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#Campagna Diffamazione
megachirottera · 1 year
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Antidefamation League diffama gli autori di Substack
L’Anti-Defamation League (ADL) ha davvero condannato 19 autori di Substack (incluso il tuo… Source: April 19, 2023; Analysis by Dr. Joseph Mercola [>Fact Checked<] (more…)
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crazy-so-na-sega · 9 months
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la donna che vendeva il tempo
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Ecco a voi Ruth Belville, nota anche come la signora dell'ora di Greenwich. Nei primi anni dell'Ottocento suo padre aveva ereditato un magnifico cronometro da tasca, progettato e realizzato in origine per il duca del Sussex. Nel 1836, sfruttando il fatto di possedere un cronometro portatile più preciso di quasi tutti gli orologi in circolazione, i Belville avviarono un'attività commerciale che consisteva nel far sincronizzare gli orologi dei clienti sull'ora esatta. Ogni giorno, dopo essersi recata all'osservatorio di Greenwich per regolare il suo orologio sull'ora media, Ruth faceva il giro dei clienti e vendeva loro l'ora esatta. A un certo punto l'attività, che durò fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, venne minacciata dall'arrivo di un concorrente, St John Wynne, che con il suo segnale orario telegrafico avrebbe potuto eliminare l'intermediaria fornendo al cliente un'ora più precisa. Wynne lanciò una campagna di diffamazione nei confronti di Belville, accusandola sul "Times" di "servirsi della sua femminilità per allargare il proprio giro d'affari", ma lei tenne duro e la sua attività continuò a prosperare nonostante i giornalisti a caccia di pettegolezzi. In seguito dichiarò garbatamente che la tattica di Wynne non era stata altro che pubblicità gratuita in suo favore.
-Hanna Fry-Adam Rutheford (Guida definitiva a quasi tutto)
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m2024a · 1 month
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Caso Khelif, la sparata del Cio: "Non possiamo distinguere uomo da donna" Le Olimpiadi di Parigi 2024 verranno senz’altro ricordate per la cerimonia inaugurale, per il disastroso villaggio olimpico e per la boxe. Sì, perché i casi di Imane Khelif e di Lin Yu-Ting continuano a tenere banco e non potrebbe essere altrimenti. Le due pugili, una algerina e l’altra taiwanese, erano state escluse dai mondiali perché considerate biologicamente maschi dai test dell’Iba, federazione esclusa dall’organizzazione dei giochi. Il Cio, invece, ha garantito a entrambe la possibilità di competere con le donne e sono entrambe arrivate in finale per l’oro nelle rispettive categorie di peso. Lo scontro è infuocato, ma oggi è arrivata l’ennesima chicca dal comitato olimpico: secondo il presidente Thomas Bach non esiste un sistema scientifico sicuro per identificare uomini e donne. Nell’epoca della religione woke tutto è possibile, ma poi c’è il buonsenso, che porta a confutare certe sparate. Ovviamente quanto affermato dal presidente del Cio non è vero – è assolutamente possibile stabilire con certezza se una persona è un uomo e una donna – e le sue dichiarazioni sono destinate a riaccendere lo scontro. Il comitato olimpico ha sempre tenuto la barra dritta sul dossier, confermando che sia la Khelif che la Yu-Ting sono donne. Ma la scarsa chiarezza sui test effettuati non gioca a favore delle tesi e l'Iba anche nelle ultime ore ha ribadito la sua posizione: le due atlete non dovrebbero compete con le donne. "Se la situazione relativa a Imane Khelif è andata fuori controllo? Quale sarebbe stata l'alternativa? Escludere due donne dalla partecipazione a una competizione femminile a causa di accuse basate su dati inaffidabili? Fino al 1999 esistevano i cosiddetti test sessuali, poi la scienza ci ha detto che non erano più affidabili, che non funzionavano più come prima per quanto riguarda i cromosomi e altre misurazioni", il giudizio di Bach in conferenza stampa. Il numero uno del Cio ha aggiunto che i test sessuali sono contrari ai diritti umani in quanto invasivi e per questo motivo è stato messo a punto un nuovo sistema: “Pertanto, la nostra decisione è molto chiara: alle donne deve essere consentito di prendere parte alle competizioni femminili”. Ma non solo. Bach ha infatti evidenziato che se qualcuno presentasse un sistema scientificamente solido su come identificare uomini e donne, sarebbero i primi ad adottarlo: “Non ci piace questa incertezza. Non ci piace per la situazione generale, per nessuno. Quindi saremmo più che lieti di esaminarlo. Ma ciò che non è possibile è che qualcuno dica: 'Questa non è una donna’, semplicemente guardando qualcuno o cadendo preda di una campagna di diffamazione da parte di un'organizzazione non credibile con interessi altamente politici”. Il caso continuerà a tenere banco ed è persino in bilico il torneo di boxe ai giochi del 2028 in programma a Los Angeles. Seguiranno aggiornamenti...
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curiositasmundi · 5 months
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La macchina da guerra della democrazia ipermaggioritaria lavora a pieno regime. Perché questa ossessione a costruire una fortezza? Partiamo dalla leadership che mette in moto la macchina, ovvero il demagogo (maschio o femmina poco importa). La democrazia elettorale è naturalmente esposta alla possibilità che emergano demagoghi e governi ipermaggioritari. La logica della demagogia è abbastanza semplice e prevedibile: il demagogo che vince non può permettersi di perdere.
Una volta eletto, se riesce (direttamente e con una colazione) a guidare una maggioranza di governo, si trova nella necessità di integrare la retorica con un capiente potere decisionale. Non perché il suo governo debba dare vita a chissà quale nuovo Paese o regime, ma perché ha bisogno di rimanere in sella il più a lungo possibile. Un demagogo non può perdere. Se perde, perde per sempre. Non ha una seconda possibilità, anche se la logica elettorale gliela concede. Un demagogo bastonato alle urne è un perdente senza alternativa. Deve quindi rimanere al governo il più a lungo possibile. Per questo fa della sua maggioranza una fortezza. Ecco perché mina il pluralismo e la cosiddetta “società aperta”.
Non sono gli oratori a definire il passaggio alla demagogia e non sono le elezioni a favorire questo processo di ipermaggioritarismo. Altre sono le variabili da considerare come la struttura istituzionale e la legge elettorale. Come ci insegnano gli studiosi di populismo, ai fini della tutela della democrazia liberale, il multipartitismo è più sicuro di un sistema bipartitico, un sistema elettorale proporzionale più sicuro di un sistema maggioritario, una democrazia parlamentare più sicura di una democrazia presidenziale (i Paesi dell’America Latina lo sanno bene).
Queste valvole di sicurezza sono prudenti perché la libera competizione elettorale è un ossigeno che alimenta tutti, buoni e cattivi. Se un demagogo e il suo partito riescono a conquistare il potere, hanno come primo obiettivo quello di blindarlo. Le strategie sono ben note. Occupano lo Stato e usano le istituzioni come se gli appartenessero, in modo da distribuire favori e cariche e rafforzare così il loro elettorato nel tempo. Dopo aver raggiunto il potere attraverso la mobilitazione, una leadership demagogica può consolidarlo e idealmente mantenerlo a lungo attraverso l’uso delle istituzione e il clientelismo di partito.
Un Machiavelli democratico direbbe che, in questo caso, non è il popolo a essere sovrano “sulla legge”, ma è il leader, che conquista il consenso del popolo ai suoi piani. Kurt Weyland, uno dei maggiori studiosi di populismi, ha definito questa strategia “legalismo discriminatorio”: «tutto per i miei amici; per i miei nemici, la legge».
Questo è il film che si gira oggi in Italia. Per l’occupazione del potere e l’uso fazioso delle istituzioni nell’interesse della maggioranza – cioè per durare nel tempo – un mezzo molto praticato è quello di addomesticare coloro che operano nella sfera dell’opinione pubblica: giornalisti, giornali e media. La pena del carcere minacciata ai giornalisti colpevoli di diffamazione ha una funzione di deterrenza. Tutti zitti e buoni.
Le norme sulla (im)par condicio cucinate in questi giorni, in vista della campagna elettorale per il Parlamento europeo, sono un caso esemplare di ipermaggioritarismo. Le opposizioni avranno un’esposizione impari rispetto ai partiti di governo, che occuperanno spazi e tempi sia come partiti concorrenti che come ministri e capi di governo. I forti si avvantaggiano. Questa è la regola dell’impermaggioritarismo.
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lamilanomagazine · 6 months
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Napoli: XI Edizione di "Una vita da Social", campagna educativa itinerante della Polizia di Stato.
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Napoli: XI Edizione di "Una vita da Social", campagna educativa itinerante della Polizia di Stato. Venerdì 5 aprile, dalle 9.00, la Polizia di Stato farà tappa a Casoria, in via Vicinale Marrazzo, con la XI edizione della campagna educativa itinerante "Una vita da social", realizzata in collaborazione con il Ministero dell'Istruzione e del Merito nell'ambito del progetto Generazioni Connesse e con il sostegno di Google per sensibilizzare i minori a prevenire i rischi ed i pericoli che quotidianamente arrivano dalla Rete. Durante la mattinata, operatori specializzati della Polizia di Stato incontreranno gli studenti per interagire sui temi della sicurezza online, di social network e di cyberbullismo ma anche di educazione stradale e contrasto ad ogni forma di discriminazione. Giunto alla undicesima edizione, il progetto "Una vita da social" quest'anno è ripartito da Sanremo, dove l'iconico truck ha sostato in occasione dei giorni dello svolgimento della 74^ edizione del Festival della Canzone Italiana. Nel corso degli anni, "Una vita da Social" ha raccolto un grande consenso: gli operatori della Polizia Postale hanno incontrato oltre 3 milioni di studenti, sia nelle piazze sia nelle scuole, 247.000 genitori, 142.000 insegnanti per un totale di 21.000 istituti scolastici, oltre 600 città raggiunte sul territorio e due pagine "Twitter" e "Facebook" con oltre 135.000 like e 12 milioni di utenti mensili sui temi della sicurezza online. Grandi numeri destinati a crescere per il raggiungimento di un grande obiettivo: prevenire episodi di violenza, vessazione, diffamazione e molestie online attraverso un'opera di responsabilizzazione in merito all'uso della "parola" e fare il modo che il dilagante fenomeno del cyberbullismo e di tutte le varie forme di prevaricazione, connesse ad un uso distorto delle tecnologie, non faccia più vittime. Nella visita al truck multimediale, gli studenti avranno la possibilità di lasciare un messaggio positivo contro il cyberbullismo consultando la pagina Facebook... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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'Diffamazione e calunnia', Fedez querela il Codacons
Fedez denuncia per calunnia e diffamazione il Codacons che con un esposto aveva chiesto alla Guardia di Finanza una verifica sulle società che gestiscono le attività artistiche del rapper. A darne notizia è oggi il Corriere della Sera. “Da tempo – scrivono i legali dell’artista – il Codacons ha intrapreso una campagna mediatica e giudiziaria quasi quotidiana” nei confronti di Fedez “per presunti…
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umbriajournal · 1 year
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Alternativa Popolare, campagna di diffamazione e politica contro Stefano Bandecchi
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ideeperscrittori · 2 years
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Il capitalismo nasce per convincerci che dormire è un comportamento brutto, disdicevole, esecrabile, sbagliato e dannoso per la società.
Il capitalismo è una gigantesca campagna di diffamazione contro quella cosa bellissima che è il sonno.
[L'Ideota]
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corallorosso · 4 years
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Eni ha citato in tribunale Il Fatto Quotidiano per presunta diffamazione, per 29 articoli indicati come denigratori e diffamatori. La richiesta danni è di 350 mila euro, cui si aggiungono una sanzione pecuniaria per il direttore del giornale, la “restituzione dell’illecito arricchimento” che il quotidiano avrebbe conseguito e la richiesta di rimuovere dal web tutti gli articoli del Fatto su Eni. Sappiamo che chiedere risarcimenti spesso è un metodo per zittire il dissenso. Eni è una delle aziende italiane più inquinanti al mondo e il maggior emettitore di CO2 in Italia. Con la nostra Campagna stiamo smascherando tutte le sue bugie e le false promesse di investimento in energie rinnovabili. Dobbiamo aspettarci una causa anche a noi? Alla redazione de Il Fatto Quotidiano va la nostra solidarietà: la libertà di pensiero e di stampa, il dovere di cronaca e il coraggio di raccontare vicende che spesso nessun altro affronta, sono principi sacrosanti di una democrazia sana. La citazione in tribunale è ancor più più inaccettabile se consideriamo che il 30% di Eni appartiene allo Stato, quello stesso Stato che dovrebbe difendere la libertà di espressione prevista dalla Costituzione e (aggiungiamo noi) anche la salute del Pianeta. Le bugie di Eni hanno le zampe corte. Aiutaci a smascherarle e a chiedere all’azienda di smetterla di inquinare! GREENPEACE ITALIA
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paoloxl · 4 years
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15 dicembre 1976 viene ucciso Walter Alasia
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Il 16 Settembre 1956 nasce a Sesto San Giovanni Walter Alasia. Nato da padre e madre operai, crebbe nell’ambiente della cultura operaia e comunista di Sesto, dove venne ucciso per mano dei carabinieri il 15 Dicembre 1976, all’età di vent’anni.
Frequentò l’Itis di Sesto per due anni, per poi continuare gli studi in una scuola serale. Diventò poi operaio meccanico alla Farem, dalla quale si licenziò. Lavorò poi in un officina come installatore di apparecchiature telefoniche e infine alla stazione centrale di Milano, come scaricatore di pacchi postali. Iniziò a militare in Lotta Continua, per poi passare alla lotta clandestina nelle Brigate Rosse. Fu probabilmente uno tra gli appartenenti alle BR di cui più si parlò, sia per la sua tragica fine e la sua giovane età, sia per lo straordinario carattere e impegno che genitori, amici e compagni descrissero.
All’alba del 15 dicembre la polizia ha predisposto un’irruzione nell’ appartamento dove abita Walter Alasia.Quest’ultimo viene sorpreso e cercando di sfuggire alla cattura scatena una sparatoria con le forze dell’ordine: il maresciallo Sergio Bazzega e il vicequestore Vittorio Padovani muoiono.Saranno ambedue insigniti della Medaglia d’oro al Valor Civile alla Memoria.
Walter Alasia stesso viene ucciso nel cortile della sua abitazione dopo un tentativo di fuga dalla finestra. La colonna milanese delle Brigate Rosse prenderà il suo nome.Morì in casa della madre, che aveva peraltro dato indiretto appoggio alle azioni portate avanti dal figlio, nascondendo armi e documenti.Da subito la sua figura e quella della sua famiglia fu vittima di una campagna mediatica con cui lo si voleva per forza descrivere come un mostro, un assassino. In questa campagna di diffamazione, col quale si cercò di stravolgere, portare al negativo ogni frammento della sua vita, si distinse in maniera particolare Leo Valiani, giornalista del Corriere della Sera, che scrisse un articolo in cui si augurava che venissero identificati ed arrestati tutti i partecipanti al funerale di Walter. A quei funerali però partecipò Sesto San Giovanni, dai giovani agli anziani, dagli operai agli studenti. Questo perché, come dichiarò la sua fidanzata Ivana Cucco, “Walter non era figlio di nessuna variabile impazzita. Era figlio del suo tempo e di Sesto San Giovanni, la rossa Sesto […]. Sono gli anni delle grandi lotte operaie, delle stragi di stato, delle rivolte studentesche, del Cile, del Portogallo, dell’antifascismo militante, dei gruppi extraparlamentari, delle occupazioni di case. Tutte esperienze che Walter ha attraversato fino alla scelta e alla militanza nella lotta armata, che era comunque una scelta di vita e non di morte. Una scelta ed un bisogno di liberazione tanto forte e irrinunciabile da arrivare anche a giocarsi la vita.”
Vogliamo ricordarlo riportando delle righe scritte di suo pugno
“Non è neanche immergendosi nello studio e nei ‘lavori di casa’ che ti liberi e ti realizzi diversamente. Le cose che si vogliono bisogna prendersele […]. Io sono uno dei tanti che pensano di cambiare qualcosa – e non ritengo di essere un utopista come dice mio padre – quelli che dicono così vogliono nascondere la loro paura e il loro egoismo. Quindi pensa che la tua libertà te la devi costruire – questo l’unico consiglio, anche se troppo generico che posso dare.”
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paneliquido · 4 years
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TRAVAGLIO, ANCHE BASTA
Bertolaso però no. La sanità lombarda però no, dài. Ma occuparsi di Marco Travaglio è inutile: da una parte perché sbugiardarlo regolarmente necessiterebbe di un impiego a tempo pieno, dall'altra perché la sua specialità sono soprattutto le sapienti omissioni: i suoi sillogismi di norma sono più brevi e superficiali della verità, che spesso ha il difetto di essere articolata: ma non è ciò che interessa i suoi lettori medi. Ai suoi lettori interessa incolpare qualcuno: l'adrenalina e il divertimento gli si accende come per i film di Boldi e De Sica: basta una flatulenza. Quando Travaglio monologava da Michele Santoro poteva essere un problema, perché lo guardava un sacco di gente: ora è conchiuso nel suo Fatto Quotidiano che è  tracollato nelle edicole: l'anno scorso si è quotato all'Aim (la Borsina dei piccoli) e ha portato a casa miseri risultati; nell'estate 2018 preventivavano di vendere 10 milioni di azioni e ne portarono a casa circa 2, con il prezzo per azione ridotto a 0,72 per azione;  l'amministratrice Cinzia Monteverdi ammise «Il mercato non era quello che ci aspettavamo». Chissà che cosa pensavano che fosse, il loro Fatto Quotidiano: soprattutto considerando che chiuse in rosso il bilancio 2019 per due milioni di euro. Cose che succedono (quasi a tutti: ma a noi, in questo periodo, no) e comunque, al di là di questo, gli «editoriali» di Travaglio nel tempo perdevano peso: da anni non venivano più propriamente letti bensì al limite «sorvegliati» dagli opinion maker, la gente che conta: tipo una riga sì e dieci no, tanto per capire con chi se l'era presa. La sua naturale vocazione al fallimento in compenso si è sempre rivelata interessante essendo lui un marker negativo: chiunque egli sponsorizzi, cioè, sappiamo già che finirà male. Travaglio passò dal Giornale alla Voce: la Voce ha chiuso. Passò al Borghese: il Borghese ha chiuso. Andò in Rai da Luttazzi: gli chiusero il programma. Promosse Raiot della Guzzanti: non è mai andato in onda, e lo stesso vale per i programmi di Oliviero Beha e Massimo Fini. Quando sostenne Caselli all’Antimafia, fecero una legge apposta per non farcelo andare. Ha sostenuto Woodcock: plof. Ha sostenuto la Forleo e De Magistris: la prima cadde in un cono d'ombra, il secondo si dimise dalla magistratura e i suoi processi si rivelarono fuffa. Travaglio sostenne tutti i movimenti poi svaporati e candidati a importanti cariche giudiziarie: sempre trombati. E Di Pietro, il simbolo? Abbiamo visto. Ci eravamo dimenticati della  campagna per Ingroia, prima da magistrato e poi da meteora politica con parentesi guatemalteca: dissoluzione. Poi la svolta: Travaglio partecipò al V-day e protestò contro i fondi pubblici elargiti anche al giornale dove scriveva, l’Unità: che infatti chiuse. Pazienza: comunque si era scavato un mestiere (parlar male del prossimo) e la tendenza dei colleghi è stata considerarlo come un ordinario mercante che vendeva prodotti commisurati a un target: che sarà pure composto da idioti, ma era e resta un target. Col tempo e la popolarità, tuttavia, qualche prezzo occorreva pagarlo. Certe incoerenze erano lì, bastava notarle. Lui, antiberlusconiano, si scoprì che aveva pubblicato i suoi primi due libri con la Mondadori del Berlusconi che intanto era già sceso in politica. La sua ostentata rettitudine si fece grottesca. Citava Montanelli: «Non frequento i politici, non bisogna dare del tu ai politici né andarci a pranzo». A parte che ci andò (una volta ero presente anch'io) non fu chiaro perché coi politici no e coi magistrati sì: come se non fossero entrambi uomini di potere e soprattutto di parte. Anche il suo linguaggio peggiorò. Descrisse i giornalisti che celebravano Giorgio Napolitano, per dire, parlando di «lavoretti di bocca e di lingua sulle prostate inerti e gli scroti inanimati», continuando a sfottere il prossimo per i difetti fisici: Giuliano Ferrara «donna cannone», «donna barbuta», il suo ex amico Mario Giordano «la vocina del padrone», poi Brunetta eccetera. Se uno non aveva difetti evidenti, li inventava: continua a chiamare me «biondo mechato» anche se è biondo tutto il mio albero genealogico. Le incoerenze si fecero lampanti quando fu evidente che il signorino in definitiva lucrava su un «regime» che lo mandava in onda in prima serata, e che di condanne per diffamazione ne aveva prese eccome, e che proponeva l'abolizione dell'Appello ma poi ricorreva in Appello, e che tuonava contro la prescrizione ma poi non la rifiutava, e che non esitava, lui, l'inflessibile, a prostrarsi ai piedi del querelante Antonio Socci (febbraio 2008) affinché ritirasse una denuncia: «Riconosco di aver ecceduto usando toni e affermazioni ingiuste rispetto alla sua serietà e competenza professionale, e di ciò mi scuso anche pubblicamente».Ma avevamo cominciato con Bertolaso: perché è contro di lui e contro la sanità Lombarda che il Fatto Quotidiano, dopo anni di routine da pagliacci del circo mediatico, si sono riguadagnati la ribalta dell'infamia. Editoriali titolati «Bertoléso», altri dove gli si dà dell'untore o che relegano i resoconti dell'assessore Giulio Gallera a «televendite» per fini elettorali, o profonde analisi della competette Selvaggia Lucarelli in cui si esorta la Lombardia - che ha fatto comunque miracoli e ha probabilmente la migliore sanità pubblica di questo Pianeta - a «chiedere scusa». Non c'è neanche da parlarne. Però ricordo bene un'altra volta in cui Travaglio ad Annozero parlò di Bertolaso e delle sue «cattive frequentazioni»; ricordo che Nicola Porro del Giornale gli fece notare che delle frequentazioni discutibili potevano essere capitate anche a lui, a Travaglio, il quale diede di matto e diede a Porro e Maurizio Belpietro di «liberale dei miei stivali», poi scrisse che «non sono giornalisti», «se non si abbassano a sufficienza vengono redarguiti o scaricati dal padrone», «non hanno alcun obbligo di verità» e «sguazzano nella merda e godono a trascinarvi le persone pulite per dimostrare che tutto è merda». Ora però, con tutto il rispetto, l’unica merda giornalistica che ci viene in mente è il giornalismo del Fatto Quotidiano di questi giorni, che, pur di screditare la sanità lombarda, giunge a pubblicare, per dirne una, i verbali del processo a  Roberto Formigoni: come se noi, adesso, ricordassimo appunto le «frequentazioni» di Travaglio – che sono quelle a cui accennavano Porro e Belpietro – quando il direttore del Fatto andò in vacanza con un tizio poi condannato per favoreggiamento di un mafioso, già prestanome di Provenzano; quando telefonò a un siciliano, uno che faceva la spia per un prestanome di Provenzano, e gli chiese uno sconto sulla villeggiatura in Sicilia; quando la sua famiglia e quella di Pippo Ciuro, poi condannato per aver favorito le cosche, si frequentavano in un residence consigliato da questo Ciuro e si scambiavano generi di conforto; quando il procuratore di Palermo Pietro Grasso, sul Corriere, scrisse che Travaglio  faceva «disinformazione scientificamente organizzata». E questi sono tutti «fatti», come li definirebbe Travaglio, «fatti» a loro modo ineccepibili, non querelabili. Forse andrebbero spiegati, perché la verità sempre più complessa. Beh, è Travaglio a non farlo mai, a non spiegare mai e a scrivere barzellette sui malati a cui dovrebbe banalmente baciare il culo. Travaglio ha scritto che Bertolaso, «più che trovare posti letto, ne ha occupato uno». Poi è passato oltre, per il risolino demente di quei pagliacci e cialtroni che ancora lo leggono. Ha una sola fortuna, il direttore del Fatto: che non c'è un giro un Travaglio che certe infamie gliele ripeta di continuo, in libri e articoli e comparsate televisive. Oddio, potremmo anche farlo noi. Io tempo fa lo feci, poi a un certo punto smisi perché avevo anche interessi, nella vita. Lui, a parte Renato Zero, non sappiamo. E’ questa la differenza: noi non vogliamo farlo, perché, a differenza sua, non facciamo schifo.
Filippo Facci 
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noneun · 5 years
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Julian Assange, fondatore ed editore di WikiLeaks, è attualmente detenuto nel carcere di alta sicurezza di Belmarsh, nel Regno Unito, in attesa di essere estradato e poi processato negli Stati Uniti in base all’Espionage Act. Assange rischia una condanna a 175 anni di prigione per avere contribuito a rendere pubblici documenti militari statunitensi relativi alle guerre in Afghanistan e Iraq e una raccolta di cablogrammi del Dipartimento di Stato USA. I ‘War Diaries’ hanno provato che il governo statunitense ha ingannato l’opinione pubblica sulle proprie attività in Afghanistan e Iraq e lì vi ha commesso crimini di guerra. WikiLeaks ha collaborato con un grande numero di media in tutto il mondo, media che hanno pubblicato a loro volta i ‘War Diaries’ e i cablogrammi del Dipartimento di Stato americano. L’azione legale promossa contro Assange, dunque, rappresenta un precedente estremamente pericoloso per giornalisti, per i mezzi di informazione e per la libertà di stampa. Noi, giornalisti e associazioni giornalistiche di tutto il mondo, esprimiamo la nostra profonda preoccupazione per la sorte di Assange, per la sua detenzione e le pesantissime accuse di spionaggio che gli vengono mosse. Il suo caso è centrale per la difesa del principio della libertà di espressione. Se il governo statunitense può perseguire Assange per avere pubblicato documenti segreti, in futuro i governi potranno perseguire ogni giornalista: si tratta di un precedente pericoloso per la libertà di stampa a livello planetario. Inoltre, l’accusa di spionaggio contro chi pubblichi documenti forniti da whistleblower è una prima assoluta che dovrebbe inquietare ogni giornalista e ogni editore. In una democrazia, i giornalisti devono poter rivelare crimini di guerra e casi di tortura senza il rischio di finire in prigione. Questo è il ruolo dei mass media in una democrazia. L’utilizzo da parte di governi contro giornalisti e editori di leggi che perseguono lo spionaggio, li privano del loro più importante argomento di difesa – l’avere agito nel pubblico interesse – un argomento non previsto dalle leggi contro lo spionaggio. Prima di essere imprigionato nel carcere di Belmarsh, Assange ha trascorso oltre un anno agli arresti domiciliari e sette anni all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, dove gli era stato riconosciuto l’asilo politico. In questo tempo, sono stati violati i suoi più essenziali diritti: basti pensare che è stato spiato durante conversazioni confidenziali con i suoi legali da organizzazioni alle dirette dipendenze dei servizi USA. I giornalisti che, in questi anni, si sono recati a visitarlo sono stati sottoposti a una sorveglianza invasiva. Assange ha subito restrizioni nell’accesso all’assistenza legale e alle cure mediche, è stato privato dell’esercizio fisico e dell’esposizione alla luce del sole. Nell’aprile del 2019, il governo Moreno ha permesso alla polizia britannica di entrare nell’ambasciata per arrestarlo. Da allora, Assange è detenuto in regime di isolamento per 23 ore al giorno e, secondo la testimonianza di chi lo ha potuto incontrare, è “fortemente sedato”. Le sue condizioni fisiche e psichiche nel tempo sono nettamente peggiorate. Già nel 2015 il Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria delle Nazioni Unite (GLDA) ha stabilito che Assange era detenuto e privato della liberta in modo arbitrario, ha chiesto che fosse liberato e gli fosse versato un risarcimento. Nel maggio del 2019 il GLDA ha ribadito le sue preoccupazioni e la richiesta che Assange sia rimesso in libertà. Riteniamo i governi di Stati Uniti, Regno Unito, Ecuador e Svezia responsabili delle violazioni dei diritti umani di cui Julian Assange è vittima.   Julian Assange ha dato un contributo straordinario al giornalismo, alla trasparenza e ha permesso di richiamare i governi alle loro responsabilità. È stato preso di mira e perseguitato per avere diffuso informazioni che non avrebbero mai dovuto essere celate all’opinione pubblica. Il suo lavoro gli è valso riconoscimenti come: Walkley Award per il più straordinario contributo al giornalismo nel 2011, premio Martha Gellhorn per il giornalismo, premio dell’Index on Censorship, New Media Award dell’Economist, Amnesty International e nel 2019 il premio Gavin MacFadyen. WikiLeaks è stata, inoltre, nominata per il Premio Mandela delle Nazioni Unite nel 2015 e sette volte per il Premio Nobel della Pace (2010-2015, 2019).   Le informazioni fornite da Assange sulle violazioni dei diritti umani e sui crimini di guerra sono di importanza storica, al pari delle rivelazioni dei whistleblower Edward Snowden, Chelsea Manning e Reality Winner, che oggi sono in esilio o in prigione. Contro tutti loro sono state lanciate campagne diffamatorie che spesso si sono tradotte sui media in informazioni errate e in un’attenzione insufficiente alle difficili condizioni in cui si trovano. L’abuso sistematico dei diritti di Julian Assange negli ultimi nove anni è stato sottolineato dal Committee to Protect Journalists, dalla Federazione Internazionale dei giornalisti e dalle più importanti organizzazioni di difesa dei diritti umani. Eppure nei media c’è stata una pericolosa tendenza a considerare normale il modo in cui è stato trattato.   L’inviato speciale delle Nazioni Unite contro la tortura Nils Melzer dopo avere indagato il caso ha scritto: “per finire mi sono reso conto che ero stato accecato dalla propaganda e che Assange è stato sistematicamente denigrato per distogliere l’attenzione dai crimini che ha denunciato. Una volta spogliato della sua umanità tramite l’isolamento, la diffamazione e la derisione, come si faceva con le streghe bruciate sui roghi, è stato facile privarlo dei suoi diritti più fondamentali senza suscitare l’indignazione dell’opinione pubblica mondiale. In questo modo, grazie alla nostra stessa compiacenza, si sta stabilendo un precedente che in futuro potrà e sarà applicato anche dinanzi a rivelazioni pubblicate dal Guardian, dal New York Times e da ABC News. (..) Mostrando un atteggiamento di compiacenza nel migliore dei casi, di complicità nel peggiore, Svezia, Ecuador, Regno Unito e Stati Uniti hanno creato un’atmosfera di impunità, incoraggiando calunnie e soprusi nei confronti di Julian Assange. In vent’anni di attività a contatto con vittime di guerra, violenza e persecuzione politica non ho mai visto un gruppo di Paesi democratici in combutta per deliberatamente isolare, demonizzare e violare i diritti di un singolo individuo così a lungo e con così poca considerazione per la dignità umana e lo Stato di diritto”. Nel novembre del 2019, Melzer ha raccomandato di impedire l’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti e di rimetterlo al più presto in libertà: “Continua a essere detenuto in condizioni opprimenti di isolamento e sorveglianza che non si giustificano per il suo stato di detenzione (…) La prolungata esposizione all’arbitrio e agli abusi potrebbe presto finire per costargli la vita”. Nel 1898 lo scrittore francese Emile Zola scrisse la lettera aperta J’accuse…! (Io accuso) per denunciare l’ingiusta condanna all’ergastolo per spionaggio dell’ufficiale Alfred Dreyfus. La presa di posizione di Zola è entrata nella storia e ancora oggi simboleggia il dovere di battersi contro gli errori giudiziari e di mettere i potenti dinanzi alle loro responsabilità. Questo dovere vale ancora oggi, mentre Julian Assange è preso di mira dai governi e deve fare fronte a 17 capi di imputazione1 in base all’Espionage Act statunitense, una legge vecchia più di cento anni. Come giornalisti e associazioni giornalistiche che credono nei diritti umani, nella libertà di informazione e nel diritto della pubblica opinione di conoscere la verità, chiediamo l’immediata liberazione di Julian Assange. Esortiamo i nostri governi, tutte le agenzie nazionali e internazionali e i nostri colleghi giornalisti a chiedere la fine della campagna scatenata contro di lui per avere rivelato dei crimini di guerra. Esortiamo i nostri colleghi giornalisti ad informare il pubblico in modo accurato sugli abusi dei diritti umani da lui subìti.   In questi frangenti decisivi, esortiamo tutti i giornalisti a prendere posizione in difesa di Julian Assange. Tempi pericolosi richiedono un giornalismo senza paura. 1 Vi è un altro capo di imputazione in base a un’altra legge, portando il totale a 18 capi di imputazione.
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itsmeimcathy · 5 years
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in riguardo alle tue tag sul mio post, è un peccato che non sia usata in un "settore pubblico", ma il problema viene del fatto che non è regolata se non sbaglio. per esempio il catalano è una lingua minoritaria ma esiste una accademia che la regola ecc e anche se ci sono tanti dialetti, c'è un catalano "standard" usato nella burocrazia. #REGOLAZIONE DELLA LINGUA SARDA 2020
Avevo letto da poco un post ben scritto a proposito del fatto che i vari dialetti e le lingue minoritarie d’italia siano state vittime di una sorta di “campagna di diffamazione” a un certo punto per fare in modo che tutti parlassimo l’italiano, inevitabilmente questo ha influito molto sul loro rapido declino.
Ora non sono un’esperta, ovviamente posso parlare solo della mia esperienza, ma ricordo che in classe (elementari e medie) maestri e professori facevano del loro meglio per far smettere di far parlare il sardo - per qualche motivo parlarlo sembra un sintomo di “ignoranza” e “volgarità”, perché “imbastardasce” l’italiano e per quanto mi riguarda da me è sempre stato scoraggiato. Mio padre con i suoi genitori ha sempre parlato in sardo, ma in casa da noi si è sempre limitato all’italiano; contrariamente al fratello che invece l’ha trasmesso anche alle figlie. Mia madre invece non l’ha mai parlato in casa, ha iniziato a masticarlo un po’ quando ha conosciuto mio padre e ha dovuto trovare un modo per comunicare con i suoceri, lol. E questo rimanendo nella stessa generazione! Se oggi un ventenne si mettesse a parlare in sardo nel suo luogo di lavoro, unironically, verrebbe quanto meno ripreso dal suo superiore (a meno che non sia qualche caso eccezionale tipo dottori o impiegati di banche e poste e supermercati che devono avere a che fare con persone anziane, e molte volte il sardo è l’unico modo per capirsi).
Ora non penso che esista una vera e propria accademia che protegge la lingua sarda, ma ci sono varie organizzazioni e alcuni partiti politici sardisti che ne incoraggiano l’utilizzo e il ritorno in voga; ma considerando che la maggior parte dei giovani se ne sta comunque andando dalla Sardegna per cercare lavoro altrove, a che pro? E’ triste come realtà perché sono completamente a favore della salvaguardia delle lingue minoritarie e dei dialetti – fanno parte della nostra cultura ed è nostro dovere proteggerle – ma sfortunatamente sono poche le persone interessate.
Dovendo insegnarla come materia nelle scuole (cosa che peraltro quasi ogni amministrazione promette e cerca di fare, con scarsi risultati quando sono riusciti a metterla in pratica) un altro problema sarebbe quale versione scegliere, proprio perché il sardo non è universale per tutti – quello che conosco io è diverso da quello che parlano nel paese a 10km, magari sono poche cose come l’accento o qualche parola invertita o proprio totalmente diversa, ma fanno la differenza. Per esempio da me si usa la “cc” al posto della “zz” per certi vocaboli, e anche se la parola in generale rimane la stessa (es: “chicciana” vs “chizzana” {una persona che si alza presto}, o “sacciàra” vs “sazzàra” {una persona che ha mangiato molto, sazia}) graficamente e foneticamente risultano diverse, e allora quale versione è meglio insegnare?
Per dare a Cesare ciò che è di Cesare, comunque, bisogna dire che nella segnaletica stradale il sardo è spesso usato come doppia lingua, specie se il nome del paese/via/piazza/e cose varie è stato italianizzato, e si preferisce ricordare e mantenere anche quello sardo. Ci sono anche canti di chiesa e preghiere in sardo, ora che ci penso, anche se non so quanto sia valida come “business-public life”, visto che nascono e muoiono in chiesa, lol.
Il senso di tutto questo romanzo è che è tutto un casino. X’D Sono del tutto favorevole a preservare e insegnare la lingua e regolarizzarla, ma è un lavoraccio e obiettivamente i politici lo usano giusto per fare campagna elettorale e poi chi s’è visto s’è visto. ¯\_(ツ)_/¯
Dovremmo davvero prendere spunto dai Catalani e facci svelare i loro segreti, mannaggia! #REGOLAZIONE DELLA LINGUA SARDA 2020 INDEED
(ps grazie per il messaggio, mi hai dato modo di sfogarmi su questa cosa - non pensavo di essere così appassionata considerando che in linea di massima in sardo conosco solo parolacce e modi di dire, LMAO)
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m2024a · 3 months
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"Brigitte Macron era un uomo". A processo due donne che diffusero la fake news AGI - Pubblicarono un video su Youtube due anni fa in cui farneticavano sull'identità di Brigitte Macron, sostenendo che la first lady un tempo era stata un uomo di nome "Jean-Michel". Video che divenne virale proprio nelle settimane precedenti le elezioni presidenziali del 2022. Di quelle affermazioni, che hanno scatenato online voci da parte di teorici della cospirazione e dell'estrema destra, due donne dovranno risponderne davanti a un tribunale. Il processo è fissato per oggi. All'epoca Brigitte Macron presentò una denuncia per diffamazione contro due donne che nel dicembre 2021 avevano pubblicato il video su YouTube. Il processo per diffamazione a Parigi si inserisce in una frenetica campagna per le elezioni legislative anticipate indette dal presidente Emmanuel Macron dopo che l'estrema destra ha sconfitto il suo partito alle elezioni del Parlamento europeo. Brigitte Macron non parteciperà all'udienza e sarà rappresentata dal suo avvocato Jean Ennochi. Né lui né il team di Brigitte Macron hanno voluto commentare prima dell'inizio del processo. Macron si è scagliato contro le false informazioni diffuse su sua moglie. In occasione della Giornata internazionale della donna ha affrontato le voci dicendo che "la cosa peggiore è la falsa informazione". "La gente alla fine ci crede e ti disturba, anche nella vita privata", ha detto. La figlia del primo matrimonio della first lady, Tiphaine Auziere, ha dichiarato di sperare che il processo possa mettere a tacere le voci "grottesche". Le false affermazioni hanno portato anche a più gravi accuse di abusi su minori rivolte alla first lady francese. La disinformazione che ha preso di mira la moglie di Macron si è diffusa anche negli Stati Uniti, dove è stata attaccata in un video su YouTube, ora cancellato, prima delle elezioni di novembre. Brigitte Macron fa parte di un gruppo di donne influenti - tra cui l'ex first lady statunitense Michelle Obama e l'ex premier neozelandese Jacinda Ardern - che sono state vittime della crescente tendenza alla disinformazione sul loro genere o sulla loro sessualità per deriderle o umiliarle.
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Transparency a Corte suprema Brasile, 'non ci faremo intimidire'
La richiesta di indagini da parte del giudice della Corte suprema del Brasile (Stf) Dias Toffoli sull’attività di Transparency International nel Paese è basata su “fake news” diffuse nell’ambito di una “campagna di diffamazione e assedio” contro l’organizzazione. Lo riferisce l’Ong con sede a Berlino in una nota diffusa alla stampa. “Non ci faremo intimidire e manterremo il nostro impegno nella…
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carmenvicinanza · 3 years
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Camilla Cederna
https://www.unadonnalgiorno.it/camilla-cederna/
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Camilla Cederna, giornalista e scrittrice italiana, riuscita ad affermarsi prepotentemente, dagli anni ’40 del secolo scorso, seguendo la pista del racconto e della testimonianza civile, in un mondo dell’informazione totalmente maschile.
Nacque a Milano il 21 gennaio 1911 in una famiglia di imprenditori di cotone valtellinesi trasferiti a Milano. Suo padre Giulio era anche calciatore e socio fondatore del Milan, sua madre, Ersilia Gabba era stata una delle prime donne in Italia a conseguire la laurea.
Apparteneva a quella borghesia ambrosiana che gravitava intorno alle case editrici e ai giornali, frequentava la Scala e le mostre d’arte, girava il mondo e parlava di politica riferendosi al pensiero liberale. Si era laureata in letteratura latina con una tesi dal titolo Prediche contro il lusso delle donne dai filosofi greci ai Padri della chiesa.
Il suo primo articolo, dal titolo Moda nera, del 1939, sul quotidiano milanese L’Ambrosiano prendeva in giro lo stile dei fascisti. Venne minacciata di arresto e di condanna a 11 anni, che però non scontò. Conobbe però la galera, negli anni della Repubblica di Salò, per un articolo critico verso il fascismo.
All’inizio della sua lunga carriera scriveva di moda  e costume, ritenute il riflesso di ogni evoluzione sociale, economica, ideologica e culturale del paese.
Destava non poca curiosità e attenzione questa signorina delle buona borghesia che s’intrufolava dappertutto per raccontare ciò che vedeva e sentiva. Dal 1945, per dieci anni, cha collaborato con L’Europeo e dal 1956 ha lavorato con L’Espresso, dove teneva la rubrica Il lato debole in cui descriveva l’involuzione di una società ripiegata su se stessa, con i suoi molti vizi e le sue rare virtù. Girava il mondo come inviata speciale e intanto scriveva libri su personaggi famosi come Fellini e Maria Callas.
Negli anni ’90 ha collaborato con Panorama.
Dal 1969 ha cominciato a interessarsi prevalentemente di politica. Dopo la strage di Piazza Fontana, pubblicò un’inchiesta sull’assassinio di Giuseppe Pinelli, e due anni dopo è stata la principale ispiratrice della lettera aperta pubblicata su L’Espresso contro il commissario Calabresi e i magistrati che lo avevano tutelato durante l’inchiesta sulla defenestrazione dell’anarchico. Scrisse anche il libro Pinelli. Una finestra sulla strage, a causa del quale venne accusata dall’allora questore di Milano di essere la mandante morale dell’omicidio di Calabresi.
La sua rubrica cambiò tono trasformandosi nella cronaca feroce e lucida di ciò che non andava pagandone pesantemente le conseguente e costretta a affrontare molti processi.
A partire dal 1975, iniziò una campagna critica contro l’allora presidente della repubblica, Giovanni Leone, e i suoi familiari.
Il suo libro del 1978 Giovanni Leone: la carriera di un presidente vendette oltre ottocentomila copie e lo costrinse alle dimissioni. Denunciata dai familiari del presidente, fu condannata per diffamazione e venne decretata la distruzione di tutte le copie del libro.
Soprannominata Donna coraggio, Camilla Cederna ha smascherato le trame politiche del suo tempo e pubblicato inchieste che hanno fatto la storia del giornalismo italiano.
Irriducibile, malgrado la società intellettuale del tempo l’avesse allontanata perché troppo polemica e fastidiosa, ha scritto fino all’ultimo.
È morta il 5 novembre 1997 nella sua abitazione milanese. Le sue ceneri sono conservate nel cimitero monumentale di Milano.
La sua vita e la sua penna affilata hanno lasciato un’impronta indelebile nel Novecento. Indomita, ha analizzato la politica italiana, con sguardo acuto e impietoso. È stata una voce scomoda, fastidiosa, autrice di inchieste pericolose che mostravano il lato oscuro di personaggi che sembravano intoccabili. È stata accusata di essere un’anarchica e pesantemente insultata, ma non ha mai rimpianto quello che aveva scritto e la sua instancabile ricerca della verità.
Ho capito da sola in questi anni com’è scomodo essere in una minoranza specialmente quando si ha ragione, quando si è d’estrazione borghese e, soprattutto, si è donne. L’importante è combattere una battaglia giusta e non avere la stima dei soliti benpensanti.
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