#Alfano da Termoli
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giuseppelaporta · 2 years ago
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La Triplice Cinta della Cattedrale di Termoli, un simbolo legato alle Reliquie di San Timoteo
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lospeakerscorner · 6 years ago
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di Michele Di Iorio
Andando da Napoli verso il Miglio D’Oro, nel Casale di Barra, poco prima di San Giorgio a Cremano, si incontra una delle più belle dimore vesuviane, Villa Giulia,.
Villa Giulia fu costruita nella seconda metà del ‘700  per volere del principe don Domenico Cattaneo della Volta, principe di San Nicandro o Sannicandro, precettore del futuro Ferdinando IV di Borbone.
.Il nome della celebre Villa di Barra viene dal ricco e fortunato matrimonio di don Domenico, nel 1717, con donna Giulia de Capua, erede del ducato molisano di Termoli e di altri feudi minori nella provincia di Capitanata e della Contea di Aversa.
Don Domenico fu gentiluomo di corte del re di Napoli e suo ambasciatore in Spagna, nonché Cavaliere di San Gennaro e del Toson d’Oro e Grande di Spagna. Per dieci anni fu Consigliere di Stato e presidente della Giunta di redazione del Codice civile del Regno, detto Carolino.
Il Sannicando fu un abile amministratore, e incrementò il proprio già cospicuo patrimonio comprando dal Regio demanio, il ducato di Salza, che comprendeva i feudi di Parolise, Volturara, Montemarano nell’avellinese, il feudo di Pomigliano d’Arco, il feudo napoletano della Duchesca
Domenico di Sannicandro decise di lasciare il palazzo al quartiere Stella per essere più vicino alla Reggia di Portici. Nel 1760 affidò quindi a Francesco Collecini i lavori di trasformazione in “villa di delizie” della masseria Cattaneo di Barra, da eseguire sul progetto grafico dei Real architetti Carlo e Luigi Vanvitelli. Successivamente all’esecuzione dell’opera si affiancarono anche Pietro e Marcello Fonton.
Una volta insediatosi, dalla tranquillità della Villa di Barra, il principe Domenico continuava a dirigere i suoi affari, talvolta in contrasto con la politica del Primo Ministro Tanucci.
L’edificio si presenta con una facciata in stile Rinascimentale. Circondato da un vasto parco, i viali del giardino si snodavano tra piante di yucca e cactus, e soprattutto di camelie, fiancheggiati da sedili di marmo con schienali in piperno. Accanto al boschetto di lecci si ergeva una vasca con ninfee.
Villa Giulia venne man mano abbellita: la cappella fu arricchita da altari in marmo pregiato, l’architetto Luca Vecchione abellì la galleria del piano nobile, furono posizionate due splendide statue in marmo di Carrara.Anche il giardino accolse ancora più piante ornamentali, sotto la guida di Antonio Nicolò Alfano.
Nel 1886, la discendente donna Giulia Cattaneo dei principi di San Nicandro, dama di corte della regina Margherita di Savoia, moglie di  don diego Pignatelli Aragona Cortes duca di Monteleone, fece effettuare notevoli restauri al piano nobile con decorazioni di Ignazio Persico e Salvatore Cepparulo. L’edificio venne dotato anche di un pergolato in ferro battuto per consentire passeggiate all’ombra e di una serra in ghisa, Vennero aggiunte nuove piante, come i banani, curando comunque le specie già presenti.
Alla morte di donna Giulia la Villa passò in eredità a Diego de Gregorio marchese di Sant’Elia, proprietario anche della Villa De Gregorio di Torre del Greco, che aggiunse al proprio il cognome quello di Cattaneo. Villa Giulia appartiene ancora oggi ai discendenti di questa nobile famiglia.
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La Villa Giulia a Barra di Michele Di Iorio Andando da Napoli verso il Miglio D'Oro, nel Casale di Barra, poco prima di San Giorgio a Cremano, si incontra una delle più belle dimore vesuviane, Villa Giulia,. 475 more words
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giuseppelaporta · 16 years ago
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Personaggi, Creature e Simbolismi raffigurati nel Pulpito Romanico di Ferrazzano, Federico II e la maestria di Alfano Da Termoli.
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La Regione Molise, sin dal primo istante della sua nascita, così come nella precedente parte di secolo, ha dimostrato di possedere una lunga lista di misteri accumulatisi con il tempo, man mano che le migliori menti erudite del passato, ponevano questa circoscrizione giuridica sotto la loro ‘’lente d’ingrandimento’’, quando s’imbatterono in sempre più copiose scoperte o riscoperte nell’ambito dell’archeologia antica e medievale, constatando sempre più della enorme variegatura che presentava non soltanto la storia insediativa del Molise in sé, ma della enorme familiarità artistica e culturale che tale territorio aveva nei confronti delle vicine regioni attualmente contigue, come la Campania, Puglia ed Abruzzo.
Nella nostra opinione, per quanto di modesta rilevanza ma di dovuta formulazione, il concetto di ‘’isolamento’’ che postularono i tanti eruditi che qui misero piede ed occhi nel corso delle loro ricerche, era dettato dalla stessa decadenza dell’ultima età contemporanea che subirono molte regioni meridionali, tra cui proprio il Molise, che finì per sigillarsi in questa giurisdizione politica e sociale, che poco ha comunicato e poco comunica con le vicine regioni italiane, il che spiegherebbe grossomodo come mai ancora in questi anni ci sia bisogno di incentivare ed ampliare lo sguardo su molte questioni culturali del nostro territorio, per vari settori e anche per varie epoche specifiche, ma dove ormai, l’unica cultura tradizionale che la gente locale percepisce come sua unica entità, è proprio quella sub-cultura collegata all’ultimo ‘800 e ‘900, dove le grandi realtà del Regno e delle sue contee, provincie e feudi, erano ormai degradate a piccoli sobborghi diruti, modeste regioni e rovine infestate e spoliate delle loro vesti marmoree, utili più ai minuti abitanti della natura come loro dimora, che non ai ricchi signori del tempo, parodia degli antichi reali, cosa che dunque spinse la critica storica italiana a definire la nostra come un’area artistica di tipologia minore, riprendendo le parole della storiografa Luisa Mortari, argomento quello dell’entità di un’importanza historica di una produzione artistica, molto discusso nel vecchio secolo, in cui il fuoco di questa dinamica artistica viene spesso associato ai grandi centri contemporanei che sono sopravvissuti alla ghigliottina dei secoli e della labilità politica e demografica, facendo cadere tutto ciò che è considerato ‘’alla periferia’’ di tali fuochi nel grosso calderone delle modeste botteghe locali e prive d’inventiva, unico rifacimento di qualcosa di già visto e mai sperimentato, che per fortuna pare sia un concetto volto quasi al suo crepuscolo.
Di recente i nostri viaggi e sopralluoghi per la terra molisana, ci hanno condotto in una bellezza, che nella gioventù dei nostri avi, non potevamo di certo immaginare, o quantomeno comprendere.
Siamo giunti nel Comune di Ferrazzano, che con la sua mole, si arrocca e cinge a guisa della sua splendida chiesa matrice dedicata al culto della Vergine Maria Assunta in cielo, una basilica suggestiva, che nel suo sagrato è guardata da una croce viaria, come quasi ogni luogo di culto della Contea di Molise e della Capitanata, e del cui uso e ambito storico abbiamo già avuto modo di discutere in tante occasioni.
L’aspetto odierno configurato dal tempio non è di certo quello ch’ebbe in origine, vista la sua fondazione medievale tra XI e XII secolo, non escludendo la presenza di fasi più antiche come dimostrano alcuni elementi strutturali dell’edificio, con molti rifacimenti ed ampliamenti tra i secoli XIII, XIV e XV, certamente incentrati in molti accadimenti, dalle dotazioni alle ricostruzioni per causa accidentale dopo la distruzione causata da uno o più sismi, e anche eventi atmosferici inaspettati.
L’impianto attuale, tra i vari cuci-scuci e ristrutturazioni, viene certamente dall’opera del Mastro Ludovico da Pescopennataro (XVIII sec.), il quale ne eseguì una rivoluzione degli interni e parzialmente degli esterni, in pieno stile barocco, dandole la conformazione finale ad aula che vediamo ancora oggi, sin dalla sua riconsacrazione nell’anno 1730, ad un anno dal completamento del cantiere, che ancora doveva vedere finita l’alzata della torre campanaria, crollata nel 1658 a causa di un fulmine, ma che in verità cedette per annosi problemi strutturali.
Sebbene della vecchia basilica resti poco, tra i molti dettagli dei portali, lunette e colonnine, c’è un particolare del suo arredo liturgico davvero singolare, unico e molto enigmatico, che rimanda ad un passato di questa terra che nel tempo è andato a disgregarsi, ovviamente si sta parlando del pittoresco Pulpito romanico di Ferrazzano, posizionato al lato destro del presbiterio, che fa capolino negli occhi d’ogni passante che staziona per la larga navata, come un antico urlo di storia che affiora dalle pietre della chiesa matrice, volenteroso di poterla raccontare e preservare nonostante le impervie strade del tempo.
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Questo prezioso arredo si mostra oggi con un ricco carme micro-architettonico, che nella totalità strutturale è inscritto in una struttura detta ‘’a cassa’’, sorretto nei quattro vertici da colonne munite di plinto classico, del medesimo marmo bruno rossastro, a carattere misto, sia omogeneamente cilindriche, ottagonali e tortili come nel caso dello schema retrostante.
La struttura continua verticalmente su una doppia coppia di capitelli ‘’a crochets’’, decorati da figure zoomorfe ed antropomorfe centrali, costeggiate dai getti di acanto spinoso contorto in un ricciolo nelle punte, ma anche di altre tipologie fitomorfe più semplici e massicce, tipiche delle influenze di matrice gotica, il tutto terminante con i tre paramenti a cassa, sorretti da tre archetti, due dei quali trilobi e decorati da una cornice ‘’a palmetta casauriense’’.
Gli abachi dei capitelli sono alquanto semplici anche se dimostrano in più punti di non essere stati portati a compimento, e di aver subito molteplici danni al seguito di un urto, probabilmente registratisi nelle cause che fanno evidenziare in maniera palese un riassemblaggio del registro superiore, come si evince dalle interruzioni dei tralci floreali, delle firme non terminate o cancellate come si può leggere su di uno ‘’…HOC OPUS F…’’, e anche nel contrasto tra i due corpi sovrapposti, nel cui primo troviamo, come grande evidenziatrice di detta suddivisione cronologica, una cornice che cinge il piano, alternata a girali fruttificati e piccoli individui intrecciati al loro interno, originati dalle bocche di mascheroni sputa-racemi posti agli spigoli.
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La cosa più complessa di questa opera d’antica mano, è la immensa simbologia che essa porta su di se, che sembra balzare in maniera bivalente tra gli elementi del sacro e del profano, portandoci a molte riflessioni sulla ricerca di una o più chiavi di lettura possibili sul suo conto, visto soprattutto che nella storia dell’arte e dell’architettura nulla è dato dal caso, e non sempre ha la spiegazione più semplice, ma come in questo caso, ci ha condotti a dover approfondire numerose ricerche d’archivio e a chiedere un parere ai più disponibili.
Partendo proprio dai personaggi sopracitati, che troviamo nel primo capitello di destra, essi sono stati il particolare che più ci ha colpito di tutta la costruzione, soprattutto per la finezza dei dettagli e per le caratteristiche ‘’tipiche’’ con cui sono stati eseguiti sulle quattro facce, e che sembrerebbero avere un simbolismo univoco, o apparentemente unito da una filologia ricercata ed arcana per una mente contemporanea.
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La prima figura che accoglie il passante, è quella di un fiero Re, dalla grande corona tricuspidata, con una posa benedicente ‘’alla greca’’, recante nella mano sinistra un manoscritto, circondato poi, nella faccia sinistra da un dromedario dai dettagli impeccabili, a destra da un uomo che uccide una creatura alata dalla lunga coda, e nel suo retro da una fanciulla che si regge con la mano le lunghe vesti, e al contempo dona un fiore, una rosa canina forse, seguendo le principali infiorescenze del panorama simbologico del romanico centro-meridionale.
Certo abbiamo avuto non poche difficoltà per postulare determinate ottiche in corrispondenza di una ‘’traduzione’’ d’un così articolato rompicapo, che nel passato magari avrebbe dato minor filo da torcere ai fedeli che ivi esercitavano la loro fede.
Tanto per gettare le prime basi, ci siamo concentrati sulla figura del barbuto Re, che troneggia nella parte riferibile come soggetto di questo significato nascosto, e quasi immediatamente si era interposta anche da parte del clero locale, la possibilità, pressoché tradizionale, di vedervi la leggendaria figura del Re Bove, una storia folkloristica che si sviluppò nell’alto Molise in tempi remoti, che vede come protagonista un Re, che pur di sposarsi con una sua congiunta di cui era invaghito, scenderà a patti con Lucifero.
La leggenda prevede che questo Re avrebbe dovuto costruire molteplici chiese in un tempo esiguo, e che nella sua ricca enumerazione faccia capolino proprio la basilica matrice di Ferrazzano, com’anco pensano generalmente gli eruditi locali, seppure come già abbiamo avuto modo di esporre, l’antica favola sia più recente di quanto non ci si aspetti, visto che in realtà risiede nelle ricerche del canonico ferrazzanese Francesco De Sanctis (XVII secolo) che nel suo ‘’Notizie Istoriche della Terra di Ferrazzano (1699)’’ in epoca Ferentino del Sannio, descrive il pulpito in questo modo;
‘’il Pergamo fa qualche buona figura con pietre lavorate composte con non dispregevole disegno, situato sopra quattro colonnette, che sebbene siano di pietre del paese, con tuttociò rilevano colori diversi, e rimantengono lo lustrore, i capitelli sono con vari, ed intrecciati lavori rilevati, e contornati, ed in uno di esse vi è la figurina d’un Re anche con la corona in testa seduto in trono, dicono essere del Re fondatore della Chiesa, la quale all’uso di que’ tempi non era in perfetta simetria, e consiste nella nave di mezzo di proporzionata lunghezza, e larghezza, gli archi che divideano la nave di mezzo dall’altre due in cui eran le cappelle, eran diseguali, ed incorrispondenti, la soffitta con travatura scoperta…’’.
Il De Sanctis proseguiva nei confronti di detto re come di seguito;
‘’Quindi per dare qualche notizia della fondazione della nostra Chiesa Arcipretale, è necessario che mi avvalga della Tradizione del Volgo favolosa in quanto al nome del Fondatore; essendoché da vecchi Cittadini, così di Ferrazzano, come di altre convicine terre è precorsa sempre voce, che un certo Re Bove avesse edificato sette Chiese nella nostra Provincia, e che una riguardasse l’altra, e tutte dedicate alla gran Madre di Dio; la prima sarebbe quella nel feudo di Monteverde della giurisdizione della Terra di Mirabello, la seconda la nostra di Ferrazzano, la terza la Collegiata di S. Lonardo in Campobasso, la quarta Santa Maria di Cercemaggiore, la quinta Santa Maria della strada della terra di Amadrice, la sesta il Duomo della Catedrale di Volturara, e della settima non hò notizia; e tutte sono di una medesima costruttura, cioè le mura esteriori con pietere lavorate a scalpello: nella cima, ed in altri luoghi rilevano alcune teste di Bue, da cui è nata la mentovata tradizione, che il Re Bove ne sia stato il fondatore ingiontole per penitenza spirituale dal Papa per la dispenza ottenuta di potersi sposare una congiunta in moglie‘’, egli diede molta più importanza alla leggenda, imbattendosi poi nell’arca funeraria trecentesca del conte Berardo D’Aquino, nella badìa di Santa Maria Della Strada, da cui avrebbe mal interpretato l’inizio d’attribuzione dell’opera ‘’HOC’’ con ‘’BOE’’ o boa, collegandoci di conseguenza una enorme ricerca incentrata sulla figura di questo misterioso Re Bove, nel cui operato avrebbe marchiato le chiese da egli costruite con il suo essere di bestia, e la cui persona avrebbe collegamenti ancestrali con la nascita della stessa Bovianum, o come alcuni hanno ipotizzato, sarebbe da rintracciarsi nella figura di Guglielmo il Buono, anche se negli scritti il De Sanctis riuscì a dare luogo ad una complessa ricerca su base di signorìe del tempo, estrapolando come identità del famigerato Re Bove, quella del Re Ferdinando D’Aragona ‘’Re Delle Spagne’’, che qui vi edificò o meglio ‘’ri-edificò’’ numerosissime chiese matrici e cattedrali, compresa buona parte della cattedrale di Termoli in virtù dei danni cagionati dal terremoto di Santa Barbara nel dicembre del 1456, espandendo così il numero reale delle suddette chiese nominate nella leggenda, discostandosi definitivamente dalle strutture d’età arcaica, fermo restando che tutte queste teorie sono comunque decadute a prescindere, proprio per via dell’ origine della loro formulazione, incentivata da un errore di traduzione o lettura dei caratteri epigrafici della tomba di Matrice, seppure sembra esser certa la nascita attorno alla figura di Ferrante I.
Escludendo il folklore locale, ci si potrebbe muovere in altre direzioni, in una che le vede come frutto di una simbologia sacra, come largamente venne presentato negli studi storiografici dei luoghi di culto, oppure, seguendo una più moderna ed elaborata riflessione, seguire una linea filologica di carattere profano, com’anche è stato riscontrato in molteplici opere dello stesso ambito a cui appartiene il pulpito di Ferrazzano.
Seguendo la prima, nell’ambito sacro non c’è figura regnante più comune e significativa per antonomasia del Re Salomone, che si ricollegherebbe grossomodo con la fanciulla presente nel lessico, se ci basiamo sulle scritture del Primo Libro dei Re, nell’Antico Testamento, in cui la Regina Saba, andò al cospetto del Re Salomone per testare il suo intelletto mediante enigmi e trabocchetti, seguita nel suo cammino verso Gerusalemme, dalle sue genti e servitù, in groppa a moltitudini di cammelli e grandi ricchezze da porgere in dono al Sovrano della futura Terrasanta.
La figura della Regina equivarrebbe a quella della chiesa stessa, e come si evince nell’Historia Trium Regum di Johannes De Hildesheim, ella sarebbe collegata alle figure dei Re Magi, come loro antenata, e il cui tesoro donato al sovrano, in parte arriverà dopo vari scambi, al cospetto del figlio di Dio.
In correlazione con le tre figure analizzate, vi sarebbe poi l’individuo che, con un’accetta, uccide fermamente una creatura dalla lunga coda che si avvinghia alle sue gambe, ricoperta di squame che paiono mescolarsi a corte piume, specialmente nelle ali ritratte, e che dal volto sauresco sembrerebbe mostrarci l’uccisione di un drago, o meglio, di una figura che nel vasto simbolismo religioso è accomunata a quella del drago e della viverna, una creatura che specialmente in questi anni, i più giovani ed amanti del fantasy hanno portato alla loro attenzione, anche se con una forma ben diversa dalla sua originale sembianza mitologica, e sto ovviamente parlando del Basilisco, creatura che nella cultura occidentale europea mantiene delle similarità con altri ibridi fantastici tipo il Bisso Galeto in Nord Italia e la Coccatrice, che a differenza del colossale serpente albergante la Camera Dei Segreti, si trattava più propriamente di un essere abominevole, di più modeste dimensioni, dal corpo altresì ibrido, metà rettile e metà gallo, spesso raffigurato in bassorilievi come si nota nei girali della Cattedrale di Bitonto, in varie basiliche di matrice visigotica della giurisdizione di Burgos, nel battistero di parma e nel paramento papale della basilica di San Francesco d’Assisi, seguiti ovviamente da innumerevoli bestiari e incisioni in cui allo stesso modo la fiera è mostrata con un volto draconico o da volatile, e da un non preciso numero di zampe posteriori, alternate da lunghe code talvolta terminanti con una seconda bocca grottesca, ed ali strappate a mò di pipistrello o di entità demoniaca.
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Elemento fondamentale di ogni studio basato sui bestiari, è ovviamente il trattato Physiologus, dove fanno capolino numerosissime fiere ed animali esotici e non, specie botaniche ed eventuali esseri mistici del folklore medievale.
Ed è proprio in questo, come ovviamente nei più celebri bestiari, che ricorre anche il simbolismo sacro nascosto dietro le bestie prese in dettaglio, dove il significato più comune è quello della contrapposizione tra il bene e il male, la forza della sfera sacra contro quella blasfema, più propriamente descritta dalla Vittoria dell’uomo contro le tentazioni del peccato, che riscontriamo copiosamente soprattutto nei programmi iconografici di detto ambito romanico, con un esempio vivido nelle sculture leonine della cattedrale di Termoli (Leone destro che agguanta un serpente), di quella di Bitetto e così via anche nella basilica di San Pietro a Pistoia, ove la creatura incarnate il male è trasposta proprio dal basilisco.
Il concetto poi, è spesso trasposto da una figura umana che incarna il potere della chiesa, la quale trafigge a morte il rettile maligno tenendo una postura vittoriosa e di resistenza, che facilmente è riscontrabile nel panorama culturale italiano, in cui è molto vasto il numero d’entità sacre che uccidono il maligno, monaci missionari, arcangeli ed anche cavalieri, come nel caso di San Mauro, Teodoro d’Amasea e del più celebre San Giorgio Martire, il cui culto è molto sentito nella nostra regione dopo quella principale per l’indiscusso Arcangelo Michele, che a sua volta incarna questo lessico ardito nella forma più primitiva e chiara, dove la creatura maligna è mostrata nelle sue reali sembianze umane.
Qui subentra un dettaglio interessante, in quanto nelle terre umbre è possibile trovare una delle poche sculture davvero simili al rilievo del pulpito di Ferrazzano, se non un suo sosia esatto, che si specchia quasi nella sequenza posta alla base del rosone della basilica intitolata a San Felice di Narco (Santa Anatolia di Narco), dove si scorge il padre, San Mauro appunto, immortalato nell’atto dell’uccidere un drago ‘’pestilenziale’’ nel luogo in cui, secondo l’agiografia, esso edificherà il ricco complesso monastico, dove in precedenza si aveva un luogo immondo ed infecondo, denso di maleodoranti acquitrini ed abitato dal rettile malefico.
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Un simbolismo che si divide sia nell’assonanza con la santificazione del luogo privo d’un dio, sia nelle grandi similarità lessicali che si trovano nella produzione artistica umbra e marchigiana, ove l’uccisione del rettile viene accompagnata alla celebrazione della bonifica di un territorio ‘’malarico’’ ed occupato da acque infeste.
Allo stesso modo si può leggere una piccola e singolare scultura mozza, che si poggia su una delle foglie del terzo capitello di sinistra, in cui sono riconoscibili le gambe d’un uomo nudo che è avvinghiato dal corpo di un altro rettile per adesso anonimo, ma che sembrerebbe essere simile ad una salamandra, che nei bestiari la si può trovare spesso legata al concetto della resistenza alle fiamme, in cui essa dimora, sia con quello della resurrezione dopo la morte, e quindi evidenziandosi come uno dei pochi rettili con accezione anche positiva nel linguaggio sacro.
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Questo è un caso molto curioso, che dà una certa importanza alla lettura del pulpito, quasi isolando la faccia del capitello dal collegamento filologico di tutta l’opera, e portandoci quindi ad optare in una sorta di seconda lettura del paramento ecclesiastico, quasi come identificandosi in una chiave d’ambito profano anziché sacro, e ce lo fanno capire molteplici dettagli, ad iniziare dalla composizione del tutto, come trasposizione di una scena da ricca corte, come nelle pitture di Palazzo Finco di Bassano del Grappa e via via discorrendo, portandoci su una conclusione che ci sembra molto possibile analizzando vari punti, in primo caso la simbologia esecutoria dei personaggi nel contesto politico duecentesco e delle maestranze che lo hanno modellato.
Un dettaglio fondamentale potrebbe essere quello del Re in posa trionfante, che come si era spiegato in precedenza, manterrebbe le caratteristiche di una figura benedicente, elemento comune dei personaggi sacri che nella loro iconografia si mostrano al fedele tendendo sul petto la mano chiusa, con sollevate le tre dita.
Ebbene la mano di quest’uomo potrebbe celare un simbolismo ricercato di matrice classica, tipico delle produzioni sperimentali dell’età federiciana, in special modo se legate strettamente alla figura di Federico II di Svevia, dove egli è ritratto in una sorta di ambito ideologico e tipicizzato, che va dai molteplici esempi, per altro simili, delle effigi sveve della zecca e delle molte miniature come nel manoscritto ‘’De Arte Venandi Cum Avibus’’, e tante altre com’anco nella cerchia degli imperatori del Sacro Romano Impero, dove lui figura alla fine del sarcofago di Carlo Magno nella cattedrale di Aquisgrana.
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Lo Stupor Mundi in tali occasioni si mostra non solo con la caratteristica tipica del ‘’Cesar Semper Augusti’’ per quanto riguarda il suo volto limpido e giovanile, ma anche con un vero e proprio sigillo identitario che lo mostra assimilabile alla figura del Re di Gerusalemme, in cui Federico si riconosceva in quanto tale, troneggiante e con la mano in posa regale ed al contempo giudicatrice della sorte altrui, una tradizione figurativa originaria della Roma Imperiale e che secondo numerosi storiografi del secolo, sarebbe da ricondursi a progenitrice della stessa mossa austera del Cristo Pantocrator ancor più che benedicente, come dio reincarnato che soppesa la nostra persona e la sua stessa esistenza, e la scruta con lo sguardo severo.
Questo dettaglio potrebbe indurci quindi a pensare di trovarci proprio al cospetto dell’Imperatore svevo, e ad aiutarci per una più vasta chiave di lettura c’è proprio una produzione letteraria contemporanea dello stesso, un trattato dell’astrologia medievale, commissionato da Federico II al noto astrologo siciliano che identifichiamo con lo pseudonimo di Georgius Zothorus Zaparus Fendulus, che traducendo le opere dell’astrologo arabo Abu Ma’shar, diede alle ‘’stampe’’, il Liber Astrologiae, in cui sono appunto presenti vari elementi zodiacali, costellazioni e così via, alternati da personaggi a loro volta reali ed anche ispirati agli stessi.
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Nel manoscritto di Fendulus troviamo proprio una scena che collegherebbe in qualche modo le figure di Federico II, del dromedario e della fanciulla con l fiore, siccome è presente come vi mostriamo, una scena che ci mostra l’imperatore sul suo trono e con la posa sopra descritta, seguito nella lettura da una fanciulla in groppa ad un dromedario, il tutto cinto dalle parole che seguono;
‘’Iuxta indos camelum sedens pilosa pannis induta cum Kartan e veste pilei, inter manus ei castella redimiculata continens’’
Tradotto; ‘’vicino a lui siede un cammello vestito di manto peloso, con un kartan e un copricapo, che nelle mani tiene le castella riscattate’’.
A questo insieme si aggiunge certamente la componente delle committenze e delle maestranze attorno cui ruota questo arredo liturgico del ricco vestimento, e pertanto si può andare ad analizzare una piccola raccolta d’informazioni archivistiche trapelate per giunta dai regesti Gallucci, della diocesi bojanense di cui faceva parte questo tempio, e potrebbe rientrare nel primo documento che è un Instrumento redatto da Guglielmo de Bojano nell’anno 1241, in cui fa capolino l’inventario commissionato dall’Imperatore a Giovanni Capuano Da Napoli, come espone come segue; ‘’dello thesoro e de tutte le cose pretiose delle chiese delle diocesi di Venafro, Isernia, Boiano, Guardia Alfiera e Trivento, ossia dell’oro, argento, pietre pretiose e paramenti di qualsivoglia sorta e forma si fossero’’, ulteriori riferimenti diretti alla cittadella di Ferrazzano, si hanno nell��anno 1212 dove si legge d’un privilegio dell’Imperatore in favore del camerario Villio de Ferrazzano.
Non essendoci dunque dei legami strettissimi con Federico II ma esclusivamente circostanziali, la lettura federiciana e di devozione verso quest’ultimo, la si deve ricercare nel magister che ha operato in questa basilica, e che probabilmente veniva da altri luoghi in cui magari egli si è formato ed ovviamente ha dato alla luce una ricca produzione artistica.
Qui si riprende anche il concetto della cultura artistica sviluppatasi in queste aree geografiche centro-meridionali a ridosso dell’età delle crociate e della ricca comunicazione tra maestranze incentivata soprattutto e perfezionata sotto l’impero del puer apuliae, dove ebbero il loro inizio molti esponenti appartenuti alle vaste cerchie di prediletti tramandatori di questo stile sperimentale, sviluppatosi a qaunto pare proprio nel territorio intermedio tra il meridione e settentrione.
La vivida plasticità e ricerca ardita della fattura classica e iperrealistica, ci dimostra d’essere pienamente una componente artistica della tipica produzione federiciana della metà del XIII secolo, all’incirca tra gli anni che vanno dal 1220 e il 1240, un ventennio pregno di evoluzioni d’uno stile romanico che si considererebbe di ambito pugliese, espansosi e fiorito in altre località come la campania e gli abbruzzi, nonché la basilicata e talvolta se pur in maniera alterata, giungendo tardivamente nelle coste opposte dell’Adriatico, come a Ragusa e Zara, ed anche più a nord della penisola come nelle Marche, al seguito di cooperazioni d’ambito commerciale intrattenute dai centri costieri del territorio apulo, in cui si annoverava la città fortificata di Termoli, sede di molteplici maestranze federiciane, di ricche committenze basso-campane e di commende crociate che usufruirono della cittadella come sbarco ed imbarco per la Terra Santa.
Le tracce di questa architettura, che potremmo considerare un Gotico Nascente, si rintracciano nella fusione di elementi classici dell’architettura romanica tradizionale del XII secolo, impregnata di maestria orientale, araba e bizantina, unita al carme stilistico dei paramenti di derivazione profana, riconvertiti in ambito sacro, con l’unione della verticalità e solidità compatta delle maestranze francesi, probabilmente di ritorno dalla Terra Santa, e che a loro volta influenzarono ed appresero nuovi ed avanguardistici metodi esecutivi, che traducevano al meglio una unione con le maestranze di origine araba, che a loro volta operarono nelle nostre terre, in gran parte nelle colonie saracene del Regno di Sicilia, ma anche nelle suddette rimpatriate al seguito di una crociata.
È chiaro alla nostra mente quanto non possano essere trascurabili le influenze di matrice islamica nella produzione artistica locale, che avrebbe generato un vero e proprio centro nella terra di Capitanata, dei cui principali cantieri, riferibili come fuochi di questo movimento, si riscontrano quelli del complesso di San Clemente a Casauria, il cantiere federiciano della Cattedrale di Santa Maria della Purificazione a Termoli, quello iniziale della basilica di San Giovanni in Venere a Fossacesia, e per quasi terminare grossolanamente, nel cantiere della Cattedrale di Foggia, da cui sarebbe propriamente partito il tutto essendo una perfetta riassunzione delle leggiadre movenze che si possono ammirare nelle rispettive chiese, comprese le micro-architetture degli arredi liturgici come nei ciborii e nei pulpiti, oltre che nei portali e nelle bifore.
Tra i maggiori esponenti del secolo in questo floreale canto artistico, non si possono non citare il grande Bartolomeo da Foggia, che operò in vari cantieri della città imperiale, tra cui proprio la cattedrale ed il palazzo di Federico II, purtroppo scomparso ma di cui ci resta la preziosa testimonianza del portale, con archivolto fitomorfo ed una splendida armonia ad arco moresco, da cui poi si scaturirono ulteriori tratti della collegiata di Foggia che la avvicinano molto ai concetti delle basiliche di Termoli e Fossacesia, e che tramandano una splendida fusione con la bicromia e simbologia orientale e la schematizzazione pisana delle facciate, scandite da variopinte colorazioni di breccia e marmi, tutti elementi che nel territorio molisano si possono trovare, in compendio con i racemi, le figure umane e i mascheroni, agli schemi della Fontana Fraterna d’Isernia, della Chiesa di San Niccolò Papa a Guglionesi e nella chiesa di Santa Maria delle Monache, sempre ad Isernia.
Dalla scuola di Foggia del Magister Bartholomeus, ebbero la loro formazione personaggi importanti come Alfano Da Termoli, a cui sono attribuiti elementi della cattedrale termolese (1235), di Lagopesole, nella Cattedrale di San Sabino a Bari tra il 1228 e il 1233 (ciborio) e nella cattedrale di Foggia soprattutto nella cripta.
Qui troviamo immediatamente l’opera orientale del magister Isamel, originario della Palestina, che sarebbe giunto in Italia a ridosso della quinta crociata nel 1221 circa, in cui avrebbe partecipato anche lo stesso Alfano, e da cui avrebbe appreso molte particolarità dell’ingegneria militare Ospitaliera e dei vari concetti stilistici orientali, soprattutto nella fattura dei modelli e nel tipo di significato attribuibile.
All’opera del Magister Ismaele non si legherebbero solamente i diversi paramenti ed arredi del Castello di Bari e Lagopesole, ma anche della Cattedrale di Termoli, specialmente nell’esecuzione delle arcate moresche a ferro di cavallo, simili ad una produzione artistica duecentesca che si può ammirare nella spianata della moschea di Al-aqsa, in varie strutture interne ed esterne come nel Burhan ad-din minbar, dove si ricollega prepotentemente all’ausilio delle colonnine trilobate, espediente che come gli archetti trilobi, è tipico dell’architettura federiciana, come un vero e proprio marchio, in egual modo degli altri espedienti sopraelencati, che si nota pienamente nelle esecuzioni della cattedrale di Termoli, nella porta maggiore, e anche nei cantieri del Castello Maniace di Siracusa e del vicino Castel Del Monte ad Andria e nel pulpito di Nicola Pisano, al duomo di Pisa, per non tralasciare la produzione lucerina che si riassume in quasi tutte le precedenti seppur nella maggior parte dei casi in elementi erratici o residuali, come anche nell’insediamento ecclesiastico di Santa Maria di Canneto a Roccavivara.
Da ciò deriverebbero anche i mastri Nicola di Bartolomeo da Foggia, figlio del proto-magister Bartolomeo, Anseramo da Trani e Pietro Facitolo di Bari, ai quali, come si evince nella relazione post-restauro del 1910, redatta dalla Sopraintendenza dei Monumenti della Puglia e del Molise, rinvenuta nell’Archivio di Stato Centrale, sarebbe stata attribuita l’esecuzione o anche la scuola d’appartenenza dello stesso pulpito di Ferrazzano, che non si escluderebbe aggiungere altri nomi o migliorarne la stesura vista la molto vetusta postulazione.
Proprio secondo questa analisi esaustiva, dei più minimi dettagli visivi e comparati nell’ambito culturale in cui è stata ritagliata la neonata regione Molise, si può essere d’accordo con l’ipotesi del Professor Francesco Aceto, che attribuisce alla mano dello stesso Alfano da Termoli, una parte di questo decoro liturgico, probabilmente avvalso di un suo vicino co-magister in grado di definire al meglio i dettagli romanici orientali ed al contempo quelli proto-gotici che oggi rimiriamo in un così vivo pulpito.
Questo potrebbe facilmente ricollegarsi non soltanto alla familiarità con il mondo arabo in cui egli avrebbe operato sotto veste di crociato giovannita, ma anche dalla forte vicinanza alla figura di Federico II, che lo reputava uno dei suoi Architetti Palatini più celebri dopo il Da Lentini, e si potrebbe ricollegare proprio alla metrica allusiva dei lessici profani imperiali, come egli avrebbe verosimilmente svolto nella realizzazione dello schema superiore nella facciata della Cattedrale di Termoli, ove affiora una delle probabili più antiche rappresentazioni dello svevo su un monumento religioso, seguito da una linea probabilmente dinastica che stiamo cercando di decifrare e di cui prossimamente parleremo in maniera più precisa.
Stando a queste conclusioni, la lettura del capitello nel suo insieme, come nel caso del basilisco della seduta papale di San Francesco D’Assisi, potrebbe alludere ad un momento della vita dello stupor mundi, ricollegandosi al lessico della chiesa impersonata dal leone, che richiamerebbe a Papa Alessandro III che doma suo nonno, Federico Barbarossa, simboleggiato dal basilisco ritorto verso il gallo, che nel pulpito di Ferrazzano potrebbe invece simboleggiare la prima scomunica dell’Imperatore cagionata da Gregorio IX nel 1239, simboleggiata dalla chiesa che uccide il potere ghibellino come esegue l’uomo isolato nella faccia destra del capitello che decolla la fiera immonda con una roncola, che potrebbe anche legarsi ad una diversa ragione, dove la scena viene letta in un’ottica totalmente laica, riprendendo l’iconografia umbra di San Mauro come opera bonificatrice, riferita all’operato dello stesso Imperatore nel territorio in cui vige il potere della chiesa, il tutto seguito dal resto del lessico alludente alla visione mecenatica dell’imperatore, e della vasta opera ch’egli lasciava ai posteri, come fosse una eterna rimembranza in grado di scalfire la più dura delle damnatio memoriae, simboleggiata dalla risurrezione eterna della salamandra, figlia del fuoco, al pari dell’araba fenice.
Si ringrazia Valeria La Porta per la collaborazione fotografica ed anche la direzione dell’archivio di stato di Roma per averci permesso di ottenere i documenti voluti.
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