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30 aprile 1945, la morte di due divi in bianco e nero
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PILLOLE DI STORIA DEL CINEMA ITALIANO
IL CINEMA DEI TELEFONI BIANCHI
In questo articolo vi vogliamo parlare del Cinema dei Telefoni Bianchi che nel mondo del Cinema Italiano e' storicamente noto anche per la sua caratteristica di rifiuto di qualunque problematica sociale, ponendo al centro della scena esili commedie sentimentali.
Se non fossi un aficionado delle sale cinematografiche o semplicemente non ne hai mai sentito parlare, continua a leggere per una spolverata di storia.
Innanzitutto partiamo dal nome, che deriva dalla presenza di telefoni di colore bianco nelle sequenze dei primi film prodotti in questo periodo (in voga in Italia tra il 1936 ed il 1943): uno status symbol atto a marcare la differenza dai telefoni "popolari" in bachelite, più economici e dunque maggiormente diffusi, che invece erano di colore nero. Altra definizione data a questi film è cinema déco per la forte presenza di oggetti di arredamento che richiamano lo stile internazionale déco, in voga in quegli anni.
La produzione dei cosiddetti telefoni bianchi o cinema Decò descrive gli anni trenta e i primi quaranta attraverso gli arredamenti degli ambienti, oltre alle già dette moda e costume. L'epoca traspare dai particolari: gli oggetti ci fanno capire e datare con verosimiglianza l'epoca storica e l'ambientazione del film. Generalmente è resa manifesta la diffusione, almeno nelle città, del "prodotto di qualità", cioè non quello fatto a mano, bensì avanzano le proposte industriali di massa, i prodotti fatti in serie.
L'ambientazione borghese si rifece esteticamente alle commedie cinematografiche statunitensi, in particolar modo a Frank Capra. Le speranze dei piccolo-borghesi non poterono che divenire realtà: film come Mille lire al mese, così come l'omonima canzone, passarono alla storia per la loro esplicita spensieratezza ed evocazione altrettanto irriverente. L'elemento melodico ritornava spesso a far capolino, molti tra questi film contenevano infatti almeno una canzone di successo (basti pensare alla celeberrima “Parlami d'amore Mariù” composta per il film “Gli uomini, che mascalzoni... “ divenuta poi molto più famosa della pellicola stessa.
Tale rappresentazione di benessere e progresso era però ben lontana dalla realtà italiana di allora; la rappresentazione di una società benestante (in alcuni casi anche molto ricca), progredita, emancipata ed istruita era enormemente contrastante con la situazione reale dell'Italia, la quale, a quell'epoca, era invece un Paese sostanzialmente povero, materialmente e moralmente arretrato e con la maggior parte della popolazione analfabeta, così come anche l'atmosfera entusiasta, allegra e spensierata di queste pellicole appariva cozzante con la cupa situazione della nazione, soggiogata dalla dittatura fascista che pero' agevolava il genere cinematografico per far dimenticare la poco rosea realtà della vita quotidiana della gente comune.
Tra i numerosi film del filone, si impone il giovane attore Vittorio De Sica, reso celebre da Mario Camerini nel film del 1932 “Gli uomini che mascalzoni” È un genere che si basa molto sugli errori di identità, come il film con De Sica, dove fa credere ad una commessa di essere un ricco uomo d’affari, mentre in realtà è solo un autista. Ma questi errori di identità permettono il confronto tra le classi. Si può trattare di una promozione sociale definitiva, come in Dora Nelson di Mario Soldati, o può invertirsi il movimento, come nel geniale film di Mario Camerini Il signor Max, con De Sica che conduce una doppia vita, corteggiando come conte una nobildonna e come giornalaio la cameriera di quest’ultima. Il perfetto esempio di cinema dei telefoni bianchi. Anche se questi film si divertono a risvegliare il mito di “Cenerentola” e de “La bella addormentata nel bosco”, dai primi anni ’40 le prospettive mutano. Con Teresa Venerdì, Vittorio De Sica, al suo terzo film da regista, impone una visione diversa dei mitici collegi rappresentati nei film dei telefoni bianchi, con una robusta virata in direzione neorealista. Rimane certamente ancorato ai cliché del genere, ma lo stile dolce – amaro del film denota, ad esempio, la sua futura attenzione per i bambini e l’insoddisfazione per il rigido schema delle commedie spensierate con cui aveva comunque costruito inizialmente la sua fama d’attore.
Maggiore sarà la crisi della quotidiana vita degli italiani e maggiormente amplificate saranno le scenografie. In questo genere non saranno i registi ad imporre il loro marchio, ma gli attori e gli sceneggiatori.
Ben presto i soggetti cominciarono a diventare ripetitivi e ovviamente sempre più scontati, prevedibili e banali; in seguito, con l'aggravarsi del conflitto, la produzione di questo filone divenne sempre più rada e discontinua fino a scomparire del tutto con il crollo del regime fascista, anche se nel filone decò rientrano anche alcune opere girate nel Cinevillaggio di Venezia durante la RSI, come ad esempio Fiori d'arancio, di Hobbes Dino Cecchini con Luigi Tosi ed Andreina Carli.
E qui arriviamo al Neorealismo:
“Con l’avvicinarsi della fine della seconda guerra mondiale, nella prima metà degli anni ’40, nasce un nuovo tipo di cinema, dagli studios ci si trasferisce in strada. (…)
-TO BE CONTINUED-
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“Fucilali, e non perdere tempo!”
Fu questo l’ordine che Giuseppe Marozin, nome di battaglia Vero, capo della Brigata partigiana Pasubio dichiarò di aver ricevuto direttamente dal C.L.N.A.I. nella persona di Sandro Pertini: «Quel giorno – 30 aprile 1945 – Pertini mi telefonò tre volte. Marozin responsabile della doppia esecuzione che andiamo a raccontare nel presente post, dichiarò nel corso del procedimento penale a suo carico per quell’episodio:
«La Ferida non aveva fatto niente, veramente niente. Ma era con Valenti. La rivoluzione travolge tutti.»
A detta di Marozin, Pertini si rifiutò di leggere il memoriale difensivo che Valenti aveva scritto durante i giorni di prigionia, nel quale erano contenuti i nomi dei testimoni che avrebbero potuto scagionare i due attori da ogni accusa.
Ma andiamo con ordine, la guerra sta per concludersi siamo negli ultimi giorni del tragico aprile 1945, i plotoni di esecuzione partigiani lavorano a pieno regime, si fucila senza andare tanto per il sottile, spesso senza nessuna giustificazione. I due protagonisti, loro malgrado sono due attori, accusati di collaborazionismo con la Repubblica Sociale Italiana, vediamo brevemente le loro storie e soprattutto come giunsero davanti al plotone di esecuzione che il 30 aprile del 1945 pose fine alle loro vite.
Luisa Ferida, pseudonimo di Luigia Manfrini Farné nacque a Castel San Pietro Terme, in provincia di Bologna, il 18 marzo 1914. Dopo alcune esperienze teatrali con le compagnie di Ruggero Ruggeri e Paola Borboni, esordì sul grande schermo con il film Freccia d’oro (1935) di Piero Ballerini e Corrado D’Errico. Si mise in evidenza quasi subito, interpretando numerosi film di registi minori, che le dettero però visibilità e successo di pubblico. Fra il 1937 e il 1938 costituì una coppia di successo con Amedeo Nazzari, col quale interpretò La fossa degli angeli, I fratelli Castiglioni e Il conte di Bréchard.
Quando venne richiesta da Alessandro Blasetti per il film Un’avventura di Salvator Rosa (1939), era già una giovane attrice conosciuta e apprezzata, ormai pronta per il salto di qualità. Nella pellicola sopracitata interpretò il ruolo della contadina Lucrezia, ponendosi all’attenzione della critica e del grande pubblico. Il film di Blasetti la proiettò rapidamente verso un orizzonte divistico di rilievo, permettendole di mettere in evidenza il suo temperamento grintoso e la sua recitazione asciutta e nervosa.
Osvaldo Valenti con l’uniforme della Xª Flottiglia MAS
L’incontro con Osvaldo Valenti, a cui si legò sentimentalmente sul set di questo film, coincise con il periodo di maggior successo della sua carriera. I registi più popolari dell’epoca iniziarono a offrirle ruoli di sempre maggiore importanza. Negli ultimi anni della sua carriera, vanno ricordate le sue interpretazioni nei film La corona di ferro (1941) di Alessandro Blasetti, Fedora (1942) di Camillo Mastrocinque, Fari nella nebbia (1942) di Gianni Franciolini, per il quale fu premiata come miglior attrice italiana del 1942, Gelosia (1942) di Ferdinando Maria Poggioli e La bella addormentata (1942) di Luigi Chiarini.
Durante il regime fascista i due attori non si erano distinti per le loro posizioni politiche. A seguito dell’Armistizio, Ferida e Valenti furono tuttavia fra i pochi divi del cinema dell’epoca, ad aderire alla Repubblica Sociale Italiana. Lasciarono così Roma (e Cinecittà) per trasferirsi al Cinevillaggio, il neonato centro cinematografico della R.S.I. di Venezia, sorto per volere del ministro Ferdinando Mezzasoma, diventandone due dei più noti esponenti. Nel 1944 insieme a Valenti, girò Un fatto di cronaca, film diretto da Piero Ballerini. Sarà il suo ultimo lungometraggio.
Dopo si stabilirono per qualche giorno a Bologna, dove la Ferida, che aspettava un bambino, desiderava andare a trovare la madre. Mentre si trovavano all’albergo “Brues”, improvvisamente colta da forti dolori, ebbe un aborto spontaneo. Valenti fu colto da grande dolore e, come scrisse ad un amico: «Non voglio più sentir parlare di arte e di cinema, e non mi voglio più recare nella Spagna dove pur ho un contratto vantaggiosissimo. Io sento che il mio dovere sarebbe di fare qualcosa di positivo per questo pezzo di terra che ancora ci rimane.»
Nella primavera del 1944, i due si spostarono a Milano, dopo che Valenti era entrato col grado di tenente nella Xª Flottiglia MAS comandata dal principe Borghese. Come ufficiale di collegamento della Decima, Valenti ebbe contatti con la famigerata banda di Pietro Koch e in tali rapporti, secondo alcuni, fu coinvolta anche la Ferida; tuttavia, secondo altri, la frequentazione di “Villa Triste” da parte della Ferida, nonché la sua presunta complicità con i torturatori di partigiani, sarebbero solo calunnie prive di fondamento.
Pare, da testimonianze, che la Ferida sapesse delle torture, ma se ne tenesse alla larga; non così una delle amanti di Koch, la soubrette Daisy Marchi, e la segretaria del capo della “banda”, Alba Giusti Cimini. Entrambe si spacciavano talvolta, con i prigionieri, per la celebre Ferida, approfittando della penombra delle celle e della somiglianza fisica della Marchi con Luisa; è probabilmente questa l’origine della calunnia che costerà la vita all’attrice (mentre la Marchi e la Cimini non subiranno mai conseguenze).
Si arriva cosi agli ultimi giorni di aprile del 1945, i due vengono arrestati e dopo essere stati sottoposti a un sommario processo, vennero accusati di collaborazionismo e soprattutto di aver torturato alcuni partigiani imprigionati a Villa Triste. Per loro il destino era segnato, quando vennero fucilati, la Ferida aveva 31 anni ed era incinta, Osvlado Valenti, di anni ne aveva 39.
Dalla loro casa milanese, qualche giorno dopo i fatti appena raccontati, venne sottratto un autentico tesoro, del quale Marozin nel dopoguerra ammise la “confisca”, ma sostenendo di non ricordare dove tali beni fossero finiti: «Una parte fu restituita, credo, alla madre della Ferida, il resto andò a Milano». I due sono sepolti nel Campo X del Cimitero Maggiore di Milano, noto anche come Cimitero di Musocco e Campo dell’Onore.
Negli anni cinquanta la madre della Ferida, Luisa Pansini, fece domanda al Ministero del Tesoro per ottenere una pensione di guerra. Si rese necessaria, pertanto, un’accurata inchiesta da parte dei Carabinieri di Milano per accertare le reali responsabilità della Ferida, al termine della quale si concluse che:
«la Manfrini dopo l’8 settembre 1943 si è mantenuta estranea alle vicende politiche dell’epoca e non si è macchiata di atti di terrorismo e di violenza in danno della popolazione italiana e del movimento partigiano»
La madre di Luisa Ferida ottenne la pensione di guerra comprensiva di arretrati. Grazie per aver letto con tanta pazienza il nostro post, con la speranza che vogliate continuare a seguirci anche in futuro Vi salutiamo e diamo appuntamento al prossimo.
“Fucilali, e non perdere tempo!” la morte degli attori Luisa Farida e Osvaldo Valenti "Fucilali, e non perdere tempo!" Fu questo l'ordine che Giuseppe Marozin, nome di battaglia Vero, capo della Brigata partigiana Pasubio dichiarò di aver ricevuto direttamente dal C.L.N.A.I.
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