse di sorta. Giocare sarebbe bello, ma con chi e come. La vastità del mare era un gioco da ragazzi. Un giorno lontano era così. Non solo così. La giovinezza era la voglia di scoprire il mondo. Il mondo erano gli altri, nemici e amici. L’inquietudine era tanta. Erano i fiori sbocciati. Un segreto dentro da sciogliere. E un usignolo nel cuore. Chi sono o come sono, le domande ripetute, all’ombra dei glicini, e tra le limonaie, e l’orto ricco e fertile. I colori delle principesse. E quella timidezza bifronte, un momento le risa un momento il rossore, la voce stonata. La avvertivo fuori tono. Non c’era accordo. Ascoltavo nelle conchiglie il trasporto del mare. Ma sempre quella timidezza che non mi abbandonava mai, e mi ricacciava negli angoli, mentre emergere è essere come gli altri. E poi chi sono gli altri. Incomprensibili domande. La famiglia materna ha origini patriarcali. Ma giunge doloroso il ricordo. Fare l’amore era la più disgraziata delle trasgressioni, il primo peccato, peccato mortale, prima del matrimonio non si deve. Ma quando si trattava di crescere, il nido era protetto. Caldo. La vita era quella di un pulcino. “Costruiamoci una scala per la luna”. La soluzione lontana. Presente, poche parole gigantesche. Resterò a sognare e invecchierò senza luna, a morire dolcemente, vorrei l’anima leggera, come la spuma del mare. Ma il bacio assassino mi ha tradita, per sempre? Qualcosa manca. La parola, dolce poeta, non ho il verso. Non so perché ma non mi sento a posto. Non mi sento nei luoghi. La morte ha un luogo per esistere che non conosco. Schegge di libertà la vita, ma ho le ossessioni, la morte nel ventre e nella voce, aspra come un colpo di pistola. Un luogo esatto dove stare non ce l’ho. Una casa sì ma ci vivo appoggiata, oggi ci sono, domani forse neanche esisto più. Sepolta sarei terra. Non esistere non mi preoccupa. La vita come impegno è molto più complicata. E’ fredda la vita, l’affetto cos’è, forse immaginazione, forse è dove non esiste il nulla, e allora tocchi l’essenza ed è amore. Le emozioni si sono rarefatte, appiccicate al sempre sì della vita, al sissignore, è dovere non piacere, il mondo siete voi a voi la misericordia. Si danno molto da fare qua. Sanno le vittorie e le sconfitte. Io non conosco il discorso. Io resto a contemplare, ed è come se ascoltassi dissonanze, si sono fottuti la mia anima, e non ce l’ho più. Non è nel cuore, nelle labbra, non è l’abbraccio, né il mio cuscino o le lenzuola gualcite, non è tra le mani, o nel perimetro del mio corpo secco e aspro di fronte ai labirinti di specchi, o nell’insonnia, o nei versi che non ho. Sono suoni sbilenchi, senza melodia, i miei, non parlo più perché avverto la mia eco. Tra gli spari. Frasi, toni, e non capisco il senso. Ma sono tangibili come lame affilate. Ma perché tutti parlano così e sono tante voci, e io come puttana non ascolto e penso ad un fiore chiuso. Forse è l’onore perduto. Forse sono io un po’ raccapricciante, forse malata, forse cattiva, e maligna. Cosa dico io se non bestemmie con la bocca impastata di sigarette e caffè. Vagabondo in questa provincia mentre le ore passano e il tempo non si riempie se non di apprensioni e di tensioni, eppure all’improvviso sorrido lieta e mi sembra di sentire una voce che mi intende, e mi dà forza, spensierata oltre il muro. Se tento di dire che il mio vuoto non è un vuoto psichiatrico non mi capiscono. E’ reale, non immaginato. È vero, quanto sono vere le mie spoglie, la mia oscurità, il mio destino comune, un oltre vuoto, la mia bestialità, il mostro è dentro, lo combatto, ma sfonda il petto, è asfissia, non so il senso. L’aborto. La bestia dentro. Lo voglio inventare il senso, non ho l’amore non lo provo, lo invento, provo tento, forse ci riesco forse no. Alla fine ho trovato la luna. E’ un’immagine. Un poeta che scrive “costruiamoci una scala per la luna”. Ed è stata luce. Un frammento tra le sbarre. Mi sentivo buia, nel buio doloroso di una bestialità mia fatta di stracci e pesi, fuori dal tempo e dallo spazio. Stiamo a vedere. Accada quel che capita, sono parole, sono il perdono per i miei troppi delitti, per la mia coscienza esangue, che ha spazzato via tutto, per il freddo che mi rabbrividisce e mi lega alla bottiglia, al vino rosso che scalda, e non penso, così mi gira la testa e non devo chiedermi niente, e fluiscono le parole, che non diventano chiodi ma musica e caciara. Il sacrificio ogni giorno senza un frutto non mi va giù, non mi serve affannarmi tanto. Che ne è del mio seno, del battito, della rima che non ho, dell’ago e del cuore trafitto. Pallida la luna ascolta la preghiera. Io comunque sorda e muta evito i molti giudizi e sono colpi di frusta, non li capisco. A volte sono sciocchezze e credo che loro non abbiano capito il sentimento. In breve non dicono nulla, e molto è il vuoto, sempre la stessa monodia, un ritmo e gesti identici. Questo vuoto, comunque, stranamente, ha un peso. Anche pazzesco a volte. Se hai un lavoro te lo tolgono senza motivo, e trasporti il tuo misero corpo altrove, per una minestra calda la sera. L’ultima sigaretta non si rifiuta neanche al condannato a morte. Qualcuno pensa ai libri che ho letto. Spiego sempre che è niente, uno scivolare, e neanche li ricordo. Ho perso la memoria lavorando. So cucinare qualche dolce questo sì, ma non so se possono piacere. E so lavorare all’uncinetto. E poi è sempre tempo perso, è l’inverno della mia vita, questo caos di emozioni non diventa cosmo. Mi piace rivedere i film su youtube e poi metterli su fb. Mi piace stare in silenzio, non parlare mai, non dire nulla, e non me ne importa niente delle ultime battute su tasse e pifferi. Mi piace la letteratura al femminile. Le eroine sconfitte mi prefigurano da sempre la mia sconfitta. Il cazzo è un organo come un altro tutto qua. Cazzo fica buco di culo…insomma che c’è di male. Cuore fegato cervello sesso. Non mi stupisce, né mi incanta. La luna si specchia. Note a Urlo di Ginsberg Mi piacciono a volte le stagioni. Le avverto carnali. Sono nella pelle e nelle ossa. Ritornano. Sono vive, più di me, che non so che vivo a fare dal momento che non mi diverto, e mi sembra un inganno, un secolo troppo distante il mio, lo ricordo da sola, e comunque non serve, non piace a nessuno. C’è da trascorrere l’inverno. E’ inferno nei miei capelli, nel cervello. Troppo complicato e annebbiato. La parola mi intimidisce, è aborto, sangue, pietra. Ma il poeta ha parole che sono il cielo e mi fanno respirare, trasforma la mia balbuzie in melodia. D’altronde parlare è un’arte che non possiedo. L’abile oratoria non fa per me. Un’ossatura che non ho. L’arte è l’atto dell’artista, non conosco gli artisti ma sono elezioni. La luna, e una scala. Lo dice un poeta. E allora aspetto la luna, e mi ritorna in mente il “Poema dei lunatici”. Comunque. Non la ricordo la luna. Ho rivisto una scena straordinaria, senza parole, da Nostalghia di Tarkovkij. La neve, un uomo seduto in una sorta di arena vuota con arcate aperte, la solitudine, si siede a terra, aspetta, il silenzio ovattato, il vuoto, nevica, grandi fiocchi. Il mio deposito è una soffitta anzi un soppalco soffitta. Lì vivo le notti e i giorni come una reclusa. Ne esco per un’altra reclusione. Volevo abbandonare i miei dati anagrafici. E ora lavoro sola, in una polverosa biblioteca. E ora proprio in biblioteca sono. Mi vado a fumare una sigaretta. La mia insegnante di liceo al biennio mi diede da leggere “Il fu mattia Pascal”. Non so perché questa scelta. Mi è rimasta impressa, e quando ho voluto dimenticare, e soprattutto farmi dimenticare, mi sono rimossa così. Togliermi. Sono non essere, femmina malata, perché dovrei avere un peso, non avrebbe senso. Per i cristiani avrei un’anima, io non ci credo, nel bene e nel male. Del male pago le conseguenze, comunque ho una coscienza che si è fatta da sé, nel tempo. La coscienza ha trovato il vuoto, dopo una strada senza uscita. Tutti chiacchieravano a non finire e io sbagliavo. Da sempre trovo inutili le parole. Le mie intendo. Richiamano i morti, preferisco le lanterne, e i vecchi busti delle signore in carrozza. Quando ero piccola ero cattiva, lo dicono tutti. E ora non lo so più. Indifferente. Acqua e sabbia. Pietra rosa. A volte la rabbia mi prende e si confonde con la noia. E’ ovvio che se il senso non è l’anima, e non è il denaro, che non c’è, il senso si sposta da qualche altra parte, ma quale esattamente ancora non mi è dato saperlo. Comunque non soffro. Vivo semplicemente, come un riccio. Uno bravo mi ha spiegato così la vita, il senso; “Fare” ha esclamato con enfasi, per dire è solo questo. Non sapendo cosa rispondere ho detto “abitare”, anche perché non ho niente da fare e non voglio fare niente. Il lavoro non mi piaceva, fino a quando non ho travato tra questi libri la solitudine. La sinistra parla di impegno, in teoria si impegnano, poi un caffè non te lo offre nessuno. Tanto meno una sigaretta. Le sigarette costano, e in fondo mi piace solo leggiucchiare e fumare e ascoltare musica e vedere i miei vecchi film, per i quali ero già troppo sbagliata, sbagliata per la mia famiglia, era peccato e non dovevo, e poco trasgressiva, o comunque sempre sbagliata, anche per la sinistra, ero poco ciarliera e poco rivoluzionaria. E poco figlia, mi ero perduta come una Capinera. Avevo un fidanzato che si definiva molto di sinistra e “un bravissimo campeggiatore” e intanto io ero comunque fuori luogo. In realtà era il figlio della mia insegnante. Un abbaglio, un’ingenuità. Dava del tu alla mia insegnante e c’era il comunicato stampa e il ciclostile. Mi sono chiesta che mondo è, io non lo conosco. Per questa scoperta ho trascinato una storia di quattro anni, piuttosto antipatica. Non mi piaceva quel mondo, non mi piaceva nessuna realtà. Io volevo restare da parte, gli uomini non li so se non come promesse mai mantenute, le amiche parlavano d’amore e mi soffocavano, mi rabbuiavo. In realtà sceglievo i libri, i romanzi, non le persone. Sceglievo i film, il sentimento estetico, non gli altri. Sceglievo la musica. E’ senza luogo ogni luogo, tranne nella pagina scritta, o in una bella immagine, o in uno spartito. Torno a leggere “Gabriella Garofano e cannella”. Sto bene, sta per nevicare, ma sento un tepore dentro. Forse le memorie scaldano. Visto che vivo alla giornata, senza darmi significati ultramondani o complessi, scrivo, scribacchio, per non chiudere gli occhi. E mentre scrivo di dolore immagino il paese delle meraviglie. Tengo gli occhi aperti sul video, le mani sulla tastiera. La terra e la gente. Ecco è questo. E’ vero, è vera la terra è vera la gente. E dopo racconto dei fiori e dei mandorli in fiore, arriverà la primavera. Non è complicata la vita, basta abituarsi al niente. Una storia. Una rosa. Senza troppa fatica si vive. O per lo meno si sopravvive. Uno psichiatra ha detto che il mio destino è il suicidio, e dovrei correre ai ripari con rimedi vari. Io penso il velo di Maja, basta non volere niente, per non chiedere niente, neanche il suicidio che è il grido estremo. Ascolto Pierangelo Bertoli. Dolore e arte, Sublime. Magari lo psichiatra mi aveva traumatizzata, parlava frenetico, anche abile d’accordo, ma parlava di bisturi, e necessarie lobotomizzazioni. Molto veloce nel discorso, forse capace. Sta di fatto che capivo o percepivo solo il sadismo dei medici. Sono fuggita e mi sono sfogata con un amico. A volte, non so perché, se l’ascolto non è musicale, impazzisco. Non amo le parole, saranno anche giuste, ma non sono quelle dei libri. Non è arte. Al limite eloquio, velocità, o battute, ma il sarcasmo non mi piace più. Neanche l’ironia. Preferisco le tele strappate. Io mi organizzo le parole meccanicamente. Non mi ascolta nessuno comunque. E quindi per evitare di diventare troppo cattiva, sono diventata un riccio. E non rido mai né piango. Semplicemente mi alzo la mattina, un po’ sfatta, ho incubi, e mi immergo nella vasca. Poi senza dire una parola vado fuori con la mia cagnolina. Con lei parlo tanto. Anche nella soffitta, e lei ascolta e si emoziona e mi riempie di baci. In realtà mi educa lei, e se potessi ricominciare la vita la dedicherei agli animali. Gli uomini mi sfiniscono, le donne altrettanto. Io mi trovavo in difficoltà con i soldi. Quindi dovevo un po’ starci, come sempre, è un farci non un esserci. Mi serve, ma non ne ho mai ricavato niente. La mia generosità è stata sempre strumentalizzata. Non so se è generosità o azzardo, ma io ci vedo proprio la mia noia. Il denaro mi annoia, come mi annoia un uomo o un orizzonte. La mia soffitta è calda accogliente. Lì sono sola, senza questo tutti che mi assilla. Comunque non ero in soffitta. Avevo acquistato una casa in una zona della città un po’ complicata e il prezzo è comunque altissimo. Il mutuo è alto. Poi mi ero trovata senza soldi. E io vivo di caffè e sigarette. E così ho steso la mano e ho trovato una sigaretta e un caffè. Un’estate torrida. Ero su una panchina, chiedevo qualcosa, una sigaretta a chi passava. Lui si è seduto e mi ha detto “Come ti chiami?” e ho risposto. “Ce l’hai una sigaretta?” ho chiesto, e poi “Tu che hai fatto?” “Trent’anni di galera, rapina a mano armata, c’è scappato il morto” “Me lo offri un caffè” “Sì vieni abito qui”. Poi gli ho dato una camera dell’appartamento mio, e lui cucinava e mi offriva sigarette. Ho parlato con i servizi sociali e poi gli ho trovato un appartamento. Gli amici non mi hanno mai dato nulla. Niente di niente. E tanto meno gli uomini. Gli uomini proprio mi hanno ridotta in miseria. I cattolici qualche predica del tipo “date da mangiare agli assetati, date da bere agli affamati”. E io che ho fame no, perché a me niente, non lo riesco a capire. Molte prediche, in concreto il vuoto. Una valanga di chiacchiere che mi fanno dormire. Solo i nonni davano tutto, a tutti. E anch’io avevo la tavola migliore e un’ochetta da allevare. E’ il tempo. E’ così. E’ il destino. Io ho come destino il furto. Come se mi bevessero tutto il sangue che ho in corpo. Forse se avessi il dono cambierei. E ci sono i furti d’anima, strappano la pelle. Mentre chiedevo l’elemosina andavo al cim dagli stessi psichiatri che hanno il privato. Ho sempre pagato analisti per un niente di fatto. Mi assaliva una grande paura, a volte ritorna anche oggi, ma finalmente dopo vent’anni ho trovato la cura. Ma questo è successo dopo. Al cim mi avevano dato un farmaco, senza controllo, che mi aveva resa obesa. Io sono magrissima. La fiducia non va accordata ai medici dell’anima, prendo ora solo una pasticchina d’en, e a parte una maschera nella follia di cui mi travesto, per non farmi fottere l’anima sempre, o per vaneggiare di mirto maggiorana fiori d’arancio, sono stati trent’anni di imbrogli, e comunque lo ribadisco sono pazza e quindi non c’è niente da chiedere. Solo un passaggio su questa terra con la mente che gioca con gli equivoci, e in un sudario di insulti. Poi i soldi sono comunque loro, degli analisti, mai miei. Io ho la pazzia, e l’anima, e una bestia dentro, e neanche vado in chiesa, mi drogo mi faccio canne frequento i peggiori. Ma non è vero. Io non mi drogo, sogno con i libri e la musica. Ma ora le pareti sono dure, si è frantumata la mia grammatica. L’ossessione della voce e del ventre, secco, aspro. Magari tento di dire agli psichiatri che la vita me la sono fatta con gli amici, non con i loro vaniloqui, piuttosto costosi. Ma d’altronde a mia insaputa cado dalla padella nella brace. Gli uomini col cazzo bene in vista per scopate eccellenti. Sono le loro, io gemo come una gallina in fuga, però ci credono un sacco e magari gli piaccio parecchio. A volte azzardo un “sarei frigida, potresti aiutarmi?” ma è un niente di fatto, non comprendono o non vogliono comprendere. Troppo faticoso, un’anima vuota e comunque frigida. L’anima vuota si sfoga nel sesso. Io no. E’ il mio modo di rivalutare tutto è tutti. Per lo meno sentite il vostro corpo, sangue e angue. Avete le abilità, la cura, i sacrifici. Io ho una soffitta, me stessa e una cagnolina. Si vive anche così in fondo. Manca il senso, i libri nel tempo li dimentichi, non sono un’eroina. Con cure migliori sarei realizzata. Oggi posso vivere o morire senza cambiare nulla. Non se ne accorgerebbe nessuno. Al limite ho il passo lieve. Sono nata e muoio senza frutti né altro. Io, sola, vivo per niente. Quel niente che non è attesa, non mi aspetto nulla. Tutto è sempre uguale. Nella mia vita. Nessuno dovrebbe ricordarmi, anche se sono generosa, nessuno mi ha avuta veramente. E credo onestamente di non aver lasciato ricordi. Ma allora perché scrivo, anche questo mi chiedo. Se scrivo è perché cerco uno spazio nel tempo. E’ il mio inverno, vorrei trovare il senso. Nell’assenza il dolore si avverte. Attendo, e questa sofferenza è il mio mostro che mi guarda sempre e scopre ogni velo. Scopro la vita, la dissotterro, poi trovo un fiore, e penso che se fossi un albero sarei serena. Avrei i miei fiori, i miei frutti, i miei secoli le radici. Senza storia non si trasforma il nero in bianco. Il nero è un colore che amo, ma il bianco mi dipinge, la sposa, ma ora non ci sto più, ora basta. Mi accontento di un fondo tinta e di un rossetto. I farmaci mi hanno sfigurata. Sono dimagrita ora, sono tornata come prima, qualche chilo in più semplicemente. Ora torno a casa e mangio la minestra. Il piatto. La cucina. Un ordine che non c’è mai stato. E naufrago nei ricordi, la tela annerita e frantumata, graffiata. Vorrei credere nel senso. Dio il destino qualcosa. Credere è necessario. Tranne a sapersi divertire molto. L’io. Io mi diverto. Io mi annoio. Oppure l’ascesi. Oppure io naufrago, e io riemergo. L’inferno. Una terra distrutta, un incubo spoglio, mi risveglio al nuovo giorno, impietrita, tumefatta dopo il grigiore di notti allucinate nel baratro del mio inconscio, da sempre così, un tumulo senza luce, appena qualche chiazza di colore che porto dentro, nelle rughe, i ricordi, e un essere qualunque, figlia di nessuno, semplicemente una donna con la luna storta. Ecco un luogo: Sembra tutto molto esplicito per la particolare disposizione del luogo, una stazione di provincia, e la folla mostra all’apparenza caratteri chiari, stampati su fondali di cemento. D’accordo qualcosa è cambiato. Intorno alla scuola, nel perimetro che la circoscrive le saracinesche sono chiuse, le vetrine vuote, a parte una tabaccheria, il bar della stazione e qualche self service, e nell’insieme l’impressione di un vuoto o di uno svuotamento non è artificiosa ma reale, i motivi si perdono in meandri troppo complessi, ma ad occhio nudo la miseria è lampante. La miseria di chi chiede l’elemosina e il risultato è questo, un’interminabile serie di prospettive senza attrattiva all’interno di varchi vuoti. Escono i ragazzi da scuola, scomposti, entrano nella pizzeria d’angolo per una sosta prima di ritornare a scuola per l’autogestione. Intorno è un labirinto di case e di vite a porte chiuse. La sera dalle finestre affacciano rettangoli di luce, ma molti restano nell’androne della stazione nonostante la pioggia incessante e il freddo. Una chiesa di lato alla scuola, nascosta, poco visibile a chi non ne conoscesse l’esistenza, comprende un piccolo giardino molto curato e pulito, in realtà l’unico luogo geometricamente curato in quella macchia fittissima di casermoni fuori dal centro storico, e che del centro hanno solo l’apparenza di una serie interminabile di labirintici agglomerati, in una sorta di gioco a nascondino. Per la polizia e i carabinieri la zona è realmente a rischio ed è necessario un controllo, comunque è ipocrisia, se si guarda al tasso di povertà registrato negli ultimi anni in tutta la provincia. Ma è un disordine al quale ci si è arresi da tempo, del quale si entra a far parte all’inizio con un istinto ribelle, poi lo spirito diventa sempre più arrendevole anche se rimane la delusione, visibile e palpabile, e una città in distruzione. E’ troppo difficile ed è come se di colpo il sentimento di un oltraggio rendesse inutile qualsiasi domanda, ti chiedi solo chi abita in questa casa o in quell’altra e perché ogni ordine diventa trascurabile, e inopportuno. Benedetta è in biblioteca con un berretto di piume calcato sul capo e una stufetta per un po’ di calore. In quella scuola è bibliotecaria, un ufficio come un altro, solo può fumare una sigaretta ogni tanto prima di tornare a casa nel condominio di un palazzo centrale, al primo piano di una palazzina liberty, dopo che svogliatamente nella biblioteca ha ascoltato le richieste, risposto educatamente, registrato prestiti e restituzioni, in un antro polveroso fittissimo e carico di libri, tracce di una documentazione durata un secolo, volumi importanti mai letti. Prima di entrare ha bisogno di un momento per riflettere e per capire che le colleghe la osservano con poca amabilità, e solo Sara protegge la sua infelicità da sguardi indiscreti, la collega non la ferisce mai, è impegnata, e Benedetta può restare silenziosa e immobile alla scrivania, così magari legge un giallo e dice solo che sono tutti d’accordo e tutto va bene. Ogni tanto Giulio dalla bidelleria passa in biblioteca per un saluto, anche lui con abiti d’occasione, visto il tempo che tira, miseria e scarpe vecchie, ma Giulio comunque ride e concede battute e fa sorridere, fino a saldare, anche se per poco, i pezzi di un puzzle scomposto. Ricompone i dettagli di un vuoto che Benedetta si è costruita tra le sbarre di quello sgabuzzino carico di libri, in un silenzio distaccato. Benedetta era delusa. Ogni fede riposta era stata un insuccesso. Vedeva il vuoto, voleva dire qualcosa ogni tanto, ma non riusciva. Magari provare a spiegare, spiegare i sogni di bambina e poi le cose rimaste, un grumo povero, restavano le stagioni con i contorni sempre identici, la pioggia incessante e una vecchia signora senza arie né abiti adeguati. Qualche roba vecchia e una finestra che dalla camera di una casa accogliente affacciava sul pendio di un piccolo giardino pubblico, e al rientro la sera poteva osservare il buio dai vetri appannati, e mentre pensava e contemplava l’esterno sdraiata nel letto sotto il piumone caldo, rifletteva su tutto, e tutto si era fatto cosa, cosa e ingiurie, anche se lei lasciava correre e non voleva discutere e non amava chiedere, non voleva parlare. Una biblioteca è migliore rispetto alle urla di presidi e vicepresidi frastornanti. In fondo non era male, la scuola era la migliore in assoluto, nessuno urlava e almeno lì non esercitavano il potere ipocrita e indiscreto nei confronti di una nessuno aggrappata allo stipendio, che serve per mangiare. Com’è futile il potere. Mettevano in ridicolo la sua solitudine, mogli irreprensibili in una provincia irreprensibile fatta di celebratissimi personaggi, eppure i quotidiani parlavano di povertà e in fondo molti recriminavano, oppure gli abiti eleganti nascondevano le sconfitte e gli stati depressivi. Per molti la forma era una sostanza, e la sostanza era denaro, altri come Benedetta avevano accantonato gli orgogli per non sperare più e non restare amareggiati, altri, molti, stendevano la mano e forse mancava anche un tetto, e comunque gli inverni erano troppo rigidi. Pioveva a dirotto, continuamente, dopo un’estate talmente torrida da togliere il respiro. Il senso di vuoto, ancora, nonostante tutto, lasciava spazio all’attesa, ma l’attesa impegnava, a volte ripugnava, svuotava d’energia, e voltarsi indietro era impossibile. La pienezza ormai era un’illusione perduta, nei rimpianti si dilatava l’esistenza, le recriminazioni interiori erano la bestia dentro da placare. C’è un momento in cui bisogna rendere conto a se stessi della propria intera esistenza. Non esistono più anticipazioni, esiste una sola possibilità, una disposizione ad arrendersi al destino già dispiegato, e il caso e la volontà hanno ormai stabilito. Una volontà sbadata, il caso poi va da sé, per un pezzo la vita sembra che la giochi come in una scacchiera, poi tutto cambia. La volontà si fa ridicola, ha sbagliato e non tornano i conti, e il caso ha piegato le faccende dell’intera vita, che si dimentica tutta insieme, tanto il futuro non cambia, il passato annoia, i ricordi potrebbero farsi morbosi. Meglio pensare a un piatto caldo al rientro a casa, serve il sapore e un nido, come serve credere in quegli abiti preziosi confezionati a scuola o nei ricami raffinatissimi, o nei dipinti di artisti su tele colorate. I colori del mare che non c’è, di arcobaleni perduti, di case lontane, lavori di pazienza e tecnica magistrale. Placano l’umore, e nel lavoro eserciti la metodica successione senza scarti o salti, che alterano la personalità. All’uscita da scuola la sera prende l’autobus. Il traffico è intenso, clacson e motori sulla strada in salita verso il centro. La quiete del ritorno pacifica. E finalmente cessa la battaglia, il miracolo di una casa di una tavola. La resistenza è un po’ questo, un campo di battaglia e una collina fatta di pietra. Cadere disarmati è facile restare feriti e arrendersi, basta una parola di troppo, e la ferita si strappa. Una battaglia, una collina, il silenzio. L’omertà. I passi spingono attraverso il buio, la resistenza è ogni giorno ogni attimo, sfuggire ad un inseguimento con un vecchio armamentario, la ribellione è finita, le speranze rastrellate, è remissione, ma con una luna amica. Il nostro cielo. Di lunatici extraterrestri. 1:11am 24 Feb. '13 caseyweldon: ‘Chewie’ for my show ‘Lose+Find’ opening next weekend at Trifecta Gallery in Las Vegas. 1:05am 21438 notes via: caseyweldon 24 Feb. '13 il teologo e ipazia Il Teologo e Ipazia Il paradiso è del cuore, il paradiso è nei piedi nei gomiti nella gola tua di cigno, nelle cosce tornite, nelle mani nervose. Il paradiso deve essere qualcosa con corpo verderosso, il colore del cuore. Questo è inferno – se ne voleva andare. Ha la bellezza nella quale io mi brucio come legna da fuoco e lei se ne voleva andare. Pensati brutta, le dicevo, ciò che non ti ha ucciso ti ha fatto più forte, ma sai perche - perché non ti senti te stessa, non sai il tuo fascino e questo esalta il tuo candore e ti fa bella.. E’ iniziata con un invito e un dono. Sono entrato nella sua casa settecentesca già affetto da lei. Avevo acquistato Otello nella versione video in bianco e nero di Orson Wells. Eravamo timidi e beati della nostra stessa timidezza, di quella beatitudine e grazia vorrei vivere in eterno. Volevo dirlo con un omaggio, un omaggio coraggioso « ti rendi conto si di cosa significa chiedersi -chi è, di lei, e d’improvviso, come avendo mutato improvvisamente la sua carne nel suo spirito - e Desdemona, adesso perdonami – devo dirlo è idiota, Jago ha ragione Desdemoa cita Cassio con la noia di citarlo troppo veramente troppo. Jago ha ragione, e ha ragione il padre di Desdemona – Desdemona ha tradito suo padre tradirà anche Otello». E te naturalmente rispondevi messa in un angolo già dalle mie parole – impossibile non commentare un oggetto se è un dono, è un dono di parole che richiede infinite parole per essere detto -«Desdemona, non è poi così stupida »- e parlavi di amicizia uomo donna. «È possibile io ne ho molte di queste amicizie», è come aver già citato Cassio ti ho risposto. Ti lusingavo e non te ne accorgevi. Ti rendevo volgare per non darti scampo, il tono duro e severo del mio discorso la mia austera e immobile figura, parca di parole, solo quelle essenziali o quintessenziali ti davano la misura dell’angolo in cui eri – non potevi che difendere Desdemona o cadere nell’impiccio, rispondevi intorpidita curvando ogni volta per dire no alla morte, al delitto, anche se ti acceca la passione. Ti toglievo la risposta, perché Shakespeare è incontestabile come Dio, e non ti accorgevi però che a offuscarti era la mia atroce sferica serietà, compatta come la risultante di una traiettoria secondo le mie leggi, che producevo ogni volta in abbondanza senza mai deviare, fasciandoti i sensi per ottenebrarti di stupore. Il sangue ti cola stella da qui, da questo piccolo foro nella tua testolina e riluce di fiamma come la materia che è dentro, la quintessenza impareggiabile, il sapore sulle mie mani è finalmente il sapore dei tuoi pensieri fuori da quella scatola chiusa che non volevi sventrare, la tua inalienata proprietà delle cui violente note facevi impareggiabile dono volgendo altrove i tuoi pensieri, senza misericordia per me che ti carezzavo - parlandoti con la pacatezza, come leccio solitario dei miei orrori, stella, delle mie brame, tu la regina del mio reame proprio tu non hai coscienza della tua e mia dannazione. La mia dannazione. Dio la musica e i poeti, e l’amore. L’armonia nasce da cose prima discordi, l’acuto e il grave, poi rese concordi dall’arte della musica, Platone stella, e il Simposio. Hai una laurea in filosofia ma dimentichi tutto, e poi ti stupisci della potenza della mia memoria. Io, solo io, volevo essere un poeta, un Dio, tu il mio rapsodo, e da poeta parlavo per enigmi, posseduto dal dio che mi possiede, dio o demone ma della discordia, poeta sfatto e rovinoso, e allora tu la mia Sfinge rapsodica trovavi ovunque il recitato, e riconoscevi, acuta interprete nell’ascolto che ti faceva tremare, - giunco mosso dalla tempesta - lo stridore rorido dell’armonia e del ritmo del mio maniaco doppio vaticinare. Ti chiedevo il tuo sangue e rispondevi con i tuoi baci. La tua dannazione stellina, è tutta femminile - I tuoi errori avevano un valore, non logico lo ammetto, ma ti era possibile amare la vita per una tua sensazione traboccante di vitale illusione nella quale l’abbandono ti era necessario, dall’assenza ricevevi l’essenza, l’ondeggiante tua natura. Scrissi un giorno - difetta d’anima-. Reagì come volevo che reagisse con rabbia palpabile, una rabbia spessa, in quel momento la scolpivo ne ero l’artefice con mani esperte. Le sue labbra disegnavano un ricamo intorno ai dentini d’avorio e gli occhi le si abbellivano di un incosciente civetteria. Sapeva scendere dentro le sue estreme profonde ragioni camminando come strega nei boschi tra le immagini superbe delle sue intricate architetture interiori. Sono stato me stesso, volevo lei proprio lei, intrisa come spugna delle sue risa impraticabili quanto le lacrime, repentine, lacrime dolci-salate come foglie bagnate d’autunno e tiepide, del calore del sorriso non spento come limpida fonte, degli occhi che le si facevano deriva e illanguidivano senza approdo, non sapevo, era acqua lei stessa sempre in mare sempre con i seni abbronzati grandi nel corpo magro, e le rimproveravo i sorrisi per gli altri e quei seni esibiti, ma ero debole come un prigioniero che attraversandola tratteneva il mondo, ispirando il suo profumo di mare di spuma. Lei si difendeva -«Alessandro dice che mi spegni la dote, ognuna ha una dote e io ho il sorriso - sai lui mi descrive come una strana figura naif, e te invece mi dipingi nei tuoi scritti così come non sono, senza anima e solo civetta» - e io allora ho dipinto il tuo sorriso, poi ho toccato con il medio il tuo dentino storto e ho risposto - Se ti fai un orgoglio del tuo dolore e perché ti esalta. Alla sofferenza chiedi di esaltarti. Se fossi brutta la tua vita dimostrerebbe qualcos’altro. Ricorda Nietzsche, la donna impara a odiare nella misura in cui disimpara ad affascinare. Frena la tua lingua, e fa’ che Alessandro non sia Cassio. E’ freddo si annuncia l’inverno Mi battono le tempie l’ora si fa piccola l’ora non passa, il tempo è come il filo di un Arianna spezzato dalle mie mostruose mani che cingono di filo spinato. Il tempo mi avrebbe reso i segreti delle sue amorevoli afflizioni ma ho voluto uccidere il suo e il mio tempo, e il filo si è avvolto di spine Le ho rivelato qualcosa, ma che avrà capito di me, nulla come volevo. «Ma sei vile mi ha detto e l’amore è coraggio, e tu odi la mia povertà e la mia fatica - lei l’altra sarà sicuramente giovane e ricca ti offre di più lo so, un terreno coltivato d’oro- io ho da offrirti il letto e il mio corpo e questa casa divorata d’anticaglie e una conversazione che langue perchè sgomento al suono delle tue parole »- era dura e petrosa ma fiammeggiante - io indifferente per accenderla sempre di più come scintilla di pietra sfregata a pietra - ho risposto per non fermarla e lacerare le redini a cui si impigliavano le sue parole – sì ma farmi una puttana costerebbe e farmi te non costa - ho appoggiato il gomito allo stipite di legno dell’armadio in cucina mentre con gesti lenti misurati ma con una sorta di zoppicante andatura preparava qualcosa da offrirmi. So che avrebbe potuto rispondermi – sai chi ho lasciato per te, lì avevo la mia sicurezza e l’amore -ma il silenzio l’ha spezzata, l’avevo finita attraverso il silenzio ed era sempre più impaurita come a precipizio - continuavo io a vincerla con gusto sadico - perchè la volevo solo per me in quel momento solo con me attraverso le sue lacrime e l’anima esplosa -e la solitudine da darle la disperazione che toglie forza ai nervi e riduce all’afasia – alla perdita involontaria della risposta, perché non ne fosse mai fiera -volevo sentire da lei le mie stesse parole di carta che cadendo nel sogno d’assoluto faccio più mie della mia spaventosa ombra - solo smozzicate le volevo, sentirle dire alla fine - perdonami - per la vittoria di una sorda gelosia, per il sacro sì dei singhiozzi inarrestabili. Non volevo sopportarla così con le sue maledette vendette e farne un rogo era inevitabile, perché é l’altra quella che sposo ha la giovinezza in corpo mentre lei ha trentatre anni compiuti, e lo spirito non è libero dopo ma prima Ha anche gli occhi molesti, hanno qualcosa ancora di vivido, c’è quella tenacia dello sguardo fisso sui miei occhi che me la faceva già allora odiare. Vieni stellina ti prendo, hai il sangue nei capelli una striscia qui che ti bagna di rosso asprigno, oggi i tuoi capelli sono del colore dell’uva dolce amari e assassini, me lo ricordo sai il sapore dei tuoi capelli sul cuscino – hai lo strano fascino dell’anima nei capelli. Ti prendo ma pesi tieni le gambe giù a peso morto e le braccia penzoloni, le pantofole, ne hai persa una ti tolgo anche l’altra belli i tuoi piedini, ti potrei estrapolare l’anima attraverso i capelli e i piedini. Ora facciamo un bagno e ti spiego tutto come volevi così riuscirai a capire chi sono, ti logoravi stellina mia – e io te lo dicevo te lo ripetevo, non puoi così, così non vivi, e tu rispondevi col sorriso, ora fai la smorfia di quando sei depressa, hai la depressione, e le ginocchia viola – perché hai le ginocchia viola? Dio pesi ti metto nella vasca piano così, tira su la testa per dio che apro l’acqua, - ti ricordi o hai già dimenticato cosa dicevi dell’acqua te lo ripeto ora – Già torna a scuotermi eros dolceamara indomabile oscura belva, perché sempre ti facevi il bagno prima di fare l’amore, fare l’amore, ti volevi spoglia e pulita come il marmo per scioglierti dopo la frescura. Saffo, la tua poetessa, perché l’amore ti incanta e poche righe dicevi sono tutto, anche all’altro lo dicevi ma se ti azzardi a ripeterlo sai cosa faccio con le mie mani - come quando ti sei alzata di scatto dal letto, come potevi tesoro discutere la mia preparazione lo sai che sono un Teologo e un poeta e tu ti sei messa a citare Jazz e a criticare la mia preparazione classica e hai anche aggiunto che le mie due lauree hanno il difetto di essere due, teologia non ti garba stella e ti sei messa a citare l’Anticristo e qualcosa sulla nuova scepsi gnoseologica e ti ho dovuto dimostrare stella che offendere la mia mente è la peggior bestemmia che potesse uscire dalla tua dolcissima lingua e allora ti ho preso e ti ho fatto sentire le mie mani forti, sai come sanno legiferare – si ma perdio la testa tienila dritta però, sennò mi dai sui nervi, non ti mostri attenta, sembri una clessidra svuotata, l’orologio molle - La testa ti va da una parte e dall’altra - e poi ricordi stella - ti ho spiegato che dovevo farlo perché stavi uscendo dal cerchio - che cerchio? – hai chiesto spegnendo le lacrime in un arresto stupito- e ti ho fatto capire quanto entrano nei tuoi incubi i tuoi dissapori. Aspettavi a casa nascosta agli occhi indiscreti dell’altra. Mi ingegnavo a fatica per convincerti della necessità di aspettare, si tratta di lavoro, riguarda anche te, il nostro futuro insieme. Perché sai non sapevo cosa avesse realmente da offrirmi, ora ho un posto accanto a lei e la stima del mondo nel quale scusami non puoi entrare - ma ti ho spiegato mille volte di lasciarmi fare, sì d’accordo, ti ho inventato solo qualche piccola bugia, spostamenti di letto o di luoghi o di persone, ma quanta della mia anima è entrata in te stella? E questo non ti basta?.lo dici sempre prima di fare il bagno e sguazzarti con i chili di schiuma perché profumarti ti piace, ne abbiamo una collezione qui di profumi, tutti tuoi, e costosi – lo dici sempre l’acqua mi va alla testa e penso buoni pensieri asciugarmi e fare l’amore con te. Cos’altro volevi? Ma ti voglio intonare l’Inno a Cristo- le mie parole ti incantano lo so- «sei un Dio con una vita che mi divora» – l’hai detto ricordi ? - e ora ascolta è per te è un omaggio al saccheggio che hai fatto dei miei doni - le parole che ho avuto per te – ma per gettarmi fango addosso dopo e dirmi – è saccheggio di libri – sciocca aneddotica – tu volevi altro non solo me, me e denaro e per ognuna le parole sono le stesse le ho ingoiate io le ingoiano loro - – io ti rispondo con l’alchimia dell’anima, L’inno a Cristo - sì ma è troppo fredda l’acqua, si sta freddando vero? - Allora ascolta sono parole d’amore per te « in qualunque logoro vascello io mi imbarchi quel vascello sarà l’emblema della tua arca, qualunque mare m’inghiotta quel flutto sarà per me emblema del tuo sangue» non sai neanche di chi è stellina vero? E’ Donne sciocca, ti ho detto che sai solo bestemmiare di fronte ai potenti. Se ti parlo di delitto neanche tieni su la testa per la paura, e diventi sempre più viola - ti ho spesso parlato del tuo tremore di ragazza ma ora esageri, con me è come se ti si fosse aperto il più perfetto degli orizzonti, ma non parli sei muta come un pesce e fredda come ghiaccio - il delitto, il più perfetto dei delitti è quello di Edipo, te l’ho già detto e spiegato– perché stupirsi dei delitti ho aggiunto, ma la tua mente fanciulla si ribellava - Edipo è il detective di se stesso cerca l’assassino e trova se stesso, enigma ancor più perfetto dei delitti-gialli della camera chiusa - Ti spiegavo l’arte del delitto stellina e mi hai risposto che forse è l’intrepretazione migliore se si cerca dentro di sé si trova l’assassino. Ma poi che hai aggiunto irridente e cruciale-«il film ricorda la vittima e il suo carnefice, O il carnefice e la sua vittima, non ricordo il regista, ma la vittima si fa carnefice e il carnefice vittima girandosi in tondo in una ricerca senza fine– alludevi a noi lo so, la nostra speculare idiota identità. Io e te e una camera chiusa. Chi di noi la Sfinge? Ho dato a te senza parole le parole giuste per esserci, e esserci con me, ma senza la rabbia che ti sarebbe esplosa - hai utilizzato la mia casa la mia famiglia la mia tavola il mio letto perché i tuoi luridi soldi ti servono, e l’albergo costa - certo ti ho risposto l’albergo costa ma ricorda che è solo denaro ti ho giocato per denaro e allora non dovevi pretendere altre risposte, ti ho risposto con la poesia di nuovo, «anche se dovessi amare ottenere e contare fino alla vecchiaia non scoprirei quell’arcano mistero» è tutta impostura e ho aggiunto lo sai l’alchimia d’amore e dell’anima è tua solo tua, che ti importa in fondo del denaro, sei te lo riconosco selvaggia e romantica, sali muta le tue tempeste e ti nutri di splendore femminile quando odi in me il lato più potente, sì sono un teologo - ma non comprendi non hai compreso quanto poco questo conti, quanto mi diminuisca di fronte a te piccola divinità silvestre a cui consacro le parole dei poeti, le parole della musica, e hai imparato tante di quelle cose da me che le tue condanne mi fanno ridere e basta. E tu mi insulti e ti insulti con il volgare denaro, lascia a me l’ipocrisia e la volgarità, il denaro è volgare è la mia infamia -« ti manca la vergogna rispondi- e della tua infamia fai la chiave di un regno ammantandoti di mistero perché non passi di bocca in bocca e le donne ti credano come ti ho creduto io». Ecco lì piangevi piangevi ed era dolce il canto della donna e le tue labbra vogliose di un ultimo bacio – e io l’ho negato - perché sai quanto poco alla fine mi volevi, e te lo ripeto sei femminile quando involontariamente chiedi l’abbandono e ti annebbi per manovrare, per non lasciare ma essere lasciata. Ma allora eri ubriaca di me, perché la rabbia ti ubriacava e la tua mente creativa si rifiutava alla non-esistenza della quintessenza di cui vuoi esser fatta, l’amore. Hai l’odore penetrante del tempo che finisce eri intatta e ora sembri sbucciata, e la notte si fa fonda quasi inavvertita. Il pentimento migliora i tuoi occhi sono stelle smerigliate, quasi sgretolati sminuzzati da filigrana ocra. Il tuo difetto è sempre stato questo sfinimento che ti leggo addosso, di divorarti in profondità, come al suono di infinite coagulate note di musica che precipita per ingrassare l’attesa. Ma ti indurisci comunque diventi aspra tagliente e dura come legna, comprimi le risposte e poi ti laceri e t’accingi a vendicarti col colore del viola che ti cinge. Ma il tuo spirito è chiaro raccolto nelle nervature violette - ti fanno somigliare a quelle immagini della paura che penetra nel sangue e riduce l’urlo in pietra. Ti stupisci della mia memoria, memoria di libri e la tua lingua era tagliente perché era solo tua senza libri a farti da concetto. Lirica comunque lo ammetto, era un artiglio di rapace articolata nella mancanza di ricercatezza eppure naturalmente civetta. Che ne dici della mia di lingua adesso adesso è solo mia e ci sono rime baciate, te ne sei accorta? Quest’acqua è sempre più asprigna sembra il sugo della vita, è quintessenziale, non c’è niente da fare. È la congiunzione poniamo dell’anima tua che si svuota e si riposa e dell’umida tua natura che migra in una bianca vasca di marmo dipinto mettiamo di rossastro, vermiglio scarlatto, il colore delle vesti delle Regine. Permetti alle parole del divino poeta-filosofo-veggente di cantare per te, e fa’ stella che la sua anima trapassi nella mia mentre per te canto una morale di stelle: Predestinata ad orbite stellari, del buio o stella che ti importa? Per questo tempo volgiti beata! La tua miseria ti sia estranea e lungi! Del mondo più lontano è il tuo chiarore: per te sarà peccato la pietà! Hai soltanto una legge: sii pura. E adesso stellina ti rileggo la poesia che mi scrivesti e senti ora la differenza - sei disordinata come sempre e scrivi su fogliacci sparsi sempre da riordinare -allora ora riascoltati: Cuore ed esistenza s’accordano forse nei libri Nella vita Raramente quasi mai Col cuore impastiamo il saporito pasto Che esalta noi e chi il nostro cuore con forza Stringe In ogni recesso, in ogni anfratto in tutta la nuda nostra carne nuda Adorna di preziosi Il cuore palpita il disaccordo Bottino di tante liriche liti Ma cuore ed esistenza non è Né fulmine né tuono Né bagliore d’infinito Né cifra d’assoluto Perso e sfatto l’assoluto Terra desolata Neanche catastrofe se non nelle lacrime spese e spente, per la Gloria di noi martiri, così è detto, logorati dalla potenza e dall’attesa La tua astuzia è la sofferenza Ti vince e ti inghiottisce Per un piano calcolato Di un inventario profetico-poetico da porgere per il migliore dei Banchetti Che si fa ti fa masticare digerire Il candido letto nuziale Per le tue voglie penetranti Scrutare da dentro con bisturi e sguardo attento Le fanciulle promesse e i loro sogni E resecare capillare materia Delle spose che sognano il celeste regno dello sposo Angelico-famelico L’universale spettacolo nuziale, annuncio di una falsa profezia O forse la tua promessa fanciulla Il tuo promesso abbandono E’ condanna? E a cosa abbandoni Odi l’ipocrisia? O il tradimento ti logora e non ti nutre se non di Quotidiano squallore O il banchetto si rinnova altrove O il tuo esserci e non esserci del tutto è un dileggio per Le teste tagliate del desiderio negato O l’abbandono ti stuzzica voglie profetiche Giochi satanico-vampiresci Troppe domande? La risposta è mia E ne sono gelosa Quando osservavo le tue ossessive sacrali limpide abluzioni La tua educazione maniaca di fronte al marmo bianchissimo Di un disadorno lavandino E il volto fissato nello specchio di fronte, tolta ogni Espressione Terrore di essere altro e sempre e ancora altro E altrove senza misericordia (o terrore di essere da me finalmente intravisto di rimando?) e di te non dimenticavi né della mia carme esaurita e quando osservavo lo stupore con cui tormentato da un’indissolubile immagine, immancabilmente avevi occhi per il tuo volto stupito scoperto scoperchiato, teschio membrana e occhi e anima? L’anima ti inquietava? La tua s’intende E dimenticavi con orrore e angoscia di chiedermi chi sei Chi sono era l’urgenza che ti condannava a non Immaginare L’incancellabile domanda di fronte allo specchio delle tue Brame Allora ritornavi fanciullo Carne d’avorio La mano passava umiliata tra i capelli diradati Ora è tua la vittoria diceva la tua umiliazione E con timore e tremore Ti infilavi tra le lenzuola Ragazzo dall’umile origine E finalmente il miracolo s’avvera Il ragazzo teme l’esclusione, ha paura perde la sua futile Potenza (quella dell’intelletto) e implora il sorriso e la ricompensa «Sono un Dio?» E quando mi sibilava dentro acuto il dolore Risvegliavi i sensi ottenebrati da troppo crudo torpore Dal concreto trivialmente piombato esserci ed esserci Inchiodata E alle richieste non formulate come angelo rispondevi Per togliere poi E perdonare dopo e togliere di nuovo E offuscare il mio principio razionale Il fuoco della brace spegneva l’inutile malocchio E la pace era risveglio e l’accrescimento tempesta . Disprezzavi Un temporale nei miei occhi, il gesto educato delle mie Mani, il lucore del mio sorriso Aperto smorzato rifiutato e spento e poi di nuovo a chiedere elemosina Riacceso Eri logorato forse dalle brame ardenti dell’orgoglio sei? Su cui riposavi come giovane Strappato alla gloria scavato dal mondo E al mondo gettavi fango per fango ricevere dicevi Io resa fango per essere meglio gettata Fino al giorno del giudizio Quando la tromba del tuo muto sigillo Voce di lacrime ormai spente Suonerà chiara e assordante sparo in una notte tiepida Oscura E l’artificio del divino artefice in scena Vorrà il volere non del Dio ma Del destino o del cuore o del senso e dei sensi o Dell’esistenza nostra o della ragione Ma l’unica Dea benigna è Follia Unico perdono per i tuoi nostri Uno mille banchetti A lei la mia fede
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«Eccolo! Finalmente lo abbiamo preso il criminale comunista! In carcere a scontare l’ergastolo! Cesare Battisti, il simbolo del terrorismo italiano durante gli anni di piombo è stato consegnato alle nostre autorità. Giustizia è fatta!». Diciamoci la verità: una classe sociale che si accanisce intorno a un fantasma del passato mostra di non avere futuro, cerca di consumare le ultime risorse respiratorie per esorcizzare la paura, quella paura che nasce dalle profondità di una crisi di un sistema sociale che è durato anche troppo e che ha camminato sui morti, sulle stragi quotidiane per estorcere plusvalore e accelerare continuamente l’accumulazione e lo sviluppo capitalistico. L’individuo è nulla di fronte ai processi storici e tutti noi degli anni ’70 del secolo passato – comunque schierati a sinistra - fummo nulla di fronte all’illusione che stessimo a un passo dal comunismo. Fummo travolti dalla passione di stare dalla parte giusta, di quella della lotta degli oppressi e sfruttati. Fummo ingenui anche quando scambiammo il tifo di settori di massa nei confronti delle formazioni combattenti per disponibilità alla mobilitazione per sostenere la “loro” causa. Cesare Battisti? Uno dei tanti; solo i fatatici del proprio ombelico si esercitano nei distinguo. Pagammo tutti un prezzo, a vario titolo e in vari modi, compresi i tanti che furono comprati da un potere che si fece beffa dei nostri ideali. Sputammo addosso al traditore e al pentito, sopravvalutando così il comprato e sottovalutando il compratore Si, rincorremmo un ideale, quello del comunismo, di una società più razionale, più giusta, più onesta, più armoniosa; una società con maggiore sentimento, più egualitaria. Avemmo torto, ci illudemmo. Il popolo, in Occidente in modo particolare, non la voleva la rivoluzione comunista, e noi tutti combattemmo controvento, ci opponemmo alla stessa volontà popolare che non capiva di essere sfruttata e oppressa o lo capiva ed era compiacente. Un popolo che sopporta 1432 morti sul lavoro all’anno per decine di anni; altro che morti di terrorismo. Poi la storia, quella vera, sa incasellare correttamente i vari pezzi del mosaico ed oggi quel popolo un tempo compiacente, allevato in un sistema barbaro e crudele, gli si sta rivoltando contro. Noi tutti, facenti parte di quello stranissimo magma della sinistra estrema, fummo degli anticipatori inconsapevoli di necessità oggettive che oggi vanno prendendo corpo più che del passato. Signori: non le volete chiamare comunismo? Chiamatele come vi pare, ma quelle stesse leggi che per mezzo millennio vi hanno sorretti vi seppelliranno. Rosa Luxemburg a una sua amica che le scrisse in carcere chiedendole se ne valesse la pena rispose «Non c’è nulla di più mutevole della psicologia umana. Tanto più che la psiche degli uomini nasconde come il thalatta, l’eterno mare, tutte le possibilità latenti: calma mortale e ruggente tempesta; la più bassa vigliaccheria e il più selvaggio eroismo. La massa è sempre ciò che deve essere a seconda delle circostanze del momento ed è sempre sul punto di diventare qualcosa di totalmente diverso da quel che sembra. Che bel capitano sarebbe chi pilotasse la nave soltanto secondo come si presenta al momento la superficie delle acque e non sapesse prevedere la tempesta in arrivo dai segni del cielo e del mare!». Ecco, noi non fummo dei buoni capitani, scambiammo la forza della ragione per la ragione della forza; e ci fu chi scambiò l’arma della critica per la critica delle armi. Mentre oggi la storia presenta il conto non a noi – “poveri illusi del tempo che fu“ – ma a voi che atterriti da una crisi senza via d’uscita danzate in modo macabro intorno a un individuo per esorcizzare la paura e scoraggiare le masse dall’intraprendere «vie pericolose affidandosi a soggetti e individui destinati prima o poi alle patrie galere e al pubblico ludibrio». In Europa, la vecchia Europa, quella che diede vita al più grande movimento storico dell’uomo con i mezzi di produzione, aleggia il fantasma del caos. Il comunismo è morto? Questa volta l’illusione è vostra cari signori. La storia vi si sta rivoltando contro e non potrete farci nulla. I vostri rimedi incentrati sul sovranismo nazionalista, cioè sulla concorrenza delle merci elevata all’ennesima potenza, si farà beffa del sistema che vi ostinate a difendere. Vi mandava in bestia il colore rosso come per il toro nella corrida? Spunta il giallo non come i sindacati padronali, ma come nuovo colore, del sorgere del sole di un nuovo movimento di oppressi e sfruttati. Non c’è più la falce e martello nei vostri occhi furibondi? Ecco il simbolo di nuove rivendicazioni di masse oppresse dal vostro modo di produzione: una nuova divisa, un gilet semplice da indossare come strumento di identificazione di un mondo in ribellione; di masse sterminate di uomini che il modo di produzione, che vi ostinate a difendere, non potrà più incorporare e renderle compiacenti.
Michele Castaldo
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Capitolo 21
Kyra si rialzò a fatica, lanciando a terra i resti del suo arco, ormai inutilizzabile. Il Risvegliato, che ora giaceva a terra in un lago di sangue scuro, lo aveva spezzato con i suoi artigli.
«Potevi essere tu. Ti è andata bene.»
La ragazza strinse i denti, incrociando lo sguardo di Castalia.
La Venator combatteva come se avesse puro fuoco in corpo, senza quasi curarsi di essere ferita, roteando la spada che portava sulle spalle come se fosse senza peso. Nel suo villaggio, anche solo possedere una spada spuntata e arrugginita era considerato un crimine e nessun sano di mente avrebbe osato sfidare in maniera così plateale le guardie del Sovrintendente Kendells. Sua madre aveva corso un grandissimo rischio ad insegnarle a combattere e ne aveva pagate care le conseguenze. Chissà cosa avrebbe detto, vedendo la figlia uccidere un Risvegliato al fianco di una Venator.
«Giusto, dovrei essere entusiasta di essere rimasta praticamente disarmata.» Recuperò le poche frecce ancora utilizzabili dallo scontro e rimettendole nella faretra.
«Non è detto...»
Si girò, osservando l’uomo dall'accento di Antiva, Kilik, rovistare tra una pila di macerie, acciaio arrugginito e sporcizia non identificabile.
«Ah!» Esclamò trionfante lui, spostando con qualche difficoltà un masso che ostruiva un grande forziere. Kyra si affrettò a raggiungerlo, notando quello che aveva attirato l'attenzione dell'uomo: la punta di quello che doveva essere un arco spuntava da una spaccatura del legno. La serratura era stata rotta dalla caduta delle macerie, ma il contenuto sembrava essere rimasto intatto. Lo aprirono, estraendone un grande arco di legno chiaro, che nonostante fosse lì sotto da tempo immemore, pareva ancora in perfetto stato. Accarezzò l'impugnatura intagliata, ammirandone la fattura. La corda era ormai deteriorata, ma per fortuna lei ne aveva una di scorta.
«Malthael.» La Strega delle Paludi le comparve a fianco, come dal nulla, facendola sobbalzare.
La guardò senza capire.
«Gli intagli, rappresentano il Nephilim che guida le anime dopo la morte.» Spiegò la donna, indicando una figura stilizzata e allungata dalla forma vagamente inquietante, che reggeva una falce.
Kyra cercò di non far trasparire il disagio che la maga le metteva addosso. «Spiega Perché si sia mantenuto così a lungo qui sotto. Questa è un’arma Nephilim» Disse a testa bassa, mentre con movimenti esperti annodava rapidamente la corda e ne saggiava l'efficienza. “Grazie al Creatore...” Pensò soddisfatta: aveva di nuovo un'arma.
«Muoviamoci.»
Annuì, seguendo Castalia che faceva strada attraverso il corridoio buio. Affiancò Kamal, il silenzioso guerriero del Kehjistan che li accompagnava. Come fosse capitato a viaggiare con due Venator era un mistero, ma del resto, tutta quella assurda compagnia lo era.
Sospirò.
Almeno, due maghi su tre avevano proseguito il loro viaggio verso Tristram, seguiti dagli umani. Era l'ennesima conferma che di loro non ci si poteva fidare. Dopo aver ascoltato tutto il racconto della Somma Madre, avevano comunque deciso di abbandonare il Clan al proprio destino, andandosene alla capitale e lasciando soltanto Castalia, il Barbaro e quel bellimbusto ad occuparsi della maledizione che minacciava di distruggerli. Anche la strega era rimasta, ma Kyra era sicura che fosse soltanto lì per il proprio tornaconto personale.
Tutto sommato, però, se la stavano cavando.
Nonostante avessero dovuto chiedere aiuto ad un gruppo di Draidi selvagge, affrontato un paio di dozzine di lupi mannari, mandato all'Oblio un pazzo eremita che viveva nel fitto della foresta, incontrato alcuni cadaveri rianimati e attraversato un muro di nebbia magico per raggiungere le rovine, non avevano incontrato difficoltà insormontabili.
Il licantropo bianco che li aveva attaccati era sicuramente Zannelucenti, di cui dovevano recuperare il cuore per spezzare la maledizione e salvare i Druidiche erano stati infettati. Con un brivido, scacciò l'immagine della povera Danyla, che aveva preferito morire piuttosto che sopravvivere come una di quelle creature rabbiose.
Si fecero strada attraverso un labirinto di corridoi e cunicoli in rovina.
Quando un fantasma dall'aspetto di un bambino comparve di fronte a loro, cercarono di inseguirlo, venendo così attaccati da una serie di scheletri che fecero rizzare i capelli in testa a Kyra. In quel luogo maledetto dovevano sicuramente dimorare spiriti e maledizioni di ogni tipo.
«Mamae?» Chiese per l'ennesima volta il bambino, in lacrime.
Sentì Castalia rispondere qualcosa in Druido, ma non riuscì a capirne il significato.
Il fantasma sparì in una nuvola di fumo, mentre al suo posto comparì una creatura deforme, che fluttuava in aria, lo sguardo vacuo e le fauci spalancate in un grido acuto che le perforò le orecchie.
«Nulla di buono accade mai in rovine come queste.» Commentò Castalia una volta che furono riusciti a sconfiggere l'Orrore Arcano così lo aveva chiamato la strega.
«Non può mancare molto.» Disse Kyra, asciugandosi il sudore dalla fronte. Quel posto stava fiaccando le sue resistenze. Creature magiche, maledizioni e fantasmi si nascondevano dietro ogni angolo e lei sembrava l'unica lì dentro a sobbalzare per ogni singolo rumore.
Infine, giunsero ad una pozza d'acqua poco profonda, scorgendo dall'altro lato una scalinata dall'aria pericolante, che scendeva in profondità.
Si scambiarono uno sguardo. La puzza dei lupi mannari si poteva avvertire fin là sopra, era chiaro che quello fosse uno degli accessi alla loro tana.
Scesero le scale, attenti non fare rumore.
Subito si resero conto di essere osservati. Kamal proteggeva il fianco sinistro, mentre Riful stava nelle retrovie, il bastone alzato e pronto a lanciare uno dei suoi incantesimi. Tenendo la strega sempre sott'occhio, non le piaceva averla alle spalle, incoccò una freccia. Kilik, di fianco a lei, aveva un'espressione tesa, i capelli scuri appiccicati alla fronte a causa del sangue che gli colava da una ferita superficiale.
Come previsto, una mezza dozzina di lupi furono loro addosso, costringendoli ben presto ad una ritirata sulle scale. Da lì, con Castalia e Kamal che mantenevano saldamente la posizione affrontando un lupo alla volta grazie allo spazio ristretto, Kyra riusciva a mirare perfettamente ai punti deboli delle bestie, che caddero una dopo l'altra sotto le sue frecce e gli incantesimi di Riful. Quando anche l'ultimo venne abbattuto da Kamal con un potente colpo di spada, che recise la testa dell'animale di netto, si fecero strada nell'angusta stanza di pietra. Una porta di legno, marcio e graffiato, si ergeva di fronte a loro.
Senza troppi complimenti, Castalia la sfondò con un calcio. «Tanto, l'effetto sorpresa ce lo siamo scordato da un bel po'.» Ringhiò la Venator, le nocche sbiancate da quanto stava stringendo la sua spada, pronta ad attaccare qualunque cosa si celasse lì dietro.
Kyra sentì Riful ridacchiare, ma era troppo tesa per trovare qualcosa di divertente in quella situazione. Attraversarono il varco, trovandosi in una grande stanza circolare, illuminata da una fioca luce che arrivava dall'alto.
Quattro lupi si ergevano al centro di essa, ma, invece che attaccare come Kyra si sarebbe aspettata, uno di essi si fece loro incontro, i denti scoperti. I suoi compagni ringhiarono rabbiosi, ma quello alzò una delle zampe anteriori, mettendoli a tacere.
«Fermi, fratelli miei.» Disse, con una voce roca e bestiale, per poi rivolgersi direttamente ai nuovi arrivati. «Intrusi. Non desideriamo altro spargimento di sangue. Siete disposti a parlare?»
«Parlare!» Sbottò Kyra, tendendo l'arco di fronte a sé e mirando all'occhio della creatura. «Dopo averci attaccati, osate chiedere di parlare?!»
«Dammi anche un solo motivo per cui dovrei sprecare fiato, bestia.» Ribatté Castalia, che non accennava ad abbassare la propria arma.
«Sono stato mandato dalla Signora della Foresta a chiedervi un incontro.» Insistette il lupo. «Crede che i Druidi non vi abbiano detto tutto.»
Vide Castalia avanzare di un passo. «E ti aspetti che cadremo in un tranello così ovvio?»
«Non intende farvi del male, purché voi non abbiate…»
Non riuscì a finire la frase, che una delle frecce di Kyra gli si piantò nell'occhio destro, conficcandosi fino all'impennaggio.
Con un urlo rabbioso, i lupi si scagliarono loro addosso, ma vennero colpiti da uno degli incantesimi di Riful, che li rallentò abbastanza da permettere ad Castalia e Kamal di mettersi in una posizione avvantaggiata. La Druida affondò l'elsa della spada nella gola esposta del lupo ferito, estraendola in un fiotto di sangue scuro che le si riversò sul pettorale dell'armatura leggera che indossava. Senza farci caso, oltrepassò il cadavere, aiutando Kamal a ucciderne un altro.
Altri tre lupi sopraggiunsero a dare una mano ai compagni, ma furono sconfitti e uccisi.
Tra loro e Zannelucenti, soltanto un'altra porta di legno, che fece la fine della precedente.
«E così non volete sentire ragioni.» Li accolse una voce di donna, che rimbombò limpida nella caverna come una goccia che si propaga in cerchi concentrici in uno specchio d'acqua.
Dal buio, emerse una figura femminile, nuda fatta eccezione per gli indumenti grezzi che le coprivano i seni e l’inguine. Era una Draide.
«Mia signora!» Gemette una familiare voce ringhiante, chiaramente in agonia.
Kyra si voltò verso di essa, scorgendo con soddisfazione il Licantropo, che giaceva morente in una pozza di sangue che gli usciva da un grosso squarcio sulla zampa posteriore, provocatogli da Castalia nello scontro precedente al loro ingresso nelle rovine. Se era riuscito ad arrivare fin lì, era stato soltanto grazie all'intervento di Zannelucenti, che li aveva colti di sorpresa.
Non si sarebbero lasciati fregare un'altra volta.
«Non muoverti, amico mio. Le tue ferite sono già abbastanza gravi.» Lo ammonì la donna, per poi rivolgersi nuovamente a loro, facendo un gesto ad indicare i pochi lupi rimasti, che le si erano stretti intorno, a proteggerla. «Siete stati mandati qui alla cieca, eppure combattete con tanta furia.»
«Non siamo qui per perdere tempo in chiacchiere.» La interruppe Castalia. «Dicci dov'è Zannelucenti Draide, e facciamola finita.»
I lupi mannari attorno alla donna si agitarono ancora di più, pronti a balzar loro addosso. I loro ringhi le facevano accapponare la pelle, ma erano così vicini al loro obbiettivo, che Kyra quasi non provava più paura, sostituita da una furia cieca che la pervadeva.
«Chiaramente, è lei stessa Zannelucenti.» Disse Riful, indicando la donna.
«Dici bene, mortale.» Ammise quella. «E ognuno di loro, qui, morirebbe per salvarmi.»
I lupi ringhiarono la propria approvazione.
«Tuttavia,» Parlò ancora Zannelucenti, alzando una mano pallida per placare i ruggiti «non desidero che venga sparso altro sangue. Se proprio non volete ascoltare le mie parole, prendete il mio cuore, mortali, ma risparmiate queste povere anime maledette.»
«Mia signora!» Si oppose un Licantropo, riuscendo a strisciare di qualche metro verso di lei. «Non fatelo, vi prego!»
«Fa' silenzio.» Lo redarguì. «Non abbiamo altra scelta, siamo rimasti in pochi, ed è chiaro che possono sopraffarci. Chiedo solo pietà per coloro che combattono ogni giorno contro la propria natura di bestie selvagge, a loro imposta da qualcuno che non conosce perdono.»
«Che intendi dire?» Chiese Castalia.
Kyra le rivolse uno sguardo sorpreso. Avevano di fronte soltanto cinque lupi oltre a Zannelucenti, la vittoria era ormai loro, e lei sceglieva di parlare con quel Sirena dei boschi? «Che importa? Uccidiamoli e prendiamo il suo cuore, siamo qui per questo.» Ribatté irata.
La donna la guardò con i suoi occhi neri e inespressivi. «La tua anima è piena d'odio, e paura. Non dissimile da quella della vostra Somma Madre. Capisco perché abbia trovato in te un'alleata così tenace.»
«Sta' zitta.» La ammonì Kyra, le mani che fremevano per lasciare andare la corda tesa dell'arco.
«Ma una vita dettata dalla vendetta può considerarsi vissuta?» Continuò Zannelucenti, imperterrita. «Per colpa di un amore proibito, siamo ancora maledetti. È questo che credi gusto? Che il mio amore verso il Sommo Padre sia diventato questa orribile maledizione?»
«Tu, e mio Padre?!» Chiese Castalia incredula.
«Si. Io e tuo padre eravamo amanti. Quando tu madre l’ha scoperto, ha usato la sua magia su di me, e sulle mie sorelle Draidi. Le ha trasformate in mostri privi di senno, una vendetta Castalia.»
La Venator indietreggiò, era sconvolta.
«Fa' silenzio!» Urlò Kyra, perdendo la pazienza e scoccando una freccia, che si andò a conficcare nello stomaco della donna. Quella si accasciò con un gemito, crollando in ginocchio.
Immediatamente, i lupi si lanciarono all'attacco.
Kyra incoccava e lanciava senza nemmeno mirare, presa com'era da un unico pensiero fisso: uccidere quella creatura. Quasi non fece caso ad una zampata che le sfiorò il fianco, i grandi artigli ricurvi che si chiudevano ad un soffio dalla sua gamba, mentre lei spiccava un balzo per superare uno dei cadaveri a terra e raggiungere Zannelucenti, che nel frattempo si contorceva tra i lamenti.
Vide la donna, ora con il corpo che si era coperto di pelliccia bianca, il volto allungato in un muso lupino, alzare lo sguardo verso di lei, in un lamento animalesco.
«No!»
Venne colpita alle spalle da qualcosa, che le cadde rovinosamente addosso bloccandola al terreno. Si ritrovò schiacciata dal massiccio corpo di un altro Licantropo, il sangue del lupo mannaro ad imbrattarle le vesti, cercando di tenere le fauci della bestia lontane da sé. In un groviglio di artigli, pelo e sangue, cercò di liberarsi, l'arco le era caduto lontano e il coltello da caccia che portava alla cintura era irraggiungibile. I denti schioccarono a pochi millimetri dal suo naso, mentre il peso del lupo schiacciato contro il torace le toglieva il respiro, annebbiandole la vista.
“Creatore...”
Improvvisamente, la presa si allentò, permettendole di raccogliere le ginocchia e spingerlo via da sé. Quello scivolò a terra senza opporre resistenza.
Notò un coltello conficcato nella giugulare del lupo, che ebbe qualche ultimo spasmo, sputando sangue in un ringhio gorgogliante.
Afferrò la mano di Kilik, che l'aiutò a rimettersi in piedi. Gli rivolse un cenno del capo, prima di focalizzare di nuovo la sua attenzione su Zannelucenti.
La Draide mezzo lupo giaceva a terra.
Castalia troneggiava su di loro, zuppa di sangue dei nemici, reggendosi alla spada che poggiava a terra. «È finita.»
Kyra le si affiancò, estraendo il coltello dalla cintura.
«Così la maledizione ha fine, nel sangue.» Rantolò Zannelucenti, premendosi una mano sulla ferita. «Almeno, troveremo pace… dopo così tanto tempo...» Esalò l'ultimo respiro, mentre la mano che premeva contro il ventre scivolava a terra, priva di vita.
Rimasero per un attimo in silenzio, quando la voce di Kilik le riscosse. «Quindi… tua madre ha creato la maledizione…»
Castalia non rispose.
«Anche mia madre era…. Una donna gelosa, pensa che una volta a mio padre…»
«Sta zitto!»
«Giusto, non importa. Qualsiasi cosa fosse, la ragione della maledizione. Ora la nostra gente è salva.» Rispose decisa Kyra, chinandosi sul cadavere, il coltello da caccia stretto in mano. Esitò un attimo, non sapendo da che parte cominciare.
La mano di Castalia si posò sulla sua. Incrociò lo sguardo dell'altra, facendosi poi da parte.
Con gesti esperti, la Druida affondò il coltello nella carne della Draide, estraendone con maestria il cuore e avvolgendolo in una pelle, che ripose in una sacca legata alla cintura.
«Andiamocene.»
Uscirono in superficie tramite un passaggio che si snodava attorno alle radici dei grandi alberi. Inspirando la brezza umida della foresta, Kyra chiuse gli occhi.
Avevano davvero fatto la cosa giusta?
«Avete ottenuto il cuore?»
Si voltarono di scatto, sorpresi di vedere la madre di Castalia avvicinarsi a loro.
Castalia sollevò la sacca di pelle, annuendo. «Non ti fidi di me madre?»
«Quello spirito e le sue bestie potevano essere ingannevoli…» Ribatté la donna. «Volevo sincerarmi che non foste caduti nei loro tranelli.» Prese la sacca e controllò il contenuto, accennando un sorriso compiaciuto. «Questo salverà parecchie vite…»
«Hai… hai lanciato tu la maledizione sulle Draidi.»
«Cosa?»
«Ti ho chiesto, se sei stata tu a maledire quelle Draidi?»
La donna le fece un sorriso storto. «Castalia figlia mia, è tutto molto complicato da spiegare…»
«Ti sbagli è semplice invece. Hai maledetto una tribù di Draidi per gelosia… in molti sono morti a causa tua. Dovevi dirmelo, invece hai preferito che un estraneo mi trascinasse in una guerra…»
«Non è così…»
«E allora com’è? Mi hai usata…mi hai sempre usata…»
La donna abbassò lo sguardo, sembrava provare vergogna a guardarla. «Castalia io…»
«Falla finita, ti chiedo solo una cosa. Manda messaggeri agli altri clan, digli di tenersi pronti per la battaglia contro l’Orda, aiutami a salvare il Khanduras e dimenticami.»
«Castalia…»
La Venator si voltò e senza dire nulla si allontanò nella foresta.
Tornarono all'accampamento senza contrattempi.
La Druida sparì nella sua tenda a lavorare per spezzare la maledizione sui cacciatori mentre il gruppo venne accolto dagli altri Druidi con gratitudine.
Li fecero accomodare attorno al falò principale, medicando loro le ferite e condividendo la cena.
Distrutta dalla stanchezza, Castalia si arrovellava su quanto era successo. Le parole di Zannelucenti le rimbombavano in mente. Scosse la testa, incapace di togliersi di dosso il disagio che le provocavano, e iniziò a pulire la sua ricompensa. Una spada Druida di eccellente fattura.
«Combatti bene, per una che ha lasciato il clan.»
Sollevò lo sguardo. Kyra, che nel frattempo si era data una ripulita, la guardava con uno strano sguardo, sembrava ammirazione.
«Anche tu…»
«Sei… davvero brava ad usare quella spada, dimmi come fai? Sembra pesante.»
«Credimi, è più leggera di quanto sembri.» Rispose la Venator intercettando il suo sguardo e sedendosi accanto a lei.
«Un'arma degna di un Venator.»
La sentì sospirare. «Già. Sembra proprio che non possa evitarlo.»
Si girò a guardarla, incuriosita. «Che intendi dire?»
Castalia si guardò attorno. Sembrava che ogni singolo metro dell'accampamento risvegliasse in lei qualcosa, che si nascondeva tumultuoso dietro agli occhi verdi della ragazza. La vide esitare qualche attimo, prima di estrarre qualcosa dalla tasca.
Sul palmo della mano, brillava una fialetta di vetro, piena di un liquido scuro. “Sangue?”
«Non fosse per questo, non sarei qui.» Cominciò a raccontare la Druida. «Stavo bene qui. Non me ne sarei mai andata via, se...» Si interruppe bruscamente, la voce rotta. Tirò su col naso. Kyra si accorse che aveva gli occhi lucidi. All'improvviso, si rese conto che l'altra non poteva avere più di diciassette, diciotto anni, e nonostante il ruolo di Venator che ricopriva, era pur sempre una ragazzina.
«Non devi per forza…»
«Te lo sto dicendo perché devi capire una cosa.» La interruppe Castalia, stringendo il pugno attorno alla fialetta che teneva in mano.
«Non volevo essere un Venator, mi hanno trascinata via, a forza, persino mia madre mi ha tradita, lasciando che uno sconosciuto mi gettasse in mezzo a tutto questo casino. Che il Temibile Lupo se lo porti, quello poi ha anche tirato le cuoia.» Sbuffò, per poi guardarla dritto negli occhi. «Tu sapevi che era stata mia Madre a creare la maledizione, vero?»
Dopo un attimo di esitazione, Kyra annuì.
«Non so esattamente perché odi tanto le altre persone, ma posso intuirlo. E capisco perché hai scelto di ucciderli tutti, invece che dare una possibilità a Zannelucenti di spiegarsi. Avresti potuto rompere la maledizione, ma non hai voluto farlo.»
«Disapprovi?» Le chiese Kyra.
Castalia scosse la testa. «Onestamente? Non mi interessa più di nulla. Il mondo in cui viviamo è sull’orlo della fine. Se non riusciamo a fermare l’Orda. Tutto questo finirà, e migliaia di persone moriranno. Conta solo questo ora. E sai una cosa, è stato il tempo passato con quei pazzi che mi porto dietro a farmelo capire.»
Sentì un peso sollevarsi dal suo stomaco. «Avrei dovuto dirtelo, ma avevo paura che... non avresti capito... i Venator sono così…»
«...eroici?» Le suggerì l'altra, scuotendo la testa. «Julian avrebbe di sicuro cercato una soluzione pacifica. Lui sì che è un eroe uscito da qualche storia. Di quelli che finiscono uccisi per la propria stupidità. Io sono solo arrabbiata.»
Rimasero in silenzio per qualche tempo, ascoltando il brusio dell'accampamento attorno a loro e lo scoppiettare delle braci del falò. Kyra rimuginava su quanto era successo in quelle settimane, da quella sfortunata mattina in cui avrebbe dovuto sposarsi. Come si era ripresa a fatica da quello che le avevano fatto Torygg Kendells e il suo mago, gli sguardi di pietà, compassione e disgusto negli occhi dei suoi vicini, che l'avevano alla fine costretta a fuggire da quel posto, nella notte, senza salutare e sperando di non incrociare nessuno, alla ricerca di un nuovo inizio.
In sottofondo, qualcuno iniziò ad intonare una canzone sulla caduta di Arlathan, le note dolci e malinconiche che riempivano l'aria. Osservò con la coda dell'occhio la ragazza accanto a lei, che fissava il fuoco senza vederlo, persa in chissà quale doloroso ricordo.
Era scappata lì per riprendersi la sua dignità. Eppure, dopo il bagno di sangue che si era consumato quel giorno, non si sentiva meglio. Il vuoto che l'aveva spinta ad andarsene da casa era ancora lì.
«Partirete domani?» Chiese a Castalia.
L'altra annuì. «Dobbiamo incontrarci poco fuori Tristam tra una settimana.»
«Verrò con te.»
Castalia si girò, sorpresa. «Credevo ti trovassi bene qui.»
Kyra ascoltò un'altra strofa della canzone, l'amaro in bocca. «Mi hanno accolta, ma non sono una di loro. E non sono nemmeno più una semplice ragazza che lavora al mercato, sperando di avere abbastanza soldi per comprarmi una casa decente e ottenere un buon matrimonio.» Si sfilò l'arco che aveva trovato nelle rovine, accarezzandone il legno levigato. «Non so cosa fare di me stessa, ma se posso essere d'aiuto nel fermare l’Orda, farò la mia parte.»
Castalia, che era rimasta ad ascoltare in silenzio, accennò un sorriso. «Ti toccherà viaggiare con parecchi tipi strani. E maghi.»
«Sopporterò.» Promise. «A patto che non mi infastidiscano.»
«Oh, stai pur tranquilla, il più fastidioso qui è Kilik.» La rassicurò l'altra, indicando con un cenno del capo, l’uomo che nel frattempo era occupatissimo a parlottare con una coppia di giovani che sembravano sconvolti da qualsiasi cosa stesse loro raccontando.
“Melava inan enasal ir su aravel tu elvaral u na emma abelas in elgar sa vir mana in tu setheneran din emma na lath sulevin lath aravel ena arla ven tu vir mahvir melana 'nehn enasal ir sa lethalin”
Kyra ascoltava la canzone, senza riuscire a carpirne tutte le parole.
«Il tempo era allora una benedizione, ma i lunghi viaggi sono più ardui quando si è da soli. Prendi forza dai tempi passati, ma non perderti in luoghi non più tuoi. Sii determinato nel momento del bisogno, un domani apparirà la strada verso casa e il tempo sarà di nuovo fonte di gioia.» Sentì Castalia recitare con voce solenne.
La ringraziò con un cenno del capo, mentre il coro dei Druidi andava avanti nella loro litania, ascoltando passo passo la traduzione dell'altra.
Le parve di vedere qualcosa muoversi tra gli alberi, ma quando riuscì a mettere a fuoco la foresta attorno a loro, oltre la zona delimitata dalla luce del falò, non c'era nessuno. La sensazione di essere osservata però non si affievolì, ma rimase come un insetto ronzante a punzecchiarle la nuca.
Il canto del Clan si spense in una nota vibrante che sembrò rimbombare per tutta Brugge, accompagnandola nel loro viaggio per i giorni a seguire.
“Maledizione!” Imprecò mentalmente Ichabod, evitando per un soffio una delle enormi corna del Risvegliato. I Risvegliati li avevano colti di sorpresa, appena usciti dalla foresta. La strada principale svoltava fiancheggiando un ripido dirupo, e non erano stati in grado di evitare un manipolo di cadaveri, che li aveva ora chiusi a tenaglia.
Julian e Ellena se l'erano cavata abbastanza bene a tenere a bada gli assalitori in quello spazio ristretto, fino a quando, dalla scarpata sopra di loro, non era sopraggiunto un Risvegliato, le fauci grondanti sangue e gli artigli pronti a smembrare chiunque gli fosse capitato a tiro. Sfortunatamente, quel qualcuno era attualmente lui.
Il mago cercò rifugio appiattendosi contro la parete rocciosa, il terrore di scivolare di sotto grande quasi quello di essere fatto a pezzi dal mostro.
«Abbassati!»
Fece appena in tempo a scansarsi, che un incantesimo lanciato da Lisandra si schiantò come un pugno di pietra sul gigante, colpendolo alla testa e facendolo barcollare. Julian, approfittando di quella momentanea debolezza, si lanciò nuovamente all'attacco, spostando con un poderoso colpo del suo scudo il braccio del mostro, mentre con la spada lo trafiggeva nel bassoventre. Sangue violaceo schizzò dalla ferita, che andò ad imbrattare l'armatura ammaccata del guerriero.
Il mostro ringhiò imbufalito, caricando con le corna il Venator. Non fosse stato per l'intervento di Senua, che gli lanciò imprecando uno dei suoi coltelli dritto in un occhio, lo avrebbe sicuramente calpestato e ridotto in poltiglia. Ferito di nuovo, il mostro caracollò in avanti, tuttavia la strada verso di loro era ormai libera, Julian che giaceva stordito a terra.
Ichabod lanciò prontamente una serie di rune di paralisi, nella speranza di rallentarlo abbastanza e permettere a Ellena, che stava mantenendo la retroguardia assieme alla barbara, di raggiungerli.
Non fu sufficiente.
Il Risvegliato venne sì rallentato, ma i morti che lo seguivano, spronati alla carica e riacquistato il proprio vigore alla vista del Venator caduto, si fiondarono loro addosso.
«Tundra, vai da Julian!» Sentì Ellena urlare. Il lupo si scagliò contro il cadavere più vicino, buttandolo a terra e superandolo poi con un balzo. Afferrò il Venator per un braccio, i denti che facevano presa sull'armatura, trascinandolo al riparo dietro una piccola sporgenza. Si avventò poi su un cadavere rianimato di un grassone che aveva osato avvicinarsi troppo, gettandolo giù dal dirupo.
Digrignando i denti per lo sforzo, il mago raccolse le ultime energie rimaste, evocando una palla di fuoco rovente che colpì i tre Ghoul di fronte a sé, riuscendo per un caso fortuito a gettarne di sotto due. Il terzo gli era quasi addosso, quando una freccia di Miria gli si conficcò in gola, facendolo barcollare in avanti e crollargli ai piedi con un orrendo gorgoglio.
Finalmente, Ellena lo superò correndo, andando a caricare con lo scudo il Risvegliato che si stava rialzando, stordendolo di nuovo e spingendo la spada nella nuca del mostro fino all'elsa. La ragazza era coperta di sangue, la benda che solitamente portava sull'orbita vuota penzolava al lato della testa e i capelli ridotti ad una sciolta massa scarmigliata le davano l'aria di un personaggio di qualche libro. Si girò a chiamare il suo lupo, e Tundra abbaiò in risposta, gettandosi di peso contro un altro cadavere buttandolo giù dal dirupo.
«Sembra che siano…» Miria non fece in tempo a finire la frase, che uno strillo acuto, disumano, perforò loro i timpani. Si voltarono, soltanto per vedere Lisandra crollare a terra, uno altro mostro disumano era spuntato dal nulla alle sue spalle.
«No!» Urlò la sacerdotessa, mirando alla creatura e colpendola di striscio ad una delle zampe posteriori. Quella non fece altro che infuriarsi ulteriormente, lanciandosi contro la ragazza. Ichabod riuscì soltanto a spedirle contro una saetta, che la scalfì a malapena, bruciandola appena e rallentandola, ma non abbastanza da impedirle di gettare a terra Miria.
Sentì Ellena gridare qualcosa, ma la guerriera era troppo lontana, la spada ancora conficcata nel cadavere del Risvegliato...
Il cadavere rianimato urlò di nuovo, stavolta di dolore.
Sbalordito, Ichabod vide l'elsa di uno dei pugnali di Miria spuntare dal fianco del morto vivente. Quello rotolò via dalla sua preda, indietreggiando ferito e ringhiando.
Tundra gli fu addosso, scaraventandolo oltre il precipizio.
Ichabod si girò su se stesso, controllando se ci fossero altri mostri, senza più forze. Si concesse un sospiro di sollievo: sembravano aver sconfitto l'ultimo.
«Lisandra!»
«Lisandra, svegliati!»
Ellena e Miria erano chine sul corpo immobile della vecchia.
Il mago si ritrovò a sperare che fosse morta. Almeno, non avrebbe dovuto più subirsi i suoi continui sguardi di disapprovazione.
Con suo grande stupore, ma soprattutto disappunto, attorno alla maga si propagò un lampo di luce azzurrina, e con un sussulto, la vecchia riaprì gli occhi, tossendo.
“La mia solita fortuna.” Sbuffò, appoggiandosi al bastone magico e limitandosi a lanciare un'occhiataccia alle due ragazze, che stavano stringendo Lisandra in un abbraccio sollevato.
«Ero certa che... ma com'è possibile?» Chiese la Von Meyer, staccandosi e permettendole di respirare.
La maga scosse la testa, sembrava sorpresa quanto loro.
«Sto bene anch'io, non vi preoccupate...» Gracchiò Julian, raggiungendole barcollando leggermente e usando la spada come stampella.
Ichabod vide Ellena arrossire violentemente, ma forse era soltanto la foga della battaglia.
La ragazza corse subito a sorreggerlo, rinfoderando la spada e passando il braccio del Venator sopra la propria spalla. «Siediti, sei ferito!»
L'altro si guardò intensamente i piedi, evitando di poggiare tutto il peso su di lei. «Solo un po' ammaccato...» balbettò.
Il mago roteò gli occhi al cielo.
«Mi ricordano qualcuno.» Commentò una voce fastidiosa.
Posò lo sguardo sulla smorfia divertita di Senua. «Non dire idiozie.»
«Ma cosa c'entri, parlavo di qualcun altro...» Lo condì via la barbara, ripulendo i coltellacci dal sangue e rinfoderandoli con cura nella cintura, andando poi a recuperare il piccolo coltello da lancio dal cadavere del Risvegliato.
Raggiunsero Tristam due giorni dopo, stanchi morti e non desiderando altro che dormire su un letto degno di tal nome. In un atto di inaspettata generosità, Senua aveva offerto loro delle stanze, così da riacquistare le forze e guarire dalle ferite. Ichabod non era mai stato in una città così caotica. Il mercato era affollato e pieno di mercanti che urlavano per pubblicizzare i propri prodotti, gente che si aggirava in cerca di affari, mendicanti, ubriaconi, nobili altezzosi e semplici perdigiorno.
Senza che neanche se ne accorgesse, un ragazzino smunto e sporco lo urtò correndo, rischiando di mandarlo a terra. Prima che potesse anche solo insultarlo, Senua lo aveva già afferrato per la cintura dei pantaloni, spedendolo sull'acciottolato con un calcio nel sedere e bloccandogli i movimenti premendo lo stivale sul suo petto. Ichabod notò sgomento che in mano teneva il suo grimorio nero.
«Se vuoi fare un buon lavoro, evita di fare il coglione.» Lo redarguì aspramente, strappandogli di mano il libro. Il poveretto stava per farsela sotto, quando lei lo lasciò andare. Si rialzò in un lampo, mettendosi a correre e sparendo in uno dei vicoli secondari.
«Manco i borseggiatori sapete fare...» La sentì commentare, scuotendo la testa.
Ichabod si limitò a ridacchiare, riprendendosi il grimorio. «Ho soltanto un paio di libri e tre monete di rame in tasca, ha scelto decisamente male chi derubare.»
«Ah, nessun problema. Oggi offro io.»
Il mago inarcò un sopracciglio. «A cosa devo tutta questa generosità?»
L'altra sogghignò, una smorfia che le metteva ancora più in risalto il naso storto e le cicatrici che le solcavano il volto. «Mi hai mosso a pietà.»
Senza dare altre spiegazioni, oltrepassarono il quartiere del mercato e raggiunsero un ponte, che li portò sull'altra sponda del fiume Drakon, il grande corso d'acqua che divideva in due la città. Costeggiarono per parecchi minuti un'enorme palizzata di legno. Ichabod notò che era pieno di guardie che ne controllavano il perimetro.
Senza fermarsi a guardare, proseguirono lungo una serie di intricate viuzze labirintiche, strette tra i palazzi di legno che sembravano essere spuntati senza un ordine preciso. Finalmente, Senua si fermò bruscamente, le mani poggiate sui fianchi e un’espressione trionfante in volto. «Siamo arrivati!»
Erano di fronte ad un edificio tenuto in uno stato migliore degli altri, con un’insegna in legno smangiata dal tempo ma riverniciata di recente, che recava la scritta “La Perla” in caratteri storti. Come ad annunciare la funzione del luogo, alcuni uomini e donne in abiti succinti richiamavano l'attenzione di potenziali clienti.
«Mi... mi hai portato in un bordello.»
«Non in un bordello qualsiasi, ma nel migliore di tutto il Nord! Qui puoi trovare tutte le donne più esotiche del mondo, ci sono perfino le Amazzoni.» Lo rimbeccò Senua, procedendo a grandi passi oltre l'ingresso. A Ichabod non restò altro che seguirla, più perplesso e divertito che effettivamente offeso.
«Spero tu sia venuta a saldare i debiti, Senua.» Li accolse una donna pallida, i capelli raccolti in una treccia castana attorno alla testa e il vestito scollato che lasciava poco all'immaginazione.
«Sanga, Sanga... Ne dubitavi?» Senua tirò fuori dalla tasca quattro monete d'oro, che depositò sul bancone di legno, facendole tintinnare. La donna dall'altro lato sgranò gli occhi per la sorpresa, ma si affrettò ad afferrare il denaro, mordendolo con i denti per saggiarne l'autenticità.
Parve soddisfatta. Fece segno a qualcuno dietro di lei. Un uomo muscoloso dalla folta barba scura si avvicinò loro strizzando l'occhio a Senua.
«Ti affido il mio amico, Sanga, trovagli una bella ragazza con cui divertirsi.» Prima che Ichabod potesse ribattere, la barbara gli affibbiò una pacca sul culo, lo schiocco che rimbombò per la saletta, allontanandosi ridendo verso una delle stanze adiacenti.
«Allora, ti presento un po' le ragazze? Abbiamo anche una Sangue Sporco Akyshar, e una mezza Draide dal corpo niveo» Gli chiese la proprietaria del bordello, un sorriso cordiale in volto. «Per quella cifra, puoi pure sceglierne un paio e tenertele tutta la giornata...» Il mago tossicchiò, cercando una scusa per andarsene. In cosa lo aveva trascinato quella pazza...
«Per ora, vorrei soltanto qualcosa da bere.» Rispose, indicando una delle tante bottiglie che erano in esposizione sullo scaffale dietro al bancone. “Che figura ci faccio se scappo via come un lattante?!” L'altra sospirò, con l'aria di chi la sapeva lunga, ma gli versò di buon grado un bicchiere di qualcosa che non era sicuramente vino, a giudicare dall'odore e dal colore. Ichabod si sedette ad un tavolino in un angolo, sorseggiando qualunque cosa gli avessero propinato, incerto sul da farsi.
Forse avrebbe dovuto seguire gli altri.
Avevano trovato l'appartamento dello studioso, ma la porta era sprangata, con un cartello appeso che invitava i visitatori a passare dopo qualche giorno. Avevano quindi chiesto ai vicini di casa, e quelli avevano confermato che Genitivi non era stato visto da qualche tempo, tuttavia, il suo assistente a volte faceva visita all'appartamento. Il gruppo aveva quindi deciso di separarsi, andando alla ricerca di vettovaglie e altre utilità per affrontare il viaggio che li aspettava. Mentre lui, preso da chissà quale demone della follia, si era lasciato portare a sua insaputa lì dentro. Sospirò, maledicendo i rumori inequivocabili che echeggiavano nel salone, nonostante le porte chiuse, e affogando nell'alcol la sensazione di fastidio nelle vesti, che si faceva sempre più pressante.
«Non vorrai mica restartene qui tutto solo...» Lo ridestò una voce femminile. Sollevò lo sguardo dal bicchiere, posandolo sulla donna che aveva di fronte. Era sicuramente di bell'aspetto, i capelli scuri erano raccolti in treccine ribali molto sottili e ben curate, aveva un colorito olivastro, il fisico tonico messo in risalto dalle vesti attillate e aperte sulla scollatura prosperosa. Il mago deglutì il suo liquore, cercando di mantenersi il più distaccato possibile, senza poter fare a meno di guardare la grossa scollatura. «Grazie, ma non credo sia il caso.»
«Capisco. Non rifiuterai certo di bere in compagnia però, no?» Insistette la ragazza, sedendosi accanto a lui senza aspettare una risposta, un bicchiere di vino scuro nella mano curata, accavallando le gambe snelle. Doveva essere un amazzone. Ichabod non poté fare a meno di maledire Senua per l'ennesima volta. Lanciò uno sguardo alla porta d'ingresso, combattuto sul da farsi. Il sorriso di Katrina gli balenò davanti agli occhi. Era lei e solo lei che Ichabod voleva. E dopo averla liberata gli avrebbe detto ciò che provava per lei.
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“Stiamo scomparendo, ci hanno rubato l’immaginario, dobbiamo ritrovare lo stupore, oltre l’apocalisse”: Matteo Meschiari dialoga con Simone Cerlini
Un fantasma si aggira per l’Europa. Un’entità mutaforma millenaria che oggi ha il volto dell’Annientamento, dell’Apocalisse, dell’Estinzione, sotto alla maschera del collasso climatico. Si è chiamata Tramonto dell’Occidente, Genocidio, si è mostrata, nuda, con l’annichilimento nucleare, ma in fin dei conti la conosciamo da sempre: la Dea con la Falce, nostra compagna Morte. L’opera d’arte da sempre ha che fare con la sua signora e la letteratura non sfugge a questo destino. Matteo Meschiari è un profeta della morte. La canta nelle forme in cui l’ha vista compiersi. La morte del paesaggio, la morte dei popoli, la morte dei saperi, degli imperi, delle culture, delle lingue. Come l’Angelo della Storia di Benjamin, lo sguardo rivolto al passato, ha avuto un’intuizione del futuro. Ha deciso di dare uno sguardo, Orfeo al contrario, e di sbirciare avanti. Ha visto ciò che non si può raccontare. La sua opera mette al centro l’Abisso. Senza paura di caderci dentro, sono andato a curiosare.
Mi permetto una piccola digressione. Per aggiungere senso a Matteo Meschiari e al suo romanzo, L’ora del mondo (Hacca, 2019), è importante gettare uno sguardo alle sue origini. Matteo è un emiliano d’Appennino e delle montagne parla, come hanno fatto autori meravigliosi prima di lui: Cavani, Pederiali, Maggiani, Crovi, Ferretti, oggi mi piace citare Sandro Campani. È importante ricordarlo perché chi non conosce l’Appennino non sa che quelle lande, soprattutto nel lembo di terra Tosco Emiliano, sono la culla dell’anarchia. Non so bene per quale ragione storica o geopolitica, ma lì ancora oggi unisce le persone una fortissima avversione per i poteri costituiti, per le autorità, per le verità condivise. Ai piedi del Cimone o del Cusna ti insegnano dalla culla a non dar nulla per scontato, a pensare con la tua testa, a non affidarti a nessun maestro e nessuna guida, a mettere tutto in discussione. A guardare il mondo dritto negli occhi e a darsi da sé le regole del proprio vivere. Tenete in considerazione questo assunto, quando leggete e ascoltate un emiliano, o un toscano, che puzza di montagna.
Ciao Matteo, vorrei andare subito al punto, con te, non ci rimane molto tempo. Abbiamo raggiunto un punto di non ritorno. L’essere umano è disposto ad aspettare fino a quando arriva il tempo dell’annientamento e dell’apocalisse. Sembra che ci avviciniamo alla soglia.
L’abbiamo superata. Ormai è troppo tardi. Ascoltami, non ci rimane che rafforzare l’immaginario per preparare i nostri figli a sopravvivere. L’immaginario è una facoltà cognitiva che l’evoluzione ha selezionato per anticipare il futuro. Per addestrarci a seguire le tracce lasciate dalle prede, per sperimentare le tecniche e le situazioni senza mettere a rischio la vita. È una facoltà che permette di razionalizzare il sogno, pianificare il domani. Le cose andranno molto molto male, voglio essere realista. Allora dobbiamo lavorare sull’immaginario attraverso gli strumenti che gli sono propri: ad esempio la letteratura, che ci può aiutare a stimolare e ad addestrare l’immaginario, a prefigurare condizioni estreme. Potenziare l’immaginario sarà una condizione essenziale per la sopravvivenza. L’umanità è sempre stata capace di affrontare momenti durissimi attraverso l’immaginario. Un immaginario assuefatto, stereotipato, atrofizzato è quello che ci rende meno reattivi di fronte al limite e alle difficoltà. Vivere immersi nell’anestesia è la condizione che prepara alla morte del singolo e della specie. Dobbiamo ribellarci all’imperialismo dell’anestesia, con l’unico obiettivo di facilitare la sopravvivenza.
Ma voglio fingere di essere ottimista. Se anche avessimo probabilità di continuare a esistere per ciò che siamo ora, ugualmente, esercitare l’immaginario da subito su degli scenari che sembrano iperbolici e distopici, ma che sono probabili, forse riusciamo a inventare strategie per intervenire. Per ridurre il danno forse siamo in tempo. Un esempio molto semplice. Ci sono due personaggi che hanno inventato un nuovo rubinetto con nebulizzatore capace di risparmiare il novanta per cento di acqua. Se non avessero immaginato un futuro senz’acqua non avrebbero inventato il rubinetto. C’è una capacità retroattiva nell’immaginare il futuro che può avere ricadute sul presente in maniera tale da aiutarci ad affrontare ciò che ci aspetta con maggiori strumenti e capacità. È esattamente questa la funzione cognitiva, evoluzionistica, dell’immaginario.
Bene, mi sembra un programma per una letteratura impegnata. O ancora di più, per assegnare un fine necessario a ogni creazione che ha impatto sull’immaginario. La storia però insegna che laddove una qualsiasi autorità ha deciso di assegnare un obiettivo o una intenzione alla letteratura, alla costruzione di senso, non abbiamo avuto grandi risultati. Della letteratura di epoca sovietica ci ricordiamo di Šalamov e di Grossman, che esprimevano tutt’altro rispetto a ciò che chiedeva il potere. La cultura dell’epoca fascista ha creato scrittori straordinari, penso a Bilenchi, ma che hanno espresso il loro talento nonostante la propaganda di regime. Ciò che chiedeva e voleva il Miniculpop non ce lo ricordiamo più, quella parte è scomparsa, si è esaurita, era una costruzione senza fondamenta. Com’è possibile la coesistenza di una letteratura che ha una intenzione encomiabile, rafforzare e preparare l’immaginario, rispetto al rischio di una letteratura inessenziale, etero diretta, non libera?
Conosci il progetto Tina?
No.
Male. Dovresti. Per fare il verso a Volodine, devo subito citare il mio “eteronimo”, Antonio Vena, che in realtà è un individuo reale. Con lui abbiamo inventato e condiviso un progetto. Abbiamo montato un blog nel giugno di quest’anno che si chiama “La Grande Estinzione” in cui vogliamo ragionare su due aspetti fondamentali. Il primo è che cosa fare della e con la letteratura nell’età dell’“Antropocene”. Cosa significa scrivere ed essere autori in un’epoca dove tutto sta cambiando. Poi cercare di capire come trasformare la società, quale società dobbiamo fondare perché la sopravvivenza nel futuro non sia un fatto esclusivo per pochi. Abbiamo montato un esperimento, che per ora, visto che non si tratta di una situazione dove ci sono soldi in giro, è inclusivo e lascia ampi margini di libertà. Abbiamo chiamato questo progetto Tina, che è l’acronimo di There is no alternative, lo slogan degli anni Ottanta di Margaret Tatcher con il quale sosteneva che non c’era alternativa al liberismo. Noi vogliamo ribaltare questo assunto per dire che non c’è alternativa se rimaniamo nello spazio di senso aperto dal liberismo. Abbiamo chiamato il progetto Tina per evocare un passato che vogliamo rovesciare, ma anche come tributo a una ragazzina indigena del Canada uccisa nel 2014, Tina Fontaine. Nel Canada ogni anno scompaiono donne, bambini e bambine nativi, rapiti e ammazzati: un vero e proprio genocidio etnicamente connotato. Una ragazzina che è esistita, che ha vissuto ed è morta a quindici anni e non ha più una voce. In punta di piedi ci piaceva pensare che vogliamo ridare voce a chi non ce l’ha. La prospettiva ce l’ha indicata Walter Benjamin quando diceva in Angelus Novus che l’angelo della storia guarda all’indietro le rovine del passato voltando le spalle al futuro. L’Apocalisse non dobbiamo necessariamente immaginarla come qualcosa che ci sta davanti. Ci sono tante retro-apocalissi che l’umanità ha vissuto nel suo passato. Con un esercizio di reminescenza nell’immaginario, vogliamo recuperare tutto ciò che nel passato dell’umanità ci può far capire meglio il presente. Quindi più che fare giochi di proiezione sul futuro vogliamo guardare dove l’umanità ha vissuto reali apocalissi e ha rischiato o vissuto l’estinzione. Se non l’intera umanità certamente gruppi umani, popolazioni, culture e individui, in una qualche parte della terra, che avevano corpo occhi pelle sogni, scomparsi perché è accaduto qualcosa di catastrofico che non sono stati capaci di prevenire o affrontare. Abbiamo stilato una lista di 100 eventi che costellano la storia delle estinzioni biologiche e umane e abbiamo chiesto agli utenti della rete di re-immaginare queste situazioni, dando corpo e sostanza alle persone e alle storie, per costruire dei microromanzi tra le 1000 e le 3000 battute. Abbiamo avuto una risposta stupefacente. In due giorni i temi sono stati subito coperti, non da scrittori, necessariamente, ma da persone che avevano voglia di dare il loro contributo, di mettere in gioco il loro immaginario. Il 15 ottobre scorso abbiamo chiuso la raccolta e oggi abbiamo i testi. Li stiamo guardando e studiando, siamo stupiti dal livello, sì, se vogliamo, anche letterario. È un progetto che espressamente mantiene una dimensione collettiva, hanno partecipato più di 70 “scriventi”. Abbiamo lasciato la massima libertà e quello che abbiamo raccolto è secondo noi un modo per restaurare l’immaginario e al tempo stesso fondarne uno nuovo, lasciando completa libertà di proposta e contributo. Tina ci ha permesso di sviluppare una riflessione che ci porta a ripensare la letteratura partendo dalla base.
Bell’esperimento, concordo, ma cosa c’entra con il rischio di imprigionare la creazione con la scusa dell’impegno? Che legame c’è tra Tina e il rischio di una letteratura schiava e superflua? D’altra parte anche il progetto di cui parli impone un contenuto alla creazione.
Noi oggi pensiamo la letteratura partendo dalle biblioteche, dal mondo del libro, dall’editoria, dal canone, dal rispetto di un insieme di regole. Il mercato editoriale, l’industria culturale condiziona il modo di concepire la funzione stessa della letteratura. Se però noi iniziamo ad ascoltare anche le persone che non hanno la possibilità e neppure la volontà di imporsi in quel mercato, le persone che non hanno voce all’interno del sistema dell’industria culturale, è possibile lavorare sull’immaginario dalla base. Con il progetto Tina stiamo cercando di fare proprio questo. Ritrovare lo stupore davanti a idee, scenari, rivelazioni che possono venire dal buio che sta oltre o al di qua del nostro sguardo. Si tratta di riaprire i cancelli, estremamente chiusi. Siamo dentro a una bolla e non ce ne accorgiamo. Siamo sì e no tremila in tutta Italia che facciamo gli stessi discorsi e ci parliamo addosso. Ci guardiamo, ci spiamo su Facebook, guardiamo le uscite editoriali, siamo inseriti all’interno di un micromondo chiuso e autoreferenziale. Là fuori invece c’è un grande mondo che immagina. Fatto da persone che premono ai cancelli. Sono loro che possono portare energia nuova e trovare piste nuove per andare in direzioni diverse.
A parlar male del liberismo con me cadi male. Parli di aprire i cancelli alla libertà di espressione in uno spazio pubblico, poi però ci vogliono anche quelli che quelle espressioni le fruiscano, le leggano. Magari talmente tanto attratte da quelle voci che sono addirittura disposte a pagare per ascoltarle. L’immaginario si sostanzia in scelte di quella che tu hai chiamato gente, che sono i lettori, i consumatori di prodotti culturali. Ciò che il pubblico sceglie è comunque una indicazione precisa, una certa tipologia di prodotto e di storie. Saranno anche decadenti epigoni del romanzo borghese, ma che qualche bisogno o desiderio devono pur soddisfare se hanno quel seguito. In realtà la cartina di tornasole che io ho rispetto all’immaginario è un’ altra rispetto a quello che presumi tu.
Sì, bisogna vedere che cosa intendiamo come immaginario. Anche tu devi convenire che c’è stata l’imposizione di un canone, soprattutto da parte dell’editoria italiana, e dai tecnici dell’editoria, che ti dicono non solo che devi scrivere in un certo modo, ma anche che devi scrivere certe cose. Quando questo accade siamo di fronte a un immaginario artefatto, pilotato. Però non esiste solo questo. Quando parlo di immaginario parlo anche di altre possibilità di creazione, dalle serie tv ai fumetti, ai graphic novel, ai murales, ai blog, alle fan fiction, e quello che pensa la gente nel proprio quotidiano anche quando non lo esprime. Persone che non leggono, disinteressati a Scurati, Missiroli o Fabio Volo, lontanissimi dai libri e dai prodotti culturali. Quella produzione non è interessante né per loro né per noi. Esiste una costruzione collettiva molto più profonda e se andiamo a verificarla senza giudicare, con sguardo veramente antropologico, troviamo delle sorprese, un mondo vivo, molto meno piatto e noioso di quanto pensiamo.
Penso che tutto sommato la letteratura, anche la letteratura essenziale, sia ciò che i lettori considerano essere letteratura essenziale, senza avere una definizione a priori che cala dall’alto per dare forma al suo oggetto. La proposta che tu fai può essere una letteratura incrociata all’antropologia e forse anche alla storia, come la intendeva Carlo Ginzburg. Può essere una proposta tra le altre. Poi, se quell’offerta è convincente le persone si sposteranno autonomamente, per scelta libera, senza bisogno di crociate, imposizioni o pogrom della cattiva letteratura.
Quello che vedo, che sta succedendo negli ultimi mesi, è che io prima mi trovavo in un mondo dove l’individualismo neoliberista narcisistico dello scrittore medio…
E dai con questo giudizio surrettizio, per te neoliberista è un sinonimo di malvagio e negativo.
Sì, lo è. Comunque, riformulo. Lo scrittore medio si occupava solo di pubblicare il proprio romanzo, di dialogare con una casa editrice, di arrivare alla visibilità personale, di conservare il privilegio, di procurarsi il proprio spazio, come se fosse un posto di lavoro fisso all’interno del mondo del libro. Quest’atteggiamento si sta lentamente incrinando. Ultimamente inizio a vedere piccole comunità estemporanee che stanche di questo modello stanno costruendo qualcosa di diverso. Uno spazio di condivisione e confronto non solo di idee ma anche di immagini, di storie, di visioni. Stiamo solo cercando i contenitori, perché come hai visto con Tina, le scatole si riempiono da sole, sono la risposta a un bisogno sentito. Perché siamo stanchi da tempo, anche se non abbiamo il coraggio di costruire una specie di sindacato di lettori e scrittori per reagire a questo stato di cose. Un senso di stanchezza nei confronti di un modo di fare letteratura, del modello dell’autore vanaglorioso che se ne va a collezionare premi. Poi l’altro elemento è la scelta dei contenuti, perché se continuiamo a fare romanzi di corna e vecchi o preti che toccano il culo alle ragazze o ai bambini, non andiamo molto lontano, anche se magari questi libri continuano a vendere. Ma sempre meno, sempre meno. C’è anche un altro tipo di lettori e ascoltatori, non per forza ipercolti, che però hanno una forte volontà di reagire. Percepisco una microcomunità temporanea che si è creata con queste istanze condivise.
Mi sembra che tu confonda per fenomeno culturale, forse anzi esistenziale o peggio ontologico, quello che a me sembra una strategia commerciale.
Massì c’è sicuramente anche questo, la capacità dell’industria di mercificare ogni esperienza nuova. Una soluzione è sterilizzare la portata narcisistica dell’esprimersi. Anche su Facebook mi faccio bello con i contenuti che posto. Trovo lettori e un pubblico. Ho i miei minuti di celebrità. Benissimo. Ma non sto parlando di questo. È possibile accedere a un immaginario profondo. Ecco, consideriamo l’esperienza di Tina come un esperimento. Rispetto al rischio che dici il progetto è blindato. Le condizioni sperimentali sono l’anonimato, l’azzeramento del rischio narcisistico. Tutti coloro che collaborano sanno che il loro contributo non sarà etichettato con il loro nome e cognome. Tina produce un’opera collettiva. Avremo semplicemente una lista di chi ha contribuito in ordine alfabetico alla fine del libro. Significa che si sono già autoselezionate persone non interessate ad apparire e ad esprimersi, o almeno, non voglio sembrare ingenuo, non interessate esclusivamente o principalmente a esprimere sé stessi o a esistere in uno spazio pubblico. Persone che si chiamano fuori rispetto al narcisismo e all’arrivismo che esiste in questo ambiente, dell’autore monade. Non è una cosa nuova, la narrazione come contributo di una comunità ha radici lontanissime, pensiamo ai grandi libri dell’epoca antica, dalla Bibbia all’Iliade e all’Odissea, al Enûma Elish. Andiamo verso l’ignoto, dando le spalle al futuro, guardando al passato e allontanandoci da esso. O anche, è dal passato più lontano che possiamo trovare gli strumenti cognitivi e letterari per affrontare il futuro.
E dall’immaginario che prefigura il futuro.
E dall’immaginario.
Sì va bene, allora guardiamo al passato, ma senza andare troppo in là, al passato recente. In tutta onestà mi sembra retorico parlare di questa novità nell’immaginario che prefigura l’apocalisse perché penso che non sia affatto un fenomeno nuovo. Non serve scomodare il millenarismo o i movimenti chiliastici di tutte le epoche e di molte culture. Penso agli anni Sessanta e Settanta e all’apocalisse atomica. Che ha prodotto eccome impatto sull’immaginario. In un modo del tutto simile a quanto sta accadendo oggi. Fenomeni di massa, giovani in piazza, accuse di furto del futuro, avvicinamento a una spiritualità di maniera, scenari apocalittici da Mad Max o The day after. Scenari di sopravvivenza dopo la catastrofe nucleare. Anche il guardare alla cultura di altri popoli non è un fatto nuovo. In quell’epoca era la ricerca di una alternativa non liberista e non sovietica, lontana cioè da quei corni del dilemma che conducevano entrambi all’annientamento. Mi viene in mente quell’opera geniale e decadente, che credo sia molto vicina a quello che immagini diventi l’ossessione dell’apocalisse nella cultura pop che è Watchman, la graphic Novel di Alan Moore.
Stai facendo un torto alla tua intelligenza se non vedi la differenza. Sono cambiate le premesse in modo radicale. Quel tipo di immaginario era una risposta alla guerra fredda, alla catastrofe atomica. Ma stai attento: quel rischio era generato da un manipolo di pazzi che come nel Dott. Stranamore se ne stavano in un bunker antiatomico a decidere i destini del mondo con il dito sopra al bottone fatale e che in una follia momentanea potevano fare fuori l’umanità. Fuor di metafora a una élite di potere, all’establishment politico e militare. Il rischio non ci coinvolgeva. C’era una completa deresponsabilizzazione della gente. I cattivi erano “loro”. Quello che accade oggi, invece, e che scatena così tanto i contrasti, il dibattito, le polemiche e le prese di posizione, in definitiva, la vitalità nuova di questa consapevolezza, è che siamo tutti noi i primi colpevoli di questa situazione. Magari ci può essere come reazione una negazione, una difesa inconscia di chi non si vuole sentire responsabile o vuole scongiurare la paura di un futuro fosco. Ma quel che accade è che c’è un’idea di responsabilità diffusa che può essere un terreno fertile per riscoprire alternative soprattutto attraverso soluzioni comunitarie.
Quindi non è vero che ci stanno rubando il futuro, ce lo stiamo rubando da soli.
Sì sono d’accordo. Un lavoro da portare a termine sull’immaginario è proprio l’interiorizzazione della responsabilità. Certamente c’è ancora molto da fare.
Responsabilità è una parola che, da padri, amiamo molto. Non vorrei metterti in bocca parole e pensieri non tuoi, ma mi sembra che anche tu condividi una posizione critica nei confronti della retorica sulla decrescita felice. Mi sembra di intuire, costante, nella tua opera, in particolare in Artico Nero, una presa di posizione forte dietro ad alternative al neoliberismo che sono a tutti gli effetti figlie di una cultura classista e neocolonialista. Per mascherare un disagio che ha altre cause ed altre ragioni ci si schiera contro a un modello di sviluppo, proponendo soluzioni che costringono intere parti di mondo a dire addio alla speranza di un miglioramento, alla possibilità di accedere alla società del benessere.
Sì, hai interpretato correttamente il mio pensiero, nel senso che Serge Latouche mi sembra una persona intelligente e mi sta anche umanamente simpatico, tuttavia credo che il suo discorso sia impraticabile, tanto quanto un’altra soluzione che si riassume in una parola in voga che è sostenibilità. Si tratta di una prospettiva non solo evidentemente antropocentrica, ma di classe, che riguarda quello che può essere un tipo di intervento dell’europeo bianco che si confronta in una dinamica di lavaggio o meglio di doccia della coscienza e non con proposte politiche davvero efficaci. Il fatto che il re sia nudo lo ha già detto Zizek quando ci ricorda che andare in bicicletta e fare la differenziata non salverà il pianeta.
Non solo, credo anche che fermare la crescita significhi impedire alle comunità che hanno più difficoltà di accedere a ciò che riteniamo tra gli elementi basilari per la sopravvivenza e la dignità dell’uomo. La mobilità, l’energia elettrica, la disponibilità di acqua.
Non solo, ma queste nuove mitologie, non sto parlando di Latouche, ma soprattutto della variante americana, sono molto californiane nella prospettiva: è l’idea che si salverà solo una classe molto limitata. Non è un caso che a questo tipo di progetto, di ingegneria sociale, si stia dando un sostrato nell’immaginario collettivo attraverso la narrativa zombie. Lo Zombie è il proletario, il povero che posso ammazzare, sterminare a mitraglia, che posso infischiarmene se muore. Invece i sopravviventi, coloro che ce la fanno, si chiudono in una ecofortezza che lascia fuori l’agonia e la miseria degli altri.
Mi sembra il progetto politico di una celebre società di comunicazione di Milano…
Questo tipo di retorica viene recepita, e passa nell’immaginario di tutti attraverso letteratura, cinema e videogame. È in atto una guerra per accaparrarsi il controllo dell’immaginario, che per ora è combattuta da una parte sola. Stanno vincendo visioni non inclusive, è sotto gli occhi di tutti: l’idea che se ne salveranno soltanto alcuni. La vera sfida è riflettere e lavorare per individuare una strategia utile per salvarci tutti.
Lavorare sull’immaginario, poi, possiamo essere d’accordo o meno su come farlo, può portare a soluzioni. In questo discorso c’è un disegno di lavoro, di sforzo, di impegno, per far qualcosa di proattivo. Non tirarsi indietro e protestare, ma agire sul mondo.
È un discorso delicato. Provo una spontanea simpatia in effetti per i movimenti di strada che comunque hanno un effetto moltiplicatore: stanno sollevando il problema e creando un volano nella percezione pubblica del fenomeno, al netto dei paternalismi che vorrebbero cucire la bocca alla generazione dei più giovani. Però c’è anche da dire che in questo tipo di movimento c’è la necessità di costruire un immaginario delle soluzioni, non soltanto un immaginario della denuncia.
E L’ora del mondo può contribuire a costruire qualcosa di nuovo.
L’ora del mondo è un libro strano perché all’inizio è stato preso come il tentativo di costruire una mitologia appeninica, una nuova mitologia dell’Appennino o qualcosa di fiabesco e bucolico. In realtà L’ora del mondo funziona come una fotografia di Luigi Ghirri. Guardi una sua fotografia e quella ti rimanda una sensazione malinconica, tranquilla, crepuscolare, non aggressiva. Ma Ghirri stava preparando visioni apocalittiche. Pensa a queste spiagge fuori stagione, con le giostre colorate, le altalene nell’atmosfera invernale della riviera romagnola. Non ci sono bambini, non c’è nessuno. Vediamo i resti di una civiltà scomparsa. Pensa ai Campanili e alle Chiese. Alla linea brumosa della pianura. Si tratta della realtà senza l’uomo. Una realtà post-umana. Volevo cercare di intercettare questa sensazione. In ossequio anche all’Appennino. Ghirri mi ha dato lo sguardo per interpretare la nostra terra, come Gino Covili. La sua forza è questa: costruisce una sottile lastra di ghiaccio che sembra innocua, ma sotto c’è l’abisso. L’ora del mondo è un libro apocalittico. Parla della fine del mondo. L’ora del titolo è quella in cui saremo chiamati a rendere conto di tutto quello che abbiamo fatto, non come singoli ma come specie. Se vogliamo comunicare il rischio dell’annientamento nel romanzo non dobbiamo per forza costruire libri con catastrofi dentro. Si può concepire una rappresentazione dell’Apocalisse che attraverso una ricostruzione del cosmo faccia intendere che siamo vicini al punto di non ritorno.
Simone Cerlini
L'articolo “Stiamo scomparendo, ci hanno rubato l’immaginario, dobbiamo ritrovare lo stupore, oltre l’apocalisse”: Matteo Meschiari dialoga con Simone Cerlini proviene da Pangea.
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su questo Volterraio, Herzoghiano maniero,siedo solo in compagnia della principessa,che con me osserva piano la tristezza della luna piena .La pistola riflette il passaggio di una stella cadente,o forse gia'caduta,e si specchia diventando raggio laser bianco nella rada di Portoferraio,alimentando il suono e l'eco di bitte e catene,di corde e ondeggiare.Mi volto,lei si e'gia lanciata dalle alte mura,diventando leggenda e libro bianco di sangue,che come una mappa segue a piccole chiazze il suo ultimo itinerario..Di tanto in tanto accarezzo il calcio, e guardo la falce ...un sospiro che con la visione periferica laterale mi permette ancora di vedere lei, per un istante, come un ectplasma, invece del fantasma reale che lei era, e che è . Adesso, piu che mai. Poi nitida, cristallina, quasi gelida nella sua realta' velata, arriva l'apparizione piu' inattesa, è un soffio di vento,e dura quanto un battito di ali di una farfalla, ma non indugia, cade, si rialza, inciampa annaspa e affanna, ma continua a correre...è una visione, simbolica forse, rarefatta, certo, ma anche la cosa piu' reale mai vista, e mi sento uguale a Deckard in Blade Runner , quando vedo la colomba che si alza affannosa in un battito di ali o piume , o foglie al vento di settembre, e anche lei, come il vento, come l'aria, come l'acqua e come il fuoco nel tamburo della pistola e nel suo percussore, nella lucidentezza ambra della pallottola calabro 9 parabellum...tutto questo, insieme al carnevale e a coriandoli resti di feste infinite e noiose. (m.m.notte sul Volterraio ) (presso Fortezza del Volterraio)
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