#Attentato mafia Sicilia
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La strage di via D'Amelio: un tragico ricordo
Era una caldissima domenica, il 19 luglio 1992, quando un boato echeggiò in Palermo. Alle 16.58, un intenso fumo si alzò da via D’Amelio. Vincenzo Policheni, in servizio di volante, arrivò sul posto e vide una scena di guerra: polvere, fumo, fiamme e vetri in frantumi. Accanto a lui, vide un uomo che sembrava un fantasma. Era Antonino Vullo, agente della scorta del giudice Paolo Borsellino,…
#Attentato mafia Sicilia#Criminalità Cosa Nostra#Criminalità organizzata Italia#Giorgio Ambrosoli#Ingiustizie italia#Memoria vittime mafia#Omicidio Giovanni Falcone#Strage di Capaci#Vittime terrorismo mafioso
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C’è una convergenza di interessi tra mafiosi ed estremisti di destra su alcuni delitti eccellenti e stragi, manovrata da una regia ancora occulta che mette in collegamento Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e terroristi neri. Storie macchiate dal sangue di vittime innocenti su cui si attende ancora una verità, non solo giudiziaria ma anche politica. Il tema centrale, come scrivono i giudici della Corte d’assise di Bologna nell’ultima sentenza sulla strage del 2 agosto, “è il collegamento tra Cosa Nostra, l’eversione terroristica di destra e i collegamenti con il gruppo di potere coagulatosi intorno alla P2 e a Licio Gelli“. Ci sono una serie di legami che dimostrano che tra i “neri” dei Nuclei armati rivoluzionari, di cui faceva parte anche Massimo Carminati, e Cosa Nostra, vi fossero scambi operativi, “mediati da altri soggetti”. Le inchieste giudiziarie documentano come in diverse vicende i boss calabresi sono andati a braccetto con i neri. E comprendere lo sviluppo di questo intreccio è compito pure della Commissione parlamentare antimafia. Lo scorso aprile sono state rese pubbliche le motivazioni della sentenza della Corte d’assise di Bologna, da cui si legge che è stato un attentato, quello del 2 agosto 1980 alla stazione, eseguito da neofascisti. I giudici mettono in collegamento la strage con l’omicidio a Palermo del presidente della Regione, Piersanti Mattarella, fratello del Capo dello Stato. Per quel delitto sono stati assolti i neri Fioravanti e Cavallini. Nel processo di Bologna sono stati recuperati elementi che hanno indotto i giudici a ritenere che “l’eliminazione di Mattarella dopo quella di Aldo Moro, al quale si apprestava a succedere, secondo ragionevoli interpretazioni della fase storica, era indispensabile per eliminare un irriducibile ostacolo ai piani della P2 e al contempo a quelli di Cosa nostra, convergenti sull’obiettivo data l’azione che Mattarella aveva avviato in Sicilia per sottrarre il suo partito all’alleanza con la mafia”. I sicari di Mattarella non hanno ancora un nome, ma sono stati condannati come mandanti i componenti della cupola. I neri rivendicarono il delitto: “Qui Nuclei Fascisti Rivoluzionari, rivendichiamo l’uccisione dell’onorevole Mattarella in onore ai caduti di Acca Larentia”. Seguita da comunicati di rivendicazione di Br e Prima linea ritenuti depistanti, quasi a correggere quella prima incauta rivendicazione. L’assoluzione in primo grado nel 1995 scaturisce dalle dichiarazioni di Buscetta e Marino Mannoia, i quali assicuravano che i killer erano uomini di Cosa Nostra, senza tuttavia saperli identificare. Fioravanti e Cavallini erano stati processati in base alle accuse rivolte da Cristiano Fioravanti, fratello di Valerio, che li indicava come autori dell’agguato; la testimonianza della moglie di Piersanti Mattarella che vide in faccia il killer e ne descrisse l’andatura ballonzolante di Fioravanti; e infine la presenza di Valerio Fioravanti a Palermo nei giorni in cui Mattarella fu ucciso. Su questo delitto la procura della Repubblica di Palermo sta ancora indagando. E poi c’è lo stesso modello di pistola che uccide Mattarella e il giudice Mario Amato, organizzato e portato a termine dai terroristi dei Nar. In questo caso spara Gilberto Cavallini. La perizia sulla pistola risulta “coincidente” con quella utilizzata per uccidere Mattarella. Ci sono “punti di collimazione” e poi la Colt utilizzata dai “neri” per uccidere Amato aveva “un difetto di funzionamento”, come quella che i testimoni oculari hanno detto per l’arma utilizzata nell’agguato al presidente della regione siciliana. Gli specialisti del Racis dei carabinieri sono riusciti a comparare i proiettili dell’omicidio Mattarella con la Cobra usata dai Nar a Roma. Il risultato è “coincidente”: significa che c’è una probabilità molto alta che l’arma sia la stessa. Sulla saldatura tra mafia e Nar indagava pure Giovanni Falcone, lui non era il solo a credere nella pista “fascio-mafiosa”. La commissione antimafia presieduta da Bindi ha tolto il segreto alla relazione sul delitto Mattarella del 1989 firmata Loris D’Ambrosio, allora in servizio all’Alto commissariato, in cui spiega che “l’inesistenza di piste mafiose per gli autori materiali non implica, sia ben chiaro, l’esclusione della matrice mafiosa dell’omicidio”. Per D’Ambrosio non era solo mafia. Mattarella viene ucciso come “nemico dell’anti-Stato”. E proprio la scelta di affidare l’esecuzione a terroristi neri permette ai capi di Cosa Nostra di “disorientare l’opinione pubblica e l’apparato investigativo” e dimostrare “alla stessa organizzazione quanto devastante ed estesa sia la capacità di espansione e controllo che l’anti-Stato è in grado di esercitare”. Una storia fascio-mafiosa che è materia per un’attenta inchiesta di una commissione parlamentare. Magari quella dell’Antimafia.
Dal delitto Mattarella alla strage di Bologna: la trama oscura che lega mafia e terrorismo nero - Lirio Abbate – repubblica.it
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21 mag 2024 17:26
“LA MORTE DI FALCONE? È STATA STESA UNA COLTRE INACCETTABILE SULLE RESPONSABILITÀ DEI SUOI COLLEGHI MAGISTRATI” – L’EX MINISTRO CLAUDIO MARTELLI RICORDA IL GIUDICE UCCISO DALLA MAFIA (INSIEME AL QUALE HA LAVORATO AL MINISTERO) – “ERA IL MAGISTRATO PIÙ FAMOSO AL MONDO. AVEVA FATTO CONDANNARE LA CUPOLA MAFIOSA. MA IL CSM LO DEGRADÒ, LO DELEGITTIMÒ. LO ESPOSE..." – LA STORIA DEL FALLITO ATTENTATO ALL’ADDAURA E LA STRAGE DI CAPACI: “L’AUTO VOLEVA SEMPRE GUIDARLA LUI, ERA LA SUA MANIA. È MORTO ANCHE PER QUESTO. SE..." -
Francesco Verderami per il Corriere della Sera - Estratti
Quando ne parla lo chiama «Giovanni», «perché passammo dal lei al tu in poco tempo». Claudio Martelli ricorda i giorni trascorsi al ministero di Grazia e Giustizia con Giovanni Falcone. Rammenta la consuetudine che divenne ben presto familiarità. «Succedeva quasi tutte le mattine: veniva nel mio ufficio, si sedeva di fronte a me, prendeva fiato come faceva lui, tirava fuori il suo blocchetto di post-it e li attaccava sulla mia scrivania.
C’erano spunti sugli argomenti più diversi. Da riforme complesse a piccoli grandi problemi di cui veniva a conoscenza: “In questa Procura in Sicilia c’è un giovane sostituto procuratore che lavora da solo con un computer che si porta da casa. E lui dovrebbe fare la lotta alla mafia? E con che cosa? Con un computer e due carabinieri di supporto, mentre Cosa nostra ha centinaia di uomini armati?”».
Di «Giovanni» gli tornano in mente «le mani delicatissime, la voce piana, leggermente querula. E il suo fare sornione. A lui piaceva fare scherzi. Per esempio toglieva la chiave mentre guidava l’auto. L’auto voleva sempre guidarla lui, era la sua mania. È morto anche per questo a Capaci: se si fosse seduto dietro, si sarebbe salvato. A volte la sera uscivamo a Roma. Ci mettevano d’accordo, licenziavamo le scorte e andavamo a cenare in ristoranti fuori mano. Da soli. Mi diceva: “È molto più sicuro così, Claudio. Tranquillo”. Facemmo viaggi in giro per l’Europa e per gli Stati Uniti. Una volta mi fece anche preoccupare».
(...)
Lei chiamò «Giovanni» a Roma il 2 febbraio del 1991, appena diventato Guardasigilli del settimo governo Andreotti.
«Sì, lo nominai direttore degli Affari penali, il ruolo più importante al ministero. Non aveva ancora preso l’incarico quando una sera ci fu una sparatoria davanti alla mia casa sull’Appia. I due fermati dissero di essere dei cacciatori. Si scoprì dopo che erano due mafiosi di Alcamo, che intanto erano stati rilasciati. Comunque, la mattina seguente Giovanni volle venire a vedere. Osservò i proiettili nel muro e commentò: “Non è un attentato, è un ammonimento”. Forse gli sembrai deluso e allora aggiunse sorridendo: “Non si preoccupi, se continua così un attentato prima o poi glielo fanno”».
Ancora vi davate del lei e lui non le ingombrava la scrivania con i post-it.
«Credo non sia mai stato così felice in vita sua come in quell’anno e mezzo a Roma. Era rasserenato, presentava progetti ogni giorno. Poteva fare il lavoro che aveva sempre sognato... (si ferma, si incupisce, smette di parlare di «Giovanni» e inizia a parlare di «Falcone»). È stata stesa una coltre inaccettabile sulla storia di Falcone e sulle responsabilità dei suoi colleghi magistrati per la sua morte.
Nessuno ricorda mai le parole pronunciate da Paolo Borsellino un mese dopo l’assassinio di Falcone e venti giorni prima di essere a sua volta assassinato: “Nel ripercorrere queste vicende della vita professionale di Falcone — disse Borsellino — ci accorgiamo di come il Paese, lo Stato e la magistratura, che forse ha più colpe di ogni altro, cominciarono a far morire Falcone nel gennaio del 1988”».
Cosa accadde nel gennaio dell’88?
«Il Consiglio superiore della magistratura doveva decidere chi sarebbe subentrato ad Antonino Caponnetto come capo dell’Ufficio istruzione di Palermo. Caponnetto era il magistrato che aveva costituito il pool antimafia. E il passaggio di testimone a Falcone era considerato naturale, ampiamente giustificato dal fatto che nel dicembre del 1987 aveva vinto il maxi-processo: il primo grande processo a Cosa nostra, che aveva portato alla condanna di tutti i boss, a partire da Totò Riina e Bernardo Provenzano».
Falcone quindi non sembrava aver rivali per quell’incarico.
«Era il magistrato più famoso al mondo. Aveva fatto condannare la cupola mafiosa. Aveva sviluppato la cooperazione giudiziaria internazionale con l’Fbi, la magistratura francese, quella tedesca. Ma il Csm gli preferì Antonino Meli. Fu una manovra decisa dai magistrati a tavolino per tagliar fuori Falcone, perché Meli puntava a un’altra carica. Fernanda Contri, che era uscita sconfitta dalla battaglia nel Csm, ricevette una telefonata da Falcone: “Avete capito che mi avete consegnato alla mafia?
Ora possono eseguire senza problemi la sentenza di morte già decretata da tempo, perché sanno che non mi vogliono neanche i miei”. Insomma, il Csm lo degradò, lo delegittimò. Lo espose».
E la sua frase fu profetica.
«Ad agosto dello stesso anno subì l’attentato all’Addaura, una zona di mare vicino a Palermo dove in quel weekend era andato insieme alla giudice svizzera Carla Del Ponte. Trentotto candelotti di dinamite vennero trovati dalla sua scorta sul vialetto che dall’abitazione portava alla spiaggia. A vigilare c’erano anche due poliziotti su un canotto. L’indagine non approdò a nulla, anche perché a distanza di pochi mesi i due poliziotti testimoni furono assassinati. Non si seppe mai da chi. Falcone disse che la regia dell’attentato era stata “opera di menti raffinatissime”».
A chi si riferiva?
«Chiaramente non alla mafia, ma a pezzi delle istituzioni. Poi si candidò alla Procura di Palermo ma non venne selezionato. Poi si candidò al Csm e ottenne appena 101 voti su 7.005. Intanto Borsellino era andato a fare il procuratore a Marsala. Lui era solo e isolato».
E lei lo chiamò.
«E lui venne a Roma. Gli dissi che avrei voluto trasformare in leggi dello Stato le esperienze che lui aveva maturato con il pool antimafia. “È quello che voglio fare anch’io”, mi rispose. In realtà abbiamo fatto molto di più».
In che senso?
«Era uno specialista della collaborazione internazionale. Un giorno venne chiamato dal procuratore di Mosca: pare che il suo collega russo avesse un fagotto di carte nelle quali ci sarebbero state le prove di come il Pcus rubava i soldi allo Stato per finanziare i partiti amici in Europa, compreso il Pci. Eravamo nel periodo del crollo verticale del regime, il periodo di Boris Eltsin, e il procuratore di Mosca voleva raccontargli come il flusso di danaro non si fosse fermato. Falcone chiese la mia autorizzazione. Non fece in tempo a usarla».
Ma non doveva fare il direttore degli Affari penali?
«Visitammo tutte le procure più esposte in Calabria e in Sicilia. Ricordo un viaggio a Bonn, dove incontrammo il ministro dell’Interno tedesco. Eravamo nella sede della Volkswagen e il mio collega disse: “In Germania non abbiamo segnali di infiltrazioni mafiose”. Allora Falcone gli chiese: “Quanti siciliani lavorano alla Volkswagen?”. Il ministro s’informò subito: “Cinquemila, sono cinquemila”. “Allora la mafia c’è”, concluse Falcone. In questo commento c’era il giudizio disincantato, quasi disperato sulla sua terra, “dove regna una cultura di morte”».
Con quei post-it cosa faceste?
«Costruimmo l’Fbi all’italiana: da una parte la Direzione nazionale antimafia e dall’altra — insieme al ministro dell’Interno Vincenzo Scotti — la Direzione investigativa antimafia. Strutture nuove, con basi in tutta Italia e il vertice a Roma. Scrivemmo anche la legge antiracket per dare coraggio ai commercianti e indurli a denunciare la mafia che li obbligava al pizzo. E nel gennaio del 1992 istituimmo la Procura nazionale antimafia».
Contro la quale scoppiò un putiferio.
«In Parlamento si scatenarono i fascisti e i comunisti, questi ultimi impegnati a tutelare la loro longa manus nel Csm. I magistrati per la prima volta dichiararono lo sciopero nazionale e lo condirono con attacchi personali a Falcone: “Falcone non dà più garanzie di indipendenza, perché lavora per un ministro”. E ovviamente si misero di traverso per la sua nomina alla Superprocura. Ingaggiai una dura lotta con il Csm perché Falcone ottenesse l’incarico. Ma il 23 maggio del 1992 venne ucciso a Capaci insieme a sua moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e agli agenti della scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Dopo la sua morte tutti vennero a chiedere scusa».
E Borsellino?
«Lo chiamai il giorno della strage. Non ci facemmo le condoglianze: c’era sgomento e voglia di lottare. Poi parlai con Gianni De Gennaro. Mi disse: “So che siamo animati dallo stesso sentimento...”, “Di odio”, lo interruppi. “Non solo. Credo ci sia anche un certo rancore personale”.
(resta a lungo in silenzio) .
Questa è la storia di Falcone.
Giudicate voi».
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Quarantunesimo anniversario dell’uccisione del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa
Quarantunesimo anniversario dell’uccisione del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa Il premier Giorgia Meloni: "Sradicare ogni forma di criminalità organizzata". Il 3 settembre 1982 vennero uccisi il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo: “La lotta alla mafia impegni tutta l’italia” ha dichiarato Mattarella, aggiungendo “Il quarantunesimo anniversario dell'attentato di via Isidoro Carini richiama l'intero Paese a uno sforzo corale nell'impegno di lotta alla mafia. Tutta la società italiana deve sentirsi coinvolta: le istituzioni, le agenzie educative, il mondo delle associazioni". Il Generale Dalla Chiesa fu nominato Prefetto di Palermo e nel 1982 venne inviato in Sicilia per contrastare l’espansione di Cosa Nostra. Lo stesso anno morì assassinato da un omicidio commissionato. In merito alla sua morte Giovanni Falcone dichiarò: “In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”. Il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi, in occasione delle commemorazioni che si sono svolte a Palermo, ha lasciato un messaggio in onore del generale ricordando l’importanza della sua figura nella storia del nostro Paese. “L’esempio di Carlo Alberto dalla Chiesa indica con chiarezza quali sono le scelte da compiere quotidianamente per il bene del Paese, a tutela della libertà e della democrazia” afferma nel suo discorso Piantedosi. Presente a Palermo anche il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, la quale, ha ribadito il sostegno dello stato nella lotta alla mafia ed il supporto per le vittime che si sono sacrificate per il bene del Pese: "A 41 anni dal brutale attentato mafioso che ha causato la morte del Generale dell'Arma dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, di sua moglie Emanuela Setti Carraro e dell'agente di scorta Domenico Russo, continua senza sosta l’impegno per sradicare ogni forma di criminalità organizzata", ha dichiarato la Premier. ... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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23 maggio 1992 La strage di Capaci: un attentato terroristico-mafioso che ha cambiato la storia italiana
La strage di Capaci è stata un attentato terroristico-mafioso compiuto da Cosa Nostra il 23 maggio 1992 nei pressi di Capaci, in Sicilia. L'attentato ha causato la morte del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e di tre agenti di scorta: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. L'esplosione dell'autostrada Palermo-Trapani, dove viaggiava il giudice Falcone, è stata un evento che ha segnato profondamente la storia italiana. Le cause Secondo le testimonianze dei collaboratori di giustizia, l'attentato di Capaci fu eseguito per danneggiare il senatore Giulio Andreotti: infatti la strage avvenne nei giorni in cui il Senato avrebbe dovuto votare la fiducia al governo Andreotti VII. Tuttavia, nonostante le indagini siano state condotte per anni, non è mai stata trovata una prova concreta che collegasse l'attentato alla politica. Le conseguenze La strage di Capaci ha rappresentato un punto di svolta nella lotta contro la mafia in Italia. L'attentato ha scosso profondamente l'opinione pubblica e ha portato a una maggiore consapevolezza dell'esistenza e dell'influenza della mafia nel Paese. Inoltre, ha spinto le autorità a intensificare gli sforzi per combattere la criminalità organizzata. Le indagini Le indagini sulla strage di Capaci sono state molto complesse e hanno richiesto anni di lavoro da parte delle autorità italiane. Nel giugno 2008 Gaspare Spatuzza (ex mafioso di Brancaccio) iniziò a collaborare con la giustizia e dichiarò ai magistrati di Caltanissetta che circa un mese prima della strage di Capaci si recò a Porticello insieme ad altri mafiosi per incontrare i vertici della mafia siciliana. Secondo Spatuzza, durante l'incontro fu deciso di organizzare l'attentato contro il giudice Falcone. La commemorazione delle vittime Ogni anno, il 23 maggio, si tiene a Palermo e Capaci una lunga serie di attività, in commemorazione della morte del magistrato Giovanni Falcone e di Francesca Morvillo. Le cerimonie includono momenti di preghiera, deposizione di fiori e corone d'alloro presso i luoghi dove sono avvenuti gli attentati e discorsi delle autorità locali e nazionali. Conclusioni La strage di Capaci è stata un evento tragico che ha segnato profondamente la storia italiana. L'attentato terroristico-mafioso ha causato la morte del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e di tre agenti di scorta ed è stato un punto di svolta nella lotta contro la mafia in Italia. Nonostante siano passati molti anni dall'attentato, ogni anno si tiene una cerimonia per commemorare le vittime e ribadire l'importanza della lotta contro la criminalità organizzata. FONTI https://www.ilpost.it/2022/05/23/strage-capaci-giovanni-falcone/ https://www.skuola.net/temi-saggi-svolti/temi/strage-capaci-morte-falcone.html Read the full article
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A noi pare che quella del sostanziale divorzio in atto fra mafia e potere politico sia una delle tipiche tesi consolatorie che la cultura progressista elabora periodicamente in omaggio all'«ottimismo della volontà». D'altronde, la circostanza che il giudice Chinnici cui non mancavano gli elementi di conoscenza diretta — si sia dichiarato convinto che i rapporti fra mafia e potere politico non solo persistevano, ma si erano fatti più stretti, e abbia suffragato con fatti concreti il suo convincimento, non può non far riflettere. Soprattutto, non può non far riflettere il fatto che — pochi mesi dopo aver fatto pubblicamente queste dichiarazioni — Chinnici è stato ucciso. Se questo rimane, a nostro avviso, un punto-chiave indispensabile per tentare un'analisi seria della mafia nella società dell'eroina, la relazione tenuta a Castelgandolfo da Chinnici fornisce altre riflessioni di grande interesse. Il materiale di cui si era servito Chinnici per preparare il testo proveniva in buona parte dalle inchieste di un magistrato che lavorava con lui, Giovanni Falcone. C'è nella relazione Chinnici un passaggio che implicitamente conferma quella che abbiamo definito la piccolezza del pianeta: «La multinazionale della droga non è espressione giornalistica, né è priva di significato. Le indagini condotte da Falcone, in particolare, hanno messo in evidenza i legami della mafia siciliana e di quella calabrese e napoletana e dei gruppi che operano nell'Italia del Nord, con trafficanti di eroina e di armi, belgi, francesi, mediorientali; hanno fornito conferma al fatto che le potenti famiglie mafiose che operano negli Usa e nel Canada, e che provengono in massima parte dalla Sicilia occidentale, e con particolare riferimento ai traffici illeciti di eroina, sono in posizione di dipendenza rispetto alle associazioni mafiose dei paesi d'origine, specie dopo che il centro di produzione dell'eroina si è spostato dalla Francia meridionale a Palermo e forse anche in Calabria e nel Napoletano». Nella lotta contro la corruzione politica — e in quella, contigua, contro la mafia — la magistratura italiana ha certamente compiuto gravi errori, peraltro di gran lunga inferiori ai meriti acquisiti dai giudici più lungimiranti e coraggiosi. Il successore di Chinnici, Antonio Caponnetto, per fronteggiare da Palermo le strategie internazionali della criminalità organizzata, creò, secondo le indicazioni del predecessore, un pool antimafia, la cui azione incisiva inserì elementi di crisi fra le cosche e permise alla giustizia di ottenere finalmente risultati concreti. Fra i più attivi magistrati del pool si distinsero Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Ayala. Ben presto però il pool fu smantellato. Questo accadde quando il governo, su pressione soprattutto della segreteria socialista, sostenne l'esigenza di un coordinamento centralizzato: in questa proposta non pochi videro la volontà di sottoporre l'azione della magistratura al controllo dell'esecutivo. Giovanni Falcone fu trasferito a Roma, al ministero della Giustizia, da dove peraltro continuò a mantenere contatti con i colleghi siciliani, per impedire che l'esperienza acquisita dal disciolto pool andasse perduta. Evidentemente la mafia ritenne che il trasferimento a Roma non avesse ridotto la pericolosità dell'esperto magistrato siciliano, e nel maggio del 1992 — giusto nei giorni in cui il parlamento italiano era riunito per eleggere il nuovo presidente della Repubblica — ordì contro Falcone un micidiale attentato, provocando, con un'esplosione spaventosa sull'autostrada fra l'aeroporto di Punta Raisi e Palermo, la morte del magistrato, della moglie, degli uomini che componevano la scorta. Non era trascorso un mese, quando il potenziale successore di Falcone, Paolo Borsellino, fu trucidato a Palermo in un'imboscata mafiosa di altrettanta precisione tecnica. Il nuovo presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, democristiano come il predecessore Cossiga, esordì pertanto nell'alta carica partecipando a cerimonie funebri durante le quali l'esasperazione di molti, a cominciare dagli agenti di polizia, creò attorno alle autorità momenti di tensione e contestazione.
Sergio Turone, Politica ladra. Storia della corruzione in Italia 1861-1992, Laterza (collana I Robinson), 1993²; pp. 278-79.
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Mafia: 30 anni da attentato Germanà, io vivo e non so perché
Mafia: 30 anni da attentato Germanà, io vivo e non so perché
<img src="” title=”Mafia: 30 anni da attentato Germanà, io vivo e non so perché” />Read MoreIl 14 settembre ’92 l’agguato al commissario sul litorale MazaraIl 14 settembre ’92 l’agguato al commissario sul litorale MazaraRSS di Sicilia – ANSA.it
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Il 9 maggio del 1978, mentre l’Italia è sotto choc per il ritrovamento a Roma del cadavere di Aldo Moro, in un piccolo paesino della Sicilia affacciato sul mare, Cinisi, a 30 km da Palermo, muore dilaniato da una violenta esplosione Giuseppe Impastato. Ha 30 anni, è un militante della sinistra extraparlamentare e sin da ragazzo si è battuto contro la mafia, denunciandone i traffici illeciti e le collusioni con la politica. A far uccidere Impastato è il capo indiscusso di Cosa Nostra negli anni Settanta, Gaetano Badalamenti, bersaglio preferito delle trasmissioni della Radio libera che Peppino ha fondato a Cinisi, dove passa l'intera giornata e l'intera notte dell'8 maggio 1978. La sera successiva però, Peppino non si trova più. Gli amici si mettono a cercarlo. A casa non sanno niente di lui. E’ successo, l’irreparabile: Peppino Impastato è stato ucciso, dilaniato da una bomba piazzata sulla ferrovia Palermo-Trapani I familiari e gli amici non hanno dubbi, ad uccidere Peppino è stato Gaetano Badalamenti, eppure le indagini prendono tutt’altra direzione; si ipotizza il suicidio oppure che il giovane sia morto saltando per aria mentre preparava un attentato dinamitardo. Impastato è un terrorista o un suicida; questo è l’ultimo oltraggio della mafia contro il giovane che ha osato sfidarla. Nessuna indagine viene fatta sull’esplosivo, mentre vengono portati in caserma e interrogati i suoi più cari amici. La scena del crimine viene alterata: le prove, gli occhiali, le chiavi di Peppino Impastato, due pietre insanguinate sul luogo della morte, scompaiono nel nulla. Al funerale di Peppino Impastato si presenta spontaneamente una folla di giovani, accorsi da tutta la Sicilia, ma la gente di Cinisi non si presenta, e lascia la famiglia sola.
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Il 9 maggio del 1978, mentre l’Italia è sotto choc per il ritrovamento a Roma del cadavere di Aldo Moro, in un piccolo paesino della Sicilia affacciato sul mare, Cinisi, a 30 km da Palermo, muore dilaniato da una violenta esplosione Giuseppe Impastato. Ha 30 anni, è un militante della sinistra extraparlamentare e sin da ragazzo si è battuto contro la mafia, denunciandone i traffici illeciti e le collusioni con la politica. A far uccidere Impastato è il capo indiscusso di Cosa Nostra negli anni Settanta, Gaetano Badalamenti, bersaglio preferito delle trasmissioni della Radio libera che Peppino ha fondato a Cinisi, dove passa l'intera giornata e l'intera notte dell'8 maggio 1978. La sera successiva però, Peppino non si trova più. Gli amici si mettono a cercarlo. A casa non sanno niente di lui. E' successo, l’irreparabile: Peppino Impastato è stato ucciso, dilaniato da una bomba piazzata sulla ferrovia Palermo-Trapani I familiari e gli amici non hanno dubbi, ad uccidere Peppino è stato Gaetano Badalamenti, eppure le indagini prendono tutt’altra direzione; si ipotizza il suicidio oppure che il giovane sia morto saltando per aria mentre preparava un attentato dinamitardo. Impastato è un terrorista o un suicida; questo è l’ultimo oltraggio della mafia contro il giovane che ha osato sfidarla. Nessuna indagine viene fatta sull’esplosivo, mentre vengono portati in caserma e interrogati i suoi più cari amici. La scena del crimine viene alterata: le prove, gli occhiali, le chiavi di Peppino Impastato, due pietre insanguinate sul luogo della morte, scompaiono nel nulla. Al funerale di Peppino Impastato si presenta spontaneamente una folla di giovani, accorsi da tutta la Sicilia, ma la gente di Cinisi non si presenta, e lascia la famiglia sola.
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«Dalla Chiesa lo abbiamo ucciso tutti noi»: la storica intervista a Sciascia del Corriere della Sera
L’intervista che leggete è stata pubblicata sul Corriere del 5 settembre 1982. «Carlo Alberto dalla Chiesa lo abbiamo ucciso tutti quanti noi indicandolo come l’unico che poteva combattere il terrorismo, come l’unico che poteva combattere la mafia. Ne abbiamo fatto un bersaglio cui qualcuno poi ha sparato». Comincia così il nostro colloquio con lo scrittore Leonardo Sciascia venti ore dopo l’assassinio del generale dei carabinieri. Sciascia non aveva stabili frequentazioni con il militare, ma ne era rimasto affascinato tanto da trasformarlo nel capitano Bellodi, protagonista de «Il giorno della civetta». L’incontro avviene nella casa di campagna dello scrittore a Racalmuto, poche migliaia di anime al centro del triangolo della miseria in Sicilia. Sciascia vi trascorre le vacanze in compagnia della moglie, n resto del mondo appare lontano. La notizia dell’assassinio del prefetto di Palermo Sciascia l’ha appresa solo ieri mattina, dodici ore dopo l’agguato. «Questo assassinio — dice — ha un solo significato ed è l’eliminazione di una singola persona che era diventata un simbolo. Le istituzioni sono tarlate, non funzionano più, si reggono solo sulla abnegazione di pochi uomini coraggiosi. A partire dall’assassinio del vice questore Boris Giuliano, la mafia ha deciso di eliminare questi uomini simbolo. Arrivati a dalla Chiesa, però, mi domando, se non ci sia della follia in chi ordina questi delitti: che cosa vogliono? Qual è il loro obiettivo? Pretendono forse il governo dello Stato? In verità non riesco a capire. Vogliono forse Imporre un ordine mafioso che si sovrapponga a quello dello Stato? Ma questo è impossibile perché livello dei delitti è talmente alto da suscitare una fortissima reazione». «Io credo - continua Sciascia — che nessuna organizzazione eversiva possa gareggiare con lo Stato in fatto di violenza, anche quando lo Stato appare inefficiente. Anzi, la sua inefficienza, è direttamente proporzionale alla mancanza dt funzionalità. In queste condizioni sfidarlo mi sembra un atto di napoleonismo folle. Ma tutto ciò mi preoccupa perché uno Stato inesistente è sempre capace di approvare una legge sui pentiti e di scatenare una furibonda repressione poliziesca». «Secondo me la mafia si combatte utilizzando onestà, coraggio e intelligenza e le indagini fiscali illustrate due giorni fa dal ministro Formica mi sembrano un buon inizio. Con questi strumenti la mafia si può debellare. «Per capire tale affermazione bisogna rifarsi alla tesi classica che voleva la mafia inserita nel vuoto dello Stato, mentre in realtà essa vive nel pieno dello Stato. Credo che dall’istituzione della commissione antimafia in poi, l’organizzazione abbia cominciato a sentirsi esclusa dal pieno dello Stato e ora ha assunto questa forma che potremmo definire eversiva. Ma in effetti appare come un animale ferito che dà colpi di coda». «Dalla Chiesa, forse — aggiunge lo scrittore —, non aveva intuito tale trasformazione e i pericoli che ne derivavano. Anch’io, peraltro, non credevo che si arrivasse a colpire tanto in alto. Ma in effetti noi tutti conosciamo bene solamente la vecchia mafia terriera. Per il resto tiriamo ad indovinare. Possiamo dire in ogni caso che la mafia è una forma di terrorismo perché vuole terrorizzare la gente. Ma i fini sono sostanzialmente diversi. Di comune c’è una sola cosa e cioè l’attentato alle nostre libertà». «Ma forse Dalla Chiesa — conclude Sciascia — non aveva piena coscienza di questo fenomeno. Mi meraviglio infatti della maniera con cui è stato ucciso. Quando un uomo arriva alle sue posizioni ha il dovere di farsi proteggere e di farsi scortare bene. Le manifestazioni di coraggio personale possono diventare forme di imprudenza pericolosa. Ciò nonostante mi sgomenta la incapacità della nostra polizia di prevenire. Infatti un attentato ad un uomo come Dalla Chiesa non si improvvisa in quattro e quattr’otto, ma nessuno ne aveva avuto sentore».
L’intervista che leggete è stata pubblicata sul Corriere del 5 settembre 1982. «Carlo Alberto dalla Chiesa lo abbiamo ucciso tutti quanti noi indicandolo come l’unico che poteva combattere il terrorismo, come l’unico che poteva combattere la mafia. Ne abbiamo fatto un bersaglio cui qualcuno poi ha sparato». Comincia così il nostro colloquio con lo scrittore Leonardo Sciascia venti ore dopo…
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Rai Uno, le inchieste di «Cose nostre» e l’attualità delle parole di Sciascia
Vale sempre la pena di dare uno sguardo alle inchieste di «Cose nostre»: una bella operazione di Rai Uno che lungo il corso dell’anno ha raccontato la professione e le vite di giornalisti «scomodi», che lavorano con coraggio in zone difficili, spesso sollevando il velo sulle attività di mafie di vario tipo (senza perdersi in distinzioni lessicali).
Un ritratto della professione giornalistica come dovrebbe essere, nei suoi ideali più alti. E insieme ai giornalisti ci sono altre persone, manager pubblici, collaboratori di giustizia, semplici cittadini, che sempre rischiando molto si sono opposti alle mafie. Venerdì in prima serata è andato in onda un episodio speciale con un respiro diverso, a cura di Emilia Brandi. A due giorni dall’anniversario della strage di via d’Amelio, in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta, «Cose Nostre» ha dedicato un approfondimento alla figura di Matteo Messina Denaro, definito il «padrino invisibile», ultimo boss delle prime linee della mafia siciliana in latitanza da più di 25 anni. L’inchiesta si è concentrata in particolare su Trapani, la terra di origine di Messina Denaro in cui si rese protagonista di molti episodi criminali, ricostruiti attraverso interviste a chi visse quegli spaventosi anni di guerra aperta (poliziotti, magistrati, pentiti). Molto toccante il racconto dell’ex magistrato Carlo Palermo, scampato a un attentato dinamitardo che costò tragicamente la vita a una mamma e ai suoi due figli piccoli. Per tutta la serata, è serpeggiata l’ombra pesante di contatti da parte delle istituzioni con i referenti mafiosi, uno dei punti più oscuri della storia della Repubblica. Riecheggiano le parole di Leonardo Sciascia: «Continuo ad essere convinto che la Sicilia offra la rappresentazione di tanti problemi, di tante contraddizioni, non solo italiani ma anche europei, al punto da poter costituire la metafora del mondo odierno». FONTE: www.corriere.it
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19 gen 2021 09:11
"EM.MA" FOR EVER – SE NE VA A 96 ANNI EMANUELE MACALUSO, STORICO DIRIGENTE COMUNISTA – DA CAPO DEL SINDACATO ALLE SFIDE AI BOSS DI COSA NOSTRA. "TOGLIATTI? PASSAVA PER UOMO FREDDO, MA ERA SOPRATTUTTO TIMIDO”. BERLINGUER? IO FUI L'UNICO CUI CONFIDÒ CHE L'INCIDENTE STRADALE DEL '73 IN BULGARIA ERA UN ATTENTATO”, L’AMICIZIA CON NAPOLITANO - NEGLI ANNI '40 FINÌ IN CARCERE PER ADULTERIO. GRANDI AMORI, MA ANCHE DOLORI TERRIBILI. UNA SUA COMPAGNA SI UCCISE DOPO CHE LUI L'AVEVA LASCIATA. UN FIGLIO È DECEDUTO A 65 ANNI, ALL’IMPROVVISO, PER UN ICTUS – I GIUDIZI IMPIETOSI SU M5s, PD, CONTE E SALVINI
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Concetto Vecchio per repubblica.it
Fino all'ultimo Emanuele Macaluso, morto oggi a 96 anni, ha mantenuto uno sguardo curioso sul mondo. Era sorprendentemente sul pezzo. Ogni mattina si svegliava alle sei, leggeva il pacco di quotidiani comprati all'edicola della piazza di Testaccio, quindi, dopo la passeggiata sul Lungotevere, dettava all’ex giornalista dell’Unità Sergio Sergi il commento scritto a mano sul tavolo della cucina. Sergi lo postava materialmente sulla pagina Facebook Em.Ma in corsivo. Una rubrica di successo.
A Macaluso però non importavano i riscontri. Non aveva nemmeno un computer. “Se non scrivo i miei pensieri mi sento morire”, mi disse una volta, seduto nel salotto del piccolo appartamento ingombro di libri. “Togliatti una volta mi spiegò: un uomo politico che non scrive è un politico dimezzato”. Il primo pezzo uscì nel 1942 sull'Unità allora clandestina: una denuncia delle condizioni di lavoro degli zolfatari nisseni. Macaluso aveva 18 anni.
Eppure, nel finale di stagione, avrebbe potuto soprattutto voltarsi indietro. Parlare solo del passato. Aveva attraversato il Novecento come dentro a un romanzo. Grandi responsabilità pubbliche sin da giovanissimo: capo della Cgil siciliana a 23 anni, leader dei deputati regionali del Pci a 28, con cui ideò la controversa operazione Milazzo, parlamentare per sette legislature, direttore dell'Unità, amico personale di Napolitano, Berlinguer, Guttuso, Sciascia, Di Vittorio. A sedici anni scampò per miracolo alla tubercolosi.
Negli anni Quaranta finì in carcere per adulterio. Nel 1960 fu latitante per otto mesi in un casolare del Modenese perché per la legge di allora i figli avuti da Lina, “donna già sposata”, non potevano essere i suoi, dopo una denuncia della Dc, che pensava così di metterlo fuorigioco. Grandi amori, ma anche dolori terribili. Una sua compagna si uccise dopo che lui l'aveva lasciata. Un figlio, Pompeo, è deceduto a 65 anni, all’improvviso, per un ictus. Ha mai avuto paura di morire?: “Qualche volta. Con Girolamo Li Causi nel settembre 1944 andammo a Villalba, uno dei feudi della mafia, a sfidare il boss Calogero Vizzini e ci spararono addosso”.
Ci voleva un gran fegato, negli anni di Portella della Ginestra e del separatismo banditesco, a fare opposizione in Sicilia, avendo come avversari gli agrari legati a Cosa Nostra. Macaluso, da capo del sindacato, batté l'isola palmo a palmo, occupò le terre nella zona d'influenza di Genco Russo, guidò i contadini nell'occupazione dei feudi, aprì sezioni del partito ovunque. “Non c'è paese in cui non abbia fatto un comizio, una volta con Calogero Boccadutri, il capo del Pci clandestino a Caltanissetta, andammo a Riesi percorrendo cinquanta chilometri a piedi. Con trentasei sindacalisti uccisi, la lotta alla mafia allora non si faceva a chiacchiere”. Queste esperienze, talvolta estreme, questo suo stare sempre nel cuore della lotta civile e sociale, hanno rappresentato un deposito di conoscenze che hanno fatto di lui, in questi anni di crisi della politica, un vegliardo da interpellare spesso. Uno strepitoso impasto di ruvida umanità e lucidità analitica. Più invecchiava e più il suo sguardo si faceva acuminato, specie sul presente. Leggeva in continuazione. Perito minerario aveva avuto sempre un complesso d'inferiorità verso la cultura, un gap che aveva cercato di colmare divorando letteralmente tutti i classici. Per quelli della sua generazione la politica andava nutrita di studi, di libri. Fino all'ultimo ha girato per casa con un classico in mano.
All'immediato Dopoguerra risale la sua conoscenza con Togliatti: “Passava per uomo freddo, ma era soprattutto timido”. Fece con lui un viaggio con lui a Mosca. Quindi Togliatti lo chiamò nella sua segreteria nel 1963. Macaluso era già qualcuno. A Roma, anni dopo, divise la stanza di Botteghe Oscure, la sede del Pci, con Enrico Berlinguer. “Era capace di non pronunciare una sola parola per ore: io fui l'unico cui confidò che l'incidente stradale del '73 in Bulgaria era un attentato”. Pur avendo criticato, con Giorgio Napolitano, il compromesso storico con la Dc, nell'aprile 1982 Berlinguer gli affidò il risanamento dell'Unità: il giornale vendeva ancora 150mila copie, ma era pieno di debiti. Macaluso lo svecchiò: introdusse i listini di borsa, scoprì Staino e la satira, aumento la dose di polemica, continuando a siglare i suoi corsivi con l'acronimo Emma, un'invenzione che si deve a Giorgio Frasca Polara. Quando, nel giugno 1984, Berlinguer morì toccò a Macaluso fare i titoli cubitali della prima pagina: quel “Tutti”, uscito all’indomani dei funerali, è storia.
L'impegno antimafia, ma da posizioni garantiste, il primato della politica come stella polare, ma venato da posizioni eretiche: Macaluso è stato allo stesso tempo disciplinato e libertario, fuori e dentro la grande chiesa comunista. Era sferzante, aspro, difficile da maneggiare, ricordava più le vicende pubbliche di quelle private. E' stato un rompiscatole intelligente e libero, perché gli si potevano fare tutte le domande. Pur sentendosi estraneo a questo tempo, ha continuato a indagarne le contraddizioni. La crisi della sinistra, a cui aveva dedicato la vita, lo crucciava. I suoi corsivi mattutini, anche nella stagione sbrigativa del tweet, sono stati lampi di intelligenza. Non ha mai smesso di viaggiare, finché ha potuto. Lo chiamavi ed era da qualche parte in Italia: presentazioni di libri, commemorazioni, convegni.
Il Covid lo aveva immalinconito, reso prigioniero. Non se ne faceva una ragione. Anche la morte lo indispettiva. Soffriva per i vecchi compagni che se ne andavano, all'ultimo si è sentito anche molto solo. "Voglio andarmene nel sonno", ripeteva. Ma fino all'ultimo si è aggrappato alla vita. Se si voleva chiacchierare con lui sul suo divano rosso bisognava mettere in conto continue interruzioni per le telefonate che riceveva. Poi riprendeva il filo delle sue analisi esattamente dal punto laddove lo aveva lasciato e ogni suo ragionare aveva sempre il taglio del racconto.
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l corpo finì in cento pezzi, la sua anima appesa per aria. Da 39 anni la memoria di Peppino Impastato sorveglia il casolare dove i mafiosi ammazzarono a pietrate il militante di sinistra, prima di farlo esplodere sui binari. Quel rudere è abbandonato tra le sterpaglie della ferrovia di Cinisi e l’aeroporto “Falcone e Borsellino” di Palermo. Valore commerciale modesto. Ma il simbolo non ha prezzo. E’ dunque conteso. L’associazione “Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato” che Giovanni Impastato ha dedicato al fratello e alla madre, vorrebbe piantarci da tempo il seme di un presidio antimafia. Il casolare però è di proprietà di un ricco farmacista di Cinisi, Giuseppe Venuti. La Regione Sicilia l’ha vincolato due anni fa come bene di interesse pubblico, un atto preliminare firmato dal governatore Rosario Crocetta. L’assessore Carlo Vermiglio aveva promesso a Carlo Bommarito e Pino Dicevi, il presidente e il segretario di Casa Memoria, l’avvio della procedura per l’esproprio. “Ha disertato tutti gli incontri e poi si è fatto vivo solo con una nuova promessa” accusa l’associazione. Segue nuovo silenzio. Intanto il casolare è stato ceduto dal proprietario in comodato d’uso a un’altra associazione: “Libera Cinisi”, spuntata dal nulla e che nulla ha a che fare con don Luigi Ciotti. Un comitato civico che si dichiara senza scopi politici ma presieduto da un ex candidato a sindaco e gestito da Manfredi Vitello, nipote del farmacista e legato a Forza Italia. Gli amici di Impastato se lo ricordano bene: quando nel 2005 il Consiglio comunale commemorò mamma Felicia, lui usci dall’aula con altri due consiglieri in segno di protesta.
In una intervista al blog “Meridionews” Vitello ha inoltre parlato del giovane ucciso dai mafiosi come di uno spinellato poco di buono e del defunto boss Tano Badalamenti (mandante dell’omicidio) come di un signore che alla comunità non ha fatto in fondo del male. Frasi in parte smentite sul sito “Cinisi on line” in cui ha precisato di aver voluto riportare le sensazioni degli anziani del paese. Il farmacista intanto avrebbe rifiutato di cedere il casolare alla Regione per 120 mila euro. E il fratello di Peppino ci ha visto nero. “Per quel rudere è’ arrivato addirittura a chiedere mezzo milione, qui si specula sulla memoria di mio fratello” accusa Giovanni Impastato che sul blog di Casa Memoria ha scritto un duro articolo I quaquaraquà e gli sciacalli del terzo millennio in cui non ha risparmiato reprimende anche alle istituzioni siciliane. “Non riusciamo a capire come mai questo caso non si vuole risolvere e come mai, sia il comune di Cinisi che la Regione Sicilia, non prendano ancora nessun provvedimento contro questo sciacallaggio”, si legge in un passaggio. La replica di Vitello è arrivata proprio sul blog di Casa Memoria. “Il casolare non è un bene pubblico del quale abbiamo chiesto l’affidamento ma si tratta di proprietà privata e i proprietari ne fanno quel che vogliono”. Una soluzione è sembrata atterrare con Matteo Renzi, a Cinisi lo scorso novembre per il tour referendario: “Se c’è da fare un esproprio si faccia, questo governo è totalmente d’accordo“. L’annuncio è però caduto insieme al suo governo. Resta in piedi il casolare e la fiamma che Giovanni tiene accesa a fatica: “La verità è che di Peppino Impastato non frega più niente a nessuno”. Ma se le istituzioni son sorde, i giovani vogliono vederci. E ai tanti ragazzi che incontra in tutta Italia, Giovanni ripete: “Quando vi guardo negli occhi vedo Peppino in ognuno di voi…”.
Nel 2018 saranno quarant’anni dal delitto mafioso del giovane proletario, settanta dalla nascita. “Se fosse ancora qui sarebbe come sempre vicino ai più poveri e bisognosi – ha scritto l’associazione Casa Memoria lo scorso 5 gennaio nel giorno del suo compleanno. Pronto a schierarsi contro le ingiustizie sociali, con la genialità e la creatività che sempre lo hanno contraddistinto”.
La sua voce correva come un treno quando la notte del 9 maggio ‘78 fu sganciata su un binario morto. “Preparava un attentato”, la verità infamante dei depistatori di Stato fu sbugiardata da una madre coraggiosa, un fratello tenace e dai vecchi compagni di viaggio. Peppino Impastato confezionava solo denunce e poesie. “I miei occhi – scrisse in brevi versi – giacciono in fondo al mare, nel cuore delle alghe e dei coralli…”.
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45 anni fa l'uccisione di Peppino Impastato
45 anni fa l'uccisione di Peppino Impastato Sono passati 45 anni da quando la mafia, nonostante i tentativi di depistaggio, ha ucciso Peppino Impastato rendendolo una figura chiave della lotta alla mafia. Un "eroe civile" da non dimenticare, una di quelle "persone che hanno sacrificato la loro vita nonostante avrebbero potuto fare un'altra scelta", ha detto di lui il procuratore capo Maurizio De Lucia intervenendo ieri a un’iniziativa organizzata da Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato proprio in occasione dell’anniversario dell’omicidio del giornalista e militante della Democrazia Proletaria, trucidato a Cinisi nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978. Anche il presidente della Regione Siciliana, Renato Schifani, ha dedicato alla sua memoria un necrologio definendolo un "fulgido esempio di coraggio e fedeltà ai principi di libertà e legalità". Impastato era diventato ormai noto nel suo paese per i suoi ricorrenti attacchi alla mafia e le sue denunce a Cosa nostra, nonostante provenisse da una famiglia d’onore. La sua sete di giustizia lo portò a chiudere completamente ogni rapporto con padre Luigi, anche lui noto esponente mafioso di Cinisi. La sua, come quella di molti giornalisti dell’epoca, era una voce scomoda che denunciava pubblicamente i malaffari di Gaetano Badalamenti, che aveva soprannominato ironicamente "Tano Seduto”. Alcuni brandelli del suo corpo furono trovati sopra a dei binari della ferrovia, c'era del tritolo. Cosa nostra aveva intenzione di far passare la sua morte per un attentato terroristico di stampo comunista fallito. In un primo momento ci riuscì, soltanto grazie all’impegno del fratello Giovanni e della madre Felicia Bartolotta, la verità venne a galla. “La storia di Peppino Impastato è più attuale che mai - ha detto al Giornale Ismaele La Vardera, vicepresidente della commissione Antimafia dell’Ars - la sua lotta ancora oggi fa rumore. Il fatto che ancora oggi la storia di Peppino metta in crisi certe persone da dimostrazione che il suo ricordo deve continuare nelle nostre menti”. Come ogni anno sono numero gli eventi programmati per commemorare l’impegno civile di Impastato. Il primo questa mattina, alle 10, a Casa Felicia (Contrada Napoli, Cinisi), dove i referenti di alcune associazioni, i familiari e compagni di Peppino. Alle 16 è previsto un corteo antifascista e contro la mafia, da Radio Aut (Terrasini) a Casa Memoria (Cinisi) passando per il liceo linguistico con l'inaugurazione della targa d’intitolazione proprio all’eroe militante. Seguiranno gli interventi, dal balcone di Casa Memoria, di Luisa Impastato (presidente di Casa Memoria), Annalisa Savino (preside del liceo Leonardo da Vinci di Firenze), Serena Sorrentino (segretaria generale Funzione pubblica Cgil), Umberto Santino (presidente Centro Impastato-No mafia Memorial), Carlo Bommarito (presidente associazione "Peppino Impastato"), Ottavio Terranova (presidente Anpi Sicilia) e Adelmo Cervi, sette figlio di uno fratelli Cervi che sono stati fucilati dai fascisti, al poligono di tiro di Reggio Emilia, il 28 dicembre del 1943. A conclusione della giornata il concerto per Peppino Impastato con la partecipazione di Cisco, Serena Ganci, Roy Paci, Shakalab, Angelo Sicurella, Enzo Rao e il coro dei bambini della scuola di Cinisi. A presentare la serata, in corso Umberto I a Cinisi, ci sarà Martina Martorano.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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