#Angelo Righetti
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“Del candore e sfolgorìo d’un sogno”. Wordsworth, il poeta che ha inventato l’Io. Dialogo con Angelo Righetti
Già Ordinario di Letteratura dei paesi di lingua inglese, Angelo Righetti ha diretto il dipartimento di Anglistica e presieduto la commissione della Biblioteca ‘Frinzi’, Università di Verona. Suo principale interesse didattico è la letteratura postcoloniale in lingua inglese, in particolare poesia e narrativa caraibica e sudafricana, australiana e neozelandese. Docente anche nelle Università di Leeds, Uk e Cà Foscari, Venezia, nell’ambito delle nuove letterature in inglese ha pubblicato su Henry Lawson, Barbare Baynton, Vance Palmer, Katherine Mansfield, Frank Sargenson, J.M. Coetzee, Patricia Grace e Es’kia Mphahele, Nadine Gordimer, Derek Walcott, Albert Wendt. Ha curato The Brand of the Wild and Early Sketches (2002), e narrativa inedita di Vance Palmer; Theory and Practice of the Short Story; Australia, New Zealand and the South Pacific (2006); The Protean Forms of life Writing: Auto/Biography in English, 1680-2000 (2008), e Byron e l’Europa / l’Europa di Byron (con L. Colombo e F. Piva). Ha inoltre approfondito i periodi romantico, vittoriano e modernista, con volumi su Wordsworth (Poems; traduzione commentata dalle Lyrical Ballads e Poems, in Two Volumes), Byron (Aspects of Byron’s Don Juan), Browning (Poems – traduzione commentata), Ruskin, Joyce ed Eliot (Il dittico eliotiano).
Ho conosciuto il professor Angelo Righetti a Venezia, in Domo Foscari, dove ha insegnato a lungo Letteratura Inglese. I suoi corsi su Eliot ci hanno appassionato e legato per sempre: siamo una generazione di eliotiani grazie a lui (e in molti, lo so, conserviamo ancora gli appunti delle sue lezioni). Il dittico eliotiano – The Love Song of J. A. Prufrock e Portrait of a Lady – è uno studio brillante, di rara profondità, uno di quei libri che ci accompagnano tutta la vita, dove vibra l’affinità tra il poeta e lo studioso.
Ma da Eliot Angelo Righetti spaziava a Laforgue, Browning, Baudelaire, Philippe e molti, molti altri. Due giorni alla settimana – c’erano ancora le annualità – ci riuniva in un’aula alta sul Canal Grande, a pochi metri dalla parete su cui, all’esterno, spicca il lanternone in vetro colorato che di Ca’ Foscari è quasi un simbolo: le ore s’incenerivano tra le ‘poesie americane’ e Prufrock, i Preludes e Portrait of a Lady. Perché il professor Righetti ci ha insegnato Eliot e altri autori, la differenza tra blank verse e free verse, figure retoriche e 7(0) e più tipi di ambiguità ma – anche – molto di più: l’assorta serietà della letteratura. In questa intervista il professore parla del suo amore per Wordsworth – la modernità dell’“effusione lirica” –, dell’arte di tradurre – un “cercare le parole certe” –, della fortuna di Wordsworth – tradotto anche da Pascoli, colpito dalla “cantabilità” del verso wordsworthiano.
Professore com’è nato il Suo amore per William Wordsworth?
Paradossalmente da Eliot, la cui poetica dell’impersonalità lo portava a essere piuttosto critico nei confronti di romantici e vittoriani, e poi a ritroso da uno di loro, Robert Browning, che influenzò non poco Eliot. Browning sentiva a sua volta ciò che Bloom definiva l’anxiety of influence, l’“angoscia dell’influenza”, il bisogno-aspirazione del poeta (più giovane) di superare e distinguersi da chi l’ha preceduto, e infatti criticherà a Wordsworth il suo ‘cambiamento’ dopo essere diventato Poet Laureate, ossia il poter vivere di un appannaggio, e le sue posizioni politiche più tarde, in sostanza il suo ‘voltafaccia’ politico (Angelo Righetti ha curato e tradotto per Mursia anche un volume su Browning, 1990 ndr). In The Lost Leader, Il condottiero perduto il bersaglio di Browning pare fosse appunto Wordsworth, accusato di essere diventato conservatore dopo esser stato rivoluzionario. Un atteggiamento oppositivo, questo di Browning, ma qualcosa da Wordsworth l’ha imparato: l’approccio lirico viene da Wordsworth, anche se Browning scrive prevalentemente monologhi drammatici (in terza persona) per evitare al lettore di confondere la voce parlante con quella autoriale.
Dalle Lyrical Ballads e Poems, in Two Volumes che Lei ha tradotto per Mursia (traduzione peraltro presto esaurita e introvabile) c’è uno o più componimenti che preferisce?
Con Wordsworth il lettore e traduttore ha l’imbarazzo della scelta: la sua produzione va dagli anni ’90 del ’700 al 1850, con ampia evoluzione di temi e stile. Dalle Lyrical Ballads, le Ballate Liriche ho scelto composizioni sul versante lirico più che sul versante narrativo. Inoltre ho scelto tra quelle più brevi, così per esempio tra le Ballate della prima edizione (1798) ho espunto The Thorn, che pure è molto significativo. Tra l’altro, questa è un’opera in cui sostantivo e aggettivo confliggono: il sostantivo ‘ballata’ ha a che fare con l’andamento narrativo, l’accadimento di fatti, la suspense, l’aggettivo ‘liriche’ invece si riferisce ad un lirico (che coincide con l’io empirico) che comunica, pensa o sente, che comunque s’effonde “romanticamente”. Nelle Lyrical Ballads non poteva in ogni caso mancare la grande Lines Composed a Few Miles above Tintern Abbey, On Revisiting the Banks of the Wye during a Tour, Versi composti alcune miglia sopra Tintern Abbey, grandioso gioco tra l’esperienza viva della natura e la sua trasposizione nel ricordo. Tintern Abbey inscena una doppia coscienza: del presente, e la possibilità di rivivere il passato, anche alla luce del rapporto privilegiato con la sorella Dorothy, a cui sono dedicate molte liriche brevi della seconda edizione (1800) e di Poems, in Two Volumes (1807).
Tradurre, come sappiamo, non è mai solo ‘portare’ – anche felicemente – da una lingua all’altra: la traduzione è sempre anche immersione in un autore, vicinanza di pensiero, stile …
Come traduttore ho dovuto in un certo senso ‘domare’ la poesia di Wordsworth: traducendo si cerca sempre di appropriarsi quanto più possibile del linguaggio del poeta, dei suoi ritmi, delle sue preferenze anche lessicali e del suo mood generale, pur avendo sempre ben presente che si ha a che fare con due sistemi linguistici diversi (tra inglese e italiano, poi, c’è anche da tener conto del divario tra lingue germaniche e lingue romanze). Nelle poesie in quartine ho cercato qui e là qualche rima (nel secondo o quarto verso ) e nelle poesie in pentametri giambici (che spesso sono solo ‘nominalmente’ pentametri giambici) a volte usciva un endecasillabo e sceglievo una linea-verso di 4, 5 accenti rilevanti per rendere l’idea di quanto sia “portante” (il tipo di verso,) in particolare per lo svolgimento del ‘pensiero poetico’ di Wordsworth (Wordsworth poniamo) in Tintern Abbey, l’Ode to Duty o l’Immortality Ode. Può anche capitare qualche momento felice in cui la traduzione fluisce, come appunto nell’incipit dell’Immortality Ode, in cui bellissimo titolo per esteso contiene già, in estrema sintesi, tutta la poetica di Wordsworth, dalle ‘premonizioni d’immortalità’, alle ‘ricordanze’ direbbe il nostro Leopardi, all’‘infanzia’, ed è Ode: Intimations of Immortality from Recollections of Early Childhood:
There was a time when meadow, grove, and stream, The earth, and every common sight, To me did seem Apparelled in celestial light, The glory and the freshness of a dream. It is not now as it hath been of yore; — Turn wheresoe’er I may, By night or day. The things which I have seen I now can see no more.
C’è stato un tempo che bosco rivo e prato, la terra e ogni vista abituale a me davvero son sembrati cinti di luce celestiale, del candore e sfolgorìo d’un sogno. Ora non è più come nel tempo andato – se mi guardo intorno, notte o giorno, le cose che ho veduto non so vedere più.
(trad. A. Righetti)
Qual è secondo Lei la magia, l’incanto (o i molti incanti) della poesia wordsworthiana?
È questa cantabilità di Wordsworth, per cui il verso fluisce come fosse cristallino, come tutto fosse così ‘facile’ e le parole hanno una trasparenza. In traduzione a volte si riesce a renderla, altre riesce meno o con minore facilità. Passando dall’inglese all’italiano ho cercato di rendere, appunto, la musica wordsworthiana: la traduzione è una sfida continua per cercare le ‘parole certe’. E direi che più che tradurre, forse l’atteggiamento del traduttore dovrebbe essere quello di cercare un’approssimazione, un varco per avvicinarsi al poeta: quanto più si dà l’idea della lingua di partenza tanto più la traduzione può considerarsi buona.
Per tornare al Suo criterio di scelta da Poems, in Two Volumes…
Dalle poesie brevi, i Poems, in Two Volumes appunto ho scelto i sonetti On Westminster Bridge, To a Butterfly, The Sparrow’s Nest, dove c’è il momento magico dell’infanzia, non solo sua ma anche di Dorothy, che compare come sua interlocutrice privilegiata nonché dedicataria in Tintern Abbey. Interessante poi è anche Nutting, Andar per nocciole, dove la ricerca del rapporto con la natura contrasta con la violenza giovanile del protagonista che va a raccogliere le nocciole e che (diventa) produce devastazione con i rami spezzati, e con essa, un’invasione dell’umano nel naturale che ha per epilogo la rovina dell’ambiente naturale. Poi la nota We are seven, Siamo sette, finto dialogo tra l’io lirico-narrativo e la bambina, nell’opposizione tra logica dei numeri del maturo interlocutore e logica del sentimento della bimba, per inciso tradotta molto bene in rima anche da Pascoli – ottimo traduttore di classici –, che ne accentua se vogliamo l’aspetto intimo, e adeguando Wordsworth alla poetica del fanciullino, ne riproduce sempre la musicalità:
Vidi una cara contadinella, ch’aveva ott’anni, come mi disse, bionda, ricciuta, bella, assai bella con le due grandi pupille fisse.
Presso il cancello stava. Ed io: – Figlia, quanti tra bimbi, siete, e bimbette? chiesi. Con atto di meraviglia ella rispose: – Quanti, noi? Sette.
E dove sono? Di’, se ti pare le dissi, ed ella mi disse: – Ma… noi siamo sette: due sono in mare: altri due sono nella città;
altri due sono nel camposanto, il fratellino, la sorellina: in quella casa che c’è daccanto, io sto, con mamma, loro vicina.
Tu dici, o bimba «due sono in mare, altri due sono nella città!» e siete sette. Questo mi pare, è un conto, bimba mia, che non va.
Sette tra bimbe – diceva intanto e maschi, siamo. Due son qui presso in un cantuccio del camposanto: nel camposanto, sotto il cipresso.
Ma tu ti muovi, tu corri: è vero? tu canti, ruzzi, hai fame, hai sete: se que’ due sono nel cimitero, cara bambina, cinque voi siete.
Verde – riprese – verde è il lor posto: lo può vedere, là, se le preme: da casa un dieci passi discosto: stanno vicini, dormono insieme.
Là vado a fare la calza, e spesso vado a far l’orlo delle pezzuole: mi siedo in terra, sotto il cipresso, con loro, e loro conto le fole.
E spesso, quando la sera è bella, e quando l’aria è dolce e serena, io là mi porto la mia scodella, e là con loro fa la mia cena.
Prima a morire fu Nina: a letto tra sé gemendo, stette più dì. Poi, l’ha guarita Dio benedetto; ed ecco allora ch’ella partì.
Nel camposanto così fu messa, e quando l’erba non era molle, io col mio Nino vicino ad essa, mi divertivo sulle sue zolle.
Poi quando cadde la neve, e bello sarebbe stato correre, tanto, dové partire pure il fratello, ed ecco che ora le sta daccanto.
E quanti dunque siete ora voi se quei due sono nel Paradiso? Sette – rispose – sette siam noi! meravigliando tutta nel viso.
Ma son morti quei due! ma sono lassù! son anime, anime elette! Che! – ripeteva sempre d’un tono. No, sette siamo, no, siamo sette.
*
A Simple Child, That lightly draws its breath, And feels its life in every limb, What should it know of death?
I met a little cottage Girl: She was eight years old, she said; Her hair was thick with many a curl That clustered round her head.
She had a rustic, woodland air, And she was wildly clad: Her eyes were fair, and very fair; -Her beauty made me glad.
“Sisters and brothers, little Maid, How many may you be?” “How many? Seven in all,” she said And wondering looked at me.
“And where are they? I pray you tell”. She answered, “Seven are we; And two of us at Conway dwell, And two are gone to sea.
“Two of us in the church-yard lie, My sister and my brother; And, in the church-yard cottage, I Dwell near them with my mother”.
“You say that two at Conway dwell, And two are gone to sea, Yet ye are seven! – I pray you tell, Sweet Maid, how this may be”.
Then did the little Maid reply, “Seven boys and girls are we; Two of us in the church-yard lie, Beneath the church-yard tree”.
“You run above, my little Maid, Your limbs they are alive; If two are in the church-yard laid, Then ye are only five”.
“Their graves are green, they may be seen”, The little Maid replied, “Twelve steps or more from my mother’s door, And they are side by side.
“My stockings there I often knit, My kerchief there I hem; And there upon the ground I sit, And sing a song to them.
“And often after sun-set, Sir, When it is light and fair, I take my little porringer, And eat my supper there.
“The first that died was sister Jane; In bed she moaning lay, Till God released her of her pain; And then she went away.
“So in the church-yard she was laid; And, when the grass was dry, Together round her grave we played, My brother John and I.
“And when the ground was white with snow, And I could run and slide, My brother John was forced to go, And he lies by her side”.
“How many are you, then”, said I, “If they two are in heaven?” Quick was the little Maid’s reply, “O Master! we are seven”.
“But they are dead; those two are dead! Their spirits are in heaven!” ’Twas throwing words away; for still The little Maid would have her will, And said, “Nay, we are seven!”
Tra l’altro, nella seconda edizione del 1800 il nome di Coleridge non compare. Il rapporto di affinità e complementarietà tra i due poeti cessa – mentre a Wordsworth continuano direi a ‘sgorgare’ versi e poesia naturalmente tutta la vita, dopo la grande stagione delle Lyrical Ballads Coleridge si è come esaurito. Eppure è stato anche un grande lettore, un grande interprete di Shakespeare. Fino al 1800 lavorano insieme, poi nella loro separazione letteraria entrano anche elementi biografici, e proprio a causa di questa componente privata Coleridge diventa una presenza quasi ingombrante in casa Wordsworth. A Grasmere nel Lake District Wordsworth viveva con la moglie Mary Hutchinson, i figli e la sorella Dorothy ma il ménage familiare includeva sorella della moglie, Sara. Coleridge se ne innamorò e per lei mandò all’aria il proprio matrimonio, malgrado non fosse corrisposto. Le dedica Dejection, an Ode, che subisce varie revisioni tra cui una intitolata To Asra, anagramma di Sara (e nome privato con cui lui chiamava Sara). Non solo qui ma anche altrove Coleridge ha comunque un eccesso di consapevolezza critica, molte sue poesie sono testi cosiddetti “instabili” (un diletto per i filologi), con revisioni e varianti continue. Bacillo che tocca in parte anche Wordsworth: anche lui a ogni riedizione “risistema” le poesie, le raggruppa in raccolta in modo diverso, con diverse rubriche e a sua volta apporta varianti fino all’edizione del 1850. Il che pone a studiosi e traduttori un problema su quale versione accettare. È una lunga diatriba che vede il punto culminante in The Prelude, di cui abbiamo una versione del 1805 (anzi addirittura un Ur– Prelude del 1799) e quella postuma del 1850, la prima in 13 e la seconda in 14 libri. Inglesi e americani risolvono il problema mettendo l’una versione di fronte all’altra.
William Wordsworth ritratto da Benjamin Haydon, 1842
E parlando del Preludio…
Il sottotitolo scelto per la versione del 1850, or Growth of a Poet’s Mind è centrato sullo sviluppo di uno spirito, della mente di un poeta, o – semplicemente – della formazione del poeta. Nel 1850 The Prelude già fece notizia, ma se Wordsworth l’avesse pubblicato nel 1805 sarebbe stato un “big bang”: nessuno aveva mai provato prima un’autobiografia in versi. Per un esperimento poetico del genere – autobiografico e in poesia – bisognerà arrivare a Byron (che comunque nel Don Juan pone schermi continui – e ironici – a se stesso come narratore di se stesso). In vita Wordsworth non ha avuto il coraggio di parlare in prima persona. E d’altronde bisogna tener conto anche di un pregiudizio ideologico: una parte importante della narrazione parla del suo impegno politico rivoluzionario, per cui – forse – l’avrebbe comunque censurato l’editore o non l’avrebbe forse pubblicato… Bellissimo è il titolo che lui voleva, Poem to Coleridge. Coleridge riconosce l’onore fattogli dall’amico e collega: Wordsworth riesce a leggergli il poema in una notte intera, mentre Coleridge l’ascolta stupefatto.
Cosa c’è di sempre e ancora moderno nella poesia di Wordsworth?
Wordsworth ebbe una formazione sui classici del ’700, una poesia legata a generi consolidati – pastorale, descrittivi, meditativo-filosofici, (dei luoghi) – e su regole del verso, quasi sempre di endecasillabi a rima baciata, couplets. In altre parole aveva imparato le regole per genere e per modalità del verso. Eppure, nella poesia che voleva si lascia tutto dietro le spalle, è innovatore sia nei temi sia nella lingua. Una delle grandi novità della sua poesia è nel sonetto, per cui torna alla matrice elisabettiana e petrarchesca e a più varietà di schemi. Ma soprattutto la sua poesia mette ancora al centro l’Io, l’esperienza viva meditativa, ideologica, vitale del poeta. Questa è una rivoluzione straordinaria: io lirico e io empirico corrispondono all’io che ha nome William Wordsworth – la cui opera è, appunto, un’effusione lirica riconoscibile da parte di chi legge in chi scrive. Il che non è cosa, poi, tanto scontata – ad esempio l’esposizione dell’Io lirico non fu accettata dalla “Edimburgh Review” che gli rivolse molte critiche negative, così come fecero i critici ancora legati alla poesia settecentesca. Un’altra novità in cui Wordsworth fu davvero un ‘apripista’ è che con lui il poeta diventa anche teorico: anziché scrivere secondo trattati di poetica classica, la poetica lui se la scrive nelle prefazioni. Celeberrima la prima delle Lyrical Ballads 1798, ma anche le altre. Il poeta è “A man speaking to men”, “un uomo che parla agli (altri) uomini”. Wordsworth trasforma in canone il sentimento di chi dice “Io” in poesia: un sentimento in cui tanti si possono riconoscere (se vogliamo, altra differenza dalla poesia settecentesca, eminentemente aristocratica per argomenti e registri). La differenza, la specificità del poeta è che il poeta ha parole che molti non hanno. È un enorme passo in avanti, che proietta Wordsworth già verso la modernità: con lui la poesia diventa “spontaneous overflow of powerful feelings”, “erompere spontaneo di sentimenti possenti” (Lyrical Ballads), ma questa immediatezza, questa spontaneità non sottrae nulla alla technicality, l’abilità poetica. Anzi, l’incredibile perizia tecnica viene esaltata anche nelle traduzioni di sonetti, in cui Wordsworth mostra d’inserirsi in una tradizione, di portarla avanti e proseguire, tra l’altro con estremo acume critico sempre, anche verso se stesso.
En passant, un po’ sul serio e un po’ per celia, l’amico e già collega Silvano Sabbadini – che ha tradotto tra l’altro tutto Keats per gli Oscar Mondadori – una volta mi ha detto: “Stiamo parlando di letteratura, però di letteratura bisogna scrivere” (con implicita autosvalutazione dei professori e dell’insegnamento?).
E con ciò, la nostra intervista termina. A Ca’ Foscari – “i migliori anni della nostra vita” mi ha detto una volta – Angelo Righetti era molto ammirato e piuttosto temuto dagli studenti: ammirato per la vastità delle sue conoscenze e temuto appunto per lo stesso motivo. Ma come tutti i grandi docenti ha sempre riconosciuto l’impegno, dava moltissimo e comprendeva. Grazie, professore.
Paola Tonussi
In copertina: William Turner, “Tempesta di neve. Battello a vapore al largo di Harbour’s Mouth”, 1842
L'articolo “Del candore e sfolgorìo d’un sogno”. Wordsworth, il poeta che ha inventato l’Io. Dialogo con Angelo Righetti proviene da Pangea.
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Storia Di Musica #60 - Ligabue, Buon Compleanno Elvis, 1995
Il sogno di portare il sogno del rock per le strade dell’Emilia Romagna Luciano Ligabue l’ha avuto sin da bambino. Eppure la sua occasione con la musica da “professionista” l’ha avuta relativamente tardi, dopo aver fatto l’operaio, lo stagionale nelle aziende agricole, il ragioniere, il conduttore radiofonico, persino il consigliere comunale a Correggio, in provincia di Reggio Emilia. La sua occasione gliela dà il grande Pierangelo Bertoli, che è incuriosito da questo ragazzo: in due suoi dischi, Tra Me E Me e Sedia Elettrica (1988 e 1989) canta due pezzi di Ligabue, Sogni Di Rock’n’Roll e Figlio Di Un Cane. Bertoli consiglia al discografico Angelo Carrara di seguirlo. In pochi mesi si organizza il tutto e Ligabue esce nel 1990: registrato in 20 giorni, con i musicisti del gruppo ClanDestino (Max Cottafavi, Luciano Ghezzi, Gigi Cavalli Cocchi) e l’ausilio come tecnico del suono di Paolo Panigada, conosciuto come il Feiez, poi con gli Elio E Le Storie Tese (e morto prematuramente nel 1998), l’album ha già canzoni che con il tempi diventeranno brani cardini dell’epopea del nostro: Piccola Stella Senza Cielo, Non È Tempo Per Noi, Balliamo Sul Mondo, con i loro riff riconoscibili, una sincera forza sonora, il mito americano del rocker da strada perfettamente impersonato dalla sua voce sono il viatico per un successo importante e in parte imprevedibile. La decisione di intraprendere una specie di “neverending tour” per quasi quattro anni, con centinaia di concerti, è la chiave di un radicamento fondamentale nel panorama italiano del rock: comunque nel 1991 pubblica Lambrusco, Coltelli, Rose e Popcorn, dal suono più americano e ancora ricca di hit (Urlando Contro Il Cielo, Libera Nos A Malo, Anime In Plexiglas). Nel 1993 Sopravvisuti E Sopravviventi manca un po’ di ispirazione, e i segni del cedimento si avvertono anche in A Che Ora È La Fine Del Mondo? (1994) nonostante il successo del singolo, cover della famosa It’s The End Of The World As We Know It (And I Feel Fine) dei REM (da Document, 1987). Dopo aver suonato anche al Festival di Montreux e aperto i concerti dello ZooTv degli U2, si prende una pausa, dove i ClanDestino intraprendono una propria carriera solista (con due buoni dischi, Clandestino, 1994, e Cuore, Stomaco, Cervello, 1995) e lui mette su una nuova compagnia di viaggio, con i due chitarristi Mel Previte e Federico Poggipolini, il bassista Antonio Righetti e il batterista Roby Pellati, questi ultimi tre facevano parte dei Rocking Chairs. Con loro nel 1995 si ritira negli studi di registrazioni di Rubiera, in provincia di Reggio Emilia, e costruisce uno degli album più importanti della musica italiana degli ultimi 30 anni: Buon Compleanno Elvis è trascinato da Certe Notti, ballata sincera e diventata suo malgrado il manifesto di una generazione, e rimane in classifica per 70 settimane, vende oltre un milione di copie (più un milione nel resto dell’Europa) e fa del Liga una star. Il rock è sempre “americano” le storie di disillusione, di piccoli momenti di riflessione, e canzoni come Vivo O Morto X, Quella Che Non Sei, Hai Un Momento, Dio? sono un omaggio al rock di Neil Young, alle highway americane che però sfociano nel gracidare di rane nei fossi Padani (un omaggio al riguardo il minuto di Rane E Rubiera Blues). In un mix musicalmente più raffinato ma con la stessa semplicità comunicativa alla Vasco Rossi, riesce a conquistare l’immaginario degli italiani, nelle sue storie di provincia, nei viaggi in auto in “certe notti tra cosce e zanzare e nebbia e locali a cui dal tu”. Due canzoni per me hanno una marcia in più: Viva! e la stupenda Leggero, forse la sua migliore canzone in assoluto. Da qui la sua vita cambia, riempiendo palazzetti e interi tour negli stadi italiani, divenendo in questo un apripista in assoluto. Il suo percorso artistico passa per libri, il cinema e l’acquisita posizione nell’Olimpo del rock italiano. Con tutto ciò che ne consegue, che non sempre ha mantenuto la vivacità e la sincerità del disco di oggi.
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HALL OF FAME
Artisti ospitati dal Jazz Club rassegne jazz 2009 2010 2011 2012 2013
Venerdì,20 dicembre 2013
FERENC NEMETH "TRIUMPH" 4et
Kenny Werner - piano Gregory Tardy – tenor sax Lionel Loueke - electric bass Ferenc Nemeth - drums
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Giovedì,4 dicembre 2013
Simone Graziano "Frontal" 5et
Simone Graziano-piano
David Binney-alto sax
Dan Kinzelman -tenor sax
Gabriele Evangelista-contrabbasso
Stefano Tamborrino -drums
*****
Giovedì,24 ottobre 2013
SILVANIA DOS SANTOS Trio Silvania Dos Santos-vocals Ennio Righetti-guitar,mandolino e cavaquinho Roberto Rossi-drums , percussion
*****
Giovedì,16 ottobre 2013
OFF THE CHARTS 4et
Pietro Tonolo-tenor sax
Andrea Pozza-piano
Lorenzo Conte-double bass
Ferenc Nemeth-drums
*****
Giovedì ,10 ottobre 2013
Alex Schultz-guitars Raphael Wressnig-hammond Silvio Berger-drums,tamburine
*****
Giovedì,3 ottobre 2013
The Mixtapers feat. Flavio Sigurtà
Nico Menci-Keyboards
Michele Manzo-basso e chitarra
Brother Martino-drums
Flavio Sigurtà-tromba
*****
Giovedì,8 agosto 2013
Michael Blake-tenor sax from NEW YORK
Alessandro Lanzoni-piano
Gabriele Evangelista-contrabbasso
Tommaso Cappellato-drums
*****
Giovedì,10 maggio 2013
MICHELA GRENA & THE ONE BEAT BAND
Michela Grena - voce Gianpaolo Rinaldi – pianoforte e tastiere Luca Amatruda - basso Andrea Pivetta - batteria Mirko Cisilino - tromba
*****
Giovedì,28 marzo 2013
Arthur Kell 4et
Loren Stillman - sax contralto
Brad Shepik - chitarra
Arthur Kell - contrabbasso
Tommaso Cappellato -batteria
*****
Giovedì,20 febbraio 2013
Kelvin Sholar Trio
kelvin Sholar-piano
Andrea Lombardini-bass
Tommaso Cappellato-drums
*****
Giovedì ,9 febbraio 2013
Glaucorius 4et
Glauco Benedetti-basso tuba
Luca Grani-chitarra
Davide Agnoli-sax contralto
Lorenzo Terminelli-batteria
*****
Giovedì,7 febbraio 2013
Leroy Emmanuel 5et
*****
Giovedì,29 novembre 2012
Diodati Neko 4et
*****
Giovedì,22 novembre 2012
Hobby Horse trio
*****
Giovedì,25 ottobre 2012
Malastrana 4et
Michael Rosen-sax soprano
Stefano Raffaelli-piano
Flavio Zanon-contrabbasso
John B.Arnold-batteria ******
Giovedì,18 ottobre 2012
JELLY ROLLS BAND
Sergio Gonzo- tromba Fiorenzo Martini- tromba Marco Ronzani-sax soprano Bobo Beraldo-sax contralto Marco Bressan-sax tenore Luca Moresco-trombone Giovanni Carollo-chitarra elettrica Andrea Miotello-chitarra elettrica ��Federico Valdemarca-contrabbasso Giulio Faedo-batteria
*****
Giovedì,11 ottobre 2012
GROOVE ELECTION 5et
*****
Giovedì,4 ottobre 2012
Matteo Raggi,Davide Brillante,Luciano Milanese,Carlo Milanese
*****
Giovedì,27 settembre 2012
MORROCOY BAND
Ascanio Scano,Giuseppe Bertolino,Pasquale Cosco,Marco Andrighetto
*****
Giovedì,20 settembre 2012
GIANNI STEFANI 4et
Gianni Stefani-sax tenore
Matteo Alfonso-piano
Nicola Bortolanza-contrabbasso
Luca Lazzari-batteria
*****
Giovedì,3 maggio 2012
MEETING SOUNDS 4et
Claudio Giovagnoli- sax tenore
Simone Graziano-piano
Gabriele Evangelista-contrabbasso
Bernardo Guerra-batteria
*****
Giovedì,26 aprile 2012
Fabio Giachino trio
Fabio Giachino: pianoforte
Davide Liberti: contrabbasso
Ruben Bellavia: batteria
*****
Giovedì,19 aprile 2012
Alessia Obino 4et
Alessia Obino-voce
Fabrizio Puglisi-piano
Stefano Senni-contrabbasso
Tommaso Cappellato-batteria
*****
Giovedì,5 aprile 2012
Gabriele Boggio Ferraris 4et
Alessandro Rossi - batteria
Michele Tacchi contrabbasso
Gabriele Boggio Ferraris-vibrafono
Mirko Mignone-piano
*****
Giovedì,29 marzo 2012
Raffaele Genovese trio
Raffaele Genovese-piano
Marco Vaggi-contrabbasso
Ferdinando Faraò-batteria
*****
Lunedì , 26 marzo 2012
Simone Graziano Project
Chris Speed -tenor sax
David Binney-alto sax
Simone Graziano-piano
Gabriele Evangelista-contrabbasso
Stefano Tamborrino -drums
*****
Giovedì,22 marzo 2012
Dario Carnovale-piano
Massimo Serafini-contrabbasso
Luca Colussi -batteria
Max Ionata -sax tenore
*****
Mercoledì,7 marzo 2012
RALPH ALESSI & SIMONE GUIDUCCI Gramelot Ensemble
Ralph Alessi-tromba Achille Succi-clarinetto Oscar Del Barba-piano
Simone Guiducci-chitarra Giulio Corini-contrabbasso Andrea Ruggeri-batteria
*****
Giovedì,2 febbraio 2012
Andy Gravish e Mike Campagna 5et
Andy Gravish -trumpet
Mike Campagna-tenor sax
Alessandro Collina-piano
Marc Peillon-double bass
Rodolfo Cervetto-drums
*****
Giovedì,26 gennaio 2012
DONATELLA VALGONIO 4et
Donatella Valgonio-voce
Stefano Caniato-piano
Peppe Rappa Rosario-contrabbasso
Paolo Mappa-batteria
*****
Giovedì,15 dicembre 2011
Tommaso Genovesi 4et
Tommaso Genovesi - piano
Nevio Zaninotto - sax tenore
Danilo Gallo – contrabbasso
U.T. Ghandi - batteria
*****
Mercoledì,14 dicembre 2011
Grant Stewart Italian 4et
Grant Stewart - sax tenore from Canada
Alessandro Collina - piano
Giovanni Sanguineti - contrabbasso
Enzo Carpentieri - batteria
*****
Giovedì,24 novembre 2011
Guglielmo Grillo trio
Guglielmo Grillo-voce e chitarra
Lello Petrarca-piano e basso
Domenico De Marco-batteria
*****
Giovedì,10 novembre 2011
Marco Pacassoni 4et
Marco Pacassoni-vibrafono
Enzo Bocciero-piano
Lorenzo De Angeli-contrabbasso
Matteo Pantaleoni-batteria
*****
Mercoledì,3 novembre 2011
Joel Holmes trio
Joel Holmes-piano
Stefano Senni-contrabbasso
Pietro Valente-batteria
*****
Giovedì,27 ottobre 2011
Danielle Di Majo 5et
Danielle Di Majo-sax contralto
Giancarlo Maurino-sax tenore
Fabio Giachino-piano
Marco Piccirillo-contrabbasso
Emilio Bernè -batteria
*****
Giovedì,20 ottobre 2011
Felice Clemente 4et
Felice Clemente-sax tenore e soprano
Massimo Colombo-piano
Giulio Corini-contrabbasso
Massimo Manzi-batteria
*****
Giovedì,13 ottobre 2011
Pietro Bonelli New Voice trio
Pietro Bonelli-chitarra
Pino Fusco-voce ed effetti
Daniele Petrosillo-basso elettrico
*****
Giovedì,6 ottobre 2011
Francesco Socal " Klezmer " 4et
Francesco Socal-clarinetto e voce
Enzo Moretto-fisarmonica
Giorgio Panagin-contrabbasso
Niccolò Romanin-batteria
*****
Giovedì,29 settembre 2011
Paolo Recchia - sax contralto Nicola Muresu - contrabbasso Nicola Angelucci - Batteria
*****
Mercoledì ,28 settembre 2011
ANDREA LOMBARDINI & his BROKEN BAND
Andrea Lombardini - Basso Elettrico Fulvio Sigurtà - Tromba Paolo Porta - Sax tenore Federico Casagrande – Chitarra elettrica Marcos Cavaleiro - Batteria *****
Giovedì,22 settembre 2011
Max Amazio-chitarra Ugo Bongianni-piano Andrea Cozzani-basso Angelo Ferrua-batteria
*****
Giovedì,15 settembre 2011
Dario Carnovale trio Feat. Fabrizio Bosso
Fabrizio Bosso-tromba
Dario Carnovale-piano
Simone Serafini-contrabbasso
Luca Colussi-batteria
*****
Giovedì,8 settembre 2011
Maria Patti " The Silver Lining" 4et
Maria Patti-voce
Michele Franzini -piano
Attilio Zanchi-contrabbasso
Tommy Bradascio-batteria
*****
Giovedì,18 agosto 2011
Michael Blake-sax tenore Stefano Senni-contrabbasso Tommaso Cappellato-batteria
*****
Giovedì,23 giugno 2011
HOT BOW trio
Mattia Martorano-violino
Andrea Boschetti-chitarra acustica
Beppe Pilotto-contrabbasso
*****
Giovedì,16 giugno 2011
Fabrizio Gaudino 4et
Fabrizio Gaudino-tromba
Danilo Memoli-piano
Luca Pisani-contrabbasso
Oreste Soldano-batteria
*****
Giovedì,9 giugno 2011
Robert Bonisolo- tenor sax
Marc Abrams-double bass
Enzo Carpentieri-drums
*****
Lunedì,23 maggio 2011
El Portal 5et
Nolan Lern -tenor sax
Rainier Davies- guitar
Paul Bedal-fender Rhodes
Joe Rehmer-bass
Dion Kerr-drums
*****
Giovedì,19 maggio 2011
Sara Righetto 4et
Sara Righetto-voce
Roberto Brusca-piano
Rosa Brunello-contrabbasso
Davide Lo Cascio-batteria
*****
Giovedì,12 maggio 2011
Intersection 4et
Mattia Dalla Pozza-sax contralto
Paolo Garbin-piano
Franco Catalini-contrabbasso
Enrico Smiderle- batteria
*****
Giovedì,5 maggio 2011
Alessandra Pascali 4et
*****
Giovedì,28 aprile 2011
Paolo Faga 5et from Milano
Paolo Faga-tromba
Flavio Nicotera-sax tenore
Mario Zara-piano
Tito Mangialajo-contrabbasso
Giorgio Di Tullio-batteria
*****
Giovedì,21 aprile 2011
Enrico Dal Bosco 5et
Enrico Dal Bosco-sax contralto
Roberto Soggetti-piano
Massimo Niero-chitarra
Cristian Roque Allende-basso elettrico
Max Chiarella-batteria
*****
Giovedì,14 aprile 2011
Michele Manzo -Marc Abrams-Tommaso Cappellato
*****
Giovedì,7 aprile 2011
Psaico Bop 4et
Fabrizio Puglisi-piano
Alessio Alberghini-sax baritono e soprano
Tiziano Zanetti-contrabbasso
Claudio Trotta-batteria
*****
Mercoledì,6 aprile 2011
Flavio Sigurtà 5et
Flavio Sigurtà-tromba
James Allsopp-sax tenore
Francesco Casagrande-chitarra
Riaan Vofloo-contrabbasso
Timothy Giles-batteria
*****
Giovedì,31 marzo 2011
Sugar Pie & the Candymen
Giorgia Ciavatta-voce
Jacopo Delfini-chitarra gipsy
Renato Podestà-chitarra semiacustica
Alex Carreri-contrabbasso
Roberto Lupo-batteria
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Giovedì,17 marzo 2011
G.B. Funky & Jazz Orchestra ( 12 elementi)
Gastone Bortoloso -direzione ,arrangiamenti e tromba solista
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Giovedì,10 marzo 2011
Antonello Marafioti-piano Stefano Senni-contrabbasso Tommaso Cappellato-batteria
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Giovedì,3 marzo 2011
Massimo Zemolin -chitarra Stefano Olivato -armonica Leonardo Di Angilla -pandeiro
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Giovedì,24 febbraio 2011
RAPHAEL WRESSNIG Trio (swinging' the blues) Raphael Wressnig organo Hammond B3 Scott Steen tromba Vincenzo Barattin batteria
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Giovedì,17 febbraio 2011
Alex Sipiagin - Michele Calgaro Duo Alex Sipiagin Tromba Michele Calgaro Chitarra
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Giovedì,10 febbraio 2011
LEYDIS MENDEZ Y CARRETERA CENTRAL (son cubano) Leydis Mendez chitarra e voce Gianluca Nuti chitarra tres e cori "Mr. Top" Tiziano Melchiori bongos e cori Stefano Andreatta basso e flauto Mario Zivas tromba
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Giovedì,3 febbraio 2011
BLUE NAIF Fabio Rossato-Accordeon Mattia Martorano-violino Andrea Boschetti-chitarra acustica Alessandro Turchet-contrabbasso
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Giovedì,27 gennaio 2011
NEW QUARTET Danilo Memoli-piano Gianni Stefani-sax tenore Stefano Senni-contrabbasso Max Chiarella-batteria
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Giovedì,20 gennaio 2011
BOCHO FIGO Quartet Lisandra Hernandez Betaille ”da Cuba” (voce & chitarra) Matteo Pescarolo (sax tenore e soprano, clarinetto, flauto) Daniele Labelli (tastiere) Pasquale Cosco (contrabbasso)
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Giovedì,23 dicembre 2010
Stefano Raffaelli,Fiorenzo Zeni,Romano Todesco,Giorgio Zanier
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Govedì,16 dicembre 2010
Marco Zambon,Angelo Ferlini,Giorgio Panagin,Marco Callegaro
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Giovedì,9 dicembre 2010
Nicola Fazzini,Riccardo Chiarion,Marco Privato,Luca Colussi
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Giovedì,25 novembre 2010
Carlo Porfilio,Marco Bassi,Nicola Di Camillo
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Gioved��,18 novembre 2010
Federico Casagrande,Christophe Panzani,Ferenc Nemeth
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Giovedì,11 novembre 2010
Dario Carnovale,Simone Serafini,Luca Colussi
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Giovedì,4 novembre 2010
Gianni Stefani,Ivan Tibolla,Franco Catalini,Tommaso Cappellato
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Giovedì,21 ottobre 2010
Maria Patti,Luciano Zadro,Attilio Zanchi,Marco Castiglioni
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Giovedì,14 ottobre 2010
Marco Pacassoni ,Giacomo Dominici ,Filippo Lattanzi
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Giovedì,7 ottobre 2010
Max Amazio,Ugo Bongianni,Andrea Cozzani,Angelo Ferrua
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Giovedì,30 settembre 2010
Guido Bombardieri – sax soprano Roberto Soggetti – piano
Sandro Massazza – contrabbasso Valerio Abeni – batteria
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Giovedì,23 settembre 2010
Sandro Gibellini-Ares Tavolazzi-Mauro Beggio
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Giovedì,29 luglio 2010
Mimmo Turone,Max Turone,Fiorenzo Ferriani
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Giovedì,22 luglio 2010
TEATRIO'
Marta Facco,Stefano Santangelo,Fabiano Guidi Colombi,Giancarlo Tombesi
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Giovedì,15 luglio 2010
Francesco Geminiani,Marcello Tonolo,Lorenzo Conte,Tommaso Cappellato
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Giovedì,8 luglio 2010
Stefano Raffaelli,Romano Todesco,Fiorenzo Zeni,Giorgio Zanier
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Giovedì,20 maggio 2010
Matteo Raggi 4et
Matteo Raggi -sax tenore
Davide Brillante-chitarra
Mirko Scàrcia-contrabbasso
Stefano De Rosa - batteria
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Giovedì,6 maggio 2010
ALMA SWING
Mattia Martorano-violino
Lino Brotto-chitarra
Andrea Boschetti-chitarra ritmica
Diego Rossato-chitarra ritmica
Beppe Pilotto-contrabbasso
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Giovedì,29 aprile 2010
BALKANICA
Sladjana Bozic-accordeon
Maurizio Scavezzon-contrabbasso
Divide Michieletto-batteria
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Giovedì,22 aprile 2010
Marco Zambon 4et
Marco Zambon-sax tenore
Dario Volpi-chitarra
Otello Savoia-contrabbasso
Marco Callegaro-batteria
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Giovedì,15 aprile 2010
PIETRO BONELLI Group
Pietro Bonelli-chitarra
Mario Zara-piano
Daniele Petrosillo-contrabbasso
Giorgio Di Tullio-batteria
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Giovedì,8 aprile 2010
TEA FOR FIVE
David minotti- jazz crooner
Alberto Berlese-piano
Giovanni Masiero-sax tenore
Mauro Bonaldo-contrabbasso
Luca Lazzari-batteria
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Giovedì,1 aprile 2010
STEFANO RAFFAELLI Trio
Stefano Raffaelli-piano
Flavio Zanon -contrabbasso
Giorgio Zanier-batteria
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Giovedì,25 marzo 2010
DARIO CARNOVALE trio
Dario Carnovale-piano
Simone Serafini-contrabbasso
Luca Colussi-batteria
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Giovedì,18 marzo 2010
ORIGINAL PERDIDO JAZZ BAND
Giannantonio Bresciani,Saulo Agostini,Federico Benedetti,Rossano Fravezzi ,
Francesco (Chicco) Agostini
Gianni Romano,Maurizo Rozzoni,Piero Delia,Caterina Dal Zen
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Giovedì,11 marzo 2010
MIMMO TURONE Trio
Mimmo Turone-piano
Aron Widmarck-contrabbasso
Vittorio Sicbaldi-batteria
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Giovedì,25 febbraio 2010
Monica Giorgetti 4et
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Giovedì,11 febbraio 2010
Giovanni Perin-vibrafono Giuliano Perin-piano Otello Savoia-contrabbasso
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Giovedì,28 gennaio 2010
Maria Patti trio
Maria Patti-voce
Massimo Colombo-piano
Attilio Zanchi-contrabbasso
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Giovedì,21 gennaio 2010
Mauro Negri Trio
Mauro Negri-clarinetto
Marcello Tonolo- piano
Stefano Senni -contrabbasso
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Giovedì,17 dicembre 2009
Marco Zambon 4et
Marco Zambon-sax tenore
Aaron Widmark-piano
Giorgio Panagin-contrabbasso
Marco Callegaro-batteria
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Giovedì,3 dicembre 2009
FABRIZIO GAUDINO Trio
Fabrizio Gaudino-tromba e flicorno
Oscar Zenari-piano
Luca Pisani-contrabbasso
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Giovedì, 26 novembre 2009
ADOVABADAN JAZZ BAND
Franz Falanga-piano
Michele Uliana-clarinetto
Isaac De Martin-chitarra
Mauro Brunato-banjo
Fabio Sparano-contrabbasso
Paolo Marconati-batteria
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Giovedì, 22 ottobre 2009
ROBERTO RIGHETTO 4et
Roberto Righetto-chitarra
Marco Strano-sax tenore e soprano
Domenico Santaniello-contrabbasso
Marco Campigotto-batteria
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Giovedì,15 ottobre 2009
GIORGIA SALLUSTIO Trio
Giorgia Sallustio-voce
Giuseppe Emmanuele-piano
Guido Bergliaffa
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SAIL 2016 - Concluso il IX Campionato Provinciale 2016 per velisti diversamente abili -Svelare senza barriere 2016
13 settembre 2016 - Desenzano del Garda. Per il secondo anno consecutivo Pietro Mensi, Davide Gilberti e Roberto Giudice (Squadra B Brescia 1) sono i vincitori del Campionato Provinciale per velisti diversamente abili, l’evento più atteso del progetto “Svelare senza barriere” voluto e realizzato dal Gruppo Nautico Dielleffe per affermare gli effetti positivi della Vela come strumento di intervento nelle varie aree del disagio sociale, fisico e mentale. I rappresentanti della Fobap Anffas di Brescia si sono imposti in una finalissima combattuta sino agli ultimi bordi contro la Squadra F Desenzano 1 (Alessandro Bertolinelli, Paolo Delai, Giorgio Calanna - e il supporter Cristian Rambotti). Nel volo per decretare la terza e quarta posizione, invece, la vittoria è andata a Brescia 2 (Federico Forti, Matteo Salvadori, Riccardo Cerqui) che ha battuto Leno 1 (Manuel Borboni, Ermanno Bresciani/Cristian Tomasoni, Angelo Boselli). Con questo risultato, tutte le Associazioni coinvolte in questa splendida iniziativa basata interamente sul volontariato possono fregiarsi di tre vittorie: la Cooperativa C.D.D. Collaboriamo di Leno, infatti, si era imposta nel 2008, ’11 e ’14, l’Anffas di Desenzano-Rivoltella nel 2009, ’12 e ’13 e la Fobap Anffas di Brescia nel 2010, ’15 e 2016. Ai neo Campioni, oltre al dipinto su tavola “Sulle vele dell’Amicizia” (realizzati per i primi tre classificati dall’artista sambenedettese Timoteo Sceverti) sono state consegnate anche la Costa Arredo Cup (una preziosa novità di questa edizione) e la tradizionale vela in miniatura firmata da tutti i partecipanti di Svelare 2016. La squadra della Coop La Rondine di Mazzano (Giacomo Di Litta, Papa Ibrahima Thiongane, Marina Giaele Gatti), quinta assoluta, è stata invece premiata come Team più giovane con il Trofeo Luigina (la seconda novità di quest’anno, costituita da un Trofeo Challenge in marmo di Carrara e da tre piccole riproduzioni che resteranno all’equipaggio). A tutti i concorrenti sono state, inoltre, consegnate delle sacche da barca realizzate dalla veleria toscana Be1 Eurosails. Il Golfo di Desenzano ha fatto ancora una volta da palcoscenico a quattro splendide giornate di sole e vento durante le quali sino svolti regolarmente tutti i voli in programma: a bordo dei due J24 (invelati Be1 Eurosails) hanno regatato otto equipaggi formati da due persone diversamente abili, un loro educatore e un osservatore dell’Organizzazione (Cesare Bresciani e Sergio Zumerle), il tutto sotto l’attenta regia del presidente del Comitato di Regata Roberto Belluzzo coadiuvato da Giuseppe Iaccarino, Mario Monti e Alfredo Meloni, da Francesco Salvini (barca giuria), e da Salvatore Secci e Claudio Pizzoni (barche isola). Come ogni giorno, ad attendere il rientro a terra dei regatanti, il graditissimo pranzo offerto da Iper, la grande I di Lonato del Garda che anche quest’anno (grazie alla sensibilità del Direttore del punto vendita Iper di Lonato Vanni Corbonese, del responsabile vendite gastronomia Giovanni Ghirardi, della coordinatrice Francesca Scannaroti e di tutti i cuochi) ha rinnovato la preziosa collaborazione con il sodalizio presieduto da Gianluigi Zeni. Grande la soddisfazione e l’entusiasmo dei protagonisti di questa splendida manifestazione contraddistinta da tanto divertimento, impegno, solidarietà, e proposta dal Gruppo Nautico Dielleffe come coronamento di un anno di impegno e lavoro del progetto "Svelare senza barriere” che vede coinvolti un centinaio di persone. Il Campionato è stato realizzato con il patrocinio del Comune di Desenzano d/G e la collaborazione dell’Assessorato Sport e Tempo libero della Provincia di Brescia, Fondazione Comunità Bresciana, Fondazione Banca San Paolo, Costa Arreda, Iper la grande I di Lonato del Garda, Moreni Macchine Agricole, e Cembre. Nel corso della premiazione (svoltasi presso la sede del GNDielleffe e preceduta dal tradizionale pranzo di chiusura e da uno spettacolo di intrattenimento) è stata espressa da parte dei rappresentanti delle Associazioni coinvolte la soddisfazione per i progressi fisici e mentali ottenuti in questi anni grazie a Svelare senza barriere. “Siamo molto grati a tutti coloro che hanno partecipato a questa edizione e alla premiazione: la loro presenza nella nostra sede e la gioia negli occhi di tutti i partecipanti ci hanno ripagato degli sforzi richiesti nel portare avanti un Progetto come Svelare senza barriere, spronandoci a continuare in questa direzione.” ha commentato al termine della manifestazione un emozionato Gianluigi Zeni. Fra gli ospiti intervenuti alla premiazione il Sindaco di Desenzano, Rosa Leso, gli Assessori del Comune di Desenzano Antonella Soccini, Valentino Righetti e Maurizio Maffi e il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Desenzano Vincenzo Zarba, da sempre vicini a questa iniziativa. Archiviato il Campionato, gli incontri di Svelare senza barriere proseguiranno ancora, ogni settima, per tutto il mese di ottobre per poi dare l’arrivederci al prossimo anno.
FROM http://www.navigamus.info/2016/09/concluso-il-ix-campionato-provinciale.html
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Il secondo conflitto mondiale era finito ormai da quasi quattro anni, ma nessuno poteva dimenticare le sofferenze ed i lutti da esso indotti.
All’inizio di quel lontano 1949 sopravvenute esigenze urbanistiche avevano imposto di estirpare gli alberi del piccolo parco della rimembranza che sorgeva in prossimità del castello scaligero di Sirmione. Il 4 novembre dello stesso anno fu costituito un comitato che si propose di onorare in altra e non meno decorosa forma i concittadini caduti in guerra.
Tra le varie proposte prevalse quella di fondere una grande campana e di collocarla sul colle dove sorge il tempio longobardo di San Pietro.
In una lettera scritta il 5 maggio 1951 dal segretario comunale Lorenzo Ronchi si legge che il bronzo “avrebbe avuto le seguenti finalità: “a) suonare per tutti i caduti d’Italia nei giorni in cui vi fu maggiore spargimento di sangue sui campi di battaglia e recare incisi i nomi dei sirmionesi che fecero per la Patria olocausto della loro vita… b) suonare nei giorni di burrasca e di nebbia per dare possibilità ai pescatori di orientarsi verso la riva e così evitare altre non improbabili disgrazie oltre quelle che hanno colpito negli scorsi anni”.
La Chiesa di San Pietro Mavino e la campana dei caduti inaugurata nel maggio del 1955. Nel Giornale di Brescia dell’epoca Damaso Riccioni annotò “… Tra gli ulivi del colle, ed intorno al tempio romanico, è confluita – con riverente slancio – la vita che di solito evoluisce nella lieta penisoletta…”. “…Una lapide marmorea reca incisi i versi dedicati alla campana, cui si dette il nome glorioso e fatidico di Julia. L’autore è monsignor Giuseppe Chiot, che nel 1944 aveva impartito la benedizione – in articulo mortis ai condannati del processo di Verona…”
Molti abitanti della penisola benacense, ma non essi soltanto, concorsero a raccogliere le somme necessarie all’opera. Particolare menzione tra tutti, oltre al citato Ronchi meritano ili medico condotto Mario, Migliorati, il sindaco Cesare Cenzi (padre della medaglia d’oro Mario), l’industriale di Lumezzane Giacomo Gnutti (padre della medaglia d’oro Serafino) e il parroco don Lino Zorzi.
L’archivio del Comune rivela l’assiduo impegno e l’incrollabile fede dei promotori. Già Orazio, aveva affermato che nulla concede la vita ai mortali senza grande fatica. E finalmente il sogno si realizzò. Duemilatrecento chili di metallo furono acquistati dalla ditta Minotti di Milano.
La società Italcementi di Bergamo fornì centotrenta quintali del suo prodotto a condizioni di grande favore. Lo scultore Angelo Righetti venne incaricato di modellare la campana e di ornarla con quattro formelle in alto rilievo.
La fusione fu commessa alla ditta Cavadini di Verona. L’architetto Mario Moretti offrì il progetto del monumento. Il 22 maggio 1955, giorno della solenne inaugurazione, Damaso Riccioni annotò sul “Giornale di Brescia”: “Per l’intera mattinata, Sirmione s’è raccolta idealmente all’altura di San Pietro, in Mavino. Partecipazione plenaria di autorità, di sodalizi patriottici, di popolazione, di turisti italiani e stranieri. Tra gli ulivi del colle, ed intorno al tempio romanico, è confluita – con riverente slancio – la vita che di solito evoluisce nella lieta penisoletta…”. Una lapide marmorea reca incisi i versi dedicati alla campana, cui si dette il nome glorioso e fatidico di Julia.
L’autore è monsignor Giuseppe Chiot, che nel 1944 aveva impartito la benedizione – in articulo mortis ai condannati del processo di Verona. Ne riporto la traduzione, priva dell’incisiva bellezza del testo latino: “L’onda dei rintocchi – lanciata alla terra, alle acque, al cielo, – sia preghiera, carme, inno di gloria. – A quanti il dono della patria godono da vivi sia monito – che senza sacrificio non vi é amore”.
È trascorso molto tempo da quella radiosa domenica di primavera.
Fogli ingialliti e vecchie fotografie tramandano una vicenda che onora la terra di Catullo.
Adesso che quasi tutti i protagonisti hanno concluso il loro cammino terreno, pare doveroso rammentarli con gratitudine sincera.
E con le parole del Foscolo: “Sol chi non lascia eredità d’affetti / poca gioia ha dell’urna…”.
Per chi suona la campana Julia? Il secondo conflitto mondiale era finito ormai da quasi quattro anni, ma nessuno poteva dimenticare le sofferenze ed i lutti da esso indotti.
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PAOLO ROSA legge ANGELO RIGHETTI
Paolo Rosa è membro e fondatore dal 1982 di Studio Azzurro, con cui ha sviluppato un’attività di ricerca particolarmente indirizzata nel settore delle videoambientazioni e attraverso la realizzazione di 'ambienti sensibili'. Si interessa alle attuali problematiche dell’interattività e del multimediale, ha realizzato numerosi programmi video e televisivi, è intervenuto con scritti e riflessioni teoriche, ha svolto attività in campo formativo e didattico con workshop e seminari. Attualmente è docente all’Accademia di Belle Arti di Brera.
E Manu Capere
Mauro Folci, Paolo Rosa (a cura di), E Manu Capere. Sedici lezioni strane a Brera. Scalpendi Editore / Accademia di Belle Arti di Brera, 2012.
"Nel mondo greco-romano c’era un modo per liberare gli schiavi. Si andava davanti a un pretore, il padrone imponeva la sua mano sulla testa dello schiavo e lo faceva girare su se stesso. Questo gesto compiuto davanti al pretore significava che lo schiavo era liberato. Come ricorda Foucault Seneca ed Epitteto citano questo rito che era a loro contemporaneo, come una metafora del potere della filosofia, perché la filosofia ha la capacità di liberare l’uomo, di affrancarlo, di farlo diventare libero. Se vognliamo contribuire alla costruzione di un movimento che modifichi lo stato delle cose presente, che provi a fermare o quanto meno a dominare troppo tracotantemente sulle nostre vite, abbiamo davvero bisogno di fare un giro su noi stessi, cioè abbiamo bisogno di strumenti, come quelli che possimo trovare in Foucault e in tanti altri. Però lasciate che ve lo dica, non abbiamo bisogno di nessuno che ci tenga la mano sulla testa." Antonio Caronia, dalla quarta di copertina del libro
Estratto: Angelo Righetti, "Racconto sull'identità tra etica ed estetica"
[Angelo Righetti è medico specializzato in psichiatria, neurologia, epidemiologia e farmacologia. Attualmente riveste la carica di Responsabile di salute mentale della Conferenza Permanente Partenariato Euromediterraneo ed esperto del Organizzazione Mondiale della Sanità e dell’ONU.
E’ stato fra i principali collaboratori di Franco Basaglia nella preparazione delle linee direttrici della famosa legge che ha portato alla chiusura dei manicomi.
E’ fondatore e critico di diverse riviste di scienze umane e di salute mentale, oltre che coordinatore di diverse commissioni nazionali. Come “imprenditore sociale” ha fondato diverse cooperative solidaristiche di produzione e lavoro operanti in campo nazionale e internazionale.]
Sono uno psichiatra, ho lavorato negli anni 70 con Basaglia per l’eliminazione dei manicomi. Sono diventato un esperto di questa storia; esperto di distruzione e al contempo, necessariamente, abbastanza esperto anche di costruzioni alternative a ciò che si distruggeva.
Venivo come tutti da una cultura che riguardava il corpo, in particolare il cervello e i prodotti del cervello; venivamo dalle scienze mediche e dalle scienze umane e ciò che avevamo imparato era che il cervello è un organo immutabile. La dotazione delle cellule cerebrali, circa alcuni miliardi presenti nella teca cranica, non si sviluppa ulteriormente e le cellule sono esattamente le stesse che abbiamo ricevuto nell’embriogenesi. Mentre tutte le cellule degli altri organi si riproducono, così ci insegnavano, quelle del cervello rimangono immutabili, il patrimonio quantitativo delle cellule cerebrali rimane immutabile.
In questa visione, tutto ciò che si presupponeva colpisse il cervello, manifestando sintomi che si potevano vedere e sentire, erano lesioni irreversibili; erano quindi lesioni che il cervello non poteva riparare perché non si riproducevano le cellule. Questa era la concezione da cui venivamo e, su questa idea, sono state costruite tutte le malattie psichiatriche che oggi conosciamo.
La malattia mentale è nata dalla convinzione che fosse il segno di una lesione cerebrale d’organo e non di un episodico comportamento non adattivo, che fosse dunque il segno di lesioni legate a ciò che non si riusciva a vedere dal punto di vista anatomo-patologico perché non si riusciva ad andare nell’infinitamente piccolo. Era dunque molto difficile immaginare che poteva esistere un’area di curabilità di una cosa che, di per sé, veniva considerata inguaribile. Era molto difficile immaginare una strada alternativa, fu per questo e sulla base di alcune osservazioni contraddittorie che prese avvio quella straordinaria avventura.
Le osservazioni che vi riporto, capaci di contraddire questa concezione del cervello e degli stati di coscienza umani, erano sostanzialmente tre e ben consistenti.
In primo luogo, ci fu l’osservazione di John Conolly, uno psichiatra inglese nominato nel 1839 direttore dell’ospedale di Hanwell, uno dei vecchi alienisti insomma, secondo cui liberare le persone all’interno dell’ospedale e dare loro una funzione di responsabilità faceva in modo che queste migliorassero anziché peggiorare. Fu un’esperienza descritta come qualcosa che non ci stava tanto con l’irreversibilità, la pericolosità e l’inguaribilità, i tre connotati della malattia mentale che ci insegnavano essere i corrispettivi delle lesioni cerebrali, queste ultime invisibili perché infinitamente piccole. Se questo era il presupposto, le contraddizioni erano però evidenti, soprattutto quando si assisteva ad un drastico miglioramento sulla base delle relazioni umane che si stabilivano tra le persone.
Un’altra contraddizione straordinaria fu quella messa in luce da un pastore alsaziano che nella comunità di Geel in Alsazia mise in atto un progetto di affido condiviso.
Le persone che manifestavano disturbi psichiatrici, anziché esser curate dai medici e dagli alienisti dell’epoca, venivano inserite in una comunità abbastanza vasta da lui creata; questo valeva soprattutto per i bambini, o comunque persone giovani, i quali venivano introdotti in famiglie diverse dalla loro. Poiché quasi tutti gli abitanti di questa comunità si erano resi disponibili a fare questo tourbillon, succedeva che chi aveva in casa un ragazzino che stava male faceva uno scambio con un altro ragazzino di un’altra famiglia, per cui cambiavano le relazioni umane di queste persone.
Anche in questo caso ci furono dei risultati piuttosto consistenti, anzi molto consistenti, e il pastore alsaziano si rese conto perfettamente dell’importanza del suo esperimento che andò avanti per circa 70 anni. Il progetto, che prese il nome di Codice di Geel, venne organizzato con grande precisione e con un resoconto esauriente della modifica dei comportamenti e della crescita dei ragazzi che erano stati designati come malati di mente o schizofrenici o affetti da demenza precoce.
Tali miglioramenti venivano messi in relazione a due cose molto interessanti: al tasso affettivo della famiglia, cioè a quanto allegra, vivace e spensierata fosse la famiglia che prendeva in carico il ragazzo, e a quanta cura si riponeva negli oggetti, quindi alla bellezza dell’arredamento e alla pulizia degli ambienti. Naturalmente non ci fu nessuna dimostrazione di questo esperimento, semplicemente la registrazione dei risultati ottenuti.
La terza formidabile contraddizione all’interno di questa visione della neurologia e della psichiatria del tutto particolare, che poi è ancora quella che la vostra generazione ha culturalmente assimilato, fu evidenziata dal dottor H. Simon nel 1820.
Egli si mise ad organizzare i numerosi pazienti del suo manicomio sulla base dell’addestramento lavorativo, facendoli lavorare in campagna e in una falegnameria che aveva eretto egli stesso. Anche in questo caso furono registrati miglioramenti molto consistenti, soprattutto laddove ci si occupava di oggetti artigianali, come ad esempio strumenti musicali, oppure di oggetti d’arredo.
Simon assegnò a tutti i pazienti di questo enorme manicomio vicino a Berlino un’attività lavorativa; non solo, gli applicati, che erano gli infermieri dell’epoca, facevano gli istruttori in base alle loro proprie abilità, per cui un infermiere che sapeva fare l’imbianchino diventava uno psico-imbianchino e curava i pazienti insegnando loro a fare gli imbianchini.
A questa pratica terapeutica Simon diede il nome di terapia vocazionale, vocational therapy, ovverosia uno fa per terapia ciò che gli piace fare e che sa fare con abilità, in modo tale che abbia la motivazione a fare qualche cosa semplicemente perché è bravo e la fa anche bene.
Le osservazioni anche qui furono sorprendenti: persone totalmente passivizzate divennero capaci di produrre e l’esperienza diede un risultato talmente consistente che la si trasformò in una tecnica, la cosiddetta ergo terapia, terapia del lavoro, ma questo fu un grave errore.
All’interno della sua osservazione ci sono comunque alcuni fattori particolarmente interessanti. Se a una persona viene valorizzata la sua abilità, qualsiasi essa sia, che sappia fischiare al cielo, costruire uno strumento o coltivare fagiolini, si produce un effetto alone, così lo chiamava Simon, per cui questa persona diventa brava anche nel resto e acquista più stima di sé.
L’ultima, fatale contraddizione fu quella di Russel Burton, uno psichiatra gay degli anni ’60 – uso la parola gay poiché in questo caso ha un significato particolare – il quale scrisse un libro molto interessante intitolato “Institutional Neurosis”, da me tradotto.
Burton in questo studio dimostra con precisione, come sanno fare in modo pragmatico gli inglesi, i danni che una persona riceve quando viene messa in una situazione di passività e di gerarchia. Dai comportamenti e dalla valutazione di tutte le funzioni neuro cognitive, si osserva che una persona che entra in contatto con un’istituzione, quale è l’ospedale, ha un depauperamento grave dei propri livelli di funzionamento cognitivo e affettivo.
Questo oggi è cosa nota, allora si chiamava sindrome da istituzionalizzazione; Burton, però, la descrisse come una vera e propria malattia che definì nevrosi istituzionale.
L’assenza di libertà, lo squallore degli oggetti e dell’arredamento, un ambiente non personalizzato, non innervato all’interno della privata proprietà, comporta un annullamento degli attributi cognitivi di una persona; di conseguenza, diminuisce la sua propria capacità di comprensione del mondo fino al punto di diventare non più autonoma e non più autosufficiente, quindi anche con funzioni fisiologiche non in grado di essere auto soccorse.
Ad ogni modo, l’osservazione a mio avviso più interessante di Russel Burton è la constatazione che anche gli infermieri, i medici e tutto il personale ospedaliero che lavora all’intero di questo ambiente, hanno un impoverimento cognitivo relazionale della stessa misura dei pazienti.
Questa considerazione si applica soprattutto nel caso di pratiche repressive quali la contenzione e l’elettroshock, che vengono ancora oggi usate anche a Milano; se queste causano un impoverimento neuro cognitivo a chi le subisce, come è ampiamente dimostrato, causano altresì un impoverimento neuro cognitivo anche a coloro che le somministrano, in quanto provocano un danno alle persone.
Vivendo all’interno di un ambiente passivizzato, con oggetti non posseduti e non personalizzati e senza nessuna caratteristica estetica, le persone acquisiscono sì un adattamento ma un adattamento al ribasso, diventano dunque delle persone totalmente istituzionalizzate, passivizzate; così come i loro carcerieri, non immuni da instituzional neurosis, dalla nevrosi istituzionale.
Come vedete questa è un’altra scoperta interessante che non ci sta tanto con la concezione della malattia mentale come lesione cerebrale irreversibile, poiché le cellule cerebrali non si riproducono.
Essa però, tra le contraddizioni che vi ho raccontato, è la più importante perché spiega un altro fattore essenziale.
Conolly, dopo il suo grande sforzo di liberare le persone dalle catene e dai legacci dando loro una responsabilità gestionale nell’ospedale psichiatrico, osservò che per i primi due anni si ottenevano dei miglioramenti consistenti mentre a lungo andare si aveva la ricaduta passivizzata delle persone.
Altrettanto osservò Simon secondo cui, successivamente a una grande quantità di miglioramenti ottenuti, in un lasso di tempo abbastanza lungo le persone tendevano di nuovo a regredire.
Gli unici che si sono salvati da questa regressione sono stati i pazienti della comunità di Geel, i quali furono tolti dall’ospedale, lo stesso ospedale dove fu scritto “Institutional Neurosis”, che documenta in che modo la gente viene resa passiva e sostanzialmente stupida, dove dunque si puntò il dito contro i fallimenti di Simon e di Conolly.
L’insuccesso di Simon e Conolly è del tutto evidente: le persone lavoravano e costruivano anche bellissimi oggetti ma se dopo qualche tempo non li scambiavano, se non tornava loro indietro nulla, se non veniva messa in moto una qualche relazione, questi oggetti diventavano inutili. È chiaro che se una persona che ha costruito un oggetto con passione e con amore vede che quell’oggetto è inutile, allora anch’essa si sente inutile.
Stessa cosa per quelli che avevano ricevuto una responsabilità all’interno di un circuito organizzativo che era poi lo stesso in cui erano rinchiusi, non al di fuori di lì. Se il destino, se il futuro se lo dovevano organizzare all’interno dell’ospedale, dunque all’interno di un luogo estraneo, in cui non potevano investire nulla perché non c’era nulla che appartenesse loro, è del tutto evidente che dopo un certo periodo regredivano di nuovo.
L’elemento dello scambio e della mediazione d’oggetto diventa dunque un elemento di grande riflessione, ovviamente per quelli che hanno voluto riflettere; torniamo però a quelli che non hanno voluto riflettere e che hanno, giustamente, continuato a lavorare sull’infinitamente piccolo.
Finalmente, tra la fine degli anni ’60 e primi anni ’70, si comincia a scoprire che le cellule cerebrali, i neuroni, gli astrociti, i dendriti, insomma la dotazione cerebrale del mammifero adulto bipede non è affatto immobile, anzi è vorticosamente in movimento.
Quando la Levi Montalcini scopre una molecola, addirittura il fattore della crescita delle cellule cerebrali, si comincia a vedere che: a) le cellule cerebrali non sono un patrimonio definito ma sono tendenzialmente un patrimonio infinito; b) che le cellule cerebrali vivono all’interno di connessioni, sono connessionali, sono connesse tra loro attraverso i dendriti e i neuriti e, inoltre, che la quantità di connessioni aumenta o diminuisce a seconda…vi dico fra un po’ di cosa.
In sostanza, si scopre che la dotazione delle neuro staminali allocate all’interno del sistema nervoso centrale e periferico è una dotazione strepitosa, nel senso che esistono tantissime cellule neuro staminali, molto di più di quante ne esistano di epatostaminali ad esempio; di conseguenza ci sono cellule immature che potenzialmente possono diventare dei nuovi neuroni, o comunque delle nuove connessioni neuronali.
Insieme a questo, si scoprono altre due cose sensazionali. In primo luogo, le cellule cerebrali hanno un’alimentazione, le loro connessioni e i loro numero aumentano e diminuiscono sulla base di un elemento principale, potremmo dire la benzina delle cellule neurologiche e neuro staminali. Cos’è questa benzina? Udite udite: è l’ambiente.
In altre parole, se tu prendi il cervello di un mammifero adulto bipede e lo metti in un ambiente stimolante, allora aumenta il livello di connessioni; in caso contrario, diminuisce. Un dato quantitativo, nessuno ha qui la pretesa di definire la qualità, la qualità delle connessioni è dialettica; io sto parlando soltanto dell’aumento, ma non di un piccolo aumento, bensì di un aumento esponenziale.
L’altra scoperta è l’esistenza del funzionamento apprenditivo, ovvero noi apprendiamo e acquisiamo memoria di ciò che abbiamo appreso. Come avviene l’apprendimento? Dal punto di vista esclusivamente neuorofisiologico, esso avviene attraverso l’attivazione di una tipologia di neuroni specifici, i neuroni a specchio, attraverso dunque l’imitazione. Questi neuroni sono i primi che si attivano e mandano uno stimolo alla corteccia frontale, dove risiedono la memoria e l’origine del movimento, sia comunicativo sia prensile o comunque muscolare.
Ora sappiamo molte più cose, possiamo contare l’infinitamente piccolo poiché si riesce a vedere il funzionamento di una cellula e siamo in grado di sapere quali sono i prodotti biologici delle cellule.
Possiamo inoltre contare le connessioni, quindi si può vedere benissimo se esse aumentano o diminuiscono; siamo in grado di capire qual è il combustibile delle neuro cellule, l’ambiente abbiamo detto, e siamo anche in grado di chiarire alcuni meccanismi fondamentali che riguardano l’apprendimento.
Ciò che risulta interessante non è tanto la scoperta del neurone a specchio in sé, quanto il fatto che il neurone specchio è situato nel talamo, ovvero l’area centrale del cervello. Il talamo è la parte che regge l’appetito sessuale, la fame e la sete, il desiderio, la vita vegetativo-cognitiva, praticamente quella di cui non possiamo fare a meno. Dunque i neuroni a specchio, per determinare l’apprendimento, devono passare attraverso il lobo centrale talamico e ciò significa che l’apprendimento, senza la connessione con la vita neurovegetativa, non avviene.
Certo, lo sapevamo già che noi apprendiamo molto più facilmente quello a cui vogliamo bene e a cui siamo affezionati, quello che ci piace. Quindi cos’è che apprendiamo più facilmente, qual è la situazione ambientale in cui noi apprendiamo più facilmente, quella neutra, secca e senza colori o quella affettiva, quella emozionale?
Ormai è così in termini scientifici e teorici, è evidente che il funzionamento dell’apprendimento passa attraverso l’affettività, il piacere; altrimenti si può ottenere ugualmente, ma con un minor tasso di connessioni, ovvero con minore efficienza apprenditiva.
Forse questo aspetto può sembrare un po’ troppo interpretativo, però esiste un tipo di apprendimento totalmente emozionale, fanaticamente emozionale, che è nel talamo, totalmente auto concentrato. Somiglia tanto al fanatico egoismo dell’artista, all’auto accentramento fanatico di chi si aggancia a un’idea che non vuole abbandonare e su quell’idea reinterpreta il mondo. Adorno definiva la follia come l’aver capito una cosa, l’aver avuto un’idea e non volerla abbandonare; secondo Adorno questa era la follia, non ci andava molto lontano.
Non c’è più dialettica, non c’è più mediazione d’oggetto, non c’è più scambio quando uno davvero reinterpreta tutto il mondo sulla base dell’idea a cui vuole bene, capendo quanto essa sia auto centrata e ricostruita.
Questa idea, però, attraverso l’oggetto, attraverso l’opera d’arte, attraverso il quadro ridiventa comunicativa, per questo forse si dice che c’è un po’ di follia nell’arte. D’altra parte gli artisti che ho conosciuto li ho trovati tutti strani dal punto di vista umano, molto auto centrati, molto legati a questo fuoco interno, come se l’unica mediazione oggettuale che facessero fosse col proprio talamo, col proprio centro del cervello.
Questa è una digressione, però è una digressione autorizzata dal fatto che se i neuroni a specchio che reggono l’apprendimento sono situati nel lobo libico e quindi nel lobo talamico è inevitabilmente pensabile un’interpretazione di questo genere. Poi cerchiamo le somiglianze, naturalmente cerchiamo tutte le somiglianza che ci rendono più facile capire o desiderare alcune cose piuttosto che scartarle.
L’altro aspetto che vi volevo raccontare è quello che riguarda il che cosa fare.
Noi prendemmo una strada che non era affatto nutrita da quest’idea; come vi ho raccontato la nostra formazione era basata sulla concezione che tutto era irreversibile, che chi era condannato era condannato e basta, quindi la diagnosi era un’etichetta, l’etichetta del tuo futuro e del tuo destino irreversibili.
A questa ineluttabilità noi dicemmo no, non ci sembrava possibile, non ci sembrava umanamente possibile. Per cui facemmo sostanzialmente appello al nostro lobo talamico, utilizzando la passione per l’essere umano e per la sua dignità. E il coraggio, il sentimento del coraggio e nient’altro.
Abbiamo messo tra parentesi tutto quello che sapevamo e che ci avevano raccontato, magari era anche vero, chi lo sa, e abbiamo cercato di capire chi fosse quella determinata persona e che cosa avremmo potuto fare.
Se io ti guardo e metto da parte tutto il resto, tu rimani come me, io sono qua e tu sei lì, che cosa facciamo? Intanto te lo chiedo.
La messa tra parentesi è quella che chiamammo allora dottamente fenomenologia, ovvero tutto ciò che si conosce sull’esperienza per poter andare verso la pratica, dove non sai che cosa succederà, altrimenti che esperienza è? In altre parole, se tu metti tra parentesi tutto ciò che sai di una cosa, la cosa scompare e riappare come relazione nuova, quindi come esperienza di nuove relazioni.
Era la fenomenologia che ci insegnava questo, era la fenomenologia classica, era più filosofia allora che medicina o psichiatria o psicanalisi.
In psicanalisi, soprattutto Freud aveva utilizzato molto la fenomenologia e c’è un episodio significativo in cui Einstein scrive a Freud dicendogli sostanzialmente che, dopo aver lavorato molto per arrivare alle sue scoperte, alla fine era però anche in grado di definirle in modo sintetico, di restituirle in una formula matematica, la relatività è una formula.
In un modo un po’ perfido Einstein gli chiedeva se, dopo aver scritto così tanti tomi, alla fine anche lui fosse grado di dare una definizione della salute mentale e Freud, che era anch’egli molto arguto, altrettanto forse di Einstein, gli rispose che la salute mentale è Lieben und Arbeiten, amore e lavoro.
Tenete presente la risposta di Freud, io la capii molto tardi; è sorprendente perché è semplicissima ma dà ragione di tutte le cose che vi ho raccontato fino adesso, come l’investimento affettivo, la trasformazione di un piccolo pezzo di mondo, la relazione d’oggetto. In questo caso però, siamo ancora nell’ambito della relazione d’oggetto non inutile, come il cavallino di legno costruito in continuazione all’interno del laboratorio di ergoterapia che nessuno compra, nessuno vede, nessuno scambia.
Ammaestrati dall’esperienza di Conolly e soprattutto di Russel Burton ed esortati dal coraggio e dalla voglia di provare di Franco Basaglia, siamo partiti alla volta di questa avventura.
Per lungo tempo ci siamo dedicati a cose abbastanza strane, del tipo le donne d’ora innanzi vanno tutte dall’estetista e dal parrucchiere, così come i vestiti si vanno a comprare fuori; mettiamo in piedi delle case e le affittiamo direttamente a loro e poi li mandiamo a scegliersi l’arredamento che preferiscono, degli oggetti che siano belli.
Non vi dico i risultati ma potete immaginare, risultati straordinari, gente incontinente che smetteva di farsela addosso. Questa mediazione di oggetti belli e questo ridare senso all’oggetto corpo per tornare a farlo apparire attraverso l’estetica, questo è il punto. E fu lì che si cominciò a capire la perfetta coincidenza fra l’etica, quindi il rispetto della dignità dell’altro, e l’estetica, e soprattutto si cominciò a capire come la divisione, la separazione fra questi due elementi, etica ed estetica, siano foriere di grandi sospetti, di grandissimi sospetti.
Le persone davvero miglioravano in modo significativo ma per conservare quel risultato dovevamo toglierli da quel posto, dovevamo liberarli, mettere insieme l’etica e l’estetica e farla coincidere con la libertà, allora questo elemento effettivamente rendeva stabile una traccia e dava il senso di una strada.
In un posto come quello, dove il senso delle cose che facciamo e la direzione delle cose che noi vogliamo fare non c’è, da dove si parte? Senza alcun senso e senza alcuna direzione, potevamo partire solo dalla bellezza e su questa ricostruire il senso e la direzione, non c’era davvero altra possibilità.
Proprio in una sofferenza come quella mentale, dove questi elementi sono centrali, il recupero della mediazione d’oggetto e la coincidenza fra l’etica e l’estetica sono la prima cosa da fare perché in quel luogo c’è l’esatto contrario. Andate dentro il vostro reparto di diagnosi e cura che avete al Niguarda qui a Milano, guardate la sciatteria, le persone legate, gli oggetti brutti, gli scantinati, lo schifo; come se la prima cosa che deve sperimentare una persona con malattia mentale o con sofferenza mentale è il bagno di povertà, è la cura del brutto; perché questo è il sistema dell’oppressione, questo richiama alla ferita ineliminabile e irreversibile del cervello. Andate a vedere invece dove c’è coincidenza fra etica ed estetica e quindi coincidenza con la libertà, scoprirete la bellezza, scoprirete che l’estetica degli arredi, la bellezza degli oggetti, la cura dei roseti come a Trieste, tutte queste cose parlano della dignità delle persone.
Questi sono luoghi dove si recano persone che hanno una sofferenza, non è possibile parlare della loro dignità se non permetti che abbiano degli oggetti belli; non puoi parlare della dignità della persona, far sentire che la stai rispettando, se poi la collochi lì su una sedia rotta e con la merda lungo i corridoi. Non esiste la sua dignità, non c’è già più, è inutile che fai le terapie, non ci sono i presupposti, non c’è la coincidenza tra l’etica e l’estetica. In questo modo, non stai ricercando la libertà, stai ricercando un’altra cosa che è oppressiva per lui ma renderà anche te uno scimmione, che oggi la potremmo chiamare una nemesi.
Partendo dalla coincidenza tra etica ed estetica e dalla concezione di amore e lavoro, abbiamo cercato di immaginare un’impresa che potesse avere al suo interno sia i valori del mercato come lo scambio, il guadagno, nonché l’individualismo, la capacità personale, il successo, sia altri valori dettati dal sociale come la solidarietà, il sostenersi a vicenda.
Ci siamo chiesti se fosse possibile far stare insieme queste due cose, Lieben und Arbeiten, e molti che hanno cercato di dimostrare che era possibile hanno contribuito a liberare un pezzettino di ambiente, di situazioni, di persone.
Abbiamo detto che l’ambiente è la benzina, il nutrimento del cervello; bene, se noi immettiamo delle cellule neurologiche nel cervello di un mammifero adulto non ne aumentiamo la prestazione, poiché il combustibile del cervello non è la cellula di per sé ma l’ambiente. L’unico fattore ad aumentare le capacità cerebrali è l’ambiente in quanto aumenta le connessioni, aumenta il numero di cellule, aumenta il numero di ricambi, aumenta il numero di prodotti delle cellule
Il fatto che non sia di per sé la cellula ma la cosiddetta plasticità cerebrale ad aumentare le prestazioni del cervello è un dato acquisito in ambito scientifico ma non ancora in quello culturale, per cui non c’è nessuna plasticità cerebrale se abbiamo ancora la necessità di tenere le persone nella loro caserma, se dobbiamo ancora immaginare che il cervello è un patrimonio immutabile.
Dal punto di vista dell’esperienza, la vicenda del lavoro legato alle abilità, quindi l’inserimento lavorativo delle persone, l’utilizzo delle loro abilità splendide o residuali all’interno di un contesto che fosse un’impresa, è stato ciò che mi ha intrigato maggiormente.
L’obiettivo era che quest’idea fosse legata effettivamente all’imprenditoria, che si potesse garantire uno stipendio e una partecipazione responsabile all’interno dell’organizzazione del lavoro da un lato e dall’altro che si mantenesse intatta la possibilità di accogliere sempre nuove persone.
Le imprese sociali dunque sono state ciò a cui mi sono dedicato di più, non a partire da tutti i ragionamenti che vi ho fatto ma dandoli per acquisiti. Se l’inserimento lavorativo non è tutto, come diceva Robert Castel non è la cosmogonia, è certamente un elemento concreto e centrale sul quale si sono immaginate moltissime iniziative da una parte imprenditoriali e dall’altra fortemente includenti; nulla di interpretativo, semplicemente la salvaguardia della dignità. Esiste il lavoro ed esiste la tua idea che non vuoi abbandonare, mettiamo da parte tutto questo, chiudiamolo tra parentesi per riaprire l’apprendimento, per riaprire l’affettività, per ricostruire il senso di un investimento.
L’ultima cosa di cui voglio parlarvi è inerente alla mediazione d’oggetto, che ho citato poco fa.
All’inizio del 900 un certo Winnicott, un pediatra londinese, si mise a lavorare su una strana cosa: egli seguiva, sotto il profilo pediatrico, dei bambini con dei gravi disturbi comportamentali e cercava di capire, all’inizio attraverso i loro disegni, quali fossero gli elementi che avevano turbato la loro capacità cognitiva e il loro comportamento. Scoprì il cosiddetto oggetto transazionale, in parole povere l’orsacchiotto di peluche o un’oggettino che i bambini appena svezzati si stringono addosso e si succhiano. Attraverso l’oggetto transazionale il bambino scopre di avere un corpo proprio, di avere di fronte degli oggetti che sono il mondo e di non essere più fusionalmente connesso con la madre.
Se nel passaggio tra il distacco dal seno materno e la costruzione dell’oggetto relazionale produciamo un disturbo al bambino, allora creiamo un problema nella sua scoperta relazionale con il mondo, di conseguenza la relazione d’oggetto tende a non strutturarsi.
In realtà, tutti gli oggetti che andremo a distinguere nel corso della vita ci conoscono prima che noi possiamo acquisirne la conoscenza, ovvero predispongono le nostre cellule cerebrali alla tipologia cognitiva di cui abbisognano per essere visti; al loro interno contengono una quantità minore o maggiore di conoscenza, dunque la testimonianza di un investimento cognitivo che permette a noi di apprendere.
Nel caso di un artefatto, di un oggetto antico e di valore su cui molti hanno investito la loro ammirazione e il loro apprezzamento, riceviamo una conoscenza straordinaria in termini neurofisiologici, poiché tale oggetto rappresenta la nostra possibilità di conoscere.
La psichiatria è una scienza di sparizione dell’oggetto, una scienza precisa in grado di far scomparire l’oggetto, nel qual caso il corpo del paziente, che dopo un po’ diventa trasparente in quanto si tiene conto solo dei suoi comportamenti e dei suoi stati di coscienza, di tutto ciò che è immateriale; nessuno si occupa del fatto che qualcuno possa essere vestito male, possa essere bello, brutto, grasso o magro, non c’è un corpo, non c’è nessun oggetto davanti a noi.
Bisognava mediare l’oggetto per ricostruire una mediazione con la relazione d’oggetto delle persone che erano internate negli ospedali, o meglio, che erano internate nella psichiatria. Partimmo proprio dal corpo, perché allora una persona non sapeva nemmeno cosa fosse una parrucchiera, e mediammo la relazione d’oggetto delle persone al fine di aumentarne le connessioni cerebrali, di aumentarne le possibilità cognitive, di moltiplicare le motivazioni in modo che si creasse una possibilità.
Tutt’oggi il problema maggiore è la sparizione dell’oggetto, così come la sparizione dei fatti, infatti la psichiatria non è un sistema di relazione d’oggetto bensì un sistema di dominio, un sistema di dominio anche raffinato.
La necessità di porre in essere la mediazione d’oggetto laddove gli oggetti erano spariti, laddove i domini erano prevalenti, costituisce uno degli elementi fondamentali dell’attività terapeutico riabilitativa che siamo riusciti a costruire.
Abbiamo sempre immaginato la dimensione estetica come dimensione etica e abbiamo interpellato i cultori della bellezza perché la bellezza è il presupposto della terapia; nello stesso tempo, ci siamo dati molto da fare per ideare progetti imprenditoriali che fossero davvero tali.
Dentro la Lieben und Arbeiten c’era qualcosa in più rispetto alla formula della relatività di Einstein, la dimensione affettiva. Quest’ultima non solo media tutto l’apprendimento possibile, o comunque quello maggiormente stivabile nella la memoria o nei depositi della memoria cognitiva del cervello, ma è una vicenda assai poco spiegabile dal punto di vista neuro fisiologico.
La spinta affettiva da un lato è certamente strumentale perché permette alle persone di conoscere e di memorizzare, dall’altro è un fattore di crescita continuativo che per essere tale necessita di una grande quantità di dispersione. L’affettività ha un aspetto strumentale ma anche un aspetto indispensabile di dispersione, ne utilizzi un grammo e ne spendi 99 ma nello stesso tempo quei 99 sono il metodo con cui tu ne riproduci uno. In altre parole, l’affettività ha una strumentalità e una donatività e chi sostiene che la generosità e la donatività sono elementi fondamentali del nutrimento del cervello umano non sbaglia.
Senza una grande produzione di questo tipo di combustibile l’ambiente non si modifica, l’ambiente inaffettivo per noi non è nutrimento, quindi se ne vogliamo utilizzarne almeno un po’ ne dobbiamo produrre tantissimo.
È una vicenda assai interessante come tutto ciò che ha un aspetto strumentale, di auto sopravvivenza per quel che riguarda la specie umana; come la procreatività, ha degli aspetti feroci e degli aspetti iperdonativi insieme.
Questo è in definitiva il funzionamento neurofisiologico, il combustibile, ciò che aumenta le connessioni e toglie la passivizzazione, che aumenta la possibilità riproduttiva cerebrale e la prestazionalità. È ciò che aumenta la nostra possibilità di sopravvivenza, è un combustibile indispensabile ed è per questo che mi azzardo a pensare che forse si tratta di un gene, un gene che fa funzionare la macchina in questo modo, oppure di una malformazione genetica che però ci ha permesso di diventare 5 o 6 miliardi.
Questa malformazione genetica in altri non c’è, ma esiste tutto il problema della biodiversità che sta scomparendo, rimaniamo noi.
Questa è un po’ la vicenda, il futuro non so quello che sarà, ma sono sicuro che sarà splendido.
Paolo Rosa
Non ci hai raccontato niente di queste tue attività di imprenditoria sociale che hanno tanti aspetti interessanti che riguardano sia l’affettività del lavoro ma anche il dono in qualche modo.
Ho dedicato molti anni a questa attività, ero convinto della sua importanza. Per molti anni ho fatto l’imprenditore, lo dico con tranquillità, nasco come farmacologo qui all’Istituto Mario Negri di Milano dove ho lavorato 5 anni.
Detto questo, mi sono occupato per molti anni soprattutto di mettere in piedi delle cooperative che abbiamo chiamato imprese. La scelta non era indifferente, avremmo potuto creare delle società, delle snc, delle srl, delle spa però, a metà degli anni 70, scegliemmo di fare delle cooperative poiché l’aspetto gerarchico che ci interessava molto, inserire delle persone per metterle di nuovo in una situazione istituzionale gerarchica non ci sembrava una gran cosa.
Pensammo che la cooperativa fosse un elemento importante, la cooperativa intesa in un modo molto specifico, ovvero doveva occuparsi anche delle regole di convivenza all’interno del luogo di lavoro.
Le cooperative che ho cercato di mettere in piedi insieme ad altri sono una quarantina in tutt’Italia ed avevano sempre come riferimento una cosa del tutto particolare: la regola benedettina e il capitolato dell’enfiteusi.
Tutte dovevano avere questi due riferimenti, ma non perché io abbia particolari passioni, sono un normale cattolico infedele, molto infedele, però nella regola benedettina e soprattutto dentro al capitolato di enfiteusi ci sono delle cose straordinarie.
L’enfiteusi è un sistema attraverso il quale fu bonificata la pianura padana circa nel 600 d. C. 650 d. C. e a pensarci fu sant’Anselmo da Cividale, l’ultimo principe dei longobardi che ingannò i longobardi schierandosi con Carlo Magno, facendo vincere ai Franchi la battaglia del Cividale.
Egli era un monaco particolare, girò tutta l’Italia con al seguito circa 180 persone, tutti ingegneri; aveva dunque le arti e i mestieri al seguito, per cui arrivava in un posto e ricostruiva un tessuto civile. Così, arrivò nella pianura padana e ricostruì la pianura padana: rifece le chiuse, riconquistò le terre e diede la possibilità a chiunque di coltivarle. Se la pianura padana non è un acquitrino lo dobbiamo ad Anselmo, sono ancora le stesse identiche chiuse, le stesse opere di canalizzazione che hanno permesso alla pianura padana di diventare una terra emersa.
Fu deciso di dare tutta questa terra alle famiglie in enfiteusi, un contratto di affittanza per un lustro, ovvero 25 anni, con comparto fondiario per cui al massimo venivano dati 30 ettari per ogni famiglia.
L’enfiteusi veniva assegnata nella sala del Capitolo delle abbazie, delle 15 abbazie benedettine sparse nella pianura padana, dove veniva dato un regolamento al futuro enfiteuta denominato capitolato, dalla sala del capitolo.
Questo regolamento diceva sostanzialmente questo: prendi pure questa terra però, per prima cosa, mantieni gli anziani, mantieni et honori gli anziani che non possono più lavorare; in secondo luogo dai l’ammasso, ossia il 10 per cento di tutto il raccolto di tutte le famiglie enfiteutiche veniva dato al comune e serviva per il bene comune, per le nuove semenze, per la remunerazione di chi doveva mantenere anziani e disabili a casa, per la remunerazione di coloro che avevano sul loro terreno la manovra delle chiuse, che c’è ancora adesso, infine una parte veniva data ovviamente ai monaci dell’abbazia, loro erano mantenuti ma pregavano, istruivano e tenevano la scuola.
Vicino agli ammassi c’erano le pievi, che erano le scuole, e gli enfiteuti erano obbligati a portare i bambini alle scuole, c’era già la scuola dell’obbligo.
Era dunque un sistema molto vicino alla mediazione d’oggetto; se vuoi la terra allora devi avere una responsabilità sociale, per cui il tuo anziano non lo metti in casa di riposo, lo tieni a casa e lo mantieni, i bambini li mandi a scuola, il matto lo mantieni e lo rispetti et honori, è il regolamento.
L’occidente è stato costruito sull’enfiteusi, sulla regola benedettina; su Sant’Anselmo è stata costruita l’Europa, l’occidente esiste perché sono esistite queste persone, questa è la realtà.
Hanno inventato loro le common law, non discutevano di privatizzazione; noi siamo dei figli degeneri, siamo dei poveri imbecilli su una zattera di merda alla deriva. Noi di tasse paghiamo il 45 per cento, mettiamo gli anziani in casa di riposo, i matti in manicomio, i bambini non si sa dove, del futuro dei giovani non se ne cura più nessuno, tutti si curano del proprio, giustamente. Altro che famiglia enfiteuta, grande civiltà, grandissima civiltà.
Se voi leggete con attenzione la regola benedettina, soprattutto gli allegati alla regola, scoprite che è un capolavoro dal punto di vista neuro cognitivo, un capolavoro straordinario. Era tutto costruito sulle regole dell’affettività, sulle regole di trasformazione dell’ambiente in base all’estetica; c’è tutta una parte che riguarda l’estetica, come tenere l’aia, i materiali da utilizzare avevano delle regole estetiche, quale la regola di come esporre la casa, secondo quali assi, come esporre il letto, la porta.
Nell’enfiteusi c’erano anche degli uffici suppletivi nei quali si potevano coltivare ad esempio le erbe officinali e per chi se ne occupava era prevista una remunerazione; vocational therapy, come ho detto all’inizio, ognuno faceva quello che gli piaceva fare e metteva la sua capacità a disposizione di tutti, e per questo era remunerato.
È tutto regolato all’interno di questi allegati, che sono un capolavoro dal punto di vista della responsabilità sociale d’impresa. Un pezzo di terra in enfiteusi era un’impresa con responsabilità sociale, quindi un’impresa sociale.
La mia idea era esattamente questa, un’impresa sociale basata da un lato sulle regole di mercato, per cui il prodotto doveva essere concorrenziale e di ottima qualità, e dall’altro su un regolamento donativo, bisognava donare, bisognava sprecare. E all’interno di un percorso di appartenenza si butta via tutti insieme, nessuno prende niente.
Innanzi tutto bisognava individuare le tipologie di lavoro, quindi siamo partiti dai lavori più semplici e da un territorio definito: giardinaggio, pulizie, spostamento merci, gestione cimiteri, qualsiasi cosa che riguardava un determinato territorio.
Nel 1986 a Pordenone eravamo 970 soci lavoratori di cui 500 provenivano dai manicomi, tutti pagati alla fine del mese. Quella però era un’impresa di successo perché era un impresa cattiva, delusiva, nata dalla delusione nei confronti degli imprenditori del nord est, ostili ad assumere qualcuno dei nostri, anzi facevano di tutto per liberarsene.
Così ci siamo messi d’impegno, abbiamo fatto dei corsi alla Zanussi e con questa abbiamo creato il grande progetto imprenditoriale delle piattaforme per il recupero dei frigoriferi.
Da che i sani comprano e i matti sfasciano, abbiamo realizzato 9 piattaforme con la Zanussi producendo quasi 400 posti di lavoro in tutt’Italia, dalla Sicilia fino ad Aosta, con persone come da articolo 4.
L’articolo 4 è venuto dopo la 381, una legge disgraziata e assassina varata nel 1991 dalla DC in accordo con il PCI, secondo la quale le cooperative sociali dovevano essere divise in A e B. Le A di assistenza, come i servizi educativi sanitari e sociali, mentre le B di produzione lavoro, dunque obbligate ad avere il 30 per cento di persone con disabilità fisica, psichica, sensoriale ecc.
Le cooperative A in realtà sono state un modo per accaparrare qualche laureato, dargli un tozzo di pane per farlo andare a caccia del disabile, allo scopo di creare un sistema di comunità terapeutiche, case di riposo, strutture protette dove la retta va da 100 a 500 euro al giorno. Sono specialisti qui a Milano, si spenderà un miliardo di euro solo in Lombardia per realizzare strutture protette convenzionate, in cui le persone più sono passivizzate più producono guadagno.
Credevamo di essere usciti in bellezza da quella situazione terribile dei manicomi e invece ci siamo dentro, ancora di più, solo che non lo vediamo perché nel frattempo ci hanno resi stupidi.
Questo è quello che è successo nel 1991 sulla base della scomposizione delle necessità: se la Democrazia Cristiana voleva mantenersi i suoi Fate Bene Fratelli e tutto il resto, il Partito Comunista voleva mantenersi il suo feudo in Emilia e in Toscana; sono affari, grandi affari.
È chiaro che ognuno ha cercato di mantenere la propria autonomia organizzativa e si è separata l’assistenza dal lavoro in modo tale che siamo tutti diventati dei potenziali assistiti.
Se in Europa le organizzazioni del lavoro hanno tutte l’obbligo di inserire persone disabili al lavoro nella quota sindacale che va dal 3 al 6 per cento, le uniche organizzazione del lavoro che non hanno questo obbligo sono le cooperative sociali di tipo A, cioè quelle che fanno assistenza.
Personalmente, nel momento in cui il mio corpo non dovesse più funzionare, in casa di riposo non ci vado per principio.
Volevo sapere il suo punto di vista a proposito del rapporto tra l’affettività, l’apprendimento e le realtà virtuali, secondo lei è una prospettiva positiva o no?
Non ho ancora deciso, ci sono molti aspetti che militano a sfavore e moltissimi altri che sono a favore. Se da un lato c’è il brivido della libertà, il fatto che una persona possa sentirsi così potente da mettersi in comunicazione con altri al di là della terra, possa acquisire dei dati, conoscenze, immagini e sperimentare, dall’altro alcune cose si sono modificate in maniera tale che non si capisce in che verso vanno. Di sicuro ci hanno reso molto più stupidi in termini affettivi in quanto, anziché una relazione o una mediazione d’oggetto, mettiamo in piedi una relazione virtuale.
Nel virtuale scompaiono i corpi, io mi ricordo che quando uscivo con una ragazzina per la prima volta dopo i miei amici mi aspettavano per chiedermi: “l’hai toccata”?
L’affettività passa attraverso gli oggetti e la relazione d’oggetto affettiva è fondamentale, è fraternità.
La fratellanza si è trasformata nella rete web, si è trasformata nelle relazioni virtuali. Ma non c’è trasporto, non c’è più la fratellanza; la libertà si è trasformata nella sicurezza e l’uguaglianza si è trasformata in una parità.
Vivo in un’atmosfera stravolta, che da un lato capisco e mi piace molto, come quest’idea che la libertà sia un brivido e che sia strettamente legata al potere, che possiamo metterci in relazione e venire a conoscenza di cose importanti che altrimenti non avremmo mai l’opportunità di imparare.
D’altro canto mi pare che non si sviluppi fratellanza, forse mi sbaglio. La domanda che fai è una domanda un po’ difficile, francamente penso che un conto sia parlare di rete, di conoscenza, di apprendimento, diverso è parlare di affettività e di comunicazione, sono cose molto lontane tra loro.
L’affettività comporta un investimento, è molto più vicina alla fratellanza che alla rete, è molto più vicina ad una libertà mai inscindibile all’uguaglianza; ad esempio, più si parla di sicurezza e meno mi sento libero, più si alza la sicurezza e più si abbassa la libertà.
Siamo diventati degli infelici, dei poveri disgraziati, dentro a questa rete non ci voglio stare. La mia affettività mi ha portato a fare dei buchi anche quando questa rete era a maglie molto larghe, adesso che questa rete ha maglie molto strette sono diventato un elettrosaldatore professionista.
L’ultimo buchino che ho forato è stato inventare un progetto, il più grande progetto di riconversione di energie da fonti rinnovabili che esiste al mondo.
Esso prevede mille tetti fotovoltaici che danno 3 kilowatt gratis a tutte le famiglie e a lavorare per metterlo in piedi ci vanno quelli dell’ospedale psichiatrico giudiziario, li stiamo tirando fuori, non so se mi sono spiegato.
Ho chiesto al Ministero di Giustizia di investire su un capitale di capacitazione, facendo leva sul fatto che ci sono 750 persone che sono dentro illegalmente, perché nessuno li va a prendere, perché hanno buttato via la chiave e ormai se li sono dimenticati. Persone, donne e uomini, prevalentemente donne. Sono 5 i manicomi giudiziari ancora esistenti.
La mia proposta è stata quella di dare a queste persone che non hanno più niente e nessuno al mondo un capitale di capacitazione, non generico, di 30 mila euro all’anno per 3 anni, se ne spendono molti di più a dargli calci nel culo tutte le mattine.
Questi 30 mila euro per tre anni non se li mettono in tasca, li girano alle cooperative di cui fanno parte diventando soci, attraverso il documento di anticipo servizi della legge 2030 negoziorum gestio, un articolo del codice civile stupendo che proviene dall’enfiteusi.
In sostanza, qualcuno si occupa dei tuoi affari perché tu non sei in grado di provvederci e tu, con le tue sostanze, gli dai la remunerazione che poi ti riconverte sulla base del riconoscimento che devi avere.
Mille tetti sono 3 megawatt e hanno un costo di10 milioni di euro, se chiedo un prestito in banca me ne chiedono 2,5 vincolati.
Il capitale di capacitazione, dato nominalmente a queste persone dal Ministero di Giustizia, serve a coprire questa somma necessaria per il prestito bancario. Non so se è chiaro, firmando un documento di anticipo servizi fatto dal negoziorum gestio posso esibire al momento della richiesta di prestito 6 milioni di euro alla banca, che mi hanno dato il ministero della giustizia che non ha capito niente del progetto.
Abbiamo cominciato dalla Sicilia perché ha 37 per cento in più d’irradiazione solare rispetto ad altre regioni del nord, a Barcellona Pozzo di Gotto abbiamo installato i primi 150.
Questo progetto produce qualcosa come 650 posti di lavoro, di cui 100 e 50 sono i nostri, gli altri sono i giovani, le persone che vogliono lavorare.
Questo scherzetto produce una grande quantità di danaro e nello stesso tempo è una bellissima impresa che regala 3 kilowatt alle famiglie, facciamo lo scambio sociale in enfiteusi alle famiglie che non vogliono pagare più la bolletta, per 20 anni. A loro voltiamo 3 kilowatt, in cambio vogliamo che portino a scuola i figli, quindi c’è il ricatto sociale.
Vi ricordate il regolamento di enfiteusi? Vedete, è la stessa cosa.
Questo è il tipo di impresa sociale lo stiamo facendo in Sicilia, lo abbiamo fatto in Umbria, nella provincia di Salerno, lo faremo anche in Sardegna e lo stiamo facendo anche in Calabria. Ci sono anche investitori privati, le nostre cooperative vanno a mettere il fotovoltaico anche sui tetti degli ospedali di Gino Strada.
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“Sentivo Wordsworth dietro le mie spalle… è stato il Beethoven della poesia”. Dialogo con Massimo Bacigalupo sul “Preludio”, traduzione immane
Nel suo gioco cabbalistico – che continuo a trovare scintillante – Harold Bloom colloca William Wordsworth nell’aula della quinta Sephirot, Din, cioè il Potere, la Giustizia, il Rigore, luogo della disciplina e del discrimine, posto tra Hesed (l’Amore di Dio) e Tiferet (la Bellezza). In quella regione della Cabbala, Bloom installa i poeti che ama, che rappresentano, a suo dire, il potere della tradizione: Emily Dickinson, Wallace Stevens, Robert Frost, T.S. Eliot, Shelley, Keats, Tennyson. C’è anche Giacomo Leopardi. Manca Coleridge. Secondo Bloom, “Wordsworth oscurò gran parte della tradizione precedente consentendogli, come afferma William Hazlitt, di ricominciare da capo su ‘una tabula rasa della poesia’… Dopo di lui, i poeti sono wordsworthiani a prescindere dal fatto che ne siano consapevoli o meno”. Wordsworth, insomma, attua una specie di rivoluzione copernicana nella poesia occidentale: è il poeta che sostituisce all’argomento l’unica cosa degna di essere argomentata, l’io. È una specie di Kant della poesia – Massimo Bacigalupo, suo grande traduttore, usa il paragone con Beethoven. Eppure. In Italia Wordsworth è quasi scomparso – ricordo una antica traduzione Mursia di Angelo Righetti – mentre Coleridge – più semplice, più immediato, più breve, più ‘esotico’ – gode di una fama imperitura, della sua Ballata del vecchio marinaio esiste una rissa di traduzioni (spesso nobili: Mario Luzi, Giovanni Giudici, Franco Buffoni, Fenoglio, Alessandro Ceni…). Nel mondo inglese, naturalmente, Wordsworth è lettura ineluttabile e inesauribile la bibliografia che lo riguarda: Wordsworth and Coleridge: the Radical Years di Nicholas Roe, Wordsworth’s Fun di Matthew Bevis, Wordsworth’s Poetry 1815-1845 di Tim Fulford e The Making of Poetry di Adam Nicolson sono alcuni dei libri più recenti che ho annotato. Per Faber, una selezione di poesie di Wordsworth è curata da Samus Heaney. “Nel tratteggiare il suo progetto, anticipa il cammino dei suoi maggiori successori, da Leopardi a Baudelaire, da Proust a Joyce. Ma nessuno di essi dirà meglio di lui la grandezza e lo smarrimento della scoperta di una nuova sfera dell’umano”, scrive Massimo Bacigalupo introducendo Il preludio di Wordsworth, l’opera più ambiziosa, il romanzo in versi, il poema autobiografico, oceanico, cominciato nel 1798, rimasto nel cassetto per decenni, pubblicato dopo la sua morte, nel 1850. “È una cosa senza precedenti nella storia letteraria”, scriveva a George Beaumont, nel 1805, tanto audace – per felicità lirica, dimensioni, egotismo – da stare al fianco “alle opere in fieri (o aperte) del secolo XX – la Recherche, Ulysses, i Pisan Cantos – meglio che nell’ambito vittoriano”, scrive ancora Bacigalupo. Per i 250 anni dalla nascita del grande poeta, Mondadori ripubblica il malloppo (oltre 500 pagine, ma a 11 euro), tradotto da Bacigalupo nel 1990, con successo (nel ’92 ottenne il Monselice per la traduzione letteraria). Poeta en plein air, dell’io sconfinato al cospetto della natura – “è all’aperto, sulla strada o nella brughiera, non nel salotto di casa che la sua immaginazione si libera al massimo”, scrive Virginia Woolf in un breve studio pubblicato in calce all’edizione –, poeta dell’istantanea giovinezza, di ciò che precede, del pre-, della preface e del prelude (benché il titolo sia stato scelto dalla vedova, Mary), ovvero dell’estrema possibilità, della parola desunta dall’erba e sarchiata dalle nuvole, della violenta innocenza, dello spazio cangiante. Dopo Worsworth, in effetti, tutto è possibile. (d.b.)
Perché Wordsworth è così importante per la poesia inglese moderna? Ma soprattutto: perché è per il lettore italiano, più avvezzo a Coleridge, è difficile capire questa importanza?
Per Harold Bloom Wordsworth ha cambiato il corso della poesia mondiale, anche per chi come Leopardi non lo ha letto. È stato il primo a indagare in poesia i processi della coscienza, le sue intermittenze proustiane, partendo dalle impressioni dirompenti dell’infanzia, e l’ha fatto con una potenza immaginativa e descrittiva “così penetrante”, scrisse Mario Praz, “da non essere superata da nessuno dei poeti inglesi se non da Shakespeare”. In lui troviamo, spiega ancora il sommo anglista, “un rinnovamento del linguaggio poetico, la prima espressione veramente moderna del sentimento della natura, e la scoperta della grandezza e della dignità delle cose e delle persone umili e cotidiane”. Questi sono fatti che riguardano la vita e i sentimenti di tutti, sicché Wordsworth è una grande fonte di ispirazione e anche conforto nei travagli e nelle opacità con cui dobbiamo confrontarci, in ciò simile a Beethoven, suo esatto coetaneo, anch’egli espressione di un romanticismo etico che in realtà va oltre il romanticismo per illuminarci sulla condizione umana tout court. Ben diverso il caso dell’amico Coleridge, autore di tre formidabili e sognanti poemetti (due dei quali incompiuti) e di poche belle poesie riflessive che del resto da noi nessuno conosce. La sua fortuna all’estero si deve all’elemento fantastico, visionario, esotico, alla Poe. Wordsworth, come Beethoven, è un adulto, “un uomo che parla agli uomini” (la sua definizione del poeta, mai sufficientemente praticata). So di lettori italiani perspicaci che non hanno avuto problemi ad apprezzare la grandezza del Prelude, stupiti dalla sua leggibilità, quasi romanzo o memoriale appassionante tanto per le sue indagini sulla coscienza quanto per i grandi eventi cui Wordsworth partecipa: la Rivoluzione francese vista da vicino, in prima persona, con passione, sconcerto, adesione, terrore. Non so in quale altra opera poetica possiamo leggere un resoconto così coinvolgente della storia europea pubblica e privata in anni cruciali. E così semplice e diretto, nella lingua nostra, di oggi, senza abbellimenti, solo con la forza segreta della poesia che effettivamente trasporta e arricchisce chi la ascolta e se la ripete. Apro il Preludio a caso e leggo un verso fra mille: “In silence through the shades gloomy and dark” (IV, 481). È tutto chiaro, diretto, impressionante. Non c’è parola o accentuazione che non sia del nostro linguaggio quotidiano. Il poeta e il reduce incontrato per strada di notte camminano insieme “in silenzio fra le ombre cupe e scure”. La scena è fra le tante memorabili del poema, e getta una luce profonda, attraverso un fatto diretto e reale, sulla condizione umana, la solidarietà che arriva fino a un certo punto. Le ultime parole del povero viandante sofferente sono di nuovo monumentali: “Ho fede nel Dio del cielo, / e nell’occhio di colui che passa!”. E Wordsworth racconta che tornava ventenne da una festa di giovani quando gli toccò vedere e ascoltare. Linguaggio, visione, evento… Le parole dette conservate sulla pagina. È tutto formidabile, incredibile, vero.
Semplifico: il Wordsworth in sodalizio con Coleridge è un poeta ‘rivoluzionario’, quando diventa ‘laureato’ si siede, appunto, sugli allori. E così?
Coleridge scrisse le poesie per cui è ricordato entro il 1800, cioè fino ai ventott’anni. Per Wordsworth, provato da “sventure domestiche e dalle vittorie di Napoleone” (Praz), la fase maggiore, molto più corposa, si chiude intorno al 1808, a 38 anni, che naturalmente sono già più di quelli che ebbero da vivere i poeti della seconda generazione Byron, Shelley e Keats, che tanto da Wordsworth e da Coleridge appresero e derivarono, pur criticandoli negli anni della Restaurazione per la loro svolta conservatrice. Non è che il Wordsworth quarantenne si sieda sugli allori, continua a scrivere con convinzione ma la sua fantasia non ha lo stesso vigore. È comunque da esplorare, ma a noi interessa naturalmente il poeta ineguagliato delle opere maggiori che sono doni preziosissimi per chi sa approfittarne. È ingeneroso accusare un genio di non aver prodotto capolavori per ottant’anni, quando non si finirà mai di scoprire il suo lascito maggiore.
Il Preludio: mi dica, sommariamente, perché è un’opera che dobbiamo assolutamente leggere. O meglio: in che forme ha influenzato la lirica inglese a venire?
Credo che Il preludio cambi la vita di chi lo legge, è poesia che ci porta con generosità alle sorgenti grandiose e semplici da cui è nata. E ci invita a compiere un processo conoscitivo analogo facendoci scoprire la forza (parola importante in Wordsworth) che possediamo e non conosciamo, distratti dalle mille incombenze superficiali. Tradito dalla storia, con l’involuzione repressiva e militare della Rivoluzione, Wordsworth racconta come ci sia un’altra rivoluzione da fare individualmente, arrendendosi al potere della natura e calandosi negli affetti, nell’umano. Ma anche chi esita ad avventurarsi per i sentieri impervi del sublime quotidiano troverà nel Preludio il più emozionante poema degli ultimi secoli, anche solo per quello che gli rivelerà della storia del mondo, di una persona particolare, e della condizione umana, però in un’epoca precisa molto vicina e simile alla nostra anche per i grandi eventi e drammi pubblici che la segnano, per cui è tanto più importante capire dove può stare la vera forza dell’uomo:
… Ah, che tutti i terrori, tutti i primi dolori, rimpianti, sconforti, abbandoni, che tutti i pensieri e sentimenti che sono stati istillati nella mia mente, abbiano potuto comporsi nella calma esistenza che è mia quando son degno di me stesso!
(Preludio, I, 355-61)
Ecco un uomo che riflette sul senso dell’esistenza, e possiede gli strumenti per coinvolgerci in questa ricerca. Anche in questa felicità raggiunta senza ignorare complessità e tensioni, le prove che occorre affrontare. Non sono molte le opere che ci offrono tanto.
Mi sembra che questo Wordsworth sia tra le traduzioni che le hanno dato più gioia (o gloria): è così?
In effetti, è una traduzione di cui sono particolarmente contento. Spero di correggere presto qualche svista che ho trovato rileggendola nella nuova ristampa. Pensi che per un verso bellissimo del Libro X, “Along the margin of the moonlit sea”, la traduzione legge “lungo i margini del mare senza luna”… Certo mentre traducevo trent’anni fa mi sarà parso di leggere “moonless sea”. Strano che anche l’ottima editor della Mondadori, Anna Luisa Zazo, non se ne sia accorta. Se come spero ci sarà presto un’altra ristampa, essa leggerà: “lungo i margini del mare al chiar di luna / battevamo con zoccoli tonanti la distesa di sabbia”… Ma tornando al lavoro di traduzione, ho spesso raccontato che quando nel giro di pochi giorni corressi le bozze del Preludio feci un gran numero di correzioni (anche perché la traduzione, dattiloscritta, era stata portata avanti nel corso di un decennio abbondante, e almeno nei primi due libri si sente ancora una certa differenza di metodo, sono più scorciati). La facilità con cui mi si suggerivano soluzioni mentre rivedevo le bozze mi diede l’impressione che fosse lo stesso Wordsworth a dettarmele! Così in effetti lo sentivo vicino, dietro le spalle. Dopo tutto, quelle parole inglesi le ha scritte lui, sono quasi fossili e reliquie che hanno viaggiato nella sua mente e ora nella mia. La contemporaneità di Wordsworth non è mai venuta meno, perché non c’è nulla nel Preludio che un uomo di oggi non possa sottoscrivere, sia nel linguaggio che nei contenuti. E anche un po’ della sua poesia può rinascere nella traduzione dalla potenza di quella visione:
Così il sentimento assiste il sentimento, e una molteplicità di forze è nostra se almeno una volta siamo stati forti. O mistero dell’uomo, da che profondità procede la tua gloria…
(XII, 326-30)
*In copertina: William Wordsworth nel 1798, l’epoca in cui si accinge a scrivere “Il preludio”
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