#1 giugno 1957
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claudiodangelo59 · 2 years ago
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OGGI 25 GIUGNO, ITALIANO RICORDA…
1984
FESTA DEI LAGUNARI
ANNIVERSARIO DEL RICONOSCIMENTO UFFICIALE
DELLA SPECIALITÀ DELL’ARMA DI FANTERIA
FIN DAL 1951
"COME LO SCOGLIO INFRANGO, COME L'ONDA TRAVOLGO"
Moderna specialità meccanizzata - anfibia dell'Arma di Fanteria, istituita nel 1951, cui sono state affidate le tradizioni marinare della fanteria di marina della Serenissima Repubblica di VENEZIA (Fanti da mar).
Inizialmente formati da personale dell'Esercito e della Marina, dal 1957 persa ogni componente della Marina, danno vita al Raggruppamento Lagunare, che sarà trasformato in Reggimento nel 1964.
I Lagunari, recentemente potenziati, sono dotati di ordinamento ed armamento analoghi a quelli delle unità meccanizzate, pur disponendo in gran parte di mezzi anfibi.
Idoneo ad agire anche in altri tipi di terreni, il 1° Reggimento Lagunari "Serenissima" è particolarmente addestrato alla difesa del settore della LAGUNA VENETO FRIULANA.
Il Reggimento è intervenuto in numerosi turni di servizio nell’ambito delle missioni all’estero (BOSNIA, KOSOVO, LIBANO, IRAQ, AFGHANISTAN).
Il Reggimento Lagunari "Serenissima", con sede a VENEZIA, è l'unica unità di fanteria leggera dell'Esercito Italiano con capacità anfibie.
Il motto dell'unità, "Come lo scoglio infrango, come l'onda travolgo" ben esemplifica la duplicità dell'ambiente operativo in cui è chiamata ad operare.
Sebbene sia la più giovane specialità dell'Arma di Fanteria, i Lagunari sono i moderni custodi delle gloriose memorie dei "Fanti da Mar" della "Serenissima" Repubblica di VENEZIA, dei quali hanno ereditato i vessilli, il grido di battaglia, lo spirito ed il temperamento.
I Lagunari, specializzati nel combattimento terrestre e nella condotta di operazioni anfibie, sono in grado di operare in contesti particolari ed esigenti quali l'ambiente terrestre, marino, lagunare e fluviale.
La Bandiera di Guerra è decorata di una Medaglia d'Oro al Valore dell'Esercito, una Medaglia d'Argento al Valore dell'Esercito e una Croce d'Argento al Merito dell'Esercito.
Il grido di battaglia è "SAN MARCO!"
Insieme alla Brigata Marina "San Marco" della Marina Militare, forma la Forza di Proiezione dal Mare, componente anfibia delle Forze Armate Italiane.
I Lagunari sono l'unico reparto d'assalto anfibio dell'Esercito Italiano, mentre i Fucilieri di Marina – detti anche Marò – dell'attuale Reggimento San Marco fanno parte della Marina Militare.
Tra i due reparti vi è però sia una comunanza di impiego (sono unità anfibie), sia la comunanza dei simboli (i simboli di Venezia).
Nel dopoguerra, il 15 gennaio 1951, fu costituita un'unità interforze: il "Settore Forze Lagunari" comprendente personale dell'Esercito e della Marina Militare, con comando affidato ad un Contrammiraglio.
Nel periodo della guerra fredda la funzione dei Lagunari era principalmente quella di proteggere le COSTE LAGUNARI e PALUDOSE delle VENEZIE e dell'ALTO ADRIATICO dalle eventuali minacce anfibie provenienti dai vicini paesi del PATTO di VARSAVIA nonché di effettuare l'aggiramento anfibio sul fianco del settore italiano lungo l'ADRIATICO. Per questo motivo le unità lagunari sono state dotate fin dal 1951 di veicoli di assalto anfibio (i primi veicoli di assalto anfibio sono stati gli Mk4 "Buffalo" americani utilizzati dai Marines americani nel PACIFICO durante la seconda guerra mondiale).
Il 1 settembre 1957, persa ogni componente della Marina Militare, il "Settore Forze Lagunari" assunse la denominazione di "Raggruppamento Lagunare" e i suoi due Battaglioni costieri lagunari rispettivamente quella di Battaglione Anfibio "Marghera" e Battaglione Anfibio "Piave".
Il 25 ottobre 1959, in Piazza San Marco a VENEZIA, al Raggruppamento Lagunare venne consegnata in forma solenne la Bandiera di Guerra.
Il 25 ottobre 1964 viene costituito il Reggimento Lagunari "Serenissima" composto da Comando Reggimento, compagnia Reggimentale e compagnia Trasmissioni, compagnia Trasporti Anfibi; Battaglioni Anfibi "Marghera", "Piave" e "Isonzo" e, infine, il XXII° Battaglione carri "Serenissima".
I Lagunari dell'Esercito ricevono dal Capo di Stato Maggiore dell'Esercito Italiano, il Generale di Corpo d'Armata Aloia, la denominazione di Reggimento Lagunari "Serenissima" unitamente al compito di custodire e perseverare le tradizioni delle milizie imbarcate della Serenissima Repubblica: i "Fanti da Mar". Il simbolo dei Lagunari è il leone di Venezia che impugna la spada e tiene una zampa sul Vangelo chiuso.
Il 20 ottobre 1975, a seguito della ristrutturazione dell'Esercito, i Lagunari vengono ordinati in "Comando Truppe Anfibie", compagnia Lagunari "Truppe Anfibie", 1° Battaglione Lagunari "Serenissima", Battaglione Anfibio "Sile".
Il 25 giugno 1984, con D.P.R. a firma del Ministro della Difesa, venne sancito il riconoscimento della Specialità "Lagunari" a partire dal 9 gennaio 1951.
Il 26 agosto 1984 l'Ordinario Militare per l'Italia dichiara San Marco patrono delle "Truppe Anfibie".
Nel 1992, sempre nell'ambito di provvedimenti ordinativi riguardanti l'Esercito, vengono soppressi il Battaglione Lagunari "Serenissima", e il Battaglione mezzi Anfibi "Sile" e costituito il Reggimento Lagunari "Serenissima" articolato su: Comando di Reggimento e Compagnia Comando e Servizi, Comando I Battaglione lagunari, tre Compagnie fucilieri e una Compagnia mortai pesanti, Compagnia mezzi nautici.
Dal dicembre 1997 il Reggimento, dopo aver ricevuto, fra i primi reparti dell'Esercito, personale volontario in sostituzione di quello di leva, è passato alle dipendenze del Comando delle Forze di Proiezione.
Il 1 settembre 2000 viene costituita la Compagnia controcarro.
Dal 1 dicembre 2000 il Reggimento Lagunari è inquadrato nella Brigata di Cavalleria “Pozzuolo del Friuli”.
Dal 2007 è parte della grande unità interforze Forza di proiezione dal mare con la Brigata marina "San Marco".
Oggi il Reggimento è composto interamente da personale Volontario. Il Comando del Primo Battaglione, la 1ª, la 2ª e la 3ª compagnia (Compagnie da assalto anfibio) sono collocate nella Caserma "Bafile" di MALCONTENTA; la Compagnia Supporti Tattici Anfibi è collocata presso la base anfibia di S. ANDREA in VENEZIA sull'ISOLA delle VIGNOLE. Il Comando di Reggimento, la Compagnia Supporto alla manovra e la Compagnia Comando e Supporto Logistico sono collocate presso la Caserma "Matter" di MESTRE.
Come unità di fanteria, il Reggimento è ancora equipaggiato con cingolati VCC2 ed è capace di condurre tutti i ruoli tipici di un'unità di fanteria meccanizzata.
Comunque, dato il recente programma di riorganizzazione, il Reggimento si sta trasformando in un'Unità di fanteria leggera equipaggiato con veicoli ruotati VTLM.
Come unità anfibia il Reggimento è dotato di AAV7 (un particolare veicolo cingolato da trasporto truppe con piena capacità anfibia e con la possibilità di trasportare fino a 21 soldati), natanti da sbarco, motoscafi rigidi, battelli pneumatici (Zodiac Marine and Pool) e kayak impiegati per operazioni anfibie.
Tali operazioni si estrinsecano attraverso operazioni di sbarco su spiagge ostili o in alternativa raid anfibi e altre operazioni condotte da elementi specializzati. Per soddisfare questi compiti i soldati di ogni grado assegnati al Reggimento devono superare uno specifico corso di qualificazione allo scopo di ottenere l'abilità necessaria per fronteggiare le sfide tipiche delle operazioni anfibie.
Il Reggimento, essendo per l'impiego di natura bivalente, ha cooperato con quasi tutte le unità dell'Esercito Italiano e con la componente anfibia della Marina.
Il Reggimento ha anche preso parte a esercitazioni combinate in territorio nazionale o all'estero, dove i Lagunari hanno operato in quasi tutti gli ambienti, dalle VALLI EUROPEE, alle FORESTE CANADESI, alle spiagge del MEDITERRANEO, al DESERTO EGIZIANO e dalle paludi dell'ESTONIA alle ALPI INNEVATE.
Come unità di leva, il Reggimento è stato coinvolto in quasi tutte le calamità naturali come terremoti, alluvioni, operazioni in supporto alle Forze dell’Ordine per la lotta alla criminalità organizzata. Divenuta un'unità di professionisti, il Reggimento ha cominciato a proiettarsi in operazioni fuori dal territorio nazionale.
Dal giugno al dicembre 1998 la 3ª Compagnia Anfibia ha preso parte all'operazione in BOSNIA ed ERZEGOVINA a SARAJEVO come parte del contingente italiano nell'operazione NATO/SFOR (Constant Forge).
Dall'ottobre 1999 al febbraio 2000 l'intero reggimento è stato ridislocato a Đakovica, in Kosovo per la operazione NATO/KFOR (Joint Guardian). Da febbraio a giugno 2001 impiegato a Peć e Klina, in Kosovo (Consistent Effort).
Dal novembre 2002 il reggimento è nuovamente schierato in area kosovara nelle municipalità di Peć, Klina e Goraždevac per l'operazione "Decisive Endavour".
Dal giugno 2003 al maggio 2005 unità del Reggimento a livello plotone o compagnia hanno preso parte all'operazione "Antica Babilonia", nella città di Nassiriya, in Iraq.
L'intero reggimento è stato impiegato nel periodo maggio-settembre 2004 nel governatorato di Dhi Qar nel sud dell'Iraq; è in quest'ultima operazione hanno perso la vita il capitano Massimo Ficucello ed il 1º caporale maggiore Matteo Vanzan.
In data 21 giugno 2006 è stata concessa al Reggimento Lagunari "Serenissima" la Medaglia d'Argento al Valore dell'Esercito per le attività svolte nel periodo 1951-2003.
Da settembre 2006 ad aprile 2007 il Reggimento è stato impegnato nell'ambito dell'Operazione "Leonte", nel Libano del Sud, per garantire le condizioni di sicurezza e stabilità necessarie per l'applicazione e il rispetto della risoluzione 1701 delle Nazioni Unite.
Il 25 giugno 2008, con una solenne cerimonia in Piazza San Marco a Venezia, è stata conferita alla Bandiera di Guerra del Reggimento la Medaglia d'Oro al Valore dell'Esercito per i fatti dell'agosto 2004 in Iraq.
Dal 2008 al 2009 il Reggimento è stato ancora impegnato nell'ambito dell'Operazione "Leonte", nel Libano del Sud.
Nel 2011-2012 è stato impiegato nell'Operazione ISAF in Afghanistan nella provincia di Farah dove ha operato per sei mesi.
Nel 2013 il Reggimento ha operato ancora nell'ambito dell'Operazione "Leonte", nel Libano meridionale.
È impiegato con piccole unità a Venezia nell'Operazione Strade Sicure in supporto alle Forze dell'Ordine.
Il 7 marzo 2011, con una solenne cerimonia in teatro operativo afghano, il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito Italiano, il Generale di Corpo d'Armata Giuseppe Valotto ha consegnato il nuovo basco color “verde laguna” quale ulteriore simbolo distintivo della specialità dei Lagunari.
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arkivium21 · 4 years ago
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Il confronto bipolare in un mondo in trasformazione
CAPITOLO 16
Il confronto bipolare in un mondo in trasformazione
1 Dalla crisi alla distensione: gli anni di Kennedy e di Kruscev Continua la competizione USA-URSS Sul finire degli anni Cinquanta, l’apice della tensione tra le due superpotenze sembrava superato e alcuni segnali suggerivano che il confronto fosse avviato a svolgersi pacificamente, facendo tramontare la costante minaccia al ricorso delle armi. Il presidente Eisenhower chiuse il suo duplice mandato, nel gennaio 1961, con un discorso in cui metteva in guardia dai pericoli di una eccessiva militarizzazione e dalla perniciosa influenza del «complesso militare-industriale» sulla vita democratica. Dal canto suo, il leader sovietico Kruscev cominciava a vedere come una priorità il rallentamento delle spese militari, al fine di vincere la sfida contro gli Stati Uniti – come aveva più volte ribadito (➜ CAP. 14) – sul terreno del benessere. In quegli anni, le economie del blocco sovietico erano ancora abbastanza dinamiche da far sembrare realistica questa prospettiva. Inoltre, i sovietici erano reduci da una straordinaria vittoria tecnologica e simbolica: nell’ottobre del 1957 avevano mandato in orbita il primo satellite artificiale, lo «Sputnik» (in russo «compagno di viaggio»).
Nuove frontiere All’inizio del 1961, mentre gli Stati Uniti erano ancora scossi dai successi dei sovietici nella corsa allo spazio, l’avvento alla Casa Bianca del democratico John Fitzgerald Kennedy fu accolto come l’annuncio di un nuovo corso, che segnalava anche i mutamenti recenti intervenuti nella società americana. Per la prima volta un presidente degli Stati Uniti era cattolico ed era il primo a essere nato nel XX secolo: con i suoi 43 anni era (e resta ancora) il più giovane capo dello Stato mai eletto direttamente dal corpo elettorale americano. La sua vittoria rivelò anche l’importanza politica di un nuovo strumento di comunicazione: la televisione, già bene di consumo di massa negli Stati Uniti (➜ ANCHE CAP. 17). Nel confronto, trasmesso sul piccolo schermo, con il suo antagonista, il repubblicano Richard Nixon, Kennedy apparve più brillante e fotogenico: il suo volto, in qualche misura, si rivelò vincente non meno del suo programma e della sua retorica. Di per sé, il fenomeno della propaganda mediante l’immagine non costituiva una novità, ma risultavano totalmente inedite le dimensioni dello spazio e del tempo in cui si realizzava: la vastità della platea a cui il messaggio visivo si rivolgeva, e lo stile imposto da un mezzo così rapido nel diffonderlo come la televisione. Kennedy si presentava con un ambizioso programma di rilancio della società americana in senso progressista, che aveva elaborato con l’aiuto di un gruppo di tecnici e di intellettuali della sua stessa generazione, e racchiuso nello slogan «la nuova frontiera». Questa immagine faceva leva su uno dei miti fondatori della nazione americana: la sfida dei pionieri alla «frontiera», ossia la spinta alla colonizzazione del «lontano Ovest» avvenuta nel corso del XIX secolo. La «frontiera» da sfidare nel XX secolo era quella di una migliore democrazia, basata su una reale affermazione dei diritti di cittadinanza, estesa a tutti, e su una più ampia giustizia sociale: contro la povertà, le distanze sociali e soprattutto contro la segregazione razziale di cui erano ancora vittime milioni di cittadini statunitensi di pelle nera (➜ CAP. 14.1 e avanti, PAR. 2). Si può dire che ci fosse anche una dimensione fisica nella «frontiera» kennediana: il nuovo mondo da raggiungere e colonizzare era lo spazio. Per volontà di Kennedy il programma spaziale americano subì un enorme potenziamento e superò di slancio quello sovietico, fino a riuscire a «conquistare» la Luna, nel luglio 1969. Il muro di Berlino In politica estera la presidenza Kennedy si rivelò di gran lunga meno innovativa: nel solco dei predecessori, mantenne una retorica dai toni apocalittici nei confronti dell’antagonista sovietico (l’anticomunismo continuava a essere un argomento di forte presa sull’opinione pubblica americana e pertanto cruciale nelle competizioni elettorali), accompagnata tuttavia dalla volontà di non far precipitare il mondo in una guerra letale.
Due gravi crisi internazionali segnarono i primi anni Sessanta. Una ebbe luogo in Europa e riguardava la questione della Germania, che non aveva ancora trovato una definitiva soluzione formale. Sin dal 1958 Kruscev aveva lanciato un’offensiva diplomatica in merito alla situazione di Berlino, che ufficialmente continuava a essere sottoposta all’occupazione congiunta delle quattro potenze antifasciste, proponendo che la città fosse dichiarata «libera» e smilitarizzata. Il negoziato di fatto non ebbe neppure inizio, per la manifesta volontà degli Stati Uniti di conservare la propria presenza a Berlino ovest. Dopo che, nel giugno 1961, Kennedy ribadì ancora una volta questo orientamento, Mosca incassò l’insuccesso, autorizzando però il regime di Berlino est a costruire un muro di separazione tra le due parti dell’ex capitale tedesca e a fortificare ulteriormente il resto della frontiera con la Germania ovest. Peraltro le autorità della Germania est premevano da tempo su Mosca in questo senso, per bloccare la fuga di massa dei propri cittadini: tra il 1949 e il 1961 circa 2,5 milioni di tedeschi orientali, perlopiù giovani, erano infatti passati a ovest, principalmente usando il varco berlinese. Il muro di Berlino fu eretto la notte del 13 agosto 1961: per poco meno di trent’anni, finché non venne abbattuto il 9 novembre 1989 (➜ CAP. 20), sarebbe stato uno dei confini più sorvegliati del mondo, il simbolo della guerra fredda, ma anche la traccia materiale e visibile della mancanza di libertà nel campo sovietico e della miscela di forza e di impotenza – per il progressivo affievolirsi di spinte ideali, di consensi e di prospettive – che caratterizzava le cosiddette «democrazie popolari». I missili a Cuba L’altra crisi ebbe per scenario l’isola di Cuba che, in seguito alla maldestra reazione degli Stati Uniti alla rivoluzione castrista (➜ CAP. 15.6), era diventata un membro del blocco sovietico, portando la frontiera della guerra fredda a poche miglia marine di distanza dalla costa della Florida. Temendo il ripetersi di tentativi d’invasione come quello dell’aprile 1961, il governo cubano incrementò le richieste di aiuti militari a Mosca. Non potendo impegnarsi ulteriormente in spese per armi convenzionali, il Cremlino giocò la carta del nucleare e cominciò, nell’estate del 1962, l’installazione di missili sull’isola (dove peraltro, per uno di quegli strani casi che governarono gli equilibri della guerra fredda, gli Stati Uniti ancora conservavano la base navale di Guantanamo, ottenuta in affitto al termine della guerra ispano-americana del 1898).
Nell’ottobre del 1962 gli americani ebbero le prove – grazie a fotografie scattate dai loro aerei spia – e denunciarono pubblicamente la presenza di rampe di lancio missilistiche a Cuba. Per qualche giorno il mondo rimase con il fiato sospeso, temendo lo scoppio della terza guerra mondiale, ma le diplomazie dei due Paesi si mossero dietro le quinte in modo tale da evitare rotture irreparabili, giungendo a una soluzione. L’Unione Sovietica accettò infine di ritirare i missili da Cuba, ottenendo dagli americani la promessa di non invadere l’isola. Inoltre, pochi mesi dopo gli USA acconsentirono a un’altra richiesta sovietica, quella di smantellare le loro basi missilistiche in Turchia. Kennedy aveva accettato questa seconda condizione a patto che non fosse resa pubblica (ufficialmente i missili che erano in Turchia furono ritirati perché ormai obsoleti). La pace fu salvata dalle mosse di una diplomazia segreta, tuttavia da questo gioco delle parti era soprattutto l’immagine dell’Unione Sovietica a venire intaccata. Verso la distensione, senza i suoi protagonisti La crisi cubana era stata così grave da spingere i governi delle superpotenze a valorizzare il ruolo dello spionaggio internazionale e a trovare nuovi meccanismi diplomatici per evitare lo scoppio di una guerra nucleare a causa di un fraintendimento o di un errore nella catena di comando. Erano angosce materiali che occupavano le coscienze e l’immaginario di milioni di cittadini nel mondo e che avrebbe trovato le più disparate manifestazioni sul terreno della cultura e dell’industria dell’intrattenimento, per esempio nella interminabile saga letteraria e cinematografica dell’agente segreto 007 James Bond (il primo film è proprio del 1962), o nel capolavoro di Stanley Kubrick, uscito nel 1964, Il dottor Stranamore, una terribile commedia grottesca in cui un generale americano, guerrafondaio e anticomunista, provoca lo scoppio della guerra a dispetto delle intenzioni del suo presidente, che non riesce più a fermare il corso degli eventi una volta innescati. Il Cremlino e la Casa Bianca si collegarono tra loro grazie a una linea diretta di telescriventi (un’evoluzione del telegrafo), detta «linea rossa». Finalmente cominciarono dei negoziati per ridurre gli armamenti, arrivando a un primo accordo per il bando dei test nucleari di superficie. In Germania, le diplomazie accettarono prudentemente la situazione determinatasi sul campo. Kennedy peraltro seppe ravvivare la retorica della guerra fredda: nel corso della sua visita ufficiale a Berlino ovest, nel giugno del 1963, pronunciò un celebre discorso in cui – dichiarandosi egli stesso cittadino di Berlino («Ich bin ein Berliner») – esprimeva la vicinanza di tutto il «mondo libero» ai berlinesi «assediati».
Fu l’ultima grande apparizione di Kennedy sulla scena internazionale. Pochi mesi dopo, il 22 novembre 1963, venne assassinato a Dallas, in Texas, in circostanze mai del tutto chiarite. Questa tragica morte, avvolta in un alone di mistero, lo fece entrare immediatamente nel mito, quello degli eroi portatori di speranza abbattuti a tradimento nel pieno della loro forza e giovinezza. Un’analisi degli effettivi risultati dei tre anni della sua presidenza peraltro ha indotto molti studiosi ad abbandonare i toni epici della propaganda per abbracciare un’analisi più realistica ed equilibrata: come abbiamo già detto, in politica estera Kennedy seguì un copione piuttosto tradizionale, avviando anche l’impegno americano in Vietnam (➜ CAP. 15.2), mentre l’ambizioso programma di riforme interne dovette attendere il suo successore, Lyndon Johnson, per decollare. Undici mesi dopo, nell’ottobre del 1964, usciva di scena anche Kruscev. Gli organi del partito costrinsero alle dimissioni il leader sovietico, che pagò un riformismo interno e un dinamismo in politica estera a cui non avevano corrisposto risultati considerati all’altezza. Se lo scacco subito a Cuba svolse un ruolo importante nel determinare l’eclissi di Kruscev, il problema più complesso riguardava però l’inasprimento dei rapporti con la Cina di Mao (➜ ANCHE PAR. 4). Con la destituzione di Kruscev terminava – secondo alcuni prima ancora che fosse cominciata sul serio – la fase di disgelo della politica e della società sovietiche. Peraltro non si tornò nemmeno all’asprezza della persecuzione staliniana: il tempo delle grandi purghe e dei gulag era finito.
2 La distensione tra problemi interni e instabilità internazionale La «Great Society» americana e la guerra del Vietnam Negli anni Sessanta e Settanta, il confronto tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica proseguì nel segno della distensione. Alcuni accordi che portarono alla riduzione degli armamenti e all’apertura di relazioni commerciali costituirono i segni più tangibili di questa fase. D’altra parte, una serie di problemi interni che attraversarono entrambe le superpotenze e nuove crisi «regionali» in cui esse indirettamente si trovarono a fronteggiarsi concorsero a influenzare e a ostacolare questo processo. In seguito alla morte di Kennedy, alla fine del 1963 il vicepresidente (ovviamente anche lui membro del Partito democratico) Lyndon Johnson assunse la presidenza; l’avrebbe mantenuta fino al 1968, dopo aver vinto le elezioni del 1964. Si sarebbe distinto per due ragioni molto diverse. Sul piano interno, realizzò il programma di riforme preannunciato da Kennedy. Johnson adottò lo slogan «Great Society», una «grande società», che doveva combattere la povertà e la discriminazione. Sin dal 1964 promosse il varo del «Civil Rights Act», la Legge federale sui diritti civili, ottenuta anche in seguito all’imponente movimento di protesta della comunità afroamericana (➜ CAP. 17.4). Questa legge conteneva due misure fondamentali:
proibiva le discriminazioni nelle modalità di iscrizione alle liste elettorali (esisteva una serie di espedienti che permettevano alle amministrazioni bianche di escludere i neri dall’esercizio del voto); dichiarava illegale ogni discriminazione basata sulla razza, il sesso o l’etnia nell’ambito dell’amministrazione e delle attività ed esercizi pubblici (dalle scuole alla frequentazione di hotel, ristoranti, bar ecc.).
Negli anni successivi, una serie di programmi federali (ossia finanziati dal governo centrale) portarono alla realizzazione di misure di welfare state nei campi della sanità, delle pensioni e dell’istruzione. Nel complesso erano misure di minore portata rispetto al modello europeo di welfare, ma ebbero comunque un impatto importante sulla società americana: ridussero le sacche di povertà e le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza. L’altro evento che segnò la presidenza Johnson fu la guerra del Vietnam. Come abbiamo visto (➜ CAP. 15.2), dal 1965 gli Stati Uniti si ritrovarono pesantemente coinvolti nel conflitto in Indocina. Dopo l’offensiva vietnamita dell’inizio del 1968, Johnson cercò una via d’uscita intavolando trattative che però, inizialmente, non ebbero l’esito sperato. Questo insuccesso lo spinse a ritirarsi dalla vita politica, rinunciando a ricandidarsi (avrebbe potuto farlo perché il suo primo mandato, come presidente subentrato, era durato soltanto tredici mesi). Il capitolo della guerra vietnamita sarebbe stato chiuso dal suo successore, il repubblicano Richard Nixon. La primavera di Praga Il 1968 segnò un passaggio cruciale anche per il blocco sovietico. Nei primi mesi dell’anno la Cecoslovacchia conobbe un processo di riforma guidato dalla dirigenza del partito, in particolare dal nuovo segretario Alexander Dubcek, che prese le mosse dalla necessità di rendere più flessibile il modello economico di stampo sovietico, ma sfociò rapidamente in un programma che prevedeva la reintroduzione del pluralismo politico (abolendo quindi il regime a partito unico) e una larga libertà d’espressione. Questa proposta dall’alto, che Dubcek definì un «socialismo dal volto umano», incontrò i fermenti politici, culturali e ideali che in quel momento partivano dal basso, cioè dalla società cecoslovacca. Le riforme fiorirono ad aprile – da cui la celebre espressione, coniata in Occidente, di «primavera di Praga» – in contemporanea con l’esplosione della protesta studentesca che stava avvenendo in tutto il mondo industrializzato (➜ CAP. 17). Malgrado il governo cecoslovacco non avesse nessuna intenzione di uscire dal blocco sovietico (a differenza di quanto aveva dichiarato, nel 1956, il Primo ministro ungherese, scatenando la reazione di Mosca), la dirigenza sovietica giudicò che l’esperimento si era spinto troppo in là. Anche per la pressione dei regimi polacco e tedesco orientale (che, privi di un solido consenso interno, temevano di essere destabilizzati o travolti dall’esempio cecoslovacco), le truppe del Patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia la notte tra il 20 e il 21 agosto 1968.
La resistenza pacifica opposta dai cecoslovacchi si rivelò inutile e immediatamente cominciò un processo di «normalizzazione». La dirigenza cecoslovacca fu lasciata al suo posto per un altro anno, ma dovette smantellare le riforme varate sino a quel momento. Questo periodo fu reso ancora più angoscioso dall’estrema protesta dello studente Jan Palach che nel gennaio del 1969 si diede fuoco in piazza San Venceslao, nel centro di Praga. Il suo gesto richiamava esplicitamente quello di un «bonzo», un monaco buddista vietnamita che nel 1963 si era dato fuoco a Saigon per protestare contro il governo filoamericano del Vietnam del Sud. Palach collegava così idealmente due lotte contro l’imperialismo e la sopraffazione. L’URSS di Breznev Nel settembre 1968 Leonid Breznev, che aveva affermato la sua preminenza nell’apparato di potere sovietico dopo alcuni anni di direzione collegiale, diede una sorta di veste formale all’intervento dell’URSS e degli alleati del Patto di Varsavia. La cosiddetta «dottrina Breznev» sosteneva che «la sovranità e il diritto all’autodeterminazione degli Stati socialisti sono subordinati agli interessi del sistema socialista mondiale». In altre parole, il segretario del PCUS dichiarava che la sovranità nazionale dei Paesi del blocco sovietico era limitata e restava subordinata alle valutazioni del Cremlino. La dichiarazione di Breznev tentava anche di nascondere un fatto evidente: un «sistema socialista mondiale», nel solco della complessa tradizione internazionalista, non esisteva più e tanto meno, dopo la rottura tra Mosca e Pechino (➜ PAR. 4), faceva capo all’URSS. I fatti di Praga non solo spaccarono o indebolirono i grandi partiti comunisti europei, come era già accaduto nel 1956 dopo l’invasione dell’Ungheria, ma li spinsero a prendere maggiori distanze da Mosca, come nel caso del Partito comunista italiano. Sul piano interno si aggiungevano crescenti difficoltà economiche: il modello dirigista sovietico, capace di trasformare in pochi decenni un Paese fortemente arretrato in una potenza industriale, aveva raggiunto i suoi limiti espansivi. In qualche misura, il sistema industriale sovietico era nato sotto la spinta di un’emergenza continua, dal 1917 alle necessità della ricostruzione e della guerra fredda post-1945, pressato dalla necessità di raggiungere risultati in breve tempo, senza badare a sprechi, inefficienze e costi (di ogni genere, compresi quelli ambientali), e per di più sotto il controllo di un ponderoso apparato burocratico. Quando quella spinta, materiale e ideale allo stesso tempo, si esaurì, non restavano più risorse o margini per riconvertirsi – in primo luogo dall’industria pesante a quella di consumo –, né per introdurre innovazioni tecnologiche, né per stimolare la crescita della produttività. Ne scaturì un circolo vizioso che rese l’apparato produttivo sempre più inefficiente e pletorico.
Negli anni Sessanta la situazione più critica era quella in cui versava l’agricoltura: la produzione non riusciva a coprire il fabbisogno alimentare del Paese, costretto a importare soprattutto cereali e tecnologie dagli USA, aprendo in questo modo una breccia, probabilmente fatale, nel suo sistema fino ad allora sostanzialmente autarchico e autosufficiente. L’incremento di esportazioni di materie prime energetiche sostenne in parte la bilancia commerciale, ma d’altra parte queste risorse, drenate dall’apparato militare o sprecate da un sistema burocratico sempre più inefficiente e corrotto, non servirono a ridurre un crescente gap tecnologico con l’Occidente. Gli anni di Breznev (che sarebbe rimasto al potere fino alla morte, nel 1982) furono pertanto segnati: da una continua perdita di consenso e fiducia, sia pure ancora in forme dissimulate e silenziose; dall’ulteriore crescita degli apparati burocratici del partito, sempre più corrotti, dal momento che qualunque cosa doveva passare per le loro mani, e dai quali era scaturita una vera e propria casta privilegiata (la cosiddetta nomenklatura); dall’evidente incapacità di un’autoriforma del sistema. Se il blocco sovietico era ormai tenuto insieme soltanto dalla minaccia delle armi, nell’URSS si irrigidirono di nuovo i controlli di polizia, e le autorità soffocarono la dissidenza interna. Tra i casi più celebri a livello internazionale vi fu quello dello scrittore Alexandr Solzenycin (➜ CAP. 14.5), esiliato all’inizio del 1974 (nel 1973 era uscito in Occidente il suo Arcipelago gulag, dove raccontava il sistema dei campi di lavoro sovietici), e quello del fisico Andrej Sacharov, uno dei padri della bomba H sovietica, confinato alla fine degli anni Settanta. In questo contesto, la politica della distensione diventava un’opportunità anche per il regime sovietico: oltre ad alleggerire il bilancio delle spese militari, permetteva l’apertura di relazioni commerciali sempre più importanti per sostenere i livelli di vita interni, e inoltre consentiva all’URSS di accreditarsi come garante della pace, mantenendo alto il proprio prestigio.
La diplomazia di Nixon e di Kissinger La disponibilità al dialogo era contraccambiata dal nuovo presidente americano, il repubblicano Richard Nixon, eletto nel 1968 dopo una campagna elettorale drammatica, durante la quale venne assassinato Robert «Bob» Kennedy, il fratello dell’ex presidente John, mentre si trovava ancora impegnato nelle primarie del partito democratico. La distensione si concretizzò nel 1972 in un trattato per la riduzione degli armamenti nucleari, noto come SALT I (sigla per Strategic Arms Limitation Talks, «trattative per la limitazione delle armi strategiche»), per distinguerlo da quello SALT II, di portata minore, siglato nel 1979. Si consideri peraltro che questi trattati ebbero un valore simbolico più che concreto: non soltanto gli arsenali restavano largamente sufficienti a distruggere più volte il pianeta, ma la gara al loro sviluppo tecnologico proseguiva senza soste, rendendo rapidamente obsoleti gli accordi fissati sulla carta. La politica estera americana, ispirata dal segretario di Stato Henry Kissinger, previde una svolta radicale anche in Asia. L’amministrazione Nixon, come abbiamo detto, uscì dal conflitto vietnamita, tra il 1973 e il 1975 (➜ CAP. 15.2). A questo risultato contribuì una clamorosa apertura verso la Cina popolare – con cui non erano mai state aperte relazioni diplomatiche – avviata sin dal 1969 e coronata da una visita ufficiale a Pechino nel 1972. La base di questa nuova intesa, frutto della cosiddetta «diplomazia del ping pong», era la politica antisovietica: Pechino era in aperta rottura con Mosca e questo schiudeva nuove prospettive per Washington. Per questo motivo sin dalla fine del 1971 la Cina popolare fu ammessa nella comunità internazionale: accolta nelle Nazioni Unite, prese il posto di Taiwan nel Consiglio di sicurezza (➜ ANCHE CAP. 14.4). Nel 1972 ritirò i suoi aiuti al Vietnam, che restò così legato esclusivamente all’URSS. Infine, Cina e Stati Uniti aprirono importanti relazioni commerciali. La fine della presidenza Nixon Il processo di distensione conobbe una nuova battuta d’arresto nella seconda metà degli anni Settanta. Vi contribuirono, da un lato, i problemi interni degli Stati Uniti e, dall’altro, una nuova ondata di fermenti e di tensioni provenienti dai Paesi del Terzo Mondo. Nell’estate del 1974 il presidente Nixon rassegnò le dimissioni, travolto dallo scandalo politico passato alla storia come «il Watergate». Sin dall’estate del 1972, due giornalisti del quotidiano «Washington Post» avevano fatto emergere alcuni elementi che accusavano il presidente di aver condizionato il corso delle elezioni, spiando le mosse dei democratici grazie a microspie piazzate nel loro quartier generale elettorale, l’hotel Watergate di Washington.
Due anni dopo, quando i risultati delle inchieste giudiziarie erano ormai inequivocabili, Nixon si dimise prima di subire una formale incriminazione secondo le procedure previste dalla Costituzione americana.
Nuove tensioni in un mondo che cambia La grave crisi politica interna degli USA si accompagnò a una fase di instabilità internazionale che sembrò avvantaggiare l’URSS. All’inizio degli anni Settanta nel campo occidentale mutò infatti la congiuntura economica. In particolare, due clamorosi avvenimenti segnarono il trapasso da una crescita che sembrava inarrestabile a un ciclo depressivo. 1. Nell’agosto del 1971 gli Stati Uniti sospesero la convertibilità del dollaro in oro. Ciò determinò la fine del sistema monetario stabilito con gli Accordi di Bretton Woods nel 1944 (➜ CAP. 14.2) e provocò una lunga fase di caos monetario – dal momento che i valori delle valute nazionali oscillavano tra loro –, con conseguenze sulla stabilità degli scambi internazionali e sui livelli dei prezzi e dell’inflazione (ANCHE CAP. 17.8). La decisione di Washington derivava dalle sue difficoltà di bilancio: la spesa pubblica saliva, soprattutto per finanziare i nuovi programmi di welfare e le spese militari. Inoltre la bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti era passata in deficit: in altre parole, dal 1970 le importazioni avevano superato le esportazioni. Sin dalla metà degli anni Sessanta, il governo americano aveva fatto fronte alle sue esigenze di spesa stampando dollari, che avevano inondato il mondo e in particolare le banche dei Paesi dell’Europa occidentale. Quando le richieste europee di conversione di dollari in oro cominciarono a crescere, le riserve auree americane cominciarono a calare, spingendo Washington a porre fine al sistema di Bretton Woods. 2. Nel novembre del 1973 l’economia occidentale subì il cosiddetto «shock petrolifero»: in conseguenza della Guerra del Kippur (➜ CAP. 15.4), i Paesi produttori di petrolio riuniti nell’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries, ovvero Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, fondata nel 1960) ridussero drasticamente l’esportazione di petrolio verso gli alleati di Israele e, nel giro di un anno, quadruplicarono i prezzi del greggio, che passò da circa 3 dollari al barile a circa 12 dollari al barile. Alla fine degli anni Settanta un secondo shock, seguente alla rivoluzione scoppiata in Iran (➜ PAR. 5), portò il prezzo a circa 35 dollari.
I «miracoli economici» occidentali erano stati possibili anche per il modesto costo dell’energia che ora – improvvisamente, nel giro di sei-sette anni – era aumentata di circa undici volte. E con essa tutto rincarò, perché il costo del petrolio incideva – direttamente o indirettamente – sui costi di produzione e di trasporto di qualsiasi merce. Pertanto, in virtù delle difficoltà americane e di questa nuova crisi del capitalismo, intorno alla metà degli anni Settanta – malgrado molti segnali potessero indicare anche il contrario – sembrarono aprirsi nuovi spazi politici per l’URSS: il Vietnam, dopo la definitiva vittoria del 1975, si integrò nel sistema sovietico (nel 1978 entrò anche nel Comecon); un colpo di Stato militare impose un regime filosovietico in Etiopia; in Angola e Mozambico l’esito della decolonizzazione portò al potere dei movimenti «nazionalisti-marxisti», sostenuti dalle armi sovietiche; in America centro-meridionale i movimenti guerriglieri di sinistra sembravano rafforzarsi (ma come abbiamo visto nel CAP. 15.6, gli Stati Uniti, su impulso del segretario di Stato Kissinger, non tardarono a prendere drastiche contromisure); persino in Europa occidentale, sia pure soltanto per pochi mesi, sembrò che il Portogallo, dopo la rivoluzione che pose fine alla lunga dittatura di stampo fascista, potesse passare nel campo comunista, mentre in Italia preoccupava gli osservatori internazionali la continua avanzata elettorale del Partito comunista italiano che, sotto la guida di Enrico Berlinguer, nel 1976 superò il 34 per cento dei consensi (➜ CAP. 19). Al di là delle oscillazioni di breve periodo nei rapporti tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, la questione di maggiore rilievo ormai era un’altra: il bipolarismo est-ovest aveva perduto la capacità di contenere, descrivere e analizzare una situazione mondiale divenuta assai più intrecciata lungo l’asse geopolitico sud-nord e, al tempo stesso, complicata. Nel mondo comunista, la leadership sovietica declinava. Nel campo occidentale, il rallentamento della crescita economica e la fine del sistema di Bretton Woods ponevano nuovi interrogativi per il futuro. In varie parti del mondo stavano emergendo nuovi centri di potere economico e politico, sia pure ancora inferiori a Mosca e a Washington. A metà degli anni Settanta, il mondo del bipolarismo cominciava tuttavia a cedere il posto a una configurazione diversa.
3 In Europa occidentale: mercato comune e democrazia
Il progetto francese di «terza forza» Nel corso degli anni Sessanta l’Europa occidentale completò il suo straordinario recupero economico e demografico (➜ CAP. 17), mentre le democrazie nazionali si consolidavano e prendevano forma strutture comunitarie sovranazionali ancora limitate a sei Paesi e alla sfera strettamente economica (le Comunità economiche europee). In questi anni la politica continentale e l’evoluzione delle strutture comunitarie furono segnate dall’ambizione del presidente francese Charles De Gaulle di fare dell’Europa, forte della sua nuova prosperità e stabilità, una «terza forza», autonoma e dello stesso rango di Stati Uniti e Unione Sovietica. L’idea d’Europa di De Gaulle L’obiettivo di De Gaulle era restituire alla Francia il suo tradizionale ruolo di protagonista della politica internazionale. Tuttavia, egli era consapevole che, nell’era delle superpotenze, questa ambizione doveva passare attraverso un rafforzamento dell’Europa che doveva svincolarsi dall’egemonia politica e militare americana per proporsi come «terza forza» rispetto a USA e URSS, con una propria e autonoma force de frappe («forza d’urto») basata sul potere di dissuasione derivante dal possesso del nucleare. Il presidente francese aveva in mente un’«Europa degli Stati», ovvero una struttura confederale: ogni Stato avrebbe conservato la propria sovranità mentre l’integrazione sarebbe stata realizzata dai governi nazionali, attraverso fitte consultazioni e accordi (da concludere sempre all’unanimità) su questioni specifiche, senza la creazione di strutture sovranazionali, che avrebbero determinato appunto limitazioni alle singole sovranità nazionali. Naturalmente la Francia avrebbe avuto un ruolo guida nel coordinare le relazioni tra i Paesi europei. A questo scopo, sin dal 1961, la Francia promosse i cosiddetti «vertici europei», riunioni informali dei capi di Stato dei Paesi membri delle Comunità europee, convocate a cadenza irregolare, ma piuttosto serrata. Dal momento che non erano previste dai Trattati di Roma (➜ CAP. 14.6), si configuravano di fatto come un’alternativa alle istituzioni comunitarie, rimettendo in primo piano il ruolo delle singole nazioni rispetto a un’impostazione sovranazionale. L’evidente importanza economica delle Comunità europee fece sì che la loro esistenza non fosse rimessa in discussione; ma così De Gaulle cercava di far evolvere l’integrazione politica secondo il suo progetto confederale. L’asse franco-tedesco e l’atomica Un altro tassello del progetto di De Gaulle prevedeva il rafforzamento dei rapporti con la Germania ovest che – a meno di vent’anni dalla sconfitta del nazismo – si trovava ancora sotto tutela politica, ma la sua eccezionale crescita economica l’aveva già riportata al rango di grande potenza. La creazione di un asse privilegiato franco-tedesco doveva raggiungere più scopi: improntare definitivamente le relazioni franco-tedesche alla collaborazione in tutti i campi; sottrarre la Germania ovest all’egemonia americana; fare dell’asse franco-tedesco il nucleo dell’Europa politica a venire, permettendo anche lo sviluppo di una politica di difesa autonoma. Per fare dell’Europa una «terza forza», infatti, sarebbe stato necessario creare una forza militare autonoma, ovvero in grado di sostenere anche un conflitto nucleare. Per questa ragione De Gaulle spinse il programma atomico francese, che arrivò a realizzare il primo test nucleare nel 1960. Allo stesso tempo, si impegnò per la formazione di un’organizzazione di difesa europea svincolata dalla NATO, per una politica di difesa e di sicurezza che non dipendesse più dagli Stati Uniti.
I partner europei, tuttavia, e prima fra tutti proprio la Germania, si guardarono bene dal mettere in discussione l’adesione alla NATO e la protezione degli Stati Uniti, che consideravano l’unica vera garanzia contro il pericolo di un’aggressione sovietica. Il risultato della politica di De Gaulle ebbe una dimensione unicamente nazionale: la Francia, pur continuando a essere membro della NATO, si ritirò dal comando integrato e fece uscire dal Paese tutte le forze NATO che vi erano stanziate. L’ambiziosa politica di De Gaulle, ispirata ai fasti ormai passati di una grandeur francese ai limiti del velleitarismo, si risolse in una impasse (una situazione senza soluzione) che coinvolse anche le strutture comunitarie, il cui sviluppo restò sostanzialmente bloccato fino al 1969, quando il presidente francese si ritirò dalla scena politica.
L’Ostpolitik di Willy Brandt L’iniziativa di De Gaulle verso l’Europa orientale aprì la strada anche a una svolta nella questione tedesca, che coincise con un cambiamento nel panorama politico della Germania occidentale. Tra il 1966 e il 1969 si concluse infatti il lungo periodo di governo del Partito democristiano, la CDU-CSU, mentre il Partito socialdemocratico, la SPD, assunse la guida del Paese. La SPD si era preparata a questo passo sin dal 1959 quando, con il cosiddetto programma di Bad Godesberg, aveva ufficialmente abbandonato la dottrina marxista.
Diventato cancelliere nel 1969, il leader socialdemocratico Willy Brandt inaugurò la sua Ostpolitik («politica dell’Est»), che portò ad allacciare rapporti diplomatici con la Germania est (fino a quel momento inesistenti per volontà dei governi della CDU di non avallare l’esistenza di due Germanie) e a concludere una serie di trattati con gli altri Paesi del blocco sovietico. Nel 1970, con i trattati di Mosca e di Varsavia, la Germania ovest riconobbe il confine fissato con la Polonia nel 1945 e pertanto rinunciò a ogni rivendicazione sugli antichi territori tedeschi orientali. A Varsavia per la firma del trattato, Brandt si inginocchiò spontaneamente davanti al monumento che ricordava la distruzione del ghetto di Varsavia. Questo gesto assunse un valore ancora superiore a quello del trattato tanto da essere considerato il riconoscimento della colpa collettiva del popolo tedesco.
In sostanza, gli accordi stipulati dalla Germania ovest tra il 1970 e il 1973 – che regolavano lo status di Berlino ovest, stabilivano relazioni diplomatiche tra le due Germanie e riconoscevano il confine con la Cecoslovacchia annullando gli accordi di Monaco del 1938 – assolsero la funzione di quel trattato di pace generale che non aveva potuto vedere la luce all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale. Il coronamento di questo percorso si ebbe nel 1973 con l’ammissione di entrambe le Germanie nelle Nazioni Unite.
La fine delle dittature in Grecia, Portogallo e Spagna Intorno alla metà degli anni Settanta si chiusero altre vicende le cui radici affondavano nel periodo interbellico o della Seconda guerra mondiale: terminò, infatti, il periodo delle dittature reazionarie e filofasciste in Grecia, Portogallo e Spagna. In Grecia, la dittatura – detta «dei colonnelli» perché instaurata in seguito a un colpo di Stato militare – si impose nel 1967. I colonnelli si impadronirono del potere durante una grave crisi politica seguita alla crescita delle opposizioni di sinistra. Gli Stati Uniti si affrettarono a riconoscere il regime, benché gli alleati europei fossero molto più diffidenti a causa dei metodi polizieschi dei militari, che repressero le opposizioni e violarono sistematicamente i diritti fondamentali. Un clamoroso fallimento politico e militare travolse nel 1974 i «colonnelli»: i militari tentarono di annettere l’isola di Cipro, diventata indipendente da Londra nel 1960 e abitata da una maggioranza di cultura e lingua greca e da una consistente minoranza turca; proprio per tutelare questa comunità, la Turchia reagì con le armi, sbarcando nel nord dell’isola. La Grecia tornò quindi alla vita democratica e divenne una repubblica a seguito di un referendum popolare che respinse l’ipotesi di tornare alla monarchia costituzionale ristabilita dopo la guerra. Nello stesso 1974 anche il Portogallo tornò alla democrazia, dopo la lunga dittatura di stampo fascista imposta da Antonio Salazar nel 1932 (Salazar detenne il potere fino al 1968, quindi gli successe Marcelo Caetano).
Una costosissima guerra coloniale, che sottraeva uomini e risorse a un Paese che restava molto povero, minò il regime. La sua caduta fu determinata, infatti, da un colpo di Stato organizzato il 25 aprile 1974 da un gruppo di giovani ufficiali di idee di sinistra – che avevano fatto esperienza della guerra coloniale in Angola e Mozambico – e sostenuto dal movimento comunista. L’azione cominciò poco dopo la mezzanotte del 25 aprile 1974 (il segnale venne dato con la trasmissione della canzone, proibita dal regime, Grandola vila morena) e fu incruenta: il regime cedette senza combattere e i portoghesi poterono mettere per davvero dei fiori nelle canne dei fucili, come recitava un celebre slogan pacifista del tempo; questi avvenimenti passarono alla storia come la cosiddetta «rivoluzione dei garofani», che stavano fiorendo proprio in quei giorni di primavera.
Come abbiamo già ricordato, per alcuni mesi si pensò che il comunismo potesse prendere piede in Europa occidentale, in uno dei Paesi membri della NATO. Nell’autunno del 1975, tuttavia, prevalse l’ala più moderata del fronte rivoluzionario che riuscì ad allontanare gli ufficiali più radicali. Il Paese divenne una repubblica parlamentare, in cui si sarebbero alternati governi di centro-destra e socialisti. Nel 1975 anche la Spagna vide la fine della dittatura, in seguito alla morte di Francisco Franco, che si era imposto nel 1939 al termine della guerra civile (➜ CAP. 9.8). L’opposizione al regime era cresciuta negli anni Sessanta, durante i quali il Paese aveva conosciuto profondi cambiamenti: uno sviluppo industriale e una graduale modernizzazione anche della società, dovuta, tra le altre cose, all’intensificarsi degli scambi con l’estero (mediante il turismo e i flussi migratori). La Spagna era in fermento: insieme alla forza della classe operaia, cresceva la protesta studentesca e intellettuale, e persino quella del mondo cattolico, attraversato dai cambiamenti in senso progressista promossi dalla Chiesa di papa Giovanni XXIII (➜ CAP. 17.3) che facevano vacillare uno dei principali pilastri del regime. Avevano ripreso quota anche i movimenti autonomisti e separatisti – basco, catalano e galiziano –, ostili al franchismo per il suo rigido centralismo. Una serie di attentati scosse il Paese e la fine della dittatura fu, in qualche modo, annunciata sin dal 1973 dall’omicidio, da parte dell’organizzazione basca ETA (acronimo di Euskadi Ta Askatasuna, letteralmente «Paese Basco e libertà», ➜ CAP. 17.7), dell’ammiraglio Luis Carrero Blanco, il numero due del regime.
Franco morì nel 1975, designando come suo successore Juan Carlos di Borbone, erede al trono di Spagna vacante dal 1931. Il sovrano intraprese con determinazione il delicato processo di transizione e di democratizzazione del Paese, dove tornarono a essere legali tutti i partiti, fra cui quello comunista, e liberi i sindacati. Nel 1978 il varo della nuova Costituzione fece della Spagna una democrazia a tutti gli effetti, retta da un sistema di monarchia parlamentare.
La Comunità europea al tempo della crisi Negli anni Ottanta tutti e tre i Paesi dell’area mediterranea recuperati alla democrazia entrarono nella Comunità europea: la Grecia sin dal 1981, il Portogallo e la Spagna nel 1986. La Comunità europea stava ormai cambiando volto, secondo un percorso avviato dopo la complessa stagione segnata dai progetti di De Gaulle, quando i membri della CEE vollero rilanciare il processo di integrazione economica e politica. Questa nuova fase, cominciata nei primi anni Settanta, fu favorita dalla concomitanza di alcuni fattori: dal raggiungimento degli obiettivi fissati dai Trattati di Roma: già nel corso del 1968 (in anticipo rispetto alla data prevista del 1° gennaio 1970) si varò l’unione doganale che prevedeva l’abolizione dei dazi tra i Paesi membri e l’adozione di una tariffa comune per le importazioni; dall’allargamento della Comunità che dal 1° gennaio 1973 annoverò anche il Regno Unito, l’Irlanda e la Danimarca.
Le discussioni si concentrarono sull’elaborazione di una politica economica e monetaria comune, sempre più urgenti di fronte ai rivolgimenti dei primi anni Settanta. Nel 1979 si arrivò alla creazione del Sistema monetario europeo (SME), che aveva lo scopo di limitare le fluttuazioni dei cambi tra le divise degli Stati membri, anche per evitare che un Paese usasse la svalutazione monetaria per rendere artificialmente più competitive le proprie esportazioni verso Stati in cui il denaro valeva di più (un prodotto importato poteva costare meno dell’equivalente nazionale per il gioco dei cambi di valuta). Le banche centrali avrebbero dovuto agire in modo da mantenere il valore delle rispettive monete entro una determinata banda di oscillazione. Inoltre, i valori furono calcolati non più sulla base del dollaro ma in relazione a una nuova moneta di conto europea, l’ECU. Questa riforma può essere considerata la base per la nascita della moneta unica europea, l’euro, che sarebbe avvenuta vent’anni dopo (➜ CAP. 21.6).
Sul piano politico, nel 1974 i vertici europei tra i capi di Stato avviati negli anni Sessanta cominciarono ad assumere una veste più formale, definendosi Consigli europei. Continuava in ogni caso il dualismo già messo in luce in precedenza: da una parte organismi per la concertazione tra Stati nazionali; dall’altra la struttura sovranazionale, rappresentata dalle Commissioni (soprattutto dalla Commissione della CEE, la più importante) e dalle altre istituzioni comunitarie. Nel 1976 gli Stati membri presero la decisione di far eleggere il Parlamento europeo a suffragio universale diretto. Il Parlamento era stato istituito sin dal 1957, come assemblea ristretta i cui deputati erano designati dai Parlamenti nazionali. Ora, a partire dalle elezioni del 1979, l’elettorato di ciascun Paese membro avrebbe votato i propri rappresentanti nazionali (in numero proporzionale alla popolazione). Questo rafforzamento delle strutture comunitarie in senso democratico aveva più che altro un valore simbolico, dal momento che il Parlamento europeo manteneva ancora soltanto funzioni consultive e non legislative. Al contempo, su un piano più pragmatico, si rafforzò il diritto comunitario, grazie all’azione determinata della Corte di giustizia europea (il tribunale previsto dai Trattati di Roma che sovraintendeva all’applicazione e all’interpretazione del nascente diritto europeo). Sin dagli anni Sessanta la Corte agì affermando tendenzialmente la superiorità delle norme comunitarie su quelle nazionali e inoltre cominciò a estenderle. Si creò così uno spazio giuridico europeo in grado di prefigurare un’integrazione non soltanto economica, ma anche pienamente politica e sociale, aprendo la strada al processo di definizione di una cittadinanza europea, che sarebbe stata introdotta nel 1992.
4 La Cina dalla «rivoluzione culturale» alla morte di Mao Tse-tung
Il fallimento del «grande balzo in avanti» Alla fine degli anni Cinquanta, malgrado i buoni risultati del primo piano quinquennale, la Cina popolare continuava a essere un Paese arretrato sia nel settore industriale sia in quello agricolo. Dalla fine della guerra civile, la popolazione era aumentata a un ritmo molto elevato, passando da circa 540 milioni nel 1950 a circa 640 milioni nel 1960, e questo poneva grossi problemi alimentari e di occupazione: come sfamare e dove impiegare quei milioni di nuove leve? Nel 1958 la dirigenza cinese, con alla testa Mao Tse-tung, tentò di incrementare il ritmo della crescita, lanciando un programma battezzato il «grande balzo in avanti». L’idea era quella di sviluppare contemporaneamente l’agricoltura e l’industria, sia pesante sia leggera, facendo leva sull’enorme quantità di manodopera disponibile. La base dell’organizzazione doveva essere la «Comune popolare», un’unità economica-amministrativa che poteva riunire da 4000 a 10.000 famiglie e doveva diventare un complesso agrario e industriale autosufficiente. Con la Comune veniva perfezionata anche la collettivizzazione, dal momento che terre, bestiame, attrezzi, mezzi di produzione, servizi ecc. diventavano proprietà e attività dei membri della Comune. Il «grande balzo» si animò di una fortissima spinta ideologica, che accordava la priorità agli obiettivi sociali e politici rispetto a quelli strettamente economici. Prima che modernizzare il Paese, doveva creare una società totalmente nuova, egualitaria e anti-individualista, che si spingeva a immaginare l’abolizione, di fatto, del nucleo familiare e della vita privata. Questo progetto, tuttavia, si risolse in un catastrofico fallimento: i problemi organizzativi, gli errori tecnici (dovuti proprio al primato assoluto accordato all’ideologia, che procedette incurante dei dati oggettivi) e una serie di sfortunate circostanze (una serie di calamità naturali colpirono la Cina riducendo i raccolti) fecero crollare sia la produzione agricola sia quella industriale. Tra il 1959 e il 1961, poi ribattezzati i «tre anni neri», in Cina si ebbero almeno 14 milioni di morti di fame (secondo le cifre ufficiali, ma alcuni studiosi avanzano stime più alte). La rottura con l’Unione Sovietica In quegli stessi anni Pechino arrivò a rompere con l’Unione Sovietica: il distacco da Mosca equivaleva a una rivendicazione di indipendenza sia nazionale sia ideologica. La Cina intendeva diventare un protagonista autonomo sulla scena internazionale ed elaborare una propria via originale al socialismo. Mao era fortemente critico nei confronti della linea adottata da Kruscev nel 1956: freddo in merito alla destalinizzazione, accusava i sovietici di tradire la rivoluzione, soffocata nelle strutture burocratiche del partito che di fatto riproponeva soltanto una versione diversa e «di Stato» del capitalismo, ed era contrario all’idea di convivenza pacifica. Secondo il «grande timoniere» (uno dei soprannomi con cui era noto Mao) bisognava condurre una politica più aggressiva, perché le potenze capitaliste erano in difficoltà e non ne andava sopravvalutata la forza: erano soltanto «tigri di carta», secondo una sua celebre definizione. La tensione tra Pechino e Mosca sarebbe cresciuta per tutti gli anni Sessanta, mentre a livello internazionale Pechino, come abbiamo visto (➜ PAR. 2), giunse a un accordo con gli Stati Uniti all’inizio degli anni Settanta, mentre ruppe i rapporti con il regime vietnamita, rimasto filosovietico (➜ CAP. 15.2). La «rivoluzione culturale» Nel frattempo la Cina visse fortissime tensioni interne. Il fallimento del «grande balzo» aveva fatto emergere un’ala moderata, che tra le sue fila contava anche Deng Xiao-ping, segretario del Partito comunista cinese, e Liu Shaoqi, il presidente della Repubblica (mentre Mao conservava la carica di presidente del Comitato centrale del Partito comunista, cruciale per avere il controllo su tutta l’organizzazione di partito).
A differenza di Mao, che sosteneva il primato della politica e dell’ideologia sull’economia (non sarebbe stato lo sviluppo economico a portare alla nascita di una società socialista, ma al contrario l’affermazione di quest’ultima avrebbe prodotto un determinato sviluppo produttivo), il gruppo moderato era convinto della necessità di ridare priorità a criteri economici, per evitare le sciagure dei tre anni precedenti. Il conflitto tra queste due opzioni si sviluppò sotterraneamente fino a esplodere tra il 1965 e il 1966. Contro i moderati, che erano riusciti a prendere temporaneamente il controllo del Comitato centrale del partito, Mao scatenò un’offensiva ideologica che ebbe pesanti conseguenze pratiche. Per riprendere le redini del partito, si appoggiò sull’esercito e soprattutto sulla gioventù cinese, gli studenti in particolare, che aderirono in massa al movimento delle «guardie rosse». Sin dal 1964 Mao aveva diffuso su larga scala il suo Libretto rosso, una raccolta di massime rivoluzionarie che esaltavano i valori dell’egualitarismo e del collettivismo (divenne un punto di riferimento ideologico anche per alcuni settori dei movimenti di contestazione sorti in Occidente a partire dal 1968, ➜ CAP. 17). Quindi nell’estate del 1966 cominciò ufficialmente il movimento della «grande rivoluzione culturale», animato da slogan quali «bombardare il quartier generale». Le masse giovanili ebbero mano libera contro quelle che venivano indicate come le élite intellettuali e burocratiche, in nome di una purezza rivoluzionaria da ristabilire scalzando funzionari e tecnocrati dalle loro posizioni di privilegio che si erano create appunto tradendo la rivoluzione. La protesta giovanile rovesciò le gerarchie con violenza, costringendo i quadri del partito contrari a Mao a umilianti autocritiche pubbliche, cui seguivano internamenti o periodi di «rieducazione» che, per esempio, prevedevano l’obbligo di svolgere lavori manuali. Tra i vecchi dirigenti che subirono l’epurazione si trovò anche Deng Xiao-ping. Il Paese piombò in un caos violento. Non esiste un bilancio delle vittime della «rivoluzione culturale», le stime oscillano da qualche decina di migliaia ad alcuni milioni di morti. La spinta delle «guardie rosse» si esaurì progressivamente tra il 1967 e il 1968, anche per l’intervento di Mao che ormai aveva raggiunto lo scopo che si era prefissato: la sconfitta e la rimozione dei moderati.
Verso una nuova Cina Tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, la Cina avviò un consistente recupero economico: la sua agricoltura, benché ancora poco meccanizzata, era diventata più produttiva di quella indiana, mentre la sua industria si collocava, per quantità di prodotto, tra le prime dieci al mondo, benché ancora molto lontana dai livelli statunitensi, europei e sovietici. A rendere il Paese un potenziale terzo grande polo mondiale contribuiva lo sviluppo del programma atomico: la Cina fece esplodere la sua prima bomba A nel 1964 e la sua prima bomba H nel 1967. Anche per queste ragioni a metà degli anni Settanta poté riprendere quota la proposta dei sostenitori della linea moderata, o pragmatica, attenta agli indicatori della crescita economica. Intorno al 1974-75, questo gruppo ritrovò il suo vecchio leader Deng Xiao-ping, il quale venne «riabilitato», come moltissimi altri dirigenti caduti in disgrazia durante la rivoluzione culturale. Dopo la morte di Mao, avvenuta nel 1976, la linea di Deng si impose al vertice della Cina: le questioni economiche divennero prioritarie, venne lanciata la campagna delle «quattro modernizzazioni» (ovvero nell’industria, nell’agricoltura, nella difesa nazionale e nel campo scientifico e tecnologico) e la politica della «porta aperta», che prevedeva l’intensificazione degli scambi commerciali con il mondo capitalista. Allo stesso tempo era abbandonata la collettivizzazione integrale in agricoltura e, all’interno del Paese, si aprivano spazi sempre più consistenti – sia pure attentamente controllati dal Partito – all’economia di mercato. La Cina cominciava così un programma di modernizzazione guidata dall’alto paragonabile a quello conosciuto dal Giappone nel XIX secolo. Questo significò procedere anche a una progressiva «demaoizzazione», a tutti i livelli. I successori di Mao accantonarono ogni progetto di società egualitaria per lasciar spazio a un diverso singolare esperimento: quello di uno Stato autoritario e dirigista, guidato da un partito ufficialmente sempre comunista, impegnato a incentivare un impetuoso sviluppo economico, tale da avviare la Cina a diventare la nuova grande superpotenza del XXI secolo.
5 Dall’Estremo al Medio Oriente: modernizzazione e «islam politico»
Il fermento economico e politico dell’Asia Nel corso degli anni Settanta il grande continente asiatico divenne il teatro di altri importanti rivolgimenti che portarono alla ribalta due fenomeni di natura molto diversa, ma entrambi destinati a incidere sugli assetti planetari e a disegnare il volto del mondo in cui viviamo oggi: alla crescita economica del Giappone, che proseguì anche dopo lo shock petrolifero del 1973, si affiancò quella dei Paesi del Sud-Est asiatico; dall’Asia centrale al Medio Oriente, si assistette all’ascesa dell’«islam politico», ossia di quei gruppi e movimenti che prendono le mosse dalla fede musulmana per creare uno Stato islamico tradizionalista fondato sui principi della sharia (➜ CAP. 15.3 E 4).
Il Giappone all’avanguardia A differenza di quanto accadde in Europa, il grande «miracolo economico» giapponese non si arrestò all’inizio degli anni Settanta: la crisi petrolifera del 1973 inferse un duro colpo al Paese del Sol Levante, che tuttavia ne risentì meno dei partner occidentali perché la sua industria seppe ristrutturarsi in tempi record, forte anche dei risultati del ventennio precedente. Il sistema industriale nipponico si pose alla testa di un processo di innovazione che poi si sarebbe diffuso in tutto il mondo occidentale (➜ CAP. 17), fondato sul ricorso a sistemi di automazione (ovvero impiego di robot) e su una nuova organizzazione della produzione che migliorava l’efficienza e la produttività, eliminando sprechi di materie prime e di tempo di lavoro. Il modello giapponese poneva particolare attenzione alla risposta «flessibile» della produzione, secondo i principi del just in time, per cui essa doveva rispondere alla richiesta del mercato, praticamente su ordinazione, e non precederla (cosa che determina forti costi di stoccaggio ed espone al rischio di avere magazzini pieni di merci invendute). Questo insieme di innovazioni del processo produttivo – denominato «toyotismo» perché teorizzato in particolare nell’ambito del gruppo industriale Toyota – portò al superamento del modello fordista (➜ CAP. 1.2) e al consolidamento del vantaggio competitivo, che il Giappone conservò sugli Stati Uniti e sull’Europa fino a tutti gli anni Ottanta. Nello stesso periodo, i notevoli investimenti delle aziende e dello Stato nella ricerca e nell’istruzione (alla base della creazione di una manodopera altamente qualificata) si tradussero in una leadership dell’industria giapponese nei settori emergenti dell’elettronica. Le «tigri asiatiche» La crescita economica giapponese trainò l’area del Sud-Est asiatico dove, a partire dagli anni Sessanta, cominciarono a emergere le economie di quattro Paesi: Corea del Sud, Taiwan, Singapore (che alla fine degli anni Sessanta si era reso indipendente dalla Malesia) e Hong Kong (allora ancora colonia britannica, uno degli ultimi residui dell’imperialismo europeo: sarebbe passata sotto la sovranità della Cina popolare soltanto nel 1997, ➜ CAP. 21.5). Questi Paesi legarono il loro sviluppo sostanzialmente a una crescita industriale diretta non al mercato interno ma all’esportazione. Alla fine degli anni Ottanta le esportazioni complessive dei quattro Paesi rappresentavano oltre l’8 per cento del commercio mondiale (alla stessa data il Giappone realizzava poco meno del 10 per cento, mentre tutta l’America centro-meridionale assommava poco più del 4 per cento). Questi strabilianti risultati economici – che non conobbero battute d’arresto sino a una crisi sopravvenuta alla fine degli anni Novanta – fecero sì che in Occidente si cominciasse a parlare di «dragoni» o «tigri asiatiche».
A partire dagli anni Ottanta, la crescita economica si diffuse in altri Paesi del Sud-Est asiatico, secondo cronologie diverse; nel novero delle cosiddette «economie emergenti» sarebbero entrate anche la Malesia, l’Indonesia, la Thailandia, le Filippine e, infine, anche il Vietnam e la Cambogia – che lentamente superarono le scorie e i traumi dei conflitti degli anni Settanta.
L’importanza del petrolio Intanto, nel mondo musulmano, tra il Medio Oriente e l’Asia centrale, riprese l’ascesa dell’islam politico, quell’opzione che durante il processo di decolonizzazione era risultata perdente di fronte a modelli di ispirazione occidentale, peraltro appoggiati dalle stesse potenze coloniali. Si trattava, soprattutto in Medio Oriente, di un’area la cui importanza strategica era costantemente cresciuta insieme con le sue riserve ed esportazioni di petrolio, che alimentavano l’economia mondiale (alla fine della Seconda guerra mondiale, il petrolio mediorientale rappresentava il 7 per cento della produzione mondiale, nel 1973 la quota era giunta al 38 per cento). I ricavi del petrolio, incrementati in modo esorbitante in seguito allo shock degli anni Settanta, avevano finanziato la stabilità politica di molti Stati dell’OPEC, soprattutto degli Emirati arabi che in quegli anni cominciarono ad assumere l’odierna fisionomia. Si affermavano, infatti, come regimi autoritari capaci di creare consenso interno mediante programmi di investimento (tali anche da attrarre forza lavoro dall’estero), assistenza, istruzione e la cooptazione delle classi medio-alte, impiegate nell’amministrazione. Sulla scena internazionale questi Stati assunsero sempre di più un ruolo da protagonisti perché alle esportazioni di petrolio affiancarono enormi investimenti esteri (dei capitali ottenuti dalla vendita del cosiddetto «oro nero»), nelle stesse economie occidentali, a cominciare da quella statunitense.
Questi impetuosi mutamenti portarono anche forti tensioni, che vennero governate con esiti diversi. Per esempio, la dinastia reale dell’Arabia Saudita, seguendo una politica fortemente conservatrice, fece in modo di mantenere il consenso dei leader religiosi wahabiti, rappresentati della più intransigente ortodossia dell’Islam sunnita, evitando così che diventassero un punto di riferimento per un’opposizione politica in grado di destabilizzare l’assetto raggiunto.
La rivoluzione khomeinista in Iran Le cose andarono diversamente in Iran dove lo scià Reza Pahlavi nel 1953 era stato rimesso sul trono dagli Stati Uniti (➜ CAP. 15.4). Il sovrano avviò una politica di rapida modernizzazione, finanziata dal petrolio, che tuttavia andò incontro a un altrettanto veloce fallimento. Pahlavi fece scelte dissennate (come quella di istituire un costosissimo esercito) e finì per scontentare tutti: le classi medio-alte tradizionali penalizzate dalla riforma agraria (in verità modesta) e dalla priorità accordata allo sviluppo industriale; i nuovi ceti urbani e intellettuali legati alla modernizzazione, che diedero vita a un’opposizione politica di stampo laico, in parte liberale e in parte marxista, duramente repressa dalla polizia; le autorità islamiche (sciite, secondo la confessione musulmana dominante in Iran), ostili alla modernizzazione in senso occidentale (che coinvolgeva ormai anche il diritto di famiglia e il sistema educativo). Nel 1978 il malcontento si inasprì sia per il carattere autoritario e l’evidente corruzione del regime, sia per una crisi economica legata a investimenti sbagliati. In questo clima, l’opposizione religiosa trovò un punto di riferimento in Ruhallah Khomeini, un ayatollah, ovvero un leader religioso, da tempo impegnato nell’opposizione contro lo scià, e per questo esiliato sin dal 1964, prima in Turchia e in Iraq e poi in Francia. Khomeini sosteneva la necessità di rovesciare la monarchia per stabilire uno Stato islamico. Nel corso dell’anno, dal suo esilio parigino, Khomeini riuscì a imporsi sulla scena mediatica internazionale come guida della protesta contro lo scià (dal canto suo largamente screditato anche agli occhi dell’opinione pubblica occidentale, per la sua politica autoritaria). In patria, i discorsi di Khomeini circolavano in testi fotocopiati e incisi nelle audiocassette: anche le rivoluzioni entravano in una nuova era mediatica. Mentre l’opinione pubblica mondiale era ancora attardata dentro le gabbie ideologiche della guerra fredda e imbrigliata nello scontro tra Est e Ovest che, nella sua ormai regolata conflittualità, sembrava quasi un orizzonte rassicurante, si apriva in Iran una nuova faglia del conflitto mondiale che si sarebbe rivelata carica di futuro. Di fronte al crescere dell’agitazione di massa, in particolare nella capitale Teheran, che portò al blocco del Paese, nel gennaio 1979 lo scià decise di lasciare l’Iran. Il 1° febbraio 1979, Khomeini rientrò a Teheran decidendo le sorti della rivoluzione: i religiosi presero la guida del Paese, eliminando rapidamente le altre forze di opposizione liberali e marxiste che pure erano state protagoniste sino a quel momento. L’Iran diventò così una Repubblica islamica di stampo teocratico, con una Costituzione che prevedeva la subordinazione delle istituzioni politiche (presidente, governo e Parlamento) alle autorità religiose (la Guida Suprema coadiuvata da un Consiglio dei Saggi); la fonte legislativa era naturalmente la sharia.
Come altre volte nel passato dell’umanità, la storia ritornava a zampillare laddove sembrava una fonte esaurita e dimenticata. In pochi, in quei giorni, se ne accorsero: in parte perché erano intenti a commentare l’ultima installazione dei missili NATO a medio raggio in Europa per contrastare gli SS20 sovietici, in parte poiché erano convinti che quelle sconfinate turbe festanti che alzavano i pugni e si battevano il petto fossero l’ultima manifestazione di un Medioevo perduto e non la prova di una inquietante modernità con cui si sarebbero dovuti confrontare a lungo.
Uno smacco per gli Stati Uniti e l’Occidente Il regime khomeinista si presentò subito come un punto di riferimento per i gruppi islamisti e assunse una posizione risolutamente antiamericana, antioccidentale e antisraeliana. Proprio quando gli Accordi di Camp David tra Egitto e Israele (➜ CAP. 15.4) sembravano aver aperto uno spiraglio per la pacificazione del Medio Oriente, ecco che si presentavano nuove tensioni e crisi. Nel novembre 1979, a Teheran, un’imponente manifestazione studentesca sfociò nell’assalto contro l’ambasciata americana. Una cinquantina di diplomatici statunitensi si ritrovarono in ostaggio. Nell’aprile 1980 il presidente Carter (che nel 1976 aveva riportato i democratici alla Casa Bianca e nel 1978 patrocinato l’accordo israelo-egiziano) autorizzò un’azzardata operazione di salvataggio, che si concluse con un fallimento. Questi eventi fecero crollare l’autorevolezza di Carter e condizionarono le elezioni presidenziali del novembre 1980 in cui prevalse il candidato repubblicano Ronald Reagan, con cui sarebbe cominciata una nuova fase politica (➜ CAP. 17). Le autorità iraniane accettarono di riconsegnare gli ostaggi solo alla fine del gennaio del 1981, dopo l’insediamento del nuovo presidente.
La guerra Iran-Iraq L’avvento del regime sciita a Teheran rinfocolò inoltre la tradizionale tensione con l’Iraq, un altro grande produttore di petrolio del Medio Oriente. Negli stessi mesi in cui in Iran si affermava la rivoluzione khomeinista, a Baghdad si affermava la leadership laica di Saddam Hussein, che si presentava come erede politico del nasserismo e del socialismo arabo (➜ CAP. 15.4). Sostenitore di un programma di modernizzazione e di occidentalizzazione, Hussein si impose come dittatore di un Paese molto complesso e fragile, perché attraversato da profonde divisioni tribali, etniche e religiose. In particolare la popolazione, di fede islamica, era divisa tra una maggioranza di sciiti e una consistente minoranza di sunniti, che godeva tuttavia di una posizione politica e sociale preminente nel Paese: lo stesso Hussein era sunnita.
La rivoluzione iraniana fece temere a Hussein un «contagio» tra gli sciiti iracheni. A questo motivo di tensione si aggiungevano obiettivi geopolitici ed economici: la volontà di stabilire la supremazia nella regione del Golfo Persico e di accaparrarsi altre zone petrolifere. Nel settembre 1980 l’Iraq invase l’Iran, avviando una lunga e sanguinosa guerra che si sarebbe conclusa soltanto nel 1988 senza produrre alcuna modifica allo status quo precedente (le stime parlano di circa 1,5 milioni di morti complessivi, molti dei quali giovani caduti al fronte). Gli Stati Uniti si schierarono ufficialmente con l’Iraq, l’Unione Sovietica con l’Iran, ma in realtà entrambe le superpotenze rifornivano di armi i due contendenti, contando di indebolire regimi considerati comunque poco affidabili.
La questione palestinese e la crescita del fondamentalismo Il regime iraniano rilanciò e radicalizzò ulteriormente anche la lotta contro Israele, condotta facendo ricorso a tecniche di guerriglia e terroristiche sia a livello locale sia internazionale. Per esempio, nel 1982, nel Libano che Israele aveva appena invaso cominciò ad agire il gruppo Hezbollah (letteralmente «partito di Dio»), ispirato dalla predicazione di Khomeini e addestrato e finanziato dall’Iran. L’anno prima, nel 1981, un militante di un’organizzazione fondamentalista facente capo ai Fratelli musulmani aveva ucciso il presidente egiziano Sadat come ritorsione per la pace stipulata con Israele (Accordi di Camp David, 1978 ➜ CAP. 15.4). Queste posizioni, che oggi sono classificate sotto le generiche etichette di «fondamentalismo» o «radicalismo islamico», cominciarono a rafforzarsi in tutto il vasto e complesso mondo musulmano. La crescente politicizzazione (o uso politico) dell’Islam, ossia la volontà di costruire un progetto tradizionalista a partire da una fede religiosa, sembrò rappresentare l’inevitabile movimento di ritorno di un pendolo. Nel corso della decolonizzazione, i principali Paesi musulmani, compreso quelli arabi, avevano abbracciato progetti di Stato laico nazionalista e perlopiù socialisteggiante, che avevano avuto temporaneamente il sopravvento sull’opzione tradizionalista di carattere religioso. Quest’ultima riprendeva quota in una fase critica per le società di quei Paesi, anche a causa delle conseguenze della modernizzazione socio-economica in corso che stava travolgendo le strutture tradizionali (le gerarchie sociali, le attività economiche rurali, l’organizzazione famigliare, i rapporti con l’autorità pubblica).
La serie di fallimenti, le prove di malgoverno e una crescente corruzione che caratterizzavano le classi dirigenti postcoloniali alimentarono lo scontento, dando vita a un circolo vizioso senza apparente via d’uscita. In questi anni cominciarono a delinearsi altre due caratteristiche dell’islamismo radicale, per certi aspetti contraddittorie. Per un verso, il mondo musulmano non si mostrava affatto come monolitico, essendo vastissimo, complesso e attraversato da diverse correnti confessionali; queste divisioni interne si riflettevano nella galassia del radicalismo islamico, dove emersero anche profondi antagonismi. Per un altro, cominciò a emergere una disponibilità «dal basso» a partecipare a un movimento islamico radicale internazionale, che si manifestò per la prima volta nell’afflusso di volontari islamici nella guerra di resistenza antisovietica cominciata in Afghanistan sempre nel 1979. L’invasione sovietica in Afghanistan Alla fine degli anni Settanta gli schemi del mondo bipolare condizionati dalla guerra fredda e i nuovi fenomeni emergenti nel mondo musulmano si incrociarono sulle montagne dell’Afghanistan dove, nel 1978, in seguito a un colpo di Stato militare, si era imposto un regime di ispirazione comunista e filosovietico. Il governo afghano lanciò un programma di riforme e di modernizzazione dall’alto che buona parte della popolazione accolse malvolentieri. Questo scontento alimentò una resistenza di matrice islamica, sostenuta anche dal vicino Pakistan, dall’Iran e dalla Cina (in chiave antisovietica). Varie regioni del Paese sfuggirono al controllo di Kabul. L’Unione Sovietica cercò di stabilizzare il regime afghano, guidando anche alcuni cambiamenti al vertice, in cerca di soluzioni mediate e moderate. Di fronte al continuo insuccesso politico, e temendo ormai che la ribellione islamica potesse fare breccia tra le popolazioni musulmane delle repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, il 27 dicembre 1979 l’Armata rossa invase l’Afghanistan. Questa azione surriscaldò immediatamente il clima internazionale: gli Stati Uniti reagirono con ritorsioni simboliche e materiali (decisero di boicottare i giochi olimpici del 1980, ospitati da Mosca, e bloccarono le esportazioni di cereali dirette in Unione Sovietica), ma soprattutto cominciarono a finanziare la guerriglia musulmana in funzione anticomunista e antisovietica, rifornendola di armi moderne attraverso il Pakistan.
Per i sovietici l’Afghanistan rappresentò l’equivalente del Vietnam per gli americani: per quasi dieci anni vi sacrificarono risorse, uomini (circa 50.000 soldati dell’Armata rossa morirono o furono feriti nel conflitto) e orgoglio nazionale senza riuscire a venire a capo della guerriglia islamista.
Il ritiro sovietico avvenne all’inizio del fatidico anno 1989. Letta con le lenti della guerra fredda, l’invasione dell’Afghanistan costituì un errore di calcolo che accelerò la definitiva crisi dell’URSS (➜ CAP. 20). Oggi, a distanza di tempo, questi eventi si possono leggere anche come un errore di calcolo dell’Occidente, che finanziò e inondò di armi una sorta di «internazionale» del radicalismo islamico pensando di potersene servire senza particolari controindicazioni. Basti pensare che tra quei guerriglieri musulmani foraggiati con armi e denaro dagli Stati Uniti mediante i servizi segreti pakistani ricorre anche il nome di un giovane sceicco saudita, Osama bin Laden, il quale aveva risposto alla chiamata dell’internazionalismo islamico in difesa dell’Afghanistan contro l’imperialismo sovietico nelle fila dei mujaheddin («combattenti per la jihaˉd»). In realtà, come vedremo nei prossimi capitoli – e come ci raccontano le cronache di oggi – il fondamentalismo islamico si sarebbe affermato come un soggetto autonomo, sfuggendo a ogni tentativo di controllo. Per questa ragione una guerra periferica come quella in Afghanistan, all’apparenza destinata solo ad accompagnare il declino dell’impero sovietico, annunciò invece un’epoca nuova, l’età del cosiddetto «disordine mondiale» in cui siamo ancora immersi che, nel giro di un paio di decenni, avrebbe soppiantato l’«ordine bipolare» della guerra fredda.
1 Dalla crisi alla distensione: gli anni di Kennedy e di Kruscev
Continua la competizione USA-URSS Sul finire degli anni Cinquanta, l’apice della tensione tra le due superpotenze sembrava superato e alcuni segnali suggerivano che il confronto fosse avviato a svolgersi pacificamente, facendo tramontare la costante minaccia al ricorso delle armi.
Il presidente Eisenhower chiuse il suo duplice mandato, nel gennaio 1961, con un discorso in cui metteva in guardia dai pericoli di una eccessiva militarizzazione e dalla perniciosa influenza del «complesso militare-industriale» sulla vita democratica.
Dal canto suo, il leader sovietico Kruscev cominciava a vedere come una priorità il rallentamento delle spese militari, al fine di vincere la sfida contro gli Stati Uniti – come aveva più volte ribadito (➜ CAP. 14) – sul terreno del benessere. In quegli anni, le economie del blocco sovietico erano ancora abbastanza dinamiche da far sembrare realistica questa prospettiva. Inoltre, i sovietici erano reduci da una straordinaria vittoria tecnologica e simbolica: nell’ottobre del 1957 avevano mandato in orbita il primo satellite artificiale, lo «Sputnik» (in russo «compagno di viaggio»).
Nuove frontiere All’inizio del 1961, mentre gli Stati Uniti erano ancora scossi dai successi dei sovietici nella corsa allo spazio, l’avvento alla Casa Bianca del democratico John Fitzgerald Kennedy fu accolto come l’annuncio di un nuovo corso, che segnalava anche i mutamenti recenti intervenuti nella società americana. Per la prima volta un presidente degli Stati Uniti era cattolico ed era il primo a essere nato nel XX secolo: con i suoi 43 anni era (e resta ancora) il più giovane capo dello Stato mai eletto direttamente dal corpo elettorale americano.
La sua vittoria rivelò anche l’importanza politica di un nuovo strumento di comunicazione: la televisione, già bene di consumo di massa negli Stati Uniti (➜ ANCHE CAP. 17). Nel confronto, trasmesso sul piccolo schermo, con il suo antagonista, il repubblicano Richard Nixon, Kennedy apparve più brillante e fotogenico: il suo volto, in qualche misura, si rivelò vincente non meno del suo programma e della sua retorica. Di per sé, il fenomeno della propaganda mediante l’immagine non costituiva una novità, ma risultavano totalmente inedite le dimensioni dello spazio e del tempo in cui si realizzava: la vastità della platea a cui il messaggio visivo si rivolgeva, e lo stile imposto da un mezzo così rapido nel diffonderlo come la televisione.
Kennedy si presentava con un ambizioso programma di rilancio della società americana in senso progressista, che aveva elaborato con l’aiuto di un gruppo di tecnici e di intellettuali della sua stessa generazione, e racchiuso nello slogan «la nuova frontiera». Questa immagine faceva leva su uno dei miti fondatori della nazione americana: la sfida dei pionieri alla «frontiera», ossia la spinta alla colonizzazione del «lontano Ovest» avvenuta nel corso del XIX secolo. La «frontiera» da sfidare nel XX secolo era quella di una migliore democrazia, basata su una reale affermazione dei diritti di cittadinanza, estesa a tutti, e su una più ampia giustizia sociale: contro la povertà, le distanze sociali e soprattutto contro la segregazione razziale di cui erano ancora vittime milioni di cittadini statunitensi di pelle nera (➜ CAP. 14.1 e avanti, PAR. 2).
Si può dire che ci fosse anche una dimensione fisica nella «frontiera» kennediana: il nuovo mondo da raggiungere e colonizzare era lo spazio. Per volontà di Kennedy il programma spaziale americano subì un enorme potenziamento e superò di slancio quello sovietico, fino a riuscire a «conquistare» la Luna, nel luglio 1969.
Il muro di Berlino In politica estera la presidenza Kennedy si rivelò di gran lunga meno innovativa: nel solco dei predecessori, mantenne una retorica dai toni apocalittici nei confronti dell’antagonista sovietico (l’anticomunismo continuava a essere un argomento di forte presa sull’opinione pubblica americana e pertanto cruciale nelle competizioni elettorali), accompagnata tuttavia dalla volontà di non far precipitare il mondo in una guerra letale.
Due gravi crisi internazionali segnarono i primi anni Sessanta. Una ebbe luogo in Europa e riguardava la questione della Germania, che non aveva ancora trovato una definitiva soluzione formale.
Sin dal 1958 Kruscev aveva lanciato un’offensiva diplomatica in merito alla situazione di Berlino, che ufficialmente continuava a essere sottoposta all’occupazione congiunta delle quattro potenze antifasciste, proponendo che la città fosse dichiarata «libera» e smilitarizzata.
Il negoziato di fatto non ebbe neppure inizio, per la manifesta volontà degli Stati Uniti di conservare la propria presenza a Berlino ovest. Dopo che, nel giugno 1961, Kennedy ribadì ancora una volta questo orientamento, Mosca incassò l’insuccesso, autorizzando però il regime di Berlino est a costruire un muro di separazione tra le due parti dell’ex capitale tedesca e a fortificare ulteriormente il resto della frontiera con la Germania ovest. Peraltro le autorità della Germania est premevano da tempo su Mosca in questo senso, per bloccare la fuga di massa dei propri cittadini: tra il 1949 e il 1961 circa 2,5 milioni di tedeschi orientali, perlopiù giovani, erano infatti passati a ovest, principalmente usando il varco berlinese.
Il muro di Berlino fu eretto la notte del 13 agosto 1961: per poco meno di trent’anni, finché non venne abbattuto il 9 novembre 1989 (➜ CAP. 20), sarebbe stato uno dei confini più sorvegliati del mondo, il simbolo della guerra fredda, ma anche la traccia materiale e visibile della mancanza di libertà nel campo sovietico e della miscela di forza e di impotenza – per il progressivo affievolirsi di spinte ideali, di consensi e di prospettive – che caratterizzava le cosiddette «democrazie popolari».
I missili a Cuba L’altra crisi ebbe per scenario l’isola di Cuba che, in seguito alla maldestra reazione degli Stati Uniti alla rivoluzione castrista (➜ CAP. 15.6), era diventata un membro del blocco sovietico, portando la frontiera della guerra fredda a poche miglia marine di distanza dalla costa della Florida.
Temendo il ripetersi di tentativi d’invasione come quello dell’aprile 1961, il governo cubano incrementò le richieste di aiuti militari a Mosca. Non potendo impegnarsi ulteriormente in spese per armi convenzionali, il Cremlino giocò la carta del nucleare e cominciò, nell’estate del 1962, l’installazione di missili sull’isola (dove peraltro, per uno di quegli strani casi che governarono gli equilibri della guerra fredda, gli Stati Uniti ancora conservavano la base navale di Guantanamo, ottenuta in affitto al termine della guerra ispano-americana del 1898).
Nell’ottobre del 1962 gli americani ebbero le prove – grazie a fotografie scattate dai loro aerei spia – e denunciarono pubblicamente la presenza di rampe di lancio missilistiche a Cuba. Per qualche giorno il mondo rimase con il fiato sospeso, temendo lo scoppio della terza guerra mondiale, ma le diplomazie dei due Paesi si mossero dietro le quinte in modo tale da evitare rotture irreparabili, giungendo a una soluzione. L’Unione Sovietica accettò infine di ritirare i missili da Cuba, ottenendo dagli americani la promessa di non invadere l’isola.
Inoltre, pochi mesi dopo gli USA acconsentirono a un’altra richiesta sovietica, quella di smantellare le loro basi missilistiche in Turchia. Kennedy aveva accettato questa seconda condizione a patto che non fosse resa pubblica (ufficialmente i missili che erano in Turchia furono ritirati perché ormai obsoleti). La pace fu salvata dalle mosse di una diplomazia segreta, tuttavia da questo gioco delle parti era soprattutto l’immagine dell’Unione Sovietica a venire intaccata.
Verso la distensione, senza i suoi protagonisti La crisi cubana era stata così grave da spingere i governi delle superpotenze a valorizzare il ruolo dello spionaggio internazionale e a trovare nuovi meccanismi diplomatici per evitare lo scoppio di una guerra nucleare a causa di un fraintendimento o di un errore nella catena di comando.
Erano angosce materiali che occupavano le coscienze e l’immaginario di milioni di cittadini nel mondo e che avrebbe trovato le più disparate manifestazioni sul terreno della cultura e dell’industria dell’intrattenimento, per esempio nella interminabile saga letteraria e cinematografica dell’agente segreto 007 James Bond (il primo film è proprio del 1962), o nel capolavoro di Stanley Kubrick, uscito nel 1964, Il dottor Stranamore, una terribile commedia grottesca in cui un generale americano, guerrafondaio e anticomunista, provoca lo scoppio della guerra a dispetto delle intenzioni del suo presidente, che non riesce più a fermare il corso degli eventi una volta innescati.
Il Cremlino e la Casa Bianca si collegarono tra loro grazie a una linea diretta di telescriventi (un’evoluzione del telegrafo), detta «linea rossa». Finalmente cominciarono dei negoziati per ridurre gli armamenti, arrivando a un primo accordo per il bando dei test nucleari di superficie.
In Germania, le diplomazie accettarono prudentemente la situazione determinatasi sul campo. Kennedy peraltro seppe ravvivare la retorica della guerra fredda: nel corso della sua visita ufficiale a Berlino ovest, nel giugno del 1963, pronunciò un celebre discorso in cui – dichiarandosi egli stesso cittadino di Berlino («Ich bin ein Berliner») – esprimeva la vicinanza di tutto il «mondo libero» ai berlinesi «assediati».
Fu l’ultima grande apparizione di Kennedy sulla scena internazionale. Pochi mesi dopo, il 22 novembre 1963, venne assassinato a Dallas, in Texas, in circostanze mai del tutto chiarite. Questa tragica morte, avvolta in un alone di mistero, lo fece entrare immediatamente nel mito, quello degli eroi portatori di speranza abbattuti a tradimento nel pieno della loro forza e giovinezza.
Un’analisi degli effettivi risultati dei tre anni della sua presidenza peraltro ha indotto molti studiosi ad abbandonare i toni epici della propaganda per abbracciare un’analisi più realistica ed equilibrata: come abbiamo già detto, in politica estera Kennedy seguì un copione piuttosto tradizionale, avviando anche l’impegno americano in Vietnam (➜ CAP. 15.2), mentre l’ambizioso programma di riforme interne dovette attendere il suo successore, Lyndon Johnson, per decollare.
Undici mesi dopo, nell’ottobre del 1964, usciva di scena anche Kruscev. Gli organi del partito costrinsero alle dimissioni il leader sovietico, che pagò un riformismo interno e un dinamismo in politica estera a cui non avevano corrisposto risultati considerati all’altezza. Se lo scacco subito a Cuba svolse un ruolo importante nel determinare l’eclissi di Kruscev, il problema più complesso riguardava però l’inasprimento dei rapporti con la Cina di Mao (➜ ANCHE PAR. 4).
Con la destituzione di Kruscev terminava – secondo alcuni prima ancora che fosse cominciata sul serio – la fase di disgelo della politica e della società sovietiche. Peraltro non si tornò nemmeno all’asprezza della persecuzione staliniana: il tempo delle grandi purghe e dei gulag era finito.
2 La distensione tra problemi interni e instabilità internazionale
La «Great Society» americana e la guerra del Vietnam Negli anni Sessanta e Settanta, il confronto tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica proseguì nel segno della distensione. Alcuni accordi che portarono alla riduzione degli armamenti e all’apertura di relazioni commerciali costituirono i segni più tangibili di questa fase.
D’altra parte, una serie di problemi interni che attraversarono entrambe le superpotenze e nuove crisi «regionali» in cui esse indirettamente si trovarono a fronteggiarsi concorsero a influenzare e a ostacolare questo processo.
In seguito alla morte di Kennedy, alla fine del 1963 il vicepresidente (ovviamente anche lui membro del Partito democratico) Lyndon Johnson assunse la presidenza; l’avrebbe mantenuta fino al 1968, dopo aver vinto le elezioni del 1964. Si sarebbe distinto per due ragioni molto diverse.
Sul piano interno, realizzò il programma di riforme preannunciato da Kennedy. Johnson adottò lo slogan «Great Society», una «grande società», che doveva combattere la povertà e la discriminazione.
Sin dal 1964 promosse il varo del «Civil Rights Act», la Legge federale sui diritti civili, ottenuta anche in seguito all’imponente movimento di protesta della comunità afroamericana (➜ CAP. 17.4). Questa legge conteneva due misure fondamentali:
proibiva le discriminazioni nelle modalità di iscrizione alle liste elettorali (esisteva una serie di espedienti che permettevano alle amministrazioni bianche di escludere i neri dall’esercizio del voto);
dichiarava illegale ogni discriminazione basata sulla razza, il sesso o l’etnia nell’ambito dell’amministrazione e delle attività ed esercizi pubblici (dalle scuole alla frequentazione di hotel, ristoranti, bar ecc.).
Negli anni successivi, una serie di programmi federali (ossia finanziati dal governo centrale) portarono alla realizzazione di misure di welfare state nei campi della sanità, delle pensioni e dell’istruzione. Nel complesso erano misure di minore portata rispetto al modello europeo di welfare, ma ebbero comunque un impatto importante sulla società americana: ridussero le sacche di povertà e le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza.
L’altro evento che segnò la presidenza Johnson fu la guerra del Vietnam. Come abbiamo visto (➜ CAP. 15.2), dal 1965 gli Stati Uniti si ritrovarono pesantemente coinvolti nel conflitto in Indocina. Dopo l’offensiva vietnamita dell’inizio del 1968, Johnson cercò una via d’uscita intavolando trattative che però, inizialmente, non ebbero l’esito sperato. Questo insuccesso lo spinse a ritirarsi dalla vita politica, rinunciando a ricandidarsi (avrebbe potuto farlo perché il suo primo mandato, come presidente subentrato, era durato soltanto tredici mesi). Il capitolo della guerra vietnamita sarebbe stato chiuso dal suo successore, il repubblicano Richard Nixon.
La primavera di Praga Il 1968 segnò un passaggio cruciale anche per il blocco sovietico. Nei primi mesi dell’anno la Cecoslovacchia conobbe un processo di riforma guidato dalla dirigenza del partito, in particolare dal nuovo segretario Alexander Dubcek, che prese le mosse dalla necessità di rendere più flessibile il modello economico di stampo sovietico, ma sfociò rapidamente in un programma che prevedeva la reintroduzione del pluralismo politico (abolendo quindi il regime a partito unico) e una larga libertà d’espressione. Questa proposta dall’alto, che Dubcek definì un «socialismo dal volto umano», incontrò i fermenti politici, culturali e ideali che in quel momento partivano dal basso, cioè dalla società cecoslovacca. Le riforme fiorirono ad aprile – da cui la celebre espressione, coniata in Occidente, di «primavera di Praga» – in contemporanea con l’esplosione della protesta studentesca che stava avvenendo in tutto il mondo industrializzato (➜ CAP. 17).
Malgrado il governo cecoslovacco non avesse nessuna intenzione di uscire dal blocco sovietico (a differenza di quanto aveva dichiarato, nel 1956, il Primo ministro ungherese, scatenando la reazione di Mosca), la dirigenza sovietica giudicò che l’esperimento si era spinto troppo in là. Anche per la pressione dei regimi polacco e tedesco orientale (che, privi di un solido consenso interno, temevano di essere destabilizzati o travolti dall’esempio cecoslovacco), le truppe del Patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia la notte tra il 20 e il 21 agosto 1968.
La resistenza pacifica opposta dai cecoslovacchi si rivelò inutile e immediatamente cominciò un processo di «normalizzazione». La dirigenza cecoslovacca fu lasciata al suo posto per un altro anno, ma dovette smantellare le riforme varate sino a quel momento. Questo periodo fu reso ancora più angoscioso dall’estrema protesta dello studente Jan Palach che nel gennaio del 1969 si diede fuoco in piazza San Venceslao, nel centro di Praga. Il suo gesto richiamava esplicitamente quello di un «bonzo», un monaco buddista vietnamita che nel 1963 si era dato fuoco a Saigon per protestare contro il governo filoamericano del Vietnam del Sud. Palach collegava così idealmente due lotte contro l’imperialismo e la sopraffazione.
L’URSS di Breznev Nel settembre 1968 Leonid Breznev, che aveva affermato la sua preminenza nell’apparato di potere sovietico dopo alcuni anni di direzione collegiale, diede una sorta di veste formale all’intervento dell’URSS e degli alleati del Patto di Varsavia. La cosiddetta «dottrina Breznev» sosteneva che «la sovranità e il diritto all’autodeterminazione degli Stati socialisti sono subordinati agli interessi del sistema socialista mondiale». In altre parole, il segretario del PCUS dichiarava che la sovranità nazionale dei Paesi del blocco sovietico era limitata e restava subordinata alle valutazioni del Cremlino.
La dichiarazione di Breznev tentava anche di nascondere un fatto evidente: un «sistema socialista mondiale», nel solco della complessa tradizione internazionalista, non esisteva più e tanto meno, dopo la rottura tra Mosca e Pechino (➜ PAR. 4), faceva capo all’URSS. I fatti di Praga non solo spaccarono o indebolirono i grandi partiti comunisti europei, come era già accaduto nel 1956 dopo l’invasione dell’Ungheria, ma li spinsero a prendere maggiori distanze da Mosca, come nel caso del Partito comunista italiano.
Sul piano interno si aggiungevano crescenti difficoltà economiche: il modello dirigista sovietico, capace di trasformare in pochi decenni un Paese fortemente arretrato in una potenza industriale, aveva raggiunto i suoi limiti espansivi. In qualche misura, il sistema industriale sovietico era nato sotto la spinta di un’emergenza continua, dal 1917 alle necessità della ricostruzione e della guerra fredda post-1945, pressato dalla necessità di raggiungere risultati in breve tempo, senza badare a sprechi, inefficienze e costi (di ogni genere, compresi quelli ambientali), e per di più sotto il controllo di un ponderoso apparato burocratico.
Quando quella spinta, materiale e ideale allo stesso tempo, si esaurì, non restavano più risorse o margini per riconvertirsi – in primo luogo dall’industria pesante a quella di consumo –, né per introdurre innovazioni tecnologiche, né per stimolare la crescita della produttività. Ne scaturì un circolo vizioso che rese l’apparato produttivo sempre più inefficiente e pletorico.
Negli anni Sessanta la situazione più critica era quella in cui versava l’agricoltura: la produzione non riusciva a coprire il fabbisogno alimentare del Paese, costretto a importare soprattutto cereali e tecnologie dagli USA, aprendo in questo modo una breccia, probabilmente fatale, nel suo sistema fino ad allora sostanzialmente autarchico e autosufficiente.
L’incremento di esportazioni di materie prime energetiche sostenne in parte la bilancia commerciale, ma d’altra parte queste risorse, drenate dall’apparato militare o sprecate da un sistema burocratico sempre più inefficiente e corrotto, non servirono a ridurre un crescente gap tecnologico con l’Occidente.
Gli anni di Breznev (che sarebbe rimasto al potere fino alla morte, nel 1982) furono pertanto segnati:
da una continua perdita di consenso e fiducia, sia pure ancora in forme dissimulate e silenziose;
dall’ulteriore crescita degli apparati burocratici del partito, sempre più corrotti, dal momento che qualunque cosa doveva passare per le loro mani, e dai quali era scaturita una vera e propria casta privilegiata (la cosiddetta nomenklatura);
dall’evidente incapacità di un’autoriforma del sistema.
Se il blocco sovietico era ormai tenuto insieme soltanto dalla minaccia delle armi, nell’URSS si irrigidirono di nuovo i controlli di polizia, e le autorità soffocarono la dissidenza interna. Tra i casi più celebri a livello internazionale vi fu quello dello scrittore Alexandr Solzenycin (➜ CAP. 14.5), esiliato all’inizio del 1974 (nel 1973 era uscito in Occidente il suo Arcipelago gulag, dove raccontava il sistema dei campi di lavoro sovietici), e quello del fisico Andrej Sacharov, uno dei padri della bomba H sovietica, confinato alla fine degli anni Settanta.
In questo contesto, la politica della distensione diventava un’opportunità anche per il regime sovietico: oltre ad alleggerire il bilancio delle spese militari, permetteva l’apertura di relazioni commerciali sempre più importanti per sostenere i livelli di vita interni, e inoltre consentiva all’URSS di accreditarsi come garante della pace, mantenendo alto il proprio prestigio.
La diplomazia di Nixon e di Kissinger La disponibilità al dialogo era contraccambiata dal nuovo presidente americano, il repubblicano Richard Nixon, eletto nel 1968 dopo una campagna elettorale drammatica, durante la quale venne assassinato Robert «Bob» Kennedy, il fratello dell’ex presidente John, mentre si trovava ancora impegnato nelle primarie del partito democratico.
La distensione si concretizzò nel 1972 in un trattato per la riduzione degli armamenti nucleari, noto come SALT I (sigla per Strategic Arms Limitation Talks, «trattative per la limitazione delle armi strategiche»), per distinguerlo da quello SALT II, di portata minore, siglato nel 1979. Si consideri peraltro che questi trattati ebbero un valore simbolico più che concreto: non soltanto gli arsenali restavano largamente sufficienti a distruggere più volte il pianeta, ma la gara al loro sviluppo tecnologico proseguiva senza soste, rendendo rapidamente obsoleti gli accordi fissati sulla carta.
La politica estera americana, ispirata dal segretario di Stato Henry Kissinger, previde una svolta radicale anche in Asia. L’amministrazione Nixon, come abbiamo detto, uscì dal conflitto vietnamita, tra il 1973 e il 1975 (➜ CAP. 15.2). A questo risultato contribuì una clamorosa apertura verso la Cina popolare – con cui non erano mai state aperte relazioni diplomatiche – avviata sin dal 1969 e coronata da una visita ufficiale a Pechino nel 1972. La base di questa nuova intesa, frutto della cosiddetta «diplomazia del ping pong», era la politica antisovietica: Pechino era in aperta rottura con Mosca e questo schiudeva nuove prospettive per Washington.
Per questo motivo sin dalla fine del 1971 la Cina popolare fu ammessa nella comunità internazionale: accolta nelle Nazioni Unite, prese il posto di Taiwan nel Consiglio di sicurezza (➜ ANCHE CAP. 14.4). Nel 1972 ritirò i suoi aiuti al Vietnam, che restò così legato esclusivamente all’URSS. Infine, Cina e Stati Uniti aprirono importanti relazioni commerciali.
La fine della presidenza Nixon Il processo di distensione conobbe una nuova battuta d’arresto nella seconda metà degli anni Settanta. Vi contribuirono, da un lato, i problemi interni degli Stati Uniti e, dall’altro, una nuova ondata di fermenti e di tensioni provenienti dai Paesi del Terzo Mondo.
Nell’estate del 1974 il presidente Nixon rassegnò le dimissioni, travolto dallo scandalo politico passato alla storia come «il Watergate». Sin dall’estate del 1972, due giornalisti del quotidiano «Washington Post» avevano fatto emergere alcuni elementi che accusavano il presidente di aver condizionato il corso delle elezioni, spiando le mosse dei democratici grazie a microspie piazzate nel loro quartier generale elettorale, l’hotel Watergate di Washington.
Due anni dopo, quando i risultati delle inchieste giudiziarie erano ormai inequivocabili, Nixon si dimise prima di subire una formale incriminazione secondo le procedure previste dalla Costituzione americana.
Nuove tensioni in un mondo che cambia La grave crisi politica interna degli USA si accompagnò a una fase di instabilità internazionale che sembrò avvantaggiare l’URSS. All’inizio degli anni Settanta nel campo occidentale mutò infatti la congiuntura economica. In particolare, due clamorosi avvenimenti segnarono il trapasso da una crescita che sembrava inarrestabile a un ciclo depressivo.
1. Nell’agosto del 1971 gli Stati Uniti sospesero la convertibilità del dollaro in oro. Ciò determinò la fine del sistema monetario stabilito con gli Accordi di Bretton Woods nel 1944 (➜ CAP. 14.2) e provocò una lunga fase di caos monetario – dal momento che i valori delle valute nazionali oscillavano tra loro –, con conseguenze sulla stabilità degli scambi internazionali e sui livelli dei prezzi e dell’inflazione (ANCHE CAP. 17.8). La decisione di Washington derivava dalle sue difficoltà di bilancio: la spesa pubblica saliva, soprattutto per finanziare i nuovi programmi di welfare e le spese militari. Inoltre la bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti era passata in deficit: in altre parole, dal 1970 le importazioni avevano superato le esportazioni.
Sin dalla metà degli anni Sessanta, il governo americano aveva fatto fronte alle sue esigenze di spesa stampando dollari, che avevano inondato il mondo e in particolare le banche dei Paesi dell’Europa occidentale. Quando le richieste europee di conversione di dollari in oro cominciarono a crescere, le riserve auree americane cominciarono a calare, spingendo Washington a porre fine al sistema di Bretton Woods.
2. Nel novembre del 1973 l’economia occidentale subì il cosiddetto «shock petrolifero»: in conseguenza della Guerra del Kippur (➜ CAP. 15.4), i Paesi produttori di petrolio riuniti nell’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries, ovvero Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, fondata nel 1960) ridussero drasticamente l’esportazione di petrolio verso gli alleati di Israele e, nel giro di un anno, quadruplicarono i prezzi del greggio, che passò da circa 3 dollari al barile a circa 12 dollari al barile. Alla fine degli anni Settanta un secondo shock, seguente alla rivoluzione scoppiata in Iran (➜ PAR. 5), portò il prezzo a circa 35 dollari.
I «miracoli economici» occidentali erano stati possibili anche per il modesto costo dell’energia che ora – improvvisamente, nel giro di sei-sette anni – era aumentata di circa undici volte. E con essa tutto rincarò, perché il costo del petrolio incideva – direttamente o indirettamente – sui costi di produzione e di trasporto di qualsiasi merce.
Pertanto, in virtù delle difficoltà americane e di questa nuova crisi del capitalismo, intorno alla metà degli anni Settanta – malgrado molti segnali potessero indicare anche il contrario – sembrarono aprirsi nuovi spazi politici per l’URSS:
il Vietnam, dopo la definitiva vittoria del 1975, si integrò nel sistema sovietico (nel 1978 entrò anche nel Comecon);
un colpo di Stato militare impose un regime filosovietico in Etiopia;
in Angola e Mozambico l’esito della decolonizzazione portò al potere dei movimenti «nazionalisti-marxisti», sostenuti dalle armi sovietiche;
in America centro-meridionale i movimenti guerriglieri di sinistra sembravano rafforzarsi (ma come abbiamo visto nel CAP. 15.6, gli Stati Uniti, su impulso del segretario di Stato Kissinger, non tardarono a prendere drastiche contromisure);
persino in Europa occidentale, sia pure soltanto per pochi mesi, sembrò che il Portogallo, dopo la rivoluzione che pose fine alla lunga dittatura di stampo fascista, potesse passare nel campo comunista, mentre in Italia preoccupava gli osservatori internazionali la continua avanzata elettorale del Partito comunista italiano che, sotto la guida di Enrico Berlinguer, nel 1976 superò il 34 per cento dei consensi (➜ CAP. 19).
Al di là delle oscillazioni di breve periodo nei rapporti tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, la questione di maggiore rilievo ormai era un’altra: il bipolarismo est-ovest aveva perduto la capacità di contenere, descrivere e analizzare una situazione mondiale divenuta assai più intrecciata lungo l’asse geopolitico sud-nord e, al tempo stesso, complicata.
Nel mondo comunista, la leadership sovietica declinava. Nel campo occidentale, il rallentamento della crescita economica e la fine del sistema di Bretton Woods ponevano nuovi interrogativi per il futuro. In varie parti del mondo stavano emergendo nuovi centri di potere economico e politico, sia pure ancora inferiori a Mosca e a Washington. A metà degli anni Settanta, il mondo del bipolarismo cominciava tuttavia a cedere il posto a una configurazione diversa.
3 In Europa occidentale: mercato comune e democrazia
Il progetto francese di «terza forza» Nel corso degli anni Sessanta l’Europa occidentale completò il suo straordinario recupero economico e demografico (➜ CAP. 17), mentre le democrazie nazionali si consolidavano e prendevano forma strutture comunitarie sovranazionali ancora limitate a sei Paesi e alla sfera strettamente economica (le Comunità economiche europee).
In questi anni la politica continentale e l’evoluzione delle strutture comunitarie furono segnate dall’ambizione del presidente francese Charles De Gaulle di fare dell’Europa, forte della sua nuova prosperità e stabilità, una «terza forza», autonoma e dello stesso rango di Stati Uniti e Unione Sovietica.
L’idea d’Europa di De Gaulle L’obiettivo di De Gaulle era restituire alla Francia il suo tradizionale ruolo di protagonista della politica internazionale. Tuttavia, egli era consapevole che, nell’era delle superpotenze, questa ambizione doveva passare attraverso un rafforzamento dell’Europa che doveva svincolarsi dall’egemonia politica e militare americana per proporsi come «terza forza» rispetto a USA e URSS, con una propria e autonoma force de frappe («forza d’urto») basata sul potere di dissuasione derivante dal possesso del nucleare. Il presidente francese aveva in mente un’«Europa degli Stati», ovvero una struttura confederale: ogni Stato avrebbe conservato la propria sovranità mentre l’integrazione sarebbe stata realizzata dai governi nazionali, attraverso fitte consultazioni e accordi (da concludere sempre all’unanimità) su questioni specifiche, senza la creazione di strutture sovranazionali, che avrebbero determinato appunto limitazioni alle singole sovranità nazionali. Naturalmente la Francia avrebbe avuto un ruolo guida nel coordinare le relazioni tra i Paesi europei.
A questo scopo, sin dal 1961, la Francia promosse i cosiddetti «vertici europei», riunioni informali dei capi di Stato dei Paesi membri delle Comunità europee, convocate a cadenza irregolare, ma piuttosto serrata. Dal momento che non erano previste dai Trattati di Roma (➜ CAP. 14.6), si configuravano di fatto come un’alternativa alle istituzioni comunitarie, rimettendo in primo piano il ruolo delle singole nazioni rispetto a un’impostazione sovranazionale. L’evidente importanza economica delle Comunità europee fece sì che la loro esistenza non fosse rimessa in discussione; ma così De Gaulle cercava di far evolvere l’integrazione politica secondo il suo progetto confederale.
L’asse franco-tedesco e l’atomica Un altro tassello del progetto di De Gaulle prevedeva il rafforzamento dei rapporti con la Germania ovest che – a meno di vent’anni dalla sconfitta del nazismo – si trovava ancora sotto tutela politica, ma la sua eccezionale crescita economica l’aveva già riportata al rango di grande potenza. La creazione di un asse privilegiato franco-tedesco doveva raggiungere più scopi:
improntare definitivamente le relazioni franco-tedesche alla collaborazione in tutti i campi;
sottrarre la Germania ovest all’egemonia americana;
fare dell’asse franco-tedesco il nucleo dell’Europa politica a venire, permettendo anche lo sviluppo di una politica di difesa autonoma.
Per fare dell’Europa una «terza forza», infatti, sarebbe stato necessario creare una forza militare autonoma, ovvero in grado di sostenere anche un conflitto nucleare. Per questa ragione De Gaulle spinse il programma atomico francese, che arrivò a realizzare il primo test nucleare nel 1960. Allo stesso tempo, si impegnò per la formazione di un’organizzazione di difesa europea svincolata dalla NATO, per una politica di difesa e di sicurezza che non dipendesse più dagli Stati Uniti.
I partner europei, tuttavia, e prima fra tutti proprio la Germania, si guardarono bene dal mettere in discussione l’adesione alla NATO e la protezione degli Stati Uniti, che consideravano l’unica vera garanzia contro il pericolo di un’aggressione sovietica. Il risultato della politica di De Gaulle ebbe una dimensione unicamente nazionale: la Francia, pur continuando a essere membro della NATO, si ritirò dal comando integrato e fece uscire dal Paese tutte le forze NATO che vi erano stanziate.
L’ambiziosa politica di De Gaulle, ispirata ai fasti ormai passati di una grandeur francese ai limiti del velleitarismo, si risolse in una impasse (una situazione senza soluzione) che coinvolse anche le strutture comunitarie, il cui sviluppo restò sostanzialmente bloccato fino al 1969, quando il presidente francese si ritirò dalla scena politica.
L’Ostpolitik di Willy Brandt L’iniziativa di De Gaulle verso l’Europa orientale aprì la strada anche a una svolta nella questione tedesca, che coincise con un cambiamento nel panorama politico della Germania occidentale. Tra il 1966 e il 1969 si concluse infatti il lungo periodo di governo del Partito democristiano, la CDU-CSU, mentre il Partito socialdemocratico, la SPD, assunse la guida del Paese.
La SPD si era preparata a questo passo sin dal 1959 quando, con il cosiddetto programma di Bad Godesberg, aveva ufficialmente abbandonato la dottrina marxista.
Diventato cancelliere nel 1969, il leader socialdemocratico Willy Brandt inaugurò la sua Ostpolitik («politica dell’Est»), che portò ad allacciare rapporti diplomatici con la Germania est (fino a quel momento inesistenti per volontà dei governi della CDU di non avallare l’esistenza di due Germanie) e a concludere una serie di trattati con gli altri Paesi del blocco sovietico.
Nel 1970, con i trattati di Mosca e di Varsavia, la Germania ovest riconobbe il confine fissato con la Polonia nel 1945 e pertanto rinunciò a ogni rivendicazione sugli antichi territori tedeschi orientali. A Varsavia per la firma del trattato, Brandt si inginocchiò spontaneamente davanti al monumento che ricordava la distruzione del ghetto di Varsavia. Questo gesto assunse un valore ancora superiore a quello del trattato tanto da essere considerato il riconoscimento della colpa collettiva del popolo tedesco.
In sostanza, gli accordi stipulati dalla Germania ovest tra il 1970 e il 1973 – che regolavano lo status di Berlino ovest, stabilivano relazioni diplomatiche tra le due Germanie e riconoscevano il confine con la Cecoslovacchia annullando gli accordi di Monaco del 1938 – assolsero la funzione di quel trattato di pace generale che non aveva potuto vedere la luce all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale. Il coronamento di questo percorso si ebbe nel 1973 con l’ammissione di entrambe le Germanie nelle Nazioni Unite.
La fine delle dittature in Grecia, Portogallo e Spagna Intorno alla metà degli anni Settanta si chiusero altre vicende le cui radici affondavano nel periodo interbellico o della Seconda guerra mondiale: terminò, infatti, il periodo delle dittature reazionarie e filofasciste in Grecia, Portogallo e Spagna.
In Grecia, la dittatura – detta «dei colonnelli» perché instaurata in seguito a un colpo di Stato militare – si impose nel 1967. I colonnelli si impadronirono del potere durante una grave crisi politica seguita alla crescita delle opposizioni di sinistra.
Gli Stati Uniti si affrettarono a riconoscere il regime, benché gli alleati europei fossero molto più diffidenti a causa dei metodi polizieschi dei militari, che repressero le opposizioni e violarono sistematicamente i diritti fondamentali.
Un clamoroso fallimento politico e militare travolse nel 1974 i «colonnelli»: i militari tentarono di annettere l’isola di Cipro, diventata indipendente da Londra nel 1960 e abitata da una maggioranza di cultura e lingua greca e da una consistente minoranza turca; proprio per tutelare questa comunità, la Turchia reagì con le armi, sbarcando nel nord dell’isola.
La Grecia tornò quindi alla vita democratica e divenne una repubblica a seguito di un referendum popolare che respinse l’ipotesi di tornare alla monarchia costituzionale ristabilita dopo la guerra.
Nello stesso 1974 anche il Portogallo tornò alla democrazia, dopo la lunga dittatura di stampo fascista imposta da Antonio Salazar nel 1932 (Salazar detenne il potere fino al 1968, quindi gli successe Marcelo Caetano).
Una costosissima guerra coloniale, che sottraeva uomini e risorse a un Paese che restava molto povero, minò il regime. La sua caduta fu determinata, infatti, da un colpo di Stato organizzato il 25 aprile 1974 da un gruppo di giovani ufficiali di idee di sinistra – che avevano fatto esperienza della guerra coloniale in Angola e Mozambico – e sostenuto dal movimento comunista.
L’azione cominciò poco dopo la mezzanotte del 25 aprile 1974 (il segnale venne dato con la trasmissione della canzone, proibita dal regime, Grandola vila morena) e fu incruenta: il regime cedette senza combattere e i portoghesi poterono mettere per davvero dei fiori nelle canne dei fucili, come recitava un celebre slogan pacifista del tempo; questi avvenimenti passarono alla storia come la cosiddetta «rivoluzione dei garofani», che stavano fiorendo proprio in quei giorni di primavera.
Come abbiamo già ricordato, per alcuni mesi si pensò che il comunismo potesse prendere piede in Europa occidentale, in uno dei Paesi membri della NATO. Nell’autunno del 1975, tuttavia, prevalse l’ala più moderata del fronte rivoluzionario che riuscì ad allontanare gli ufficiali più radicali. Il Paese divenne una repubblica parlamentare, in cui si sarebbero alternati governi di centro-destra e socialisti.
Nel 1975 anche la Spagna vide la fine della dittatura, in seguito alla morte di Francisco Franco, che si era imposto nel 1939 al termine della guerra civile (➜ CAP. 9.8).
L’opposizione al regime era cresciuta negli anni Sessanta, durante i quali il Paese aveva conosciuto profondi cambiamenti: uno sviluppo industriale e una graduale modernizzazione anche della società, dovuta, tra le altre cose, all’intensificarsi degli scambi con l’estero (mediante il turismo e i flussi migratori). La Spagna era in fermento: insieme alla forza della classe operaia, cresceva la protesta studentesca e intellettuale, e persino quella del mondo cattolico, attraversato dai cambiamenti in senso progressista promossi dalla Chiesa di papa Giovanni XXIII (➜ CAP. 17.3) che facevano vacillare uno dei principali pilastri del regime.
Avevano ripreso quota anche i movimenti autonomisti e separatisti – basco, catalano e galiziano –, ostili al franchismo per il suo rigido centralismo. Una serie di attentati scosse il Paese e la fine della dittatura fu, in qualche modo, annunciata sin dal 1973 dall’omicidio, da parte dell’organizzazione basca ETA (acronimo di Euskadi Ta Askatasuna, letteralmente «Paese Basco e libertà», ➜ CAP. 17.7), dell’ammiraglio Luis Carrero Blanco, il numero due del regime.
Franco morì nel 1975, designando come suo successore Juan Carlos di Borbone, erede al trono di Spagna vacante dal 1931. Il sovrano intraprese con determinazione il delicato processo di transizione e di democratizzazione del Paese, dove tornarono a essere legali tutti i partiti, fra cui quello comunista, e liberi i sindacati. Nel 1978 il varo della nuova Costituzione fece della Spagna una democrazia a tutti gli effetti, retta da un sistema di monarchia parlamentare.
La Comunità europea al tempo della crisi Negli anni Ottanta tutti e tre i Paesi dell’area mediterranea recuperati alla democrazia entrarono nella Comunità europea: la Grecia sin dal 1981, il Portogallo e la Spagna nel 1986.
La Comunità europea stava ormai cambiando volto, secondo un percorso avviato dopo la complessa stagione segnata dai progetti di De Gaulle, quando i membri della CEE vollero rilanciare il processo di integrazione economica e politica. Questa nuova fase, cominciata nei primi anni Settanta, fu favorita dalla concomitanza di alcuni fattori:
dal raggiungimento degli obiettivi fissati dai Trattati di Roma: già nel corso del 1968 (in anticipo rispetto alla data prevista del 1° gennaio 1970) si varò l’unione doganale che prevedeva l’abolizione dei dazi tra i Paesi membri e l’adozione di una tariffa comune per le importazioni;
dall’allargamento della Comunità che dal 1° gennaio 1973 annoverò anche il Regno Unito, l’Irlanda e la Danimarca.
Le discussioni si concentrarono sull’elaborazione di una politica economica e monetaria comune, sempre più urgenti di fronte ai rivolgimenti dei primi anni Settanta. Nel 1979 si arrivò alla creazione del Sistema monetario europeo (SME), che aveva lo scopo di limitare le fluttuazioni dei cambi tra le divise degli Stati membri, anche per evitare che un Paese usasse la svalutazione monetaria per rendere artificialmente più competitive le proprie esportazioni verso Stati in cui il denaro valeva di più (un prodotto importato poteva costare meno dell’equivalente nazionale per il gioco dei cambi di valuta).
Le banche centrali avrebbero dovuto agire in modo da mantenere il valore delle rispettive monete entro una determinata banda di oscillazione. Inoltre, i valori furono calcolati non più sulla base del dollaro ma in relazione a una nuova moneta di conto europea, l’ECU. Questa riforma può essere considerata la base per la nascita della moneta unica europea, l’euro, che sarebbe avvenuta vent’anni dopo (➜ CAP. 21.6).
Sul piano politico, nel 1974 i vertici europei tra i capi di Stato avviati negli anni Sessanta cominciarono ad assumere una veste più formale, definendosi Consigli europei. Continuava in ogni caso il dualismo già messo in luce in precedenza: da una parte organismi per la concertazione tra Stati nazionali; dall’altra la struttura sovranazionale, rappresentata dalle Commissioni (soprattutto dalla Commissione della CEE, la più importante) e dalle altre istituzioni comunitarie.
Nel 1976 gli Stati membri presero la decisione di far eleggere il Parlamento europeo a suffragio universale diretto. Il Parlamento era stato istituito sin dal 1957, come assemblea ristretta i cui deputati erano designati dai Parlamenti nazionali. Ora, a partire dalle elezioni del 1979, l’elettorato di ciascun Paese membro avrebbe votato i propri rappresentanti nazionali (in numero proporzionale alla popolazione).
Questo rafforzamento delle strutture comunitarie in senso democratico aveva più che altro un valore simbolico, dal momento che il Parlamento europeo manteneva ancora soltanto funzioni consultive e non legislative. Al contempo, su un piano più pragmatico, si rafforzò il diritto comunitario, grazie all’azione determinata della Corte di giustizia europea (il tribunale previsto dai Trattati di Roma che sovraintendeva all’applicazione e all’interpretazione del nascente diritto europeo). Sin dagli anni Sessanta la Corte agì affermando tendenzialmente la superiorità delle norme comunitarie su quelle nazionali e inoltre cominciò a estenderle. Si creò così uno spazio giuridico europeo in grado di prefigurare un’integrazione non soltanto economica, ma anche pienamente politica e sociale, aprendo la strada al processo di definizione di una cittadinanza europea, che sarebbe stata introdotta nel 1992.
4 La Cina dalla «rivoluzione culturale» alla morte di Mao Tse-tung
Il fallimento del «grande balzo in avanti» Alla fine degli anni Cinquanta, malgrado i buoni risultati del primo piano quinquennale, la Cina popolare continuava a essere un Paese arretrato sia nel settore industriale sia in quello agricolo. Dalla fine della guerra civile, la popolazione era aumentata a un ritmo molto elevato, passando da circa 540 milioni nel 1950 a circa 640 milioni nel 1960, e questo poneva grossi problemi alimentari e di occupazione: come sfamare e dove impiegare quei milioni di nuove leve?
Nel 1958 la dirigenza cinese, con alla testa Mao Tse-tung, tentò di incrementare il ritmo della crescita, lanciando un programma battezzato il «grande balzo in avanti». L’idea era quella di sviluppare contemporaneamente l’agricoltura e l’industria, sia pesante sia leggera, facendo leva sull’enorme quantità di manodopera disponibile.
La base dell’organizzazione doveva essere la «Comune popolare», un’unità economica-amministrativa che poteva riunire da 4000 a 10.000 famiglie e doveva diventare un complesso agrario e industriale autosufficiente. Con la Comune veniva perfezionata anche la collettivizzazione, dal momento che terre, bestiame, attrezzi, mezzi di produzione, servizi ecc. diventavano proprietà e attività dei membri della Comune.
Il «grande balzo» si animò di una fortissima spinta ideologica, che accordava la priorità agli obiettivi sociali e politici rispetto a quelli strettamente economici. Prima che modernizzare il Paese, doveva creare una società totalmente nuova, egualitaria e anti-individualista, che si spingeva a immaginare l’abolizione, di fatto, del nucleo familiare e della vita privata.
Questo progetto, tuttavia, si risolse in un catastrofico fallimento: i problemi organizzativi, gli errori tecnici (dovuti proprio al primato assoluto accordato all’ideologia, che procedette incurante dei dati oggettivi) e una serie di sfortunate circostanze (una serie di calamità naturali colpirono la Cina riducendo i raccolti) fecero crollare sia la produzione agricola sia quella industriale. Tra il 1959 e il 1961, poi ribattezzati i «tre anni neri», in Cina si ebbero almeno 14 milioni di morti di fame (secondo le cifre ufficiali, ma alcuni studiosi avanzano stime più alte).
La rottura con l’Unione Sovietica In quegli stessi anni Pechino arrivò a rompere con l’Unione Sovietica: il distacco da Mosca equivaleva a una rivendicazione di indipendenza sia nazionale sia ideologica. La Cina intendeva diventare un protagonista autonomo sulla scena internazionale ed elaborare una propria via originale al socialismo. Mao era fortemente critico nei confronti della linea adottata da Kruscev nel 1956: freddo in merito alla destalinizzazione, accusava i sovietici di tradire la rivoluzione, soffocata nelle strutture burocratiche del partito che di fatto riproponeva soltanto una versione diversa e «di Stato» del capitalismo, ed era contrario all’idea di convivenza pacifica. Secondo il «grande timoniere» (uno dei soprannomi con cui era noto Mao) bisognava condurre una politica più aggressiva, perché le potenze capitaliste erano in difficoltà e non ne andava sopravvalutata la forza: erano soltanto «tigri di carta», secondo una sua celebre definizione.
La tensione tra Pechino e Mosca sarebbe cresciuta per tutti gli anni Sessanta, mentre a livello internazionale Pechino, come abbiamo visto (➜ PAR. 2), giunse a un accordo con gli Stati Uniti all’inizio degli anni Settanta, mentre ruppe i rapporti con il regime vietnamita, rimasto filosovietico (➜ CAP. 15.2).
La «rivoluzione culturale» Nel frattempo la Cina visse fortissime tensioni interne. Il fallimento del «grande balzo» aveva fatto emergere un’ala moderata, che tra le sue fila contava anche Deng Xiao-ping, segretario del Partito comunista cinese, e Liu Shaoqi, il presidente della Repubblica (mentre Mao conservava la carica di presidente del Comitato centrale del Partito comunista, cruciale per avere il controllo su tutta l’organizzazione di partito).
A differenza di Mao, che sosteneva il primato della politica e dell’ideologia sull’economia (non sarebbe stato lo sviluppo economico a portare alla nascita di una società socialista, ma al contrario l’affermazione di quest’ultima avrebbe prodotto un determinato sviluppo produttivo), il gruppo moderato era convinto della necessità di ridare priorità a criteri economici, per evitare le sciagure dei tre anni precedenti.
Il conflitto tra queste due opzioni si sviluppò sotterraneamente fino a esplodere tra il 1965 e il 1966. Contro i moderati, che erano riusciti a prendere temporaneamente il controllo del Comitato centrale del partito, Mao scatenò un’offensiva ideologica che ebbe pesanti conseguenze pratiche. Per riprendere le redini del partito, si appoggiò sull’esercito e soprattutto sulla gioventù cinese, gli studenti in particolare, che aderirono in massa al movimento delle «guardie rosse».
Sin dal 1964 Mao aveva diffuso su larga scala il suo Libretto rosso, una raccolta di massime rivoluzionarie che esaltavano i valori dell’egualitarismo e del collettivismo (divenne un punto di riferimento ideologico anche per alcuni settori dei movimenti di contestazione sorti in Occidente a partire dal 1968, ➜ CAP. 17).
Quindi nell’estate del 1966 cominciò ufficialmente il movimento della «grande rivoluzione culturale», animato da slogan quali «bombardare il quartier generale». Le masse giovanili ebbero mano libera contro quelle che venivano indicate come le élite intellettuali e burocratiche, in nome di una purezza rivoluzionaria da ristabilire scalzando funzionari e tecnocrati dalle loro posizioni di privilegio che si erano create appunto tradendo la rivoluzione.
La protesta giovanile rovesciò le gerarchie con violenza, costringendo i quadri del partito contrari a Mao a umilianti autocritiche pubbliche, cui seguivano internamenti o periodi di «rieducazione» che, per esempio, prevedevano l’obbligo di svolgere lavori manuali. Tra i vecchi dirigenti che subirono l’epurazione si trovò anche Deng Xiao-ping.
Il Paese piombò in un caos violento. Non esiste un bilancio delle vittime della «rivoluzione culturale», le stime oscillano da qualche decina di migliaia ad alcuni milioni di morti. La spinta delle «guardie rosse» si esaurì progressivamente tra il 1967 e il 1968, anche per l’intervento di Mao che ormai aveva raggiunto lo scopo che si era prefissato: la sconfitta e la rimozione dei moderati.
Verso una nuova Cina Tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, la Cina avviò un consistente recupero economico: la sua agricoltura, benché ancora poco meccanizzata, era diventata più produttiva di quella indiana, mentre la sua industria si collocava, per quantità di prodotto, tra le prime dieci al mondo, benché ancora molto lontana dai livelli statunitensi, europei e sovietici.
A rendere il Paese un potenziale terzo grande polo mondiale contribuiva lo sviluppo del programma atomico: la Cina fece esplodere la sua prima bomba A nel 1964 e la sua prima bomba H nel 1967.
Anche per queste ragioni a metà degli anni Settanta poté riprendere quota la proposta dei sostenitori della linea moderata, o pragmatica, attenta agli indicatori della crescita economica. Intorno al 1974-75, questo gruppo ritrovò il suo vecchio leader Deng Xiao-ping, il quale venne «riabilitato», come moltissimi altri dirigenti caduti in disgrazia durante la rivoluzione culturale.
Dopo la morte di Mao, avvenuta nel 1976, la linea di Deng si impose al vertice della Cina: le questioni economiche divennero prioritarie, venne lanciata la campagna delle «quattro modernizzazioni» (ovvero nell’industria, nell’agricoltura, nella difesa nazionale e nel campo scientifico e tecnologico) e la politica della «porta aperta», che prevedeva l’intensificazione degli scambi commerciali con il mondo capitalista. Allo stesso tempo era abbandonata la collettivizzazione integrale in agricoltura e, all’interno del Paese, si aprivano spazi sempre più consistenti – sia pure attentamente controllati dal Partito – all’economia di mercato.
La Cina cominciava così un programma di modernizzazione guidata dall’alto paragonabile a quello conosciuto dal Giappone nel XIX secolo.
Questo significò procedere anche a una progressiva «demaoizzazione», a tutti i livelli. I successori di Mao accantonarono ogni progetto di società egualitaria per lasciar spazio a un diverso singolare esperimento: quello di uno Stato autoritario e dirigista, guidato da un partito ufficialmente sempre comunista, impegnato a incentivare un impetuoso sviluppo economico, tale da avviare la Cina a diventare la nuova grande superpotenza del XXI secolo.
5 Dall’Estremo al Medio Oriente: modernizzazione e «islam politico»
Il fermento economico e politico dell’Asia Nel corso degli anni Settanta il grande continente asiatico divenne il teatro di altri importanti rivolgimenti che portarono alla ribalta due fenomeni di natura molto diversa, ma entrambi destinati a incidere sugli assetti planetari e a disegnare il volto del mondo in cui viviamo oggi:
alla crescita economica del Giappone, che proseguì anche dopo lo shock petrolifero del 1973, si affiancò quella dei Paesi del Sud-Est asiatico;
dall’Asia centrale al Medio Oriente, si assistette all’ascesa dell’«islam politico», ossia di quei gruppi e movimenti che prendono le mosse dalla fede musulmana per creare uno Stato islamico tradizionalista fondato sui principi della sharia (➜ CAP. 15.3 E 4).
Il Giappone all’avanguardia A differenza di quanto accadde in Europa, il grande «miracolo economico» giapponese non si arrestò all’inizio degli anni Settanta: la crisi petrolifera del 1973 inferse un duro colpo al Paese del Sol Levante, che tuttavia ne risentì meno dei partner occidentali perché la sua industria seppe ristrutturarsi in tempi record, forte anche dei risultati del ventennio precedente.
Il sistema industriale nipponico si pose alla testa di un processo di innovazione che poi si sarebbe diffuso in tutto il mondo occidentale (➜ CAP. 17), fondato sul ricorso a sistemi di automazione (ovvero impiego di robot) e su una nuova organizzazione della produzione che migliorava l’efficienza e la produttività, eliminando sprechi di materie prime e di tempo di lavoro. Il modello giapponese poneva particolare attenzione alla risposta «flessibile» della produzione, secondo i principi del just in time, per cui essa doveva rispondere alla richiesta del mercato, praticamente su ordinazione, e non precederla (cosa che determina forti costi di stoccaggio ed espone al rischio di avere magazzini pieni di merci invendute).
Questo insieme di innovazioni del processo produttivo – denominato «toyotismo» perché teorizzato in particolare nell’ambito del gruppo industriale Toyota – portò al superamento del modello fordista (➜ CAP. 1.2) e al consolidamento del vantaggio competitivo, che il Giappone conservò sugli Stati Uniti e sull’Europa fino a tutti gli anni Ottanta.
Nello stesso periodo, i notevoli investimenti delle aziende e dello Stato nella ricerca e nell’istruzione (alla base della creazione di una manodopera altamente qualificata) si tradussero in una leadership dell’industria giapponese nei settori emergenti dell’elettronica.
Le «tigri asiatiche» La crescita economica giapponese trainò l’area del Sud-Est asiatico dove, a partire dagli anni Sessanta, cominciarono a emergere le economie di quattro Paesi: Corea del Sud, Taiwan, Singapore (che alla fine degli anni Sessanta si era reso indipendente dalla Malesia) e Hong Kong (allora ancora colonia britannica, uno degli ultimi residui dell’imperialismo europeo: sarebbe passata sotto la sovranità della Cina popolare soltanto nel 1997, ➜ CAP. 21.5).
Questi Paesi legarono il loro sviluppo sostanzialmente a una crescita industriale diretta non al mercato interno ma all’esportazione. Alla fine degli anni Ottanta le esportazioni complessive dei quattro Paesi rappresentavano oltre l’8 per cento del commercio mondiale (alla stessa data il Giappone realizzava poco meno del 10 per cento, mentre tutta l’America centro-meridionale assommava poco più del 4 per cento). Questi strabilianti risultati economici – che non conobbero battute d’arresto sino a una crisi sopravvenuta alla fine degli anni Novanta – fecero sì che in Occidente si cominciasse a parlare di «dragoni» o «tigri asiatiche».
A partire dagli anni Ottanta, la crescita economica si diffuse in altri Paesi del Sud-Est asiatico, secondo cronologie diverse; nel novero delle cosiddette «economie emergenti» sarebbero entrate anche la Malesia, l’Indonesia, la Thailandia, le Filippine e, infine, anche il Vietnam e la Cambogia – che lentamente superarono le scorie e i traumi dei conflitti degli anni Settanta.
L’importanza del petrolio Intanto, nel mondo musulmano, tra il Medio Oriente e l’Asia centrale, riprese l’ascesa dell’islam politico, quell’opzione che durante il processo di decolonizzazione era risultata perdente di fronte a modelli di ispirazione occidentale, peraltro appoggiati dalle stesse potenze coloniali.
Si trattava, soprattutto in Medio Oriente, di un’area la cui importanza strategica era costantemente cresciuta insieme con le sue riserve ed esportazioni di petrolio, che alimentavano l’economia mondiale (alla fine della Seconda guerra mondiale, il petrolio mediorientale rappresentava il 7 per cento della produzione mondiale, nel 1973 la quota era giunta al 38 per cento).
I ricavi del petrolio, incrementati in modo esorbitante in seguito allo shock degli anni Settanta, avevano finanziato la stabilità politica di molti Stati dell’OPEC, soprattutto degli Emirati arabi che in quegli anni cominciarono ad assumere l’odierna fisionomia. Si affermavano, infatti, come regimi autoritari capaci di creare consenso interno mediante programmi di investimento (tali anche da attrarre forza lavoro dall’estero), assistenza, istruzione e la cooptazione delle classi medio-alte, impiegate nell’amministrazione. Sulla scena internazionale questi Stati assunsero sempre di più un ruolo da protagonisti perché alle esportazioni di petrolio affiancarono enormi investimenti esteri (dei capitali ottenuti dalla vendita del cosiddetto «oro nero»), nelle stesse economie occidentali, a cominciare da quella statunitense.
Questi impetuosi mutamenti portarono anche forti tensioni, che vennero governate con esiti diversi. Per esempio, la dinastia reale dell’Arabia Saudita, seguendo una politica fortemente conservatrice, fece in modo di mantenere il consenso dei leader religiosi wahabiti, rappresentati della più intransigente ortodossia dell’Islam sunnita, evitando così che diventassero un punto di riferimento per un’opposizione politica in grado di destabilizzare l’assetto raggiunto.
La rivoluzione khomeinista in Iran Le cose andarono diversamente in Iran dove lo scià Reza Pahlavi nel 1953 era stato rimesso sul trono dagli Stati Uniti (➜ CAP. 15.4). Il sovrano avviò una politica di rapida modernizzazione, finanziata dal petrolio, che tuttavia andò incontro a un altrettanto veloce fallimento. Pahlavi fece scelte dissennate (come quella di istituire un costosissimo esercito) e finì per scontentare tutti:
le classi medio-alte tradizionali penalizzate dalla riforma agraria (in verità modesta) e dalla priorità accordata allo sviluppo industriale;
i nuovi ceti urbani e intellettuali legati alla modernizzazione, che diedero vita a un’opposizione politica di stampo laico, in parte liberale e in parte marxista, duramente repressa dalla polizia;
le autorità islamiche (sciite, secondo la confessione musulmana dominante in Iran), ostili alla modernizzazione in senso occidentale (che coinvolgeva ormai anche il diritto di famiglia e il sistema educativo).
Nel 1978 il malcontento si inasprì sia per il carattere autoritario e l’evidente corruzione del regime, sia per una crisi economica legata a investimenti sbagliati. In questo clima, l’opposizione religiosa trovò un punto di riferimento in Ruhallah Khomeini, un ayatollah, ovvero un leader religioso, da tempo impegnato nell’opposizione contro lo scià, e per questo esiliato sin dal 1964, prima in Turchia e in Iraq e poi in Francia. Khomeini sosteneva la necessità di rovesciare la monarchia per stabilire uno Stato islamico.
Nel corso dell’anno, dal suo esilio parigino, Khomeini riuscì a imporsi sulla scena mediatica internazionale come guida della protesta contro lo scià (dal canto suo largamente screditato anche agli occhi dell’opinione pubblica occidentale, per la sua politica autoritaria). In patria, i discorsi di Khomeini circolavano in testi fotocopiati e incisi nelle audiocassette: anche le rivoluzioni entravano in una nuova era mediatica. Mentre l’opinione pubblica mondiale era ancora attardata dentro le gabbie ideologiche della guerra fredda e imbrigliata nello scontro tra Est e Ovest che, nella sua ormai regolata conflittualità, sembrava quasi un orizzonte rassicurante, si apriva in Iran una nuova faglia del conflitto mondiale che si sarebbe rivelata carica di futuro.
Di fronte al crescere dell’agitazione di massa, in particolare nella capitale Teheran, che portò al blocco del Paese, nel gennaio 1979 lo scià decise di lasciare l’Iran. Il 1° febbraio 1979, Khomeini rientrò a Teheran decidendo le sorti della rivoluzione: i religiosi presero la guida del Paese, eliminando rapidamente le altre forze di opposizione liberali e marxiste che pure erano state protagoniste sino a quel momento.
L’Iran diventò così una Repubblica islamica di stampo teocratico, con una Costituzione che prevedeva la subordinazione delle istituzioni politiche (presidente, governo e Parlamento) alle autorità religiose (la Guida Suprema coadiuvata da un Consiglio dei Saggi); la fonte legislativa era naturalmente la sharia.
Come altre volte nel passato dell’umanità, la storia ritornava a zampillare laddove sembrava una fonte esaurita e dimenticata. In pochi, in quei giorni, se ne accorsero: in parte perché erano intenti a commentare l’ultima installazione dei missili NATO a medio raggio in Europa per contrastare gli SS20 sovietici, in parte poiché erano convinti che quelle sconfinate turbe festanti che alzavano i pugni e si battevano il petto fossero l’ultima manifestazione di un Medioevo perduto e non la prova di una inquietante modernità con cui si sarebbero dovuti confrontare a lungo.
Uno smacco per gli Stati Uniti e l’Occidente Il regime khomeinista si presentò subito come un punto di riferimento per i gruppi islamisti e assunse una posizione risolutamente antiamericana, antioccidentale e antisraeliana. Proprio quando gli Accordi di Camp David tra Egitto e Israele (➜ CAP. 15.4) sembravano aver aperto uno spiraglio per la pacificazione del Medio Oriente, ecco che si presentavano nuove tensioni e crisi.
Nel novembre 1979, a Teheran, un’imponente manifestazione studentesca sfociò nell’assalto contro l’ambasciata americana. Una cinquantina di diplomatici statunitensi si ritrovarono in ostaggio. Nell’aprile 1980 il presidente Carter (che nel 1976 aveva riportato i democratici alla Casa Bianca e nel 1978 patrocinato l’accordo israelo-egiziano) autorizzò un’azzardata operazione di salvataggio, che si concluse con un fallimento.
Questi eventi fecero crollare l’autorevolezza di Carter e condizionarono le elezioni presidenziali del novembre 1980 in cui prevalse il candidato repubblicano Ronald Reagan, con cui sarebbe cominciata una nuova fase politica (➜ CAP. 17).
Le autorità iraniane accettarono di riconsegnare gli ostaggi solo alla fine del gennaio del 1981, dopo l’insediamento del nuovo presidente.
La guerra Iran-Iraq L’avvento del regime sciita a Teheran rinfocolò inoltre la tradizionale tensione con l’Iraq, un altro grande produttore di petrolio del Medio Oriente. Negli stessi mesi in cui in Iran si affermava la rivoluzione khomeinista, a Baghdad si affermava la leadership laica di Saddam Hussein, che si presentava come erede politico del nasserismo e del socialismo arabo (➜ CAP. 15.4).
Sostenitore di un programma di modernizzazione e di occidentalizzazione, Hussein si impose come dittatore di un Paese molto complesso e fragile, perché attraversato da profonde divisioni tribali, etniche e religiose. In particolare la popolazione, di fede islamica, era divisa tra una maggioranza di sciiti e una consistente minoranza di sunniti, che godeva tuttavia di una posizione politica e sociale preminente nel Paese: lo stesso Hussein era sunnita.
La rivoluzione iraniana fece temere a Hussein un «contagio» tra gli sciiti iracheni. A questo motivo di tensione si aggiungevano obiettivi geopolitici ed economici: la volontà di stabilire la supremazia nella regione del Golfo Persico e di accaparrarsi altre zone petrolifere.
Nel settembre 1980 l’Iraq invase l’Iran, avviando una lunga e sanguinosa guerra che si sarebbe conclusa soltanto nel 1988 senza produrre alcuna modifica allo status quo precedente (le stime parlano di circa 1,5 milioni di morti complessivi, molti dei quali giovani caduti al fronte).
Gli Stati Uniti si schierarono ufficialmente con l’Iraq, l’Unione Sovietica con l’Iran, ma in realtà entrambe le superpotenze rifornivano di armi i due contendenti, contando di indebolire regimi considerati comunque poco affidabili.
La questione palestinese e la crescita del fondamentalismo Il regime iraniano rilanciò e radicalizzò ulteriormente anche la lotta contro Israele, condotta facendo ricorso a tecniche di guerriglia e terroristiche sia a livello locale sia internazionale. Per esempio, nel 1982, nel Libano che Israele aveva appena invaso cominciò ad agire il gruppo Hezbollah (letteralmente «partito di Dio»), ispirato dalla predicazione di Khomeini e addestrato e finanziato dall’Iran.
L’anno prima, nel 1981, un militante di un’organizzazione fondamentalista facente capo ai Fratelli musulmani aveva ucciso il presidente egiziano Sadat come ritorsione per la pace stipulata con Israele (Accordi di Camp David, 1978 ➜ CAP. 15.4).
Queste posizioni, che oggi sono classificate sotto le generiche etichette di «fondamentalismo» o «radicalismo islamico», cominciarono a rafforzarsi in tutto il vasto e complesso mondo musulmano. La crescente politicizzazione (o uso politico) dell’Islam, ossia la volontà di costruire un progetto tradizionalista a partire da una fede religiosa, sembrò rappresentare l’inevitabile movimento di ritorno di un pendolo.
Nel corso della decolonizzazione, i principali Paesi musulmani, compreso quelli arabi, avevano abbracciato progetti di Stato laico nazionalista e perlopiù socialisteggiante, che avevano avuto temporaneamente il sopravvento sull’opzione tradizionalista di carattere religioso. Quest’ultima riprendeva quota in una fase critica per le società di quei Paesi, anche a causa delle conseguenze della modernizzazione socio-economica in corso che stava travolgendo le strutture tradizionali (le gerarchie sociali, le attività economiche rurali, l’organizzazione famigliare, i rapporti con l’autorità pubblica).
La serie di fallimenti, le prove di malgoverno e una crescente corruzione che caratterizzavano le classi dirigenti postcoloniali alimentarono lo scontento, dando vita a un circolo vizioso senza apparente via d’uscita.
In questi anni cominciarono a delinearsi altre due caratteristiche dell’islamismo radicale, per certi aspetti contraddittorie.
Per un verso, il mondo musulmano non si mostrava affatto come monolitico, essendo vastissimo, complesso e attraversato da diverse correnti confessionali; queste divisioni interne si riflettevano nella galassia del radicalismo islamico, dove emersero anche profondi antagonismi.
Per un altro, cominciò a emergere una disponibilità «dal basso» a partecipare a un movimento islamico radicale internazionale, che si manifestò per la prima volta nell’afflusso di volontari islamici nella guerra di resistenza antisovietica cominciata in Afghanistan sempre nel 1979.
L’invasione sovietica in Afghanistan Alla fine degli anni Settanta gli schemi del mondo bipolare condizionati dalla guerra fredda e i nuovi fenomeni emergenti nel mondo musulmano si incrociarono sulle montagne dell’Afghanistan dove, nel 1978, in seguito a un colpo di Stato militare, si era imposto un regime di ispirazione comunista e filosovietico. Il governo afghano lanciò un programma di riforme e di modernizzazione dall’alto che buona parte della popolazione accolse malvolentieri. Questo scontento alimentò una resistenza di matrice islamica, sostenuta anche dal vicino Pakistan, dall’Iran e dalla Cina (in chiave antisovietica). Varie regioni del Paese sfuggirono al controllo di Kabul.
L’Unione Sovietica cercò di stabilizzare il regime afghano, guidando anche alcuni cambiamenti al vertice, in cerca di soluzioni mediate e moderate. Di fronte al continuo insuccesso politico, e temendo ormai che la ribellione islamica potesse fare breccia tra le popolazioni musulmane delle repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, il 27 dicembre 1979 l’Armata rossa invase l’Afghanistan. Questa azione surriscaldò immediatamente il clima internazionale: gli Stati Uniti reagirono con ritorsioni simboliche e materiali (decisero di boicottare i giochi olimpici del 1980, ospitati da Mosca, e bloccarono le esportazioni di cereali dirette in Unione Sovietica), ma soprattutto cominciarono a finanziare la guerriglia musulmana in funzione anticomunista e antisovietica, rifornendola di armi moderne attraverso il Pakistan.
Per i sovietici l’Afghanistan rappresentò l’equivalente del Vietnam per gli americani: per quasi dieci anni vi sacrificarono risorse, uomini (circa 50.000 soldati dell’Armata rossa morirono o furono feriti nel conflitto) e orgoglio nazionale senza riuscire a venire a capo della guerriglia islamista.
Il ritiro sovietico avvenne all’inizio del fatidico anno 1989. Letta con le lenti della guerra fredda, l’invasione dell’Afghanistan costituì un errore di calcolo che accelerò la definitiva crisi dell’URSS (➜ CAP. 20).
Oggi, a distanza di tempo, questi eventi si possono leggere anche come un errore di calcolo dell’Occidente, che finanziò e inondò di armi una sorta di «internazionale» del radicalismo islamico pensando di potersene servire senza particolari controindicazioni. Basti pensare che tra quei guerriglieri musulmani foraggiati con armi e denaro dagli Stati Uniti mediante i servizi segreti pakistani ricorre anche il nome di un giovane sceicco saudita, Osama bin Laden, il quale aveva risposto alla chiamata dell’internazionalismo islamico in difesa dell’Afghanistan contro l’imperialismo sovietico nelle fila dei mujaheddin («combattenti per la jihaˉd»).
In realtà, come vedremo nei prossimi capitoli – e come ci raccontano le cronache di oggi – il fondamentalismo islamico si sarebbe affermato come un soggetto autonomo, sfuggendo a ogni tentativo di controllo. Per questa ragione una guerra periferica come quella in Afghanistan, all’apparenza destinata solo ad accompagnare il declino dell’impero sovietico, annunciò invece un’epoca nuova, l’età del cosiddetto «disordine mondiale» in cui siamo ancora immersi che, nel giro di un paio di decenni, avrebbe soppiantato l’«ordine bipolare» della guerra fredda.
1 Dalla crisi alla distensione: gli anni di Kennedy e di Kruscev
Continua la competizione USA-URSS Sul finire degli anni Cinquanta, l’apice della tensione tra le due superpotenze sembrava superato e alcuni segnali suggerivano che il confronto fosse avviato a svolgersi pacificamente, facendo tramontare la costante minaccia al ricorso delle armi.
Il presidente Eisenhower chiuse il suo duplice mandato, nel gennaio 1961, con un discorso in cui metteva in guardia dai pericoli di una eccessiva militarizzazione e dalla perniciosa influenza del «complesso militare-industriale» sulla vita democratica.
Dal canto suo, il leader sovietico Kruscev cominciava a vedere come una priorità il rallentamento delle spese militari, al fine di vincere la sfida contro gli Stati Uniti – come aveva più volte ribadito (➜ CAP. 14) – sul terreno del benessere. In quegli anni, le economie del blocco sovietico erano ancora abbastanza dinamiche da far sembrare realistica questa prospettiva. Inoltre, i sovietici erano reduci da una straordinaria vittoria tecnologica e simbolica: nell’ottobre del 1957 avevano mandato in orbita il primo satellite artificiale, lo «Sputnik» (in russo «compagno di viaggio»).
Nuove frontiere All’inizio del 1961, mentre gli Stati Uniti erano ancora scossi dai successi dei sovietici nella corsa allo spazio, l’avvento alla Casa Bianca del democratico John Fitzgerald Kennedy fu accolto come l’annuncio di un nuovo corso, che segnalava anche i mutamenti recenti intervenuti nella società americana. Per la prima volta un presidente degli Stati Uniti era cattolico ed era il primo a essere nato nel XX secolo: con i suoi 43 anni era (e resta ancora) il più giovane capo dello Stato mai eletto direttamente dal corpo elettorale americano.
La sua vittoria rivelò anche l’importanza politica di un nuovo strumento di comunicazione: la televisione, già bene di consumo di massa negli Stati Uniti (➜ ANCHE CAP. 17). Nel confronto, trasmesso sul piccolo schermo, con il suo antagonista, il repubblicano Richard Nixon, Kennedy apparve più brillante e fotogenico: il suo volto, in qualche misura, si rivelò vincente non meno del suo programma e della sua retorica. Di per sé, il fenomeno della propaganda mediante l’immagine non costituiva una novità, ma risultavano totalmente inedite le dimensioni dello spazio e del tempo in cui si realizzava: la vastità della platea a cui il messaggio visivo si rivolgeva, e lo stile imposto da un mezzo così rapido nel diffonderlo come la televisione.
Kennedy si presentava con un ambizioso programma di rilancio della società americana in senso progressista, che aveva elaborato con l’aiuto di un gruppo di tecnici e di intellettuali della sua stessa generazione, e racchiuso nello slogan «la nuova frontiera». Questa immagine faceva leva su uno dei miti fondatori della nazione americana: la sfida dei pionieri alla «frontiera», ossia la spinta alla colonizzazione del «lontano Ovest» avvenuta nel corso del XIX secolo. La «frontiera» da sfidare nel XX secolo era quella di una migliore democrazia, basata su una reale affermazione dei diritti di cittadinanza, estesa a tutti, e su una più ampia giustizia sociale: contro la povertà, le distanze sociali e soprattutto contro la segregazione razziale di cui erano ancora vittime milioni di cittadini statunitensi di pelle nera (➜ CAP. 14.1 e avanti, PAR. 2).
Si può dire che ci fosse anche una dimensione fisica nella «frontiera» kennediana: il nuovo mondo da raggiungere e colonizzare era lo spazio. Per volontà di Kennedy il programma spaziale americano subì un enorme potenziamento e superò di slancio quello sovietico, fino a riuscire a «conquistare» la Luna, nel luglio 1969.
Il muro di Berlino In politica estera la presidenza Kennedy si rivelò di gran lunga meno innovativa: nel solco dei predecessori, mantenne una retorica dai toni apocalittici nei confronti dell’antagonista sovietico (l’anticomunismo continuava a essere un argomento di forte presa sull’opinione pubblica americana e pertanto cruciale nelle competizioni elettorali), accompagnata tuttavia dalla volontà di non far precipitare il mondo in una guerra letale.
Due gravi crisi internazionali segnarono i primi anni Sessanta. Una ebbe luogo in Europa e riguardava la questione della Germania, che non aveva ancora trovato una definitiva soluzione formale.
Sin dal 1958 Kruscev aveva lanciato un’offensiva diplomatica in merito alla situazione di Berlino, che ufficialmente continuava a essere sottoposta all’occupazione congiunta delle quattro potenze antifasciste, proponendo che la città fosse dichiarata «libera» e smilitarizzata.
Il negoziato di fatto non ebbe neppure inizio, per la manifesta volontà degli Stati Uniti di conservare la propria presenza a Berlino ovest. Dopo che, nel giugno 1961, Kennedy ribadì ancora una volta questo orientamento, Mosca incassò l’insuccesso, autorizzando però il regime di Berlino est a costruire un muro di separazione tra le due parti dell’ex capitale tedesca e a fortificare ulteriormente il resto della frontiera con la Germania ovest. Peraltro le autorità della Germania est premevano da tempo su Mosca in questo senso, per bloccare la fuga di massa dei propri cittadini: tra il 1949 e il 1961 circa 2,5 milioni di tedeschi orientali, perlopiù giovani, erano infatti passati a ovest, principalmente usando il varco berlinese.
Il muro di Berlino fu eretto la notte del 13 agosto 1961: per poco meno di trent’anni, finché non venne abbattuto il 9 novembre 1989 (➜ CAP. 20), sarebbe stato uno dei confini più sorvegliati del mondo, il simbolo della guerra fredda, ma anche la traccia materiale e visibile della mancanza di libertà nel campo sovietico e della miscela di forza e di impotenza – per il progressivo affievolirsi di spinte ideali, di consensi e di prospettive – che caratterizzava le cosiddette «democrazie popolari».
I missili a Cuba L’altra crisi ebbe per scenario l’isola di Cuba che, in seguito alla maldestra reazione degli Stati Uniti alla rivoluzione castrista (➜ CAP. 15.6), era diventata un membro del blocco sovietico, portando la frontiera della guerra fredda a poche miglia marine di distanza dalla costa della Florida.
Temendo il ripetersi di tentativi d’invasione come quello dell’aprile 1961, il governo cubano incrementò le richieste di aiuti militari a Mosca. Non potendo impegnarsi ulteriormente in spese per armi convenzionali, il Cremlino giocò la carta del nucleare e cominciò, nell’estate del 1962, l’installazione di missili sull’isola (dove peraltro, per uno di quegli strani casi che governarono gli equilibri della guerra fredda, gli Stati Uniti ancora conservavano la base navale di Guantanamo, ottenuta in affitto al termine della guerra ispano-americana del 1898).
Nell’ottobre del 1962 gli americani ebbero le prove – grazie a fotografie scattate dai loro aerei spia – e denunciarono pubblicamente la presenza di rampe di lancio missilistiche a Cuba. Per qualche giorno il mondo rimase con il fiato sospeso, temendo lo scoppio della terza guerra mondiale, ma le diplomazie dei due Paesi si mossero dietro le quinte in modo tale da evitare rotture irreparabili, giungendo a una soluzione. L’Unione Sovietica accettò infine di ritirare i missili da Cuba, ottenendo dagli americani la promessa di non invadere l’isola.
Inoltre, pochi mesi dopo gli USA acconsentirono a un’altra richiesta sovietica, quella di smantellare le loro basi missilistiche in Turchia. Kennedy aveva accettato questa seconda condizione a patto che non fosse resa pubblica (ufficialmente i missili che erano in Turchia furono ritirati perché ormai obsoleti). La pace fu salvata dalle mosse di una diplomazia segreta, tuttavia da questo gioco delle parti era soprattutto l’immagine dell’Unione Sovietica a venire intaccata.
Verso la distensione, senza i suoi protagonisti La crisi cubana era stata così grave da spingere i governi delle superpotenze a valorizzare il ruolo dello spionaggio internazionale e a trovare nuovi meccanismi diplomatici per evitare lo scoppio di una guerra nucleare a causa di un fraintendimento o di un errore nella catena di comando.
Erano angosce materiali che occupavano le coscienze e l’immaginario di milioni di cittadini nel mondo e che avrebbe trovato le più disparate manifestazioni sul terreno della cultura e dell’industria dell’intrattenimento, per esempio nella interminabile saga letteraria e cinematografica dell’agente segreto 007 James Bond (il primo film è proprio del 1962), o nel capolavoro di Stanley Kubrick, uscito nel 1964, Il dottor Stranamore, una terribile commedia grottesca in cui un generale americano, guerrafondaio e anticomunista, provoca lo scoppio della guerra a dispetto delle intenzioni del suo presidente, che non riesce più a fermare il corso degli eventi una volta innescati.
Il Cremlino e la Casa Bianca si collegarono tra loro grazie a una linea diretta di telescriventi (un’evoluzione del telegrafo), detta «linea rossa». Finalmente cominciarono dei negoziati per ridurre gli armamenti, arrivando a un primo accordo per il bando dei test nucleari di superficie.
In Germania, le diplomazie accettarono prudentemente la situazione determinatasi sul campo. Kennedy peraltro seppe ravvivare la retorica della guerra fredda: nel corso della sua visita ufficiale a Berlino ovest, nel giugno del 1963, pronunciò un celebre discorso in cui – dichiarandosi egli stesso cittadino di Berlino («Ich bin ein Berliner») – esprimeva la vicinanza di tutto il «mondo libero» ai berlinesi «assediati».
Fu l’ultima grande apparizione di Kennedy sulla scena internazionale. Pochi mesi dopo, il 22 novembre 1963, venne assassinato a Dallas, in Texas, in circostanze mai del tutto chiarite. Questa tragica morte, avvolta in un alone di mistero, lo fece entrare immediatamente nel mito, quello degli eroi portatori di speranza abbattuti a tradimento nel pieno della loro forza e giovinezza.
Un’analisi degli effettivi risultati dei tre anni della sua presidenza peraltro ha indotto molti studiosi ad abbandonare i toni epici della propaganda per abbracciare un’analisi più realistica ed equilibrata: come abbiamo già detto, in politica estera Kennedy seguì un copione piuttosto tradizionale, avviando anche l’impegno americano in Vietnam (➜ CAP. 15.2), mentre l’ambizioso programma di riforme interne dovette attendere il suo successore, Lyndon Johnson, per decollare.
Undici mesi dopo, nell’ottobre del 1964, usciva di scena anche Kruscev. Gli organi del partito costrinsero alle dimissioni il leader sovietico, che pagò un riformismo interno e un dinamismo in politica estera a cui non avevano corrisposto risultati considerati all’altezza. Se lo scacco subito a Cuba svolse un ruolo importante nel determinare l’eclissi di Kruscev, il problema più complesso riguardava però l’inasprimento dei rapporti con la Cina di Mao (➜ ANCHE PAR. 4).
Con la destituzione di Kruscev terminava – secondo alcuni prima ancora che fosse cominciata sul serio – la fase di disgelo della politica e della società sovietiche. Peraltro non si tornò nemmeno all’asprezza della persecuzione staliniana: il tempo delle grandi purghe e dei gulag era finito.
2 La distensione tra problemi interni e instabilità internazionale
La «Great Society» americana e la guerra del Vietnam Negli anni Sessanta e Settanta, il confronto tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica proseguì nel segno della distensione. Alcuni accordi che portarono alla riduzione degli armamenti e all’apertura di relazioni commerciali costituirono i segni più tangibili di questa fase.
D’altra parte, una serie di problemi interni che attraversarono entrambe le superpotenze e nuove crisi «regionali» in cui esse indirettamente si trovarono a fronteggiarsi concorsero a influenzare e a ostacolare questo processo.
In seguito alla morte di Kennedy, alla fine del 1963 il vicepresidente (ovviamente anche lui membro del Partito democratico) Lyndon Johnson assunse la presidenza; l’avrebbe mantenuta fino al 1968, dopo aver vinto le elezioni del 1964. Si sarebbe distinto per due ragioni molto diverse.
Sul piano interno, realizzò il programma di riforme preannunciato da Kennedy. Johnson adottò lo slogan «Great Society», una «grande società», che doveva combattere la povertà e la discriminazione.
Sin dal 1964 promosse il varo del «Civil Rights Act», la Legge federale sui diritti civili, ottenuta anche in seguito all’imponente movimento di protesta della comunità afroamericana (➜ CAP. 17.4). Questa legge conteneva due misure fondamentali:
proibiva le discriminazioni nelle modalità di iscrizione alle liste elettorali (esisteva una serie di espedienti che permettevano alle amministrazioni bianche di escludere i neri dall’esercizio del voto);
dichiarava illegale ogni discriminazione basata sulla razza, il sesso o l’etnia nell’ambito dell’amministrazione e delle attività ed esercizi pubblici (dalle scuole alla frequentazione di hotel, ristoranti, bar ecc.).
Negli anni successivi, una serie di programmi federali (ossia finanziati dal governo centrale) portarono alla realizzazione di misure di welfare state nei campi della sanità, delle pensioni e dell’istruzione. Nel complesso erano misure di minore portata rispetto al modello europeo di welfare, ma ebbero comunque un impatto importante sulla società americana: ridussero le sacche di povertà e le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza.
L’altro evento che segnò la presidenza Johnson fu la guerra del Vietnam. Come abbiamo visto (➜ CAP. 15.2), dal 1965 gli Stati Uniti si ritrovarono pesantemente coinvolti nel conflitto in Indocina. Dopo l’offensiva vietnamita dell’inizio del 1968, Johnson cercò una via d’uscita intavolando trattative che però, inizialmente, non ebbero l’esito sperato. Questo insuccesso lo spinse a ritirarsi dalla vita politica, rinunciando a ricandidarsi (avrebbe potuto farlo perché il suo primo mandato, come presidente subentrato, era durato soltanto tredici mesi). Il capitolo della guerra vietnamita sarebbe stato chiuso dal suo successore, il repubblicano Richard Nixon.
La primavera di Praga Il 1968 segnò un passaggio cruciale anche per il blocco sovietico. Nei primi mesi dell’anno la Cecoslovacchia conobbe un processo di riforma guidato dalla dirigenza del partito, in particolare dal nuovo segretario Alexander Dubcek, che prese le mosse dalla necessità di rendere più flessibile il modello economico di stampo sovietico, ma sfociò rapidamente in un programma che prevedeva la reintroduzione del pluralismo politico (abolendo quindi il regime a partito unico) e una larga libertà d’espressione. Questa proposta dall’alto, che Dubcek definì un «socialismo dal volto umano», incontrò i fermenti politici, culturali e ideali che in quel momento partivano dal basso, cioè dalla società cecoslovacca. Le riforme fiorirono ad aprile – da cui la celebre espressione, coniata in Occidente, di «primavera di Praga» – in contemporanea con l’esplosione della protesta studentesca che stava avvenendo in tutto il mondo industrializzato (➜ CAP. 17).
Malgrado il governo cecoslovacco non avesse nessuna intenzione di uscire dal blocco sovietico (a differenza di quanto aveva dichiarato, nel 1956, il Primo ministro ungherese, scatenando la reazione di Mosca), la dirigenza sovietica giudicò che l’esperimento si era spinto troppo in là. Anche per la pressione dei regimi polacco e tedesco orientale (che, privi di un solido consenso interno, temevano di essere destabilizzati o travolti dall’esempio cecoslovacco), le truppe del Patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia la notte tra il 20 e il 21 agosto 1968.
La resistenza pacifica opposta dai cecoslovacchi si rivelò inutile e immediatamente cominciò un processo di «normalizzazione». La dirigenza cecoslovacca fu lasciata al suo posto per un altro anno, ma dovette smantellare le riforme varate sino a quel momento. Questo periodo fu reso ancora più angoscioso dall’estrema protesta dello studente Jan Palach che nel gennaio del 1969 si diede fuoco in piazza San Venceslao, nel centro di Praga. Il suo gesto richiamava esplicitamente quello di un «bonzo», un monaco buddista vietnamita che nel 1963 si era dato fuoco a Saigon per protestare contro il governo filoamericano del Vietnam del Sud. Palach collegava così idealmente due lotte contro l’imperialismo e la sopraffazione.
L’URSS di Breznev Nel settembre 1968 Leonid Breznev, che aveva affermato la sua preminenza nell’apparato di potere sovietico dopo alcuni anni di direzione collegiale, diede una sorta di veste formale all’intervento dell’URSS e degli alleati del Patto di Varsavia. La cosiddetta «dottrina Breznev» sosteneva che «la sovranità e il diritto all’autodeterminazione degli Stati socialisti sono subordinati agli interessi del sistema socialista mondiale». In altre parole, il segretario del PCUS dichiarava che la sovranità nazionale dei Paesi del blocco sovietico era limitata e restava subordinata alle valutazioni del Cremlino.
La dichiarazione di Breznev tentava anche di nascondere un fatto evidente: un «sistema socialista mondiale», nel solco della complessa tradizione internazionalista, non esisteva più e tanto meno, dopo la rottura tra Mosca e Pechino (➜ PAR. 4), faceva capo all’URSS. I fatti di Praga non solo spaccarono o indebolirono i grandi partiti comunisti europei, come era già accaduto nel 1956 dopo l’invasione dell’Ungheria, ma li spinsero a prendere maggiori distanze da Mosca, come nel caso del Partito comunista italiano.
Sul piano interno si aggiungevano crescenti difficoltà economiche: il modello dirigista sovietico, capace di trasformare in pochi decenni un Paese fortemente arretrato in una potenza industriale, aveva raggiunto i suoi limiti espansivi. In qualche misura, il sistema industriale sovietico era nato sotto la spinta di un’emergenza continua, dal 1917 alle necessità della ricostruzione e della guerra fredda post-1945, pressato dalla necessità di raggiungere risultati in breve tempo, senza badare a sprechi, inefficienze e costi (di ogni genere, compresi quelli ambientali), e per di più sotto il controllo di un ponderoso apparato burocratico.
Quando quella spinta, materiale e ideale allo stesso tempo, si esaurì, non restavano più risorse o margini per riconvertirsi – in primo luogo dall’industria pesante a quella di consumo –, né per introdurre innovazioni tecnologiche, né per stimolare la crescita della produttività. Ne scaturì un circolo vizioso che rese l’apparato produttivo sempre più inefficiente e pletorico.
Negli anni Sessanta la situazione più critica era quella in cui versava l’agricoltura: la produzione non riusciva a coprire il fabbisogno alimentare del Paese, costretto a importare soprattutto cereali e tecnologie dagli USA, aprendo in questo modo una breccia, probabilmente fatale, nel suo sistema fino ad allora sostanzialmente autarchico e autosufficiente.
L’incremento di esportazioni di materie prime energetiche sostenne in parte la bilancia commerciale, ma d’altra parte queste risorse, drenate dall’apparato militare o sprecate da un sistema burocratico sempre più inefficiente e corrotto, non servirono a ridurre un crescente gap tecnologico con l’Occidente.
Gli anni di Breznev (che sarebbe rimasto al potere fino alla morte, nel 1982) furono pertanto segnati:
da una continua perdita di consenso e fiducia, sia pure ancora in forme dissimulate e silenziose;
dall’ulteriore crescita degli apparati burocratici del partito, sempre più corrotti, dal momento che qualunque cosa doveva passare per le loro mani, e dai quali era scaturita una vera e propria casta privilegiata (la cosiddetta nomenklatura);
dall’evidente incapacità di un’autoriforma del sistema.
Se il blocco sovietico era ormai tenuto insieme soltanto dalla minaccia delle armi, nell’URSS si irrigidirono di nuovo i controlli di polizia, e le autorità soffocarono la dissidenza interna. Tra i casi più celebri a livello internazionale vi fu quello dello scrittore Alexandr Solzenycin (➜ CAP. 14.5), esiliato all’inizio del 1974 (nel 1973 era uscito in Occidente il suo Arcipelago gulag, dove raccontava il sistema dei campi di lavoro sovietici), e quello del fisico Andrej Sacharov, uno dei padri della bomba H sovietica, confinato alla fine degli anni Settanta.
In questo contesto, la politica della distensione diventava un’opportunità anche per il regime sovietico: oltre ad alleggerire il bilancio delle spese militari, permetteva l’apertura di relazioni commerciali sempre più importanti per sostenere i livelli di vita interni, e inoltre consentiva all’URSS di accreditarsi come garante della pace, mantenendo alto il proprio prestigio.
La diplomazia di Nixon e di Kissinger La disponibilità al dialogo era contraccambiata dal nuovo presidente americano, il repubblicano Richard Nixon, eletto nel 1968 dopo una campagna elettorale drammatica, durante la quale venne assassinato Robert «Bob» Kennedy, il fratello dell’ex presidente John, mentre si trovava ancora impegnato nelle primarie del partito democratico.
La distensione si concretizzò nel 1972 in un trattato per la riduzione degli armamenti nucleari, noto come SALT I (sigla per Strategic Arms Limitation Talks, «trattative per la limitazione delle armi strategiche»), per distinguerlo da quello SALT II, di portata minore, siglato nel 1979. Si consideri peraltro che questi trattati ebbero un valore simbolico più che concreto: non soltanto gli arsenali restavano largamente sufficienti a distruggere più volte il pianeta, ma la gara al loro sviluppo tecnologico proseguiva senza soste, rendendo rapidamente obsoleti gli accordi fissati sulla carta.
La politica estera americana, ispirata dal segretario di Stato Henry Kissinger, previde una svolta radicale anche in Asia. L’amministrazione Nixon, come abbiamo detto, uscì dal conflitto vietnamita, tra il 1973 e il 1975 (➜ CAP. 15.2). A questo risultato contribuì una clamorosa apertura verso la Cina popolare – con cui non erano mai state aperte relazioni diplomatiche – avviata sin dal 1969 e coronata da una visita ufficiale a Pechino nel 1972. La base di questa nuova intesa, frutto della cosiddetta «diplomazia del ping pong», era la politica antisovietica: Pechino era in aperta rottura con Mosca e questo schiudeva nuove prospettive per Washington.
Per questo motivo sin dalla fine del 1971 la Cina popolare fu ammessa nella comunità internazionale: accolta nelle Nazioni Unite, prese il posto di Taiwan nel Consiglio di sicurezza (➜ ANCHE CAP. 14.4). Nel 1972 ritirò i suoi aiuti al Vietnam, che restò così legato esclusivamente all’URSS. Infine, Cina e Stati Uniti aprirono importanti relazioni commerciali.
La fine della presidenza Nixon Il processo di distensione conobbe una nuova battuta d’arresto nella seconda metà degli anni Settanta. Vi contribuirono, da un lato, i problemi interni degli Stati Uniti e, dall’altro, una nuova ondata di fermenti e di tensioni provenienti dai Paesi del Terzo Mondo.
Nell’estate del 1974 il presidente Nixon rassegnò le dimissioni, travolto dallo scandalo politico passato alla storia come «il Watergate». Sin dall’estate del 1972, due giornalisti del quotidiano «Washington Post» avevano fatto emergere alcuni elementi che accusavano il presidente di aver condizionato il corso delle elezioni, spiando le mosse dei democratici grazie a microspie piazzate nel loro quartier generale elettorale, l’hotel Watergate di Washington.
Due anni dopo, quando i risultati delle inchieste giudiziarie erano ormai inequivocabili, Nixon si dimise prima di subire una formale incriminazione secondo le procedure previste dalla Costituzione americana.
Nuove tensioni in un mondo che cambia La grave crisi politica interna degli USA si accompagnò a una fase di instabilità internazionale che sembrò avvantaggiare l’URSS. All’inizio degli anni Settanta nel campo occidentale mutò infatti la congiuntura economica. In particolare, due clamorosi avvenimenti segnarono il trapasso da una crescita che sembrava inarrestabile a un ciclo depressivo.
1. Nell’agosto del 1971 gli Stati Uniti sospesero la convertibilità del dollaro in oro. Ciò determinò la fine del sistema monetario stabilito con gli Accordi di Bretton Woods nel 1944 (➜ CAP. 14.2) e provocò una lunga fase di caos monetario – dal momento che i valori delle valute nazionali oscillavano tra loro –, con conseguenze sulla stabilità degli scambi internazionali e sui livelli dei prezzi e dell’inflazione (ANCHE CAP. 17.8). La decisione di Washington derivava dalle sue difficoltà di bilancio: la spesa pubblica saliva, soprattutto per finanziare i nuovi programmi di welfare e le spese militari. Inoltre la bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti era passata in deficit: in altre parole, dal 1970 le importazioni avevano superato le esportazioni.
Sin dalla metà degli anni Sessanta, il governo americano aveva fatto fronte alle sue esigenze di spesa stampando dollari, che avevano inondato il mondo e in particolare le banche dei Paesi dell’Europa occidentale. Quando le richieste europee di conversione di dollari in oro cominciarono a crescere, le riserve auree americane cominciarono a calare, spingendo Washington a porre fine al sistema di Bretton Woods.
2. Nel novembre del 1973 l’economia occidentale subì il cosiddetto «shock petrolifero»: in conseguenza della Guerra del Kippur (➜ CAP. 15.4), i Paesi produttori di petrolio riuniti nell’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries, ovvero Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, fondata nel 1960) ridussero drasticamente l’esportazione di petrolio verso gli alleati di Israele e, nel giro di un anno, quadruplicarono i prezzi del greggio, che passò da circa 3 dollari al barile a circa 12 dollari al barile. Alla fine degli anni Settanta un secondo shock, seguente alla rivoluzione scoppiata in Iran (➜ PAR. 5), portò il prezzo a circa 35 dollari.
I «miracoli economici» occidentali erano stati possibili anche per il modesto costo dell’energia che ora – improvvisamente, nel giro di sei-sette anni – era aumentata di circa undici volte. E con essa tutto rincarò, perché il costo del petrolio incideva – direttamente o indirettamente – sui costi di produzione e di trasporto di qualsiasi merce.
Pertanto, in virtù delle difficoltà americane e di questa nuova crisi del capitalismo, intorno alla metà degli anni Settanta – malgrado molti segnali potessero indicare anche il contrario – sembrarono aprirsi nuovi spazi politici per l’URSS:
il Vietnam, dopo la definitiva vittoria del 1975, si integrò nel sistema sovietico (nel 1978 entrò anche nel Comecon);
un colpo di Stato militare impose un regime filosovietico in Etiopia;
in Angola e Mozambico l’esito della decolonizzazione portò al potere dei movimenti «nazionalisti-marxisti», sostenuti dalle armi sovietiche;
in America centro-meridionale i movimenti guerriglieri di sinistra sembravano rafforzarsi (ma come abbiamo visto nel CAP. 15.6, gli Stati Uniti, su impulso del segretario di Stato Kissinger, non tardarono a prendere drastiche contromisure);
persino in Europa occidentale, sia pure soltanto per pochi mesi, sembrò che il Portogallo, dopo la rivoluzione che pose fine alla lunga dittatura di stampo fascista, potesse passare nel campo comunista, mentre in Italia preoccupava gli osservatori internazionali la continua avanzata elettorale del Partito comunista italiano che, sotto la guida di Enrico Berlinguer, nel 1976 superò il 34 per cento dei consensi (➜ CAP. 19).
Al di là delle oscillazioni di breve periodo nei rapporti tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, la questione di maggiore rilievo ormai era un’altra: il bipolarismo est-ovest aveva perduto la capacità di contenere, descrivere e analizzare una situazione mondiale divenuta assai più intrecciata lungo l’asse geopolitico sud-nord e, al tempo stesso, complicata.
Nel mondo comunista, la leadership sovietica declinava. Nel campo occidentale, il rallentamento della crescita economica e la fine del sistema di Bretton Woods ponevano nuovi interrogativi per il futuro. In varie parti del mondo stavano emergendo nuovi centri di potere economico e politico, sia pure ancora inferiori a Mosca e a Washington. A metà degli anni Settanta, il mondo del bipolarismo cominciava tuttavia a cedere il posto a una configurazione diversa.
3 In Europa occidentale: mercato comune e democrazia
Il progetto francese di «terza forza» Nel corso degli anni Sessanta l’Europa occidentale completò il suo straordinario recupero economico e demografico (➜ CAP. 17), mentre le democrazie nazionali si consolidavano e prendevano forma strutture comunitarie sovranazionali ancora limitate a sei Paesi e alla sfera strettamente economica (le Comunità economiche europee).
In questi anni la politica continentale e l’evoluzione delle strutture comunitarie furono segnate dall’ambizione del presidente francese Charles De Gaulle di fare dell’Europa, forte della sua nuova prosperità e stabilità, una «terza forza», autonoma e dello stesso rango di Stati Uniti e Unione Sovietica.
L’idea d’Europa di De Gaulle L’obiettivo di De Gaulle era restituire alla Francia il suo tradizionale ruolo di protagonista della politica internazionale. Tuttavia, egli era consapevole che, nell’era delle superpotenze, questa ambizione doveva passare attraverso un rafforzamento dell’Europa che doveva svincolarsi dall’egemonia politica e militare americana per proporsi come «terza forza» rispetto a USA e URSS, con una propria e autonoma force de frappe («forza d’urto») basata sul potere di dissuasione derivante dal possesso del nucleare. Il presidente francese aveva in mente un’«Europa degli Stati», ovvero una struttura confederale: ogni Stato avrebbe conservato la propria sovranità mentre l’integrazione sarebbe stata realizzata dai governi nazionali, attraverso fitte consultazioni e accordi (da concludere sempre all’unanimità) su questioni specifiche, senza la creazione di strutture sovranazionali, che avrebbero determinato appunto limitazioni alle singole sovranità nazionali. Naturalmente la Francia avrebbe avuto un ruolo guida nel coordinare le relazioni tra i Paesi europei.
A questo scopo, sin dal 1961, la Francia promosse i cosiddetti «vertici europei», riunioni informali dei capi di Stato dei Paesi membri delle Comunità europee, convocate a cadenza irregolare, ma piuttosto serrata. Dal momento che non erano previste dai Trattati di Roma (➜ CAP. 14.6), si configuravano di fatto come un’alternativa alle istituzioni comunitarie, rimettendo in primo piano il ruolo delle singole nazioni rispetto a un’impostazione sovranazionale. L’evidente importanza economica delle Comunità europee fece sì che la loro esistenza non fosse rimessa in discussione; ma così De Gaulle cercava di far evolvere l’integrazione politica secondo il suo progetto confederale.
L’asse franco-tedesco e l’atomica Un altro tassello del progetto di De Gaulle prevedeva il rafforzamento dei rapporti con la Germania ovest che – a meno di vent’anni dalla sconfitta del nazismo – si trovava ancora sotto tutela politica, ma la sua eccezionale crescita economica l’aveva già riportata al rango di grande potenza. La creazione di un asse privilegiato franco-tedesco doveva raggiungere più scopi:
improntare definitivamente le relazioni franco-tedesche alla collaborazione in tutti i campi;
sottrarre la Germania ovest all’egemonia americana;
fare dell’asse franco-tedesco il nucleo dell’Europa politica a venire, permettendo anche lo sviluppo di una politica di difesa autonoma.
Per fare dell’Europa una «terza forza», infatti, sarebbe stato necessario creare una forza militare autonoma, ovvero in grado di sostenere anche un conflitto nucleare. Per questa ragione De Gaulle spinse il programma atomico francese, che arrivò a realizzare il primo test nucleare nel 1960. Allo stesso tempo, si impegnò per la formazione di un’organizzazione di difesa europea svincolata dalla NATO, per una politica di difesa e di sicurezza che non dipendesse più dagli Stati Uniti.
I partner europei, tuttavia, e prima fra tutti proprio la Germania, si guardarono bene dal mettere in discussione l’adesione alla NATO e la protezione degli Stati Uniti, che consideravano l’unica vera garanzia contro il pericolo di un’aggressione sovietica. Il risultato della politica di De Gaulle ebbe una dimensione unicamente nazionale: la Francia, pur continuando a essere membro della NATO, si ritirò dal comando integrato e fece uscire dal Paese tutte le forze NATO che vi erano stanziate.
L’ambiziosa politica di De Gaulle, ispirata ai fasti ormai passati di una grandeur francese ai limiti del velleitarismo, si risolse in una impasse (una situazione senza soluzione) che coinvolse anche le strutture comunitarie, il cui sviluppo restò sostanzialmente bloccato fino al 1969, quando il presidente francese si ritirò dalla scena politica.
L’Ostpolitik di Willy Brandt L’iniziativa di De Gaulle verso l’Europa orientale aprì la strada anche a una svolta nella questione tedesca, che coincise con un cambiamento nel panorama politico della Germania occidentale. Tra il 1966 e il 1969 si concluse infatti il lungo periodo di governo del Partito democristiano, la CDU-CSU, mentre il Partito socialdemocratico, la SPD, assunse la guida del Paese.
La SPD si era preparata a questo passo sin dal 1959 quando, con il cosiddetto programma di Bad Godesberg, aveva ufficialmente abbandonato la dottrina marxista.
Diventato cancelliere nel 1969, il leader socialdemocratico Willy Brandt inaugurò la sua Ostpolitik («politica dell’Est»), che portò ad allacciare rapporti diplomatici con la Germania est (fino a quel momento inesistenti per volontà dei governi della CDU di non avallare l’esistenza di due Germanie) e a concludere una serie di trattati con gli altri Paesi del blocco sovietico.
Nel 1970, con i trattati di Mosca e di Varsavia, la Germania ovest riconobbe il confine fissato con la Polonia nel 1945 e pertanto rinunciò a ogni rivendicazione sugli antichi territori tedeschi orientali. A Varsavia per la firma del trattato, Brandt si inginocchiò spontaneamente davanti al monumento che ricordava la distruzione del ghetto di Varsavia. Questo gesto assunse un valore ancora superiore a quello del trattato tanto da essere considerato il riconoscimento della colpa collettiva del popolo tedesco.
In sostanza, gli accordi stipulati dalla Germania ovest tra il 1970 e il 1973 – che regolavano lo status di Berlino ovest, stabilivano relazioni diplomatiche tra le due Germanie e riconoscevano il confine con la Cecoslovacchia annullando gli accordi di Monaco del 1938 – assolsero la funzione di quel trattato di pace generale che non aveva potuto vedere la luce all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale. Il coronamento di questo percorso si ebbe nel 1973 con l’ammissione di entrambe le Germanie nelle Nazioni Unite.
La fine delle dittature in Grecia, Portogallo e Spagna Intorno alla metà degli anni Settanta si chiusero altre vicende le cui radici affondavano nel periodo interbellico o della Seconda guerra mondiale: terminò, infatti, il periodo delle dittature reazionarie e filofasciste in Grecia, Portogallo e Spagna.
In Grecia, la dittatura – detta «dei colonnelli» perché instaurata in seguito a un colpo di Stato militare – si impose nel 1967. I colonnelli si impadronirono del potere durante una grave crisi politica seguita alla crescita delle opposizioni di sinistra.
Gli Stati Uniti si affrettarono a riconoscere il regime, benché gli alleati europei fossero molto più diffidenti a causa dei metodi polizieschi dei militari, che repressero le opposizioni e violarono sistematicamente i diritti fondamentali.
Un clamoroso fallimento politico e militare travolse nel 1974 i «colonnelli»: i militari tentarono di annettere l’isola di Cipro, diventata indipendente da Londra nel 1960 e abitata da una maggioranza di cultura e lingua greca e da una consistente minoranza turca; proprio per tutelare questa comunità, la Turchia reagì con le armi, sbarcando nel nord dell’isola.
La Grecia tornò quindi alla vita democratica e divenne una repubblica a seguito di un referendum popolare che respinse l’ipotesi di tornare alla monarchia costituzionale ristabilita dopo la guerra.
Nello stesso 1974 anche il Portogallo tornò alla democrazia, dopo la lunga dittatura di stampo fascista imposta da Antonio Salazar nel 1932 (Salazar detenne il potere fino al 1968, quindi gli successe Marcelo Caetano).
Una costosissima guerra coloniale, che sottraeva uomini e risorse a un Paese che restava molto povero, minò il regime. La sua caduta fu determinata, infatti, da un colpo di Stato organizzato il 25 aprile 1974 da un gruppo di giovani ufficiali di idee di sinistra – che avevano fatto esperienza della guerra coloniale in Angola e Mozambico – e sostenuto dal movimento comunista.
L’azione cominciò poco dopo la mezzanotte del 25 aprile 1974 (il segnale venne dato con la trasmissione della canzone, proibita dal regime, Grandola vila morena) e fu incruenta: il regime cedette senza combattere e i portoghesi poterono mettere per davvero dei fiori nelle canne dei fucili, come recitava un celebre slogan pacifista del tempo; questi avvenimenti passarono alla storia come la cosiddetta «rivoluzione dei garofani», che stavano fiorendo proprio in quei giorni di primavera.
Come abbiamo già ricordato, per alcuni mesi si pensò che il comunismo potesse prendere piede in Europa occidentale, in uno dei Paesi membri della NATO. Nell’autunno del 1975, tuttavia, prevalse l’ala più moderata del fronte rivoluzionario che riuscì ad allontanare gli ufficiali più radicali. Il Paese divenne una repubblica parlamentare, in cui si sarebbero alternati governi di centro-destra e socialisti.
Nel 1975 anche la Spagna vide la fine della dittatura, in seguito alla morte di Francisco Franco, che si era imposto nel 1939 al termine della guerra civile (➜ CAP. 9.8).
L’opposizione al regime era cresciuta negli anni Sessanta, durante i quali il Paese aveva conosciuto profondi cambiamenti: uno sviluppo industriale e una graduale modernizzazione anche della società, dovuta, tra le altre cose, all’intensificarsi degli scambi con l’estero (mediante il turismo e i flussi migratori). La Spagna era in fermento: insieme alla forza della classe operaia, cresceva la protesta studentesca e intellettuale, e persino quella del mondo cattolico, attraversato dai cambiamenti in senso progressista promossi dalla Chiesa di papa Giovanni XXIII (➜ CAP. 17.3) che facevano vacillare uno dei principali pilastri del regime.
Avevano ripreso quota anche i movimenti autonomisti e separatisti – basco, catalano e galiziano –, ostili al franchismo per il suo rigido centralismo. Una serie di attentati scosse il Paese e la fine della dittatura fu, in qualche modo, annunciata sin dal 1973 dall’omicidio, da parte dell’organizzazione basca ETA (acronimo di Euskadi Ta Askatasuna, letteralmente «Paese Basco e libertà», ➜ CAP. 17.7), dell’ammiraglio Luis Carrero Blanco, il numero due del regime.
Franco morì nel 1975, designando come suo successore Juan Carlos di Borbone, erede al trono di Spagna vacante dal 1931. Il sovrano intraprese con determinazione il delicato processo di transizione e di democratizzazione del Paese, dove tornarono a essere legali tutti i partiti, fra cui quello comunista, e liberi i sindacati. Nel 1978 il varo della nuova Costituzione fece della Spagna una democrazia a tutti gli effetti, retta da un sistema di monarchia parlamentare.
La Comunità europea al tempo della crisi Negli anni Ottanta tutti e tre i Paesi dell’area mediterranea recuperati alla democrazia entrarono nella Comunità europea: la Grecia sin dal 1981, il Portogallo e la Spagna nel 1986.
La Comunità europea stava ormai cambiando volto, secondo un percorso avviato dopo la complessa stagione segnata dai progetti di De Gaulle, quando i membri della CEE vollero rilanciare il processo di integrazione economica e politica. Questa nuova fase, cominciata nei primi anni Settanta, fu favorita dalla concomitanza di alcuni fattori:
dal raggiungimento degli obiettivi fissati dai Trattati di Roma: già nel corso del 1968 (in anticipo rispetto alla data prevista del 1° gennaio 1970) si varò l’unione doganale che prevedeva l’abolizione dei dazi tra i Paesi membri e l’adozione di una tariffa comune per le importazioni;
dall’allargamento della Comunità che dal 1° gennaio 1973 annoverò anche il Regno Unito, l’Irlanda e la Danimarca.
Le discussioni si concentrarono sull’elaborazione di una politica economica e monetaria comune, sempre più urgenti di fronte ai rivolgimenti dei primi anni Settanta. Nel 1979 si arrivò alla creazione del Sistema monetario europeo (SME), che aveva lo scopo di limitare le fluttuazioni dei cambi tra le divise degli Stati membri, anche per evitare che un Paese usasse la svalutazione monetaria per rendere artificialmente più competitive le proprie esportazioni verso Stati in cui il denaro valeva di più (un prodotto importato poteva costare meno dell’equivalente nazionale per il gioco dei cambi di valuta).
Le banche centrali avrebbero dovuto agire in modo da mantenere il valore delle rispettive monete entro una determinata banda di oscillazione. Inoltre, i valori furono calcolati non più sulla base del dollaro ma in relazione a una nuova moneta di conto europea, l’ECU. Questa riforma può essere considerata la base per la nascita della moneta unica europea, l’euro, che sarebbe avvenuta vent’anni dopo (➜ CAP. 21.6).
Sul piano politico, nel 1974 i vertici europei tra i capi di Stato avviati negli anni Sessanta cominciarono ad assumere una veste più formale, definendosi Consigli europei. Continuava in ogni caso il dualismo già messo in luce in precedenza: da una parte organismi per la concertazione tra Stati nazionali; dall’altra la struttura sovranazionale, rappresentata dalle Commissioni (soprattutto dalla Commissione della CEE, la più importante) e dalle altre istituzioni comunitarie.
Nel 1976 gli Stati membri presero la decisione di far eleggere il Parlamento europeo a suffragio universale diretto. Il Parlamento era stato istituito sin dal 1957, come assemblea ristretta i cui deputati erano designati dai Parlamenti nazionali. Ora, a partire dalle elezioni del 1979, l’elettorato di ciascun Paese membro avrebbe votato i propri rappresentanti nazionali (in numero proporzionale alla popolazione).
Questo rafforzamento delle strutture comunitarie in senso democratico aveva più che altro un valore simbolico, dal momento che il Parlamento europeo manteneva ancora soltanto funzioni consultive e non legislative. Al contempo, su un piano più pragmatico, si rafforzò il diritto comunitario, grazie all’azione determinata della Corte di giustizia europea (il tribunale previsto dai Trattati di Roma che sovraintendeva all’applicazione e all’interpretazione del nascente diritto europeo). Sin dagli anni Sessanta la Corte agì affermando tendenzialmente la superiorità delle norme comunitarie su quelle nazionali e inoltre cominciò a estenderle. Si creò così uno spazio giuridico europeo in grado di prefigurare un’integrazione non soltanto economica, ma anche pienamente politica e sociale, aprendo la strada al processo di definizione di una cittadinanza europea, che sarebbe stata introdotta nel 1992.
4 La Cina dalla «rivoluzione culturale» alla morte di Mao Tse-tung
Il fallimento del «grande balzo in avanti» Alla fine degli anni Cinquanta, malgrado i buoni risultati del primo piano quinquennale, la Cina popolare continuava a essere un Paese arretrato sia nel settore industriale sia in quello agricolo. Dalla fine della guerra civile, la popolazione era aumentata a un ritmo molto elevato, passando da circa 540 milioni nel 1950 a circa 640 milioni nel 1960, e questo poneva grossi problemi alimentari e di occupazione: come sfamare e dove impiegare quei milioni di nuove leve?
Nel 1958 la dirigenza cinese, con alla testa Mao Tse-tung, tentò di incrementare il ritmo della crescita, lanciando un programma battezzato il «grande balzo in avanti». L’idea era quella di sviluppare contemporaneamente l’agricoltura e l’industria, sia pesante sia leggera, facendo leva sull’enorme quantità di manodopera disponibile.
La base dell’organizzazione doveva essere la «Comune popolare», un’unità economica-amministrativa che poteva riunire da 4000 a 10.000 famiglie e doveva diventare un complesso agrario e industriale autosufficiente. Con la Comune veniva perfezionata anche la collettivizzazione, dal momento che terre, bestiame, attrezzi, mezzi di produzione, servizi ecc. diventavano proprietà e attività dei membri della Comune.
Il «grande balzo» si animò di una fortissima spinta ideologica, che accordava la priorità agli obiettivi sociali e politici rispetto a quelli strettamente economici. Prima che modernizzare il Paese, doveva creare una società totalmente nuova, egualitaria e anti-individualista, che si spingeva a immaginare l’abolizione, di fatto, del nucleo familiare e della vita privata.
Questo progetto, tuttavia, si risolse in un catastrofico fallimento: i problemi organizzativi, gli errori tecnici (dovuti proprio al primato assoluto accordato all’ideologia, che procedette incurante dei dati oggettivi) e una serie di sfortunate circostanze (una serie di calamità naturali colpirono la Cina riducendo i raccolti) fecero crollare sia la produzione agricola sia quella industriale. Tra il 1959 e il 1961, poi ribattezzati i «tre anni neri», in Cina si ebbero almeno 14 milioni di morti di fame (secondo le cifre ufficiali, ma alcuni studiosi avanzano stime più alte).
La rottura con l’Unione Sovietica In quegli stessi anni Pechino arrivò a rompere con l’Unione Sovietica: il distacco da Mosca equivaleva a una rivendicazione di indipendenza sia nazionale sia ideologica. La Cina intendeva diventare un protagonista autonomo sulla scena internazionale ed elaborare una propria via originale al socialismo. Mao era fortemente critico nei confronti della linea adottata da Kruscev nel 1956: freddo in merito alla destalinizzazione, accusava i sovietici di tradire la rivoluzione, soffocata nelle strutture burocratiche del partito che di fatto riproponeva soltanto una versione diversa e «di Stato» del capitalismo, ed era contrario all’idea di convivenza pacifica. Secondo il «grande timoniere» (uno dei soprannomi con cui era noto Mao) bisognava condurre una politica più aggressiva, perché le potenze capitaliste erano in difficoltà e non ne andava sopravvalutata la forza: erano soltanto «tigri di carta», secondo una sua celebre definizione.
La tensione tra Pechino e Mosca sarebbe cresciuta per tutti gli anni Sessanta, mentre a livello internazionale Pechino, come abbiamo visto (➜ PAR. 2), giunse a un accordo con gli Stati Uniti all’inizio degli anni Settanta, mentre ruppe i rapporti con il regime vietnamita, rimasto filosovietico (➜ CAP. 15.2).
La «rivoluzione culturale» Nel frattempo la Cina visse fortissime tensioni interne. Il fallimento del «grande balzo» aveva fatto emergere un’ala moderata, che tra le sue fila contava anche Deng Xiao-ping, segretario del Partito comunista cinese, e Liu Shaoqi, il presidente della Repubblica (mentre Mao conservava la carica di presidente del Comitato centrale del Partito comunista, cruciale per avere il controllo su tutta l’organizzazione di partito).
A differenza di Mao, che sosteneva il primato della politica e dell’ideologia sull’economia (non sarebbe stato lo sviluppo economico a portare alla nascita di una società socialista, ma al contrario l’affermazione di quest’ultima avrebbe prodotto un determinato sviluppo produttivo), il gruppo moderato era convinto della necessità di ridare priorità a criteri economici, per evitare le sciagure dei tre anni precedenti.
Il conflitto tra queste due opzioni si sviluppò sotterraneamente fino a esplodere tra il 1965 e il 1966. Contro i moderati, che erano riusciti a prendere temporaneamente il controllo del Comitato centrale del partito, Mao scatenò un’offensiva ideologica che ebbe pesanti conseguenze pratiche. Per riprendere le redini del partito, si appoggiò sull’esercito e soprattutto sulla gioventù cinese, gli studenti in particolare, che aderirono in massa al movimento delle «guardie rosse».
Sin dal 1964 Mao aveva diffuso su larga scala il suo Libretto rosso, una raccolta di massime rivoluzionarie che esaltavano i valori dell’egualitarismo e del collettivismo (divenne un punto di riferimento ideologico anche per alcuni settori dei movimenti di contestazione sorti in Occidente a partire dal 1968, ➜ CAP. 17).
Quindi nell’estate del 1966 cominciò ufficialmente il movimento della «grande rivoluzione culturale», animato da slogan quali «bombardare il quartier generale». Le masse giovanili ebbero mano libera contro quelle che venivano indicate come le élite intellettuali e burocratiche, in nome di una purezza rivoluzionaria da ristabilire scalzando funzionari e tecnocrati dalle loro posizioni di privilegio che si erano create appunto tradendo la rivoluzione.
La protesta giovanile rovesciò le gerarchie con violenza, costringendo i quadri del partito contrari a Mao a umilianti autocritiche pubbliche, cui seguivano internamenti o periodi di «rieducazione» che, per esempio, prevedevano l’obbligo di svolgere lavori manuali. Tra i vecchi dirigenti che subirono l’epurazione si trovò anche Deng Xiao-ping.
Il Paese piombò in un caos violento. Non esiste un bilancio delle vittime della «rivoluzione culturale», le stime oscillano da qualche decina di migliaia ad alcuni milioni di morti. La spinta delle «guardie rosse» si esaurì progressivamente tra il 1967 e il 1968, anche per l’intervento di Mao che ormai aveva raggiunto lo scopo che si era prefissato: la sconfitta e la rimozione dei moderati.
Verso una nuova Cina Tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, la Cina avviò un consistente recupero economico: la sua agricoltura, benché ancora poco meccanizzata, era diventata più produttiva di quella indiana, mentre la sua industria si collocava, per quantità di prodotto, tra le prime dieci al mondo, benché ancora molto lontana dai livelli statunitensi, europei e sovietici.
A rendere il Paese un potenziale terzo grande polo mondiale contribuiva lo sviluppo del programma atomico: la Cina fece esplodere la sua prima bomba A nel 1964 e la sua prima bomba H nel 1967.
Anche per queste ragioni a metà degli anni Settanta poté riprendere quota la proposta dei sostenitori della linea moderata, o pragmatica, attenta agli indicatori della crescita economica. Intorno al 1974-75, questo gruppo ritrovò il suo vecchio leader Deng Xiao-ping, il quale venne «riabilitato», come moltissimi altri dirigenti caduti in disgrazia durante la rivoluzione culturale.
Dopo la morte di Mao, avvenuta nel 1976, la linea di Deng si impose al vertice della Cina: le questioni economiche divennero prioritarie, venne lanciata la campagna delle «quattro modernizzazioni» (ovvero nell’industria, nell’agricoltura, nella difesa nazionale e nel campo scientifico e tecnologico) e la politica della «porta aperta», che prevedeva l’intensificazione degli scambi commerciali con il mondo capitalista. Allo stesso tempo era abbandonata la collettivizzazione integrale in agricoltura e, all’interno del Paese, si aprivano spazi sempre più consistenti – sia pure attentamente controllati dal Partito – all’economia di mercato.
La Cina cominciava così un programma di modernizzazione guidata dall’alto paragonabile a quello conosciuto dal Giappone nel XIX secolo.
Questo significò procedere anche a una progressiva «demaoizzazione», a tutti i livelli. I successori di Mao accantonarono ogni progetto di società egualitaria per lasciar spazio a un diverso singolare esperimento: quello di uno Stato autoritario e dirigista, guidato da un partito ufficialmente sempre comunista, impegnato a incentivare un impetuoso sviluppo economico, tale da avviare la Cina a diventare la nuova grande superpotenza del XXI secolo.
5 Dall’Estremo al Medio Oriente: modernizzazione e «islam politico»
Il fermento economico e politico dell’Asia Nel corso degli anni Settanta il grande continente asiatico divenne il teatro di altri importanti rivolgimenti che portarono alla ribalta due fenomeni di natura molto diversa, ma entrambi destinati a incidere sugli assetti planetari e a disegnare il volto del mondo in cui viviamo oggi:
alla crescita economica del Giappone, che proseguì anche dopo lo shock petrolifero del 1973, si affiancò quella dei Paesi del Sud-Est asiatico;
dall’Asia centrale al Medio Oriente, si assistette all’ascesa dell’«islam politico», ossia di quei gruppi e movimenti che prendono le mosse dalla fede musulmana per creare uno Stato islamico tradizionalista fondato sui principi della sharia (➜ CAP. 15.3 E 4).
Il Giappone all’avanguardia A differenza di quanto accadde in Europa, il grande «miracolo economico» giapponese non si arrestò all’inizio degli anni Settanta: la crisi petrolifera del 1973 inferse un duro colpo al Paese del Sol Levante, che tuttavia ne risentì meno dei partner occidentali perché la sua industria seppe ristrutturarsi in tempi record, forte anche dei risultati del ventennio precedente.
Il sistema industriale nipponico si pose alla testa di un processo di innovazione che poi si sarebbe diffuso in tutto il mondo occidentale (➜ CAP. 17), fondato sul ricorso a sistemi di automazione (ovvero impiego di robot) e su una nuova organizzazione della produzione che migliorava l’efficienza e la produttività, eliminando sprechi di materie prime e di tempo di lavoro. Il modello giapponese poneva particolare attenzione alla risposta «flessibile» della produzione, secondo i principi del just in time, per cui essa doveva rispondere alla richiesta del mercato, praticamente su ordinazione, e non precederla (cosa che determina forti costi di stoccaggio ed espone al rischio di avere magazzini pieni di merci invendute).
Questo insieme di innovazioni del processo produttivo – denominato «toyotismo» perché teorizzato in particolare nell’ambito del gruppo industriale Toyota – portò al superamento del modello fordista (➜ CAP. 1.2) e al consolidamento del vantaggio competitivo, che il Giappone conservò sugli Stati Uniti e sull’Europa fino a tutti gli anni Ottanta.
Nello stesso periodo, i notevoli investimenti delle aziende e dello Stato nella ricerca e nell’istruzione (alla base della creazione di una manodopera altamente qualificata) si tradussero in una leadership dell’industria giapponese nei settori emergenti dell’elettronica.
Le «tigri asiatiche» La crescita economica giapponese trainò l’area del Sud-Est asiatico dove, a partire dagli anni Sessanta, cominciarono a emergere le economie di quattro Paesi: Corea del Sud, Taiwan, Singapore (che alla fine degli anni Sessanta si era reso indipendente dalla Malesia) e Hong Kong (allora ancora colonia britannica, uno degli ultimi residui dell’imperialismo europeo: sarebbe passata sotto la sovranità della Cina popolare soltanto nel 1997, ➜ CAP. 21.5).
Questi Paesi legarono il loro sviluppo sostanzialmente a una crescita industriale diretta non al mercato interno ma all’esportazione. Alla fine degli anni Ottanta le esportazioni complessive dei quattro Paesi rappresentavano oltre l’8 per cento del commercio mondiale (alla stessa data il Giappone realizzava poco meno del 10 per cento, mentre tutta l’America centro-meridionale assommava poco più del 4 per cento). Questi strabilianti risultati economici – che non conobbero battute d’arresto sino a una crisi sopravvenuta alla fine degli anni Novanta – fecero sì che in Occidente si cominciasse a parlare di «dragoni» o «tigri asiatiche».
A partire dagli anni Ottanta, la crescita economica si diffuse in altri Paesi del Sud-Est asiatico, secondo cronologie diverse; nel novero delle cosiddette «economie emergenti» sarebbero entrate anche la Malesia, l’Indonesia, la Thailandia, le Filippine e, infine, anche il Vietnam e la Cambogia – che lentamente superarono le scorie e i traumi dei conflitti degli anni Settanta.
L’importanza del petrolio Intanto, nel mondo musulmano, tra il Medio Oriente e l’Asia centrale, riprese l’ascesa dell’islam politico, quell’opzione che durante il processo di decolonizzazione era risultata perdente di fronte a modelli di ispirazione occidentale, peraltro appoggiati dalle stesse potenze coloniali.
Si trattava, soprattutto in Medio Oriente, di un’area la cui importanza strategica era costantemente cresciuta insieme con le sue riserve ed esportazioni di petrolio, che alimentavano l’economia mondiale (alla fine della Seconda guerra mondiale, il petrolio mediorientale rappresentava il 7 per cento della produzione mondiale, nel 1973 la quota era giunta al 38 per cento).
I ricavi del petrolio, incrementati in modo esorbitante in seguito allo shock degli anni Settanta, avevano finanziato la stabilità politica di molti Stati dell’OPEC, soprattutto degli Emirati arabi che in quegli anni cominciarono ad assumere l’odierna fisionomia. Si affermavano, infatti, come regimi autoritari capaci di creare consenso interno mediante programmi di investimento (tali anche da attrarre forza lavoro dall’estero), assistenza, istruzione e la cooptazione delle classi medio-alte, impiegate nell’amministrazione. Sulla scena internazionale questi Stati assunsero sempre di più un ruolo da protagonisti perché alle esportazioni di petrolio affiancarono enormi investimenti esteri (dei capitali ottenuti dalla vendita del cosiddetto «oro nero»), nelle stesse economie occidentali, a cominciare da quella statunitense.
Questi impetuosi mutamenti portarono anche forti tensioni, che vennero governate con esiti diversi. Per esempio, la dinastia reale dell’Arabia Saudita, seguendo una politica fortemente conservatrice, fece in modo di mantenere il consenso dei leader religiosi wahabiti, rappresentati della più intransigente ortodossia dell’Islam sunnita, evitando così che diventassero un punto di riferimento per un’opposizione politica in grado di destabilizzare l’assetto raggiunto.
La rivoluzione khomeinista in Iran Le cose andarono diversamente in Iran dove lo scià Reza Pahlavi nel 1953 era stato rimesso sul trono dagli Stati Uniti (➜ CAP. 15.4). Il sovrano avviò una politica di rapida modernizzazione, finanziata dal petrolio, che tuttavia andò incontro a un altrettanto veloce fallimento. Pahlavi fece scelte dissennate (come quella di istituire un costosissimo esercito) e finì per scontentare tutti:
le classi medio-alte tradizionali penalizzate dalla riforma agraria (in verità modesta) e dalla priorità accordata allo sviluppo industriale;
i nuovi ceti urbani e intellettuali legati alla modernizzazione, che diedero vita a un’opposizione politica di stampo laico, in parte liberale e in parte marxista, duramente repressa dalla polizia;
le autorità islamiche (sciite, secondo la confessione musulmana dominante in Iran), ostili alla modernizzazione in senso occidentale (che coinvolgeva ormai anche il diritto di famiglia e il sistema educativo).
Nel 1978 il malcontento si inasprì sia per il carattere autoritario e l’evidente corruzione del regime, sia per una crisi economica legata a investimenti sbagliati. In questo clima, l’opposizione religiosa trovò un punto di riferimento in Ruhallah Khomeini, un ayatollah, ovvero un leader religioso, da tempo impegnato nell’opposizione contro lo scià, e per questo esiliato sin dal 1964, prima in Turchia e in Iraq e poi in Francia. Khomeini sosteneva la necessità di rovesciare la monarchia per stabilire uno Stato islamico.
Nel corso dell’anno, dal suo esilio parigino, Khomeini riuscì a imporsi sulla scena mediatica internazionale come guida della protesta contro lo scià (dal canto suo largamente screditato anche agli occhi dell’opinione pubblica occidentale, per la sua politica autoritaria). In patria, i discorsi di Khomeini circolavano in testi fotocopiati e incisi nelle audiocassette: anche le rivoluzioni entravano in una nuova era mediatica. Mentre l’opinione pubblica mondiale era ancora attardata dentro le gabbie ideologiche della guerra fredda e imbrigliata nello scontro tra Est e Ovest che, nella sua ormai regolata conflittualità, sembrava quasi un orizzonte rassicurante, si apriva in Iran una nuova faglia del conflitto mondiale che si sarebbe rivelata carica di futuro.
Di fronte al crescere dell’agitazione di massa, in particolare nella capitale Teheran, che portò al blocco del Paese, nel gennaio 1979 lo scià decise di lasciare l’Iran. Il 1° febbraio 1979, Khomeini rientrò a Teheran decidendo le sorti della rivoluzione: i religiosi presero la guida del Paese, eliminando rapidamente le altre forze di opposizione liberali e marxiste che pure erano state protagoniste sino a quel momento.
L’Iran diventò così una Repubblica islamica di stampo teocratico, con una Costituzione che prevedeva la subordinazione delle istituzioni politiche (presidente, governo e Parlamento) alle autorità religiose (la Guida Suprema coadiuvata da un Consiglio dei Saggi); la fonte legislativa era naturalmente la sharia.
Come altre volte nel passato dell’umanità, la storia ritornava a zampillare laddove sembrava una fonte esaurita e dimenticata. In pochi, in quei giorni, se ne accorsero: in parte perché erano intenti a commentare l’ultima installazione dei missili NATO a medio raggio in Europa per contrastare gli SS20 sovietici, in parte poiché erano convinti che quelle sconfinate turbe festanti che alzavano i pugni e si battevano il petto fossero l’ultima manifestazione di un Medioevo perduto e non la prova di una inquietante modernità con cui si sarebbero dovuti confrontare a lungo.
Uno smacco per gli Stati Uniti e l’Occidente Il regime khomeinista si presentò subito come un punto di riferimento per i gruppi islamisti e assunse una posizione risolutamente antiamericana, antioccidentale e antisraeliana. Proprio quando gli Accordi di Camp David tra Egitto e Israele (➜ CAP. 15.4) sembravano aver aperto uno spiraglio per la pacificazione del Medio Oriente, ecco che si presentavano nuove tensioni e crisi.
Nel novembre 1979, a Teheran, un’imponente manifestazione studentesca sfociò nell’assalto contro l’ambasciata americana. Una cinquantina di diplomatici statunitensi si ritrovarono in ostaggio. Nell’aprile 1980 il presidente Carter (che nel 1976 aveva riportato i democratici alla Casa Bianca e nel 1978 patrocinato l’accordo israelo-egiziano) autorizzò un’azzardata operazione di salvataggio, che si concluse con un fallimento.
Questi eventi fecero crollare l’autorevolezza di Carter e condizionarono le elezioni presidenziali del novembre 1980 in cui prevalse il candidato repubblicano Ronald Reagan, con cui sarebbe cominciata una nuova fase politica (➜ CAP. 17).
Le autorità iraniane accettarono di riconsegnare gli ostaggi solo alla fine del gennaio del 1981, dopo l’insediamento del nuovo presidente.
La guerra Iran-Iraq L’avvento del regime sciita a Teheran rinfocolò inoltre la tradizionale tensione con l’Iraq, un altro grande produttore di petrolio del Medio Oriente. Negli stessi mesi in cui in Iran si affermava la rivoluzione khomeinista, a Baghdad si affermava la leadership laica di Saddam Hussein, che si presentava come erede politico del nasserismo e del socialismo arabo (➜ CAP. 15.4).
Sostenitore di un programma di modernizzazione e di occidentalizzazione, Hussein si impose come dittatore di un Paese molto complesso e fragile, perché attraversato da profonde divisioni tribali, etniche e religiose. In particolare la popolazione, di fede islamica, era divisa tra una maggioranza di sciiti e una consistente minoranza di sunniti, che godeva tuttavia di una posizione politica e sociale preminente nel Paese: lo stesso Hussein era sunnita.
La rivoluzione iraniana fece temere a Hussein un «contagio» tra gli sciiti iracheni. A questo motivo di tensione si aggiungevano obiettivi geopolitici ed economici: la volontà di stabilire la supremazia nella regione del Golfo Persico e di accaparrarsi altre zone petrolifere.
Nel settembre 1980 l’Iraq invase l’Iran, avviando una lunga e sanguinosa guerra che si sarebbe conclusa soltanto nel 1988 senza produrre alcuna modifica allo status quo precedente (le stime parlano di circa 1,5 milioni di morti complessivi, molti dei quali giovani caduti al fronte).
Gli Stati Uniti si schierarono ufficialmente con l’Iraq, l’Unione Sovietica con l’Iran, ma in realtà entrambe le superpotenze rifornivano di armi i due contendenti, contando di indebolire regimi considerati comunque poco affidabili.
La questione palestinese e la crescita del fondamentalismo Il regime iraniano rilanciò e radicalizzò ulteriormente anche la lotta contro Israele, condotta facendo ricorso a tecniche di guerriglia e terroristiche sia a livello locale sia internazionale. Per esempio, nel 1982, nel Libano che Israele aveva appena invaso cominciò ad agire il gruppo Hezbollah (letteralmente «partito di Dio»), ispirato dalla predicazione di Khomeini e addestrato e finanziato dall’Iran.
L’anno prima, nel 1981, un militante di un’organizzazione fondamentalista facente capo ai Fratelli musulmani aveva ucciso il presidente egiziano Sadat come ritorsione per la pace stipulata con Israele (Accordi di Camp David, 1978 ➜ CAP. 15.4).
Queste posizioni, che oggi sono classificate sotto le generiche etichette di «fondamentalismo» o «radicalismo islamico», cominciarono a rafforzarsi in tutto il vasto e complesso mondo musulmano. La crescente politicizzazione (o uso politico) dell’Islam, ossia la volontà di costruire un progetto tradizionalista a partire da una fede religiosa, sembrò rappresentare l’inevitabile movimento di ritorno di un pendolo.
Nel corso della decolonizzazione, i principali Paesi musulmani, compreso quelli arabi, avevano abbracciato progetti di Stato laico nazionalista e perlopiù socialisteggiante, che avevano avuto temporaneamente il sopravvento sull’opzione tradizionalista di carattere religioso. Quest’ultima riprendeva quota in una fase critica per le società di quei Paesi, anche a causa delle conseguenze della modernizzazione socio-economica in corso che stava travolgendo le strutture tradizionali (le gerarchie sociali, le attività economiche rurali, l’organizzazione famigliare, i rapporti con l’autorità pubblica).
La serie di fallimenti, le prove di malgoverno e una crescente corruzione che caratterizzavano le classi dirigenti postcoloniali alimentarono lo scontento, dando vita a un circolo vizioso senza apparente via d’uscita.
In questi anni cominciarono a delinearsi altre due caratteristiche dell’islamismo radicale, per certi aspetti contraddittorie.
Per un verso, il mondo musulmano non si mostrava affatto come monolitico, essendo vastissimo, complesso e attraversato da diverse correnti confessionali; queste divisioni interne si riflettevano nella galassia del radicalismo islamico, dove emersero anche profondi antagonismi.
Per un altro, cominciò a emergere una disponibilità «dal basso» a partecipare a un movimento islamico radicale internazionale, che si manifestò per la prima volta nell’afflusso di volontari islamici nella guerra di resistenza antisovietica cominciata in Afghanistan sempre nel 1979.
L’invasione sovietica in Afghanistan Alla fine degli anni Settanta gli schemi del mondo bipolare condizionati dalla guerra fredda e i nuovi fenomeni emergenti nel mondo musulmano si incrociarono sulle montagne dell’Afghanistan dove, nel 1978, in seguito a un colpo di Stato militare, si era imposto un regime di ispirazione comunista e filosovietico. Il governo afghano lanciò un programma di riforme e di modernizzazione dall’alto che buona parte della popolazione accolse malvolentieri. Questo scontento alimentò una resistenza di matrice islamica, sostenuta anche dal vicino Pakistan, dall’Iran e dalla Cina (in chiave antisovietica). Varie regioni del Paese sfuggirono al controllo di Kabul.
L’Unione Sovietica cercò di stabilizzare il regime afghano, guidando anche alcuni cambiamenti al vertice, in cerca di soluzioni mediate e moderate. Di fronte al continuo insuccesso politico, e temendo ormai che la ribellione islamica potesse fare breccia tra le popolazioni musulmane delle repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, il 27 dicembre 1979 l’Armata rossa invase l’Afghanistan. Questa azione surriscaldò immediatamente il clima internazionale: gli Stati Uniti reagirono con ritorsioni simboliche e materiali (decisero di boicottare i giochi olimpici del 1980, ospitati da Mosca, e bloccarono le esportazioni di cereali dirette in Unione Sovietica), ma soprattutto cominciarono a finanziare la guerriglia musulmana in funzione anticomunista e antisovietica, rifornendola di armi moderne attraverso il Pakistan.
Per i sovietici l’Afghanistan rappresentò l’equivalente del Vietnam per gli americani: per quasi dieci anni vi sacrificarono risorse, uomini (circa 50.000 soldati dell’Armata rossa morirono o furono feriti nel conflitto) e orgoglio nazionale senza riuscire a venire a capo della guerriglia islamista.
Il ritiro sovietico avvenne all’inizio del fatidico anno 1989. Letta con le lenti della guerra fredda, l’invasione dell’Afghanistan costituì un errore di calcolo che accelerò la definitiva crisi dell’URSS (➜ CAP. 20).
Oggi, a distanza di tempo, questi eventi si possono leggere anche come un errore di calcolo dell’Occidente, che finanziò e inondò di armi una sorta di «internazionale» del radicalismo islamico pensando di potersene servire senza particolari controindicazioni. Basti pensare che tra quei guerriglieri musulmani foraggiati con armi e denaro dagli Stati Uniti mediante i servizi segreti pakistani ricorre anche il nome di un giovane sceicco saudita, Osama bin Laden, il quale aveva risposto alla chiamata dell’internazionalismo islamico in difesa dell’Afghanistan contro l’imperialismo sovietico nelle fila dei mujaheddin («combattenti per la jihaˉd»).
In realtà, come vedremo nei prossimi capitoli – e come ci raccontano le cronache di oggi – il fondamentalismo islamico si sarebbe affermato come un soggetto autonomo, sfuggendo a ogni tentativo di controllo. Per questa ragione una guerra periferica come quella in Afghanistan, all’apparenza destinata solo ad accompagnare il declino dell’impero sovietico, annunciò invece un’epoca nuova, l’età del cosiddetto «disordine mondiale» in cui siamo ancora immersi che, nel giro di un paio di decenni, avrebbe soppiantato l’«ordine bipolare» della guerra fredda.
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accadde...oggi: nel 1957 muore Luisa Casati Amman, di Verena Mantovani
accadde…oggi: nel 1957 muore Luisa Casati Amman, di Verena Mantovani
Milano 1881 – Londra 1957
Voglio essere un’opera d’arte vivente
Quando nasce Luisa, Milano vive uno dei suoi momenti di maggior espansione economica e culturale, una fin de siècle frenetica e raffinata. Il padre, Alberto Amman, possiede un moderno e fiorente stabilimento cotoniero. Per il contributo dato all’aumento del reddito nazionale Re Umberto I gli conferisce il titolo di conte. La…
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levysoft · 5 years ago
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Agli inizi di gennaio, la maggioranza che sostiene il governo ha concordato, con la contrarietà di uno dei gruppi parlamentari che la compongono (Leu), una proposta di riforma elettorale, che è stata poi presentata formalmente dal presidente commissione Affari costituzionali della Camera, Giuseppe Brescia, del Movimento Cinque Stelle. La proposta ha un nome ufficiale di lunghezza spropositata («Modifiche al testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361, e al testo unico di cui al decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533, in materia di soppressione dei collegi uninominali e di soglie di accesso alla rappresentanza nel sistema di elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Delega al Governo per la determinazione dei collegi elettorali plurinominali»), ma ha trovato immediatamente un nomignolo con il quale viene evocata nella stampa e nel dibattito politico: Germanicum. La semantica è chiara: la proposta di legge elettorale estende all’Italia il principio che sta alla base del sistema con cui viene eletto il Bundestag, il parlamento tedesco. In realtà, la proposta italiana ha accolto dal sistema tedesco le sue linee generali (il sistema proporzionale, la soglia di sbarramento, il diritto di tribuna per i partiti che mostrano di avere un forte sostegno in alcune aree del Paese), ma non le norme particolari, che contrastano con la nostra Costituzione (per esempio la variabilità del numero dei deputati, per garantire un’effettiva proporzionalità della rappresentanza in Parlamento o la durata del mandato, che è di quattro e non cinque anni). Come qualcuno ha notato, il Germanicum sta al sistema elettorale tedesco come il Parmesan, in vendita in molti supermercati tedeschi (e non solo), sta al nostro vero parmigiano-reggiano.
I progenitori Sartori e Renzi
Non sono riuscito a ricostruire chi sia il padre di questa denominazione, ma so chi sono i suoi progenitori: Giovanni Sartori e Matteo Renzi. Al primo, come è noto a molti, dobbiamo la latinizzazione del nome corrente delle leggi elettorali, da quando, in un editoriale apparso in prima pagina del «Corriere della sera» del 19 giugno 1993, annunciò l’avvio della legge elettorale semimaggioritaria con l’annuncio sarcastico «habemus Mattarellum», rifacendosi al nome del politico del Partito popolare, ora Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. La denominazione ebbe vita stentata (come documenta Yorick Gomez Gane, nell’articolo Dal Mattarellum all’Italicum: produttività dei suffissi pseudolatini -um ed -ellum, pubblicato nella rivista «Rivista Italiana di Onomastica» del 2015), fino a quando, due anni più tardi, fu varata la legge elettorale per le elezioni regionali, che aveva come relatore l’esponente di Alleanza Nazionale, Giuseppe Tatarella. Fu quasi naturale chiamare il sistema elettorale da lui proposto Tatarellum. E poi, fu altrettanto naturale, anche se un tantino irriverente, chiamare Mastellum il sistema proposto da Clemente Mastella, mai giunto ad approvazione.
Le riforme in -ellum
Da lì, i nomi delle proposte di riforma elettorale furono latinizzati in -ellum in decine di casi: Cossuttellum, Grazianellum, Berlusconellum, Fisichellum, Sartorellum, Urbanellum, Manzellum, Bersanellum e via dicendo, fino al Rosatellum ora in vigore. La forza irradiatrice del suffisso è dimostrata dal fatto che il modello compositivo è stato applicato, come si è visto, anche a un numero considerevole di nomi propri che non terminano in -ella (inglobando, quindi, nel suffisso la sequenza -ell-, che proveniva dal finale, casualmente coincidente, degli uomini politici autori delle proposte di riforma elettorale). Inoltre, il suffisso -ellum, così formatosi, è stato applicato anche a un numero considerevole di nomi comuni, come, ad esempio, Proporzionellum, Provincellum, Regionellum (e più tardi Consultellum). È grazie a questa estensione ai nomi comuni che ancora Giovanni Sartori poté chiamare, il 1° novembre 2006, Porcellum la legge che il suo stesso estensore, Roberto Calderoli, aveva definito «una porcata».
La novità dell’Italicum
È stato nel gennaio 2014 che la sequenza di nomi latineggianti per le leggi elettorali (che aveva compreso anche nomi di formazione diversa, come Calderolum, Bassaninum, Dalemum) si è arricchito di un nuovo elemento, semanticamente ben diverso: Italicum ‘sistema elettorale italiano’, fatto proprio da Matteo Renzi il 20 gennaio 2014, in un discorso che conteneva, come nomi di eventuali sistemi alternativi a quello scelto in quella fase politica, (H)ibericum e Tedescum, e, in altre fonti, Britannicum, Ellenicum e anche quel Germanicum, che giusto 6 anni dopo giungerà a denominare l’ennesimo sistema elettorale proposto per il nostro Paese. È stata la prima volta che il nomignolo di una legge elettorale è stato diffuso, e non semplicemente subito, dal suo proponente.
Tutta la storia di queste denominazioni, prima dell’odierno Germanicum, è nota ed è già stata ricostruita nei dettagli sia in rete, sia in sedi scientifiche. C’è, però, un particolare, che ci interessa in questa rubrica e che conferma una linea interpretativa dell’attuale neologia politica che è stata avanzata in più di una scheda di queste parole della neopolitica: Germanicum, come forma specifica, è indubbiamente una novità, anche se non assoluta; ma si basa su un modello attribuibile a Renzi e alla sua scelta di adottare il nome Italicum per il sistema da lui stesso proposto. La conclusione, anche questa volta, è che le novità lessicali della politica di questi mesi dipendono spesso da innovazioni linguistiche introdotte nella vita politica italiana negli anni scorsi da Matteo Renzi.
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pangeanews · 6 years ago
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“Il poeta è un uomo moltiplicato per mille… Il poeta è, innanzitutto, qualcuno che è uscito dai confini dell’anima”: sugli ultimi anni di Anna Achmatova
L’incontro nella “vita dei giorni” con Marina Cvetaeva era avvenuto alla vigilia dei bombardamenti su Mosca, nel giugno 1941: Anna Achmatova continuava invano a cercare di far uscire il figlio Lev dal lager; Marina non aveva più notizie del marito e della figlia, arrestati entrambi, e viveva disperata nella miseria e nel silenzio imposto alle sue opere dai soviet del partito. Lontane in poesia, le due donne si scoprirono unite dal dolore comune inflitto loro dal destino, dalla solidarietà nella prova terribile, “camarades de malheur” come disse la Cvetaeva. Tarda risposta fu quella scritta a lei da Anna Achmatova.
Avevano parlato a lungo, le due donne, in quel giorno del loro incontro: per averli vissuti, sapevano entrambe i risvegli angosciati in piena notte, il gelo nel buio di Mosca, le code interminabili alla porta ancora chiusa delle carceri. Conoscevano le figure devastate dall’angoscia di madri, mogli e figlie come loro, il tormento dei cari imprigionati, la voce del secondino che respingeva i pacchi portando la certezza della morte o del trasferimento. Sapevano le esecuzioni e tutto l’orrore che Anna Achmatova canterà in Requiem 1935-1940, l’opera dedicata al male compiuto in nome di un’ideologia.
Poche righe l’Achmatova appose a Requiem, “In luogo di prefazione”:
“Negli anni terribili della ežóvščina ho passato diciassette mesi in fila davanti alle carceri di Leningrado. Una volta qualcuno mi “riconobbe”. Allora una donna dalle labbra livide che stava dietro di me e che, sicuramente, non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di tutti noi e mi domandò in un orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): – Ma questo lei può descriverlo? E io dissi: – Posso. Allora una sorta di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto”.
(Leningrado, 1 aprile 1957)
*
La tragedia personale aprì nella poesia di Anna Achmatova all’epica, la sventura personale del figlio la spinse a raccontare la comunanza: “Io sono la vostra voce” aveva dichiarato tanto tempo prima, rivolgendosi a “molti” (A molti, 1922, La corsa del tempo). Lo strazio e un lirismo insostenibile si trasformarono in un dramma in cui il coro non già narrava, bensì era ancora più colpito dell’eroe, assente o sulla soglia della morte. Come nel Poema senza eroe, qui l’eroe divenne nessuno e perciò chiunque: tutta la Russia. Un paese stravolto e già diventato un “altro mondo”:
Abbiamo un vincolo di sangue con l’altro mondo: chi è stato in Russia l’altro mondo in questo ha visto (Per l’anno nuovo).
I versi sono di Marina Cvetaeva. L’ansia fu identica. Il dolore fu identico. Il destino fu identico.
In Requiem, Anna Achmatova rese quell’ansia, quel dolore e quel destino in versi dal ritmo martellante, le battute che incalzavano, quasi una serie incessante di singhiozzi. Il poema, che non poteva essere stampato, venne imparato a memoria dalle amiche, tra le quali la moglie di Mandel’štam, morto due anni prima nel gulag. Per finirci bastava molto meno di versi come quelli di Requiem e, per Anna Achmatova, le ritorsioni sarebbero cadute sul figlio Lev ancora prigioniero. E allora lei e le amiche non dormivano, la notte, e mandavano a memoria le liriche.
Liberata dall’istante atemporale delle idee e scagliata violentemente nei giorni insanguinati della storia, la poesia narrava l’insulto a tutto il popolo russo, Anna si faceva la voce di quel popolo:
E non per me sola prego, ma per quanti erano là con me nel freddo crudele, nell’afa di luglio, sotto la rossa, accecata muraglia.
(Requiem, Epilogo, I)
*
Quando non poté più pubblicare poesia, Marina Cvetaeva scrisse di Pasternak e dell’Achmatova, verso la quale nutriva una specie di culto: “… la Achmatova e Pasternak attingono non dalla superficie del mare (del cuore) ma dal suo fondo (senza fondo)”. Comprendendone a fondo il nucleo poetico, da poeta aveva letto la poesia di entrambi cercandovi non “lo scorrere senza ritorno, ma l’onda che sempre ritorna (…) e l’ineluttabilità del tuo stupore dinanzi a loro.” (Poeti con storia e poeti senza storia)
Parlando di Pasternak, dell’Achmatova, di sé, di ogni poeta, sempre Marina Cvetaeva aveva anche affermato: “Il poeta è un uomo moltiplicato per mille (…). Il poeta è, innanzitutto, qualcuno che è uscito dai confini dell’anima. Poeta dall’anima e non nell’anima. (…) Qualcuno, ancora, che è uscito fuori dai confini dell’anima – nella parola. (…) Parità di dono: dell’anima e della parola – ecco il poeta. (…) Indivisibilità di essenza e forma – ecco il poeta”. (Un poeta a proposito della critica)
*
Il poeta è colui il quale conosce il mondo visibile, ma presta ascolto solo al mondo invisibile. Partendo dalle cose, cerca di dar corpo ai suoi sogni: le prime gli sono necessarie, ma solo per andare di là da esse e accedere al regno dell’invisibile e dell’indicibile e reperivi simboli, “indizi terrestri”. Scrivere è dar voce a qualcosa che preesiste l’individuo, che è già formato, non qui, non oggi ma altrove, ieri o domani, là dove sono le essenze: pura “volta sonora”, lo scrittore o il poeta non fanno che rendere palese o schiarire i nessi tra il palpabile e l’incorporeo, non fanno che dare a tutto ciò una forma e un suono.
Due mesi dopo l’incontro tra Anna Achmatova e Marina Cvetaeva, quest’ultima si sarebbe uccisa. Anna doveva continuare da sola la sua battaglia per liberare il figlio. Scriveva all’amica una lettera in versi, traccia indelebile della sofferenza loro e di molti come loro:
Oggi io e te, Marina, camminiamo per la capitale di notte, e ci seguono milioni come noi, e non v’è più taciturna processione, e intorno i suoni a morto e il selvaggio lamento moscovita della tormenta che cancella i nostri passi…
Nel ciclo Nell’anno quaranta (1940), Anna continuò a raccontare il suo caso individuale e insieme il buio collettivo calato sopra l’Europa e la Russia, la sinistra duplice minaccia del nazismo e dello stalinismo, la perversione liberticida di quel momento storico, “quando gli uccelli della morte erano allo zenith” per riprendere un verso dal suo Il vento della guerra. Per lei, che non avvertì mai le seduzioni della rivoluzione ma l’accettò semplicemente per quel che era, dolore e catastrofe, la guerra fuse in un unico sconvolgimento del mondo lo scalpitare selvaggio dei cavalli, l’ululato della tromba e i canti funebri dei contadini.
Ecco la lirica che dà il titolo alla raccolta. Come spesso, anche qui la poesia dell’Achmatova parte dal destino particolare – il proprio – per allargarsi a quello umano – le vicende corali di un intero popolo sottoposto a una prova terribile dalla storia:
Ma io vi prevengo che vivo per l’ultima volta. Né come rondine, né come acero, né come giunco, né come stella, né come acqua sorgiva, né come suono di campane turberò la gente, e non visiterò i sogni altrui con un gemito insaziato.
(1940, Nell’anno quaranta)
La voce che dice “io” è occultata, parla come da dietro una parete: vive ancora, ma “per l’ultima volta”. La realtà si è disgregata in una serie di soggetti: rondine e acero, giunco o stella, poi acqua di fonte e infine suono di campane a morto. Il dissolversi di ogni piano razionale, visivo ed emotivo prefigura forse il destino della stessa Russia? Di certo ripete l’angoscia crescente che s’insinuava nei cuori dopo la resa di Parigi e la solitudine dell’Inghilterra, che resisteva con “lacrime e sangue” agli attacchi nazisti.
Il tono drammatico, la tensione oracolare, la tonalità tipica della tragedia ricevono accoglienza nell’autobiografia. Colei che scrive non vuole diventare un lamento infinito. Al contrario, la Russia stessa è un unico e compatto “gemito insaziato”: l’anticipazione temporale pare non di meno risalire il tempo per ripiegare verso il passato, l’ombra sembra quasi volgersi all’indietro verso il mondo perduto. Dal presente la separano pochi anni. In realtà sembrano secoli: Sono stata via settecento anni, dice un altro verso di Luna allo zenith.
*
La vita di Anna Achmatova si era come spezzata tre volte. Il primo colpo era avvenuto con la Prima guerra mondiale:
Invecchiammo di cent’anni, e accadde in un’ora sola. (…) Dalla memoria, come un peso vano, dileguò l’ombra di canti e passioni
(In memoria del 19 luglio 1914, 1916, La corsa del tempo)
Il secondo colpo l’aveva spinta sul crinale della rivoluzione, quando la poesia divenne per lei soprattutto prova di sopravvivenza, resistenza, canto di morte di antiche memorie e antichi richiami, destinati a scomparire o già definitivamente scomparsi. Per ironia del destino, le sue prime raccolte si scontrarono con il secolo proprio uscendo nel 1914 e nel 1917 e, forse, proprio l’urto con i rombi di cannone e fucili fece avvertire ancora più vivida la vibrazione della sua giovane voce lirica.
L’ultimo colpo fu infine quello del regime di Stalin e allora, sotto un tragico esistere che non aveva confronti né metri di paragone, più tragica si fece l’intonazione della sua poesia.
Malgrado in quel mondo intimo e riparato vi avessero fatto irruzione la storia e i suoi orrori, da un punto di vista poetico la lirica dell’Achmatova non variò per intensità e profondità acutamente personale La storia le servì da prisma per rifrangere il dolore personale e quello della sua gente. Perciò si rifiutò sempre di lasciare la Russia ed emigrare:
No, non sotto un estraneo cielo, Non al riparo d’ali estranee: Ero allora col mio popolo, Là dove il mio popolo, per ventura, era. (Requiem, 1961)
Il fiume dei versi continuò a fluire nel suo alveo, sebbene tutto intorno le rive stessero franando. Anche il rifiuto d’ingrossare le fila dell’emigrazione fu per Anna un’orgogliosa affermazione della propria autonomia poetica. Eppure in Russia nessuno voleva più pubblicarla. L’Unione degli scrittori sovietici soffocava scrittori e poeti nella morsa della censura e del regime che, disse Pasternak, bruciava i poeti “come combustibile fossile”.
Quando, intorno al 1940 qualche lirica dell’Achmatova iniziò a riapparire in rivista, il silenzio intorno a lei durava da quasi un ventennio.
*
Rallentiamo il passo, iniziamo a risalire la corrente.
Poesia sempre uguale, fedele a se stessa, la sua. Ma l’Achmatova era un’autrice capace di rinnovare energicamente, proprio mentre la stava recuperando, la propria materia poetica originaria. Negli ultimi anni la sua vena lirica torna a scorrere trasparente, cristallina, a ripescare dal fondo della corrente e risalire dall’alveo della memoria temi e ritmi che erano stati salutati un tempo come una novità, un tratto tipico delle prime raccolte.
Anna riconquista anche la visione patria, l’occhio rivolto al futuro generale della Russia, la Rus’ avita e amata. Da sempre era così: “Il cuore batte rapido, più rapido” (La confessione, 1911, La corsa del tempo). Ma i canti della Russia s’intonavano adesso in un tono più pacato e disteso, talvolta in una tonalità di aperta disillusione nell’istante in cui venivano a riconoscere, con malinconico ritardo, “la fredda, pura, lieve fiamma/della mia vittoria sul destino” (Qualcuno ancora riposi nel Sud, 1956, La rosa di macchia fiorisce).
Secondo una visuale simile a quella adottata in questa lirica giovanile, faceva ritorno a scene e quadri della sua vita prima della guerra e della rivoluzione:
Ho appreso a vivere semplice e saggia, a guardare il cielo, a pregare Iddio, e a vagare a lungo innanzi sera…
Davanti a lei, come da sempre, si apriva la distesa infinita della terra russa, con le fila di alberi dalle foglie insanguinate di bacche:
Quando nel fosso freme la lappola E il sorbo giallo-rosso piega i grappoli…
E il movimento dei versi scivolava impercettibile da fuori a dentro:
Ritorno. Un gatto piumoso mi lecca Il palmo, fa le fusa più amoroso, e un fuoco vivido divampa (…). Solo di rado un grido di cicogna, volata fino al tetto, squarcia il silenzio.
(1912, La corsa del tempo)
Dal gatto alla mano e da questa al fuoco verso cui la mano si protende, il movimento della figura e la stessa stanza si tingono d’arancione alle fiamme nel camino. Il richiamo della cicogna che viene dal tetto non fa che approfondire il silenzio e l’intimità della scena davanti al fuoco che brilla. L’ultima visione che il lettore conserva negli occhi è il barbaglio delle fiamme, l’ultimo suono è quello che scende e poi tace nella notte.
*
Il cerchio è prossimo a chiudersi: ci stiamo avvicinando, camminando passi lenti a ritroso, al principio.
L’abbiamo visto nelle raccolte dedicate alla guerra: la poesia dell’Achmatova fu una continua corrente lirica che annullava la distinzione tra il personale e il corale, la cesura tra “io” (che scrivo) e “voi” (che leggete): “Poiché la corrente si chiamava “amore”, le poesie riguardanti la terra natale e il periodo storico apparivano intrise di un’intimità quasi incongrua; per converso, quelle ispirate alla vita affettiva andavano acquistando un timbro epico”, commentò – di nuovo Brosdkij – questo spericolato travaso tra il secolo e il singolo essere.
Ecco il segreto: assoluto e immortale è quel che è dentro il poeta, dentro l’uomo. La parola della poesia si sottrae alle leggi terrestri e, rinnovando in ciascun poeta la morte di Orfeo, fa ritorno al luogo in cui sgorga. Nella fine è il principio e il principio è negli estremi che, in poesia, compiono il prodigio e si fanno norma, pane spezzato, felice contrada fiabesca dell’”ora” e del “qui”, battito del cuore, vita.
Un’altra – l’ennesima – elegia è un altro canto della separazione e dell’addio:
La porta è socchiusa, dolce respiro dei tigli… Sul tavolo, dimenticati, un frustino e un guanto.
Giallo cerchio del lume… tendo l’orecchio ai fruscii. Perché sei andato via? non comprendo…
Luminoso e lieto domani sarà il mattino. Questa vita è stupenda, sii dunque saggio, cuore.
Tu sei prostrato, batti Più sordo, più a rilento… Sai, ho letto che le anime sono immortali.
(1911, La corsa del tempo)
Nella semioscurità creata dalle ombre di quell’“io” e di quel “tu”, nei loro riflessi e nelle loro apparizioni vaghe – aspirazione ad allontanare l’amore, a trarlo fuori dai confini della vita, anelito alla perfezione, alla pienezza della totalità -, può inserirsi e riconoscersi il lettore. L’amore è qui il linguaggio segreto con il cui inchiostro trascrivere i comunicati dello spazio e del tempo. La musica del verso è la sede del suo tempo, il tempo dell’amore che si svolge fuori del tempo stesso. È nell’amore che il finito può rischiare e ritenere di porsi alla pari con l’infinito, ma solo la poesia è in grado di rendere tangibile e vero ciò che altrimenti sarebbe impossibile da custodire.
Seguiamo il cauto movimento dal vicino – il cono di luce gialla emesso dalla lampada, i tigli, il frusciare del giardino in sottofondo – al lontano – l’assenza dell’amato, il domani, il futuro che attende con le sue insidie. Poi, adagiati in quel movimento, ci è dato scrutare l’impercettibile rotazione del centro di gravità poetico dall’“adesso” verso l’“immortalità”, l’audace spostamento dalle cose allo spazio indicibile “oltre le cose”.
Tutto si è compiuto: “domani” è “immortale”. In pegno, quaggiù l’immortalità ospita per intanto il suo ostaggio: il cuore. Sì, quaggiù “questa vita è stupenda”.
Il “cuore” si trasforma in “anima”, l’eros è già ridiventato elegia. E il cerchio, adesso, si chiude davvero.
Paola Tonussi
(fine)
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jacopocioni · 2 years ago
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Tutti gli UFO sopra Firenze dalla guerra ad oggi: 1958 e 1959
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Ci credete? Non ci credete? Poco importa. Il fenomeno ufologico è vecchio quanto il mondo. Gli avvistamenti, reali, finti, "costruiti" nel mondo sono innumerevoli e su Firenze e provincia non mancano. Questa è un piccola rubrica per citare gli avvistamenti registrati su Firenze e provincia dal 1946 al 1980, se poi qualcuno ha a disposizione anche quelli successivi, e ce li fornisce, potremmo pubblicare anche quelli dal 1980 in poi. Questo l'articolo precedente: Tutti gli UFO sopra Firenze dalla guerra ad oggi: 1957 Il 3 agosto 1958 sopra il cielo di Firenze vi fu un bagliore ed un oggetto allungato, lo riporta La Nazione del 07-08-1958 Un signore si stava godendo il fresco coricato su di una poltrona sistemata nel giardino di Villa la Massa, in riva all'Arno. Guardando il cielo lo vide illuminarsi di un bagliore di eccezionale potenza. Subito a Nord apparve un oggetto di forma allungata che procedeva verso Sud a velocità altissima leggermente inclinato in direzione della terra. L'oggetto sembrava incandescente e trascinava dietro 5 o 6 code lampeggianti. Il bagliore non era chiaro ma piuttosto di un rosso intenso e ricordava i riflessi del fuoco. La misteriosa luce attraversò il cielo e poi scomparve. Non emise nessun rumore. Il 18 dicembre 1958 sempre sopra il cielo di Firenze fu visto un globo, lo riporta La Nazione del 19-12-1958 e Spazio e Vita vol. II, n. 1, genn./febbr. 1959, p. 5 Svariate persone osservarono un globo bianco circondato da un alone estremamente luminoso che si muoveva seguito da una scia intensamente rossa che poi sfumava in azzurro. Il globo attraversò tutto il cielo di Firenze, fermandosi per un attimo prima di scomparire in direzione Nord Est con un velocità eccezionale. A cavallo tra il 1959 e il 1960, in data imprecisata, nel cielo di Firenze, circa alle 12:00 fu visto un oggetto rotondo, lo riporta Il Giornale dei Misteri n. 151, p. 12 La ventunenne Valeria Cesari, una decoratrice residente in via Senese 41, era nella zona di Porta Romana e vide un oggetto volante di forma rotonda e di colore giallo intenso. Il cielo era sereno. L'oggetto seguiva una traiettoria orizzontale ad una velocità notevole e ad una notevole altezza. la sua direzione era da Est ad Ovest. L'11 febbraio 1959 nel cielo di San Vincenzo a Torri, circa alle 22:00 fu visto un "corpo", lo riporta Spazio e Vita vol. II, maggio/giugno 1959, p. 15 Svariate persone a San Vincenzo a Torri rimasero impressionate per aver visto un corpo estremamente luminoso che solcava il cielo in linea retta ad una velocità supersonica. Rimase visibile per soli due minuti. Read the full article
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latinabiz · 4 years ago
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Il santo del 29 aprile: Beata Itala Mela
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Beata Itala Mela La Congregzione della Cause dei Santi della Santa Sedeinvita a contemplare la figura della Beata Itala Mela. Itala Mela nacque il 28 agosto 1904 a La Spezia da Pasquino e Luigia Bianchini, entrambi insegnanti, estranei alla dimensione religiosa. Trascorre l' infanzia e l' dolescenza dai nonni materni. La sua è una formazione cristiana ma sebbene riceva i sacramenti, per sua convinzione e ammissione dice di «ignorare la fede», trascura la pratica religiosa, si dedica alla sua preparazione culturale, distinguendosi per intelligenza e serietà dell’impegno nello studio. La morte del fratello Enrico di 9 anni, il 27 febbraio 1920, è un dolore profondissimo che fa scattare la rivolta contro Dio e la fede. Si dedica interamente agli studi. Finito il liceo, s’iscri­ve alla Facoltà di Lettere classiche all’Università di Genova e, nonostante l’ateismo dichiarato, vive nell’Istituto di “Nostra Signora della Purificazione”. La sua beatificazione rappresenta anche la conferma ecclesiale di un valore storico dei movimenti sorti nel solco dell’Azione Cattolica, in particolare per gli universitari e i laureati cattolici. La sua conversione giunse alla vigilia dell'Immacolata del 1922. Invitata a una messa si apre all’abbraccio del Padre: «Signore, se ci sei, fatti conoscere!». È una violenta scossa interiore, si confessa e si comunica. P. Marchisio, che diverrà il suo primo direttore spirituale, le presterà il primo aiuto per affidarsi totalmente al Signore. Vive esperienze mistiche: il 3 agosto 1928, a Pontremoli, dal tabernacolo della chiesa del Seminario riceve un raggio di luce e un messaggio divino. Ha frequenti visioni della Trinità ed è anche perseguitata dal demonio. Italia Mela decide di entrare nel monastero di “Mont Vierge a Népion sur Meuse” in Francia, ma viene colpita da una malattia cardiaca ed è costretta a desistere. Nella preghiera, nell’ufficio liturgico quotidiano, nell’impegno costante a purificarsi, che l’accompagnavano in questo cammino di conversione, Itala Mela emise i voti privati di verginità e di obbedienza, in vista della promessa di una vita religiosa e della fondazione di un monastero benedettino per la rinascita religiosa in Italia. Il 4 gennaio 1933 diventa oblata benedettina per il monastero di San Paolo fuori le mura in Roma, emettendo in privato i voti di verginità, povertà, obbedienza e conversione di vita e, nella festa della SS. Trinità del 1933, aggiunse ai voti monastici di povertà, obbedienza, castità e stabilità, il cosiddetto quinto voto, cioè quello di consacrarsi interamente a far conoscere il mistero dell’inabitazione della Trinità nell’anima dei cristiani. Per questo, da allora in poi, assumerà il nome religioso di Maria della Trinità. La malattia la costrinse a rientrare in famiglia a La Spezia e ad abbandonare l'insegna­mento.  Dopo l’esperienza nelle Fuci e contemporaneamente a una vita dedicata alla preghiera e all’adorazione, si prodigò per il gruppo dei “Laureati cattolici” dal 1945 al 1954, per poi vivere nel cuore della Chie­sa e per la Chiesa e offrire la preghiera e la sofferenza per tutto il mondo. Confessa: «Non ho realizzato nulla nella mia vita e quello che avevo umanamente attuato è stato distrutto da Dio». L’allora monsignor Montini, poi Paolo VI, scrisse di lei: «Itala Mela ci offre qualche cosa, nel campo specificamente religioso, di singolare, che va meditato. Non dico soltanto del diagramma ascensionale della sua purificazione e della sua illuminazione spirituale, non dico soltanto della vocazione, solo parzialmente realizzata, allo stato religioso, vocazione che diede qualche movimento drammatico alla trama ordinaria della sua vita; dico piuttosto di alcune folgorazioni interiori, che ne colpirono il normale svolgimento e ne segnarono le mète successive; e dico della penetrazione teologica e della celebrazione interiore del mistero della Grazia, del quale fu tutta pervasa, con crescendo parallelo agli anni e alle sofferenze, la coscienza di questa piissima».   Muore il 29 aprile 1957 ed è sepolta dal 1983 nella cripta della Cattedrale Cristo Re a La Spezia. E il cardinale Angelo Amato celebrò la messa della sua beatificazione avvenuta il 10 giugno del 2017: “Omelia di Beatificazione di Itala Mela Angelo Card. Amato, SDB 1. Maria della Trinità era il nome della Beata Itala Mela come Oblata benedettina. Maria della Trinità è anche il logo della sua santità. L’inabitazione trinitaria era per lei il centro e il fondamento della sua esistenza e della sua missione. Dopo il passaggio dal tenace ateismo adolescenziale a un abbandono incondizionato e perseverante a Dio, Itala affrontò l’ascesa al monte della santità superando ogni ostacolo psicologico e spirituale. La svolta avvenne all’Immacolata del 1922 con la confessione generale e la comunione, anche se in lei permanevano dubbi e oscurità. Nell’aprile del 1923 il suo approdo al porto della fede era compiuto. Itala era consapevole che non si trattava di un evento fortuito e passeggero, ma di una consacrazione totale alla chiamata di Dio. Il suo proposito fu: «Signore, ti seguirò anche nelle tenebre, a costo di morire». Inizia così un’esistenza di intensa vita spirituale, scandita dalla messa quotidiana e dalla confessione settimanale. Leggendo il suo fitto orario quotidiano come insegnante, si nota che al tempo dato alla preghiera e allo studio, ella aggiungeva anche quello consacratato, in tram, alla lettura spirituale, tre quarti d’ora al mattino e mezz’ora nel primo pomeriggio. 2. Nell’esistenza della Beata Itala Mela possiamo distinguere tre fasi. La prima riguarda la sua vita di giovane spensierata, per niente interessata alla cose di chiesa. A questo suo atteggiamento di indifferenza, di freddezza e anche di disprezzo delle cose di chiesa, appreso soprattutto dal padre ateo convinto, si possono applicare le parole dell’Apocalisse: «Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo . Tu dici: “Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla”. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo . Mostrati zelante e ravvediti. Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,15-20). È un rimprovero crudo ed esplicito che ben si addice all’atteggiamento indifferente della giovane Itala in quel periodo. 3. Ma il Signore era alla porta del suo cuore, bussava e stava in attesa. Tutto ciò somiglia alla situazione del profeta Elia, che, perseguitato e abbandonato da tutti, anche da Dio, fugge nel deserto e desidera morire. Ma il Signore gli è vicino e lo sottrae allo scoraggiamento, inviandogli un angelo che invita più volte il profeta a mangiare, a bere e a riposare, prima di mettersi in viaggio nel deserto per raggiungere il monte Carmelo. Così, nella seconda fase della sua vita la nostra Beata sembra incamminarsi per un lungo pellegrinaggio verso il monte di Dio. La giovane, infatti, iscritta alla Facoltà di Lettere dell’università di Genova, avverte sempre più viva la presenza della grazia e inizia così un cammino di ritorno alla fede. Abbandona l’aridità del deserto ed entra nel territorio sacro della vita con Dio. Ospitata nella pensione delle Suore di Nostra Signora della Purificazione, di fronte agli inviti delle religiose a partecipare alla comunione generale per la festa dell’Immacolata del 1922, Itala dapprima avverte un senso di ribellione e quasi di ripulsa. Poi, per accontentare le buone suore e soprattutto per un certo desiderio di curiosità, si confessa nella Chiesa dei Cappuccini. È un imprevisto appuntamento con la grazia, che comincia a fare breccia nella sua anima e che la fa esclamare: «Signore, se tu ci sei, fatti conoscere». È un periodo questo di dubbi e di travaglio interiore, che dura qualche mese. Ma lo Spirito Santo la sta strappando a poco a poco all’indifferenza, infondendole un sentimento di serenità nella ragionevolezza della fede. 4. La terza fase celebra il ritorno convinto di Itala alla realtà del suo battesimo, sperimentando prove mistiche e dialoghi d’amore con Gesù. Ritrovata la fede, vi rimase saldamente attaccata come il ferro alla calamita. In tal modo, lo Spirito Santo restituiva alla società e alla Chiesa una giovane profondamente convertita non solo alla vita cristiana ma soprattutto alla santità. Dopo aver cercato di entrare in un monastero benedettino in Belgio, per ragioni di salute, dovette rinunciare a questo proposito, ma non alla ferma volontà di salire in alto prima sul monte Tabor della trasfigurazione e poi sul monte Calvario della crocifissione. Anche vivendo nel mondo si sentiva attratta alla vita religiosa. A 29 anni fece professione come oblata del monastero di S. Paolo a Roma e riceve il nome di Maria della Trinità. 5. Con tale nome ella intendeva donarsi totalmente a Dio carità senza fine. La consapevolezza dell’inabitazione della Trinità nella sua anima la spinse non solo a fare i voti classici di povertà, castità e obbedienza, ma anche quelli di vita eremitica e di totale abbandono alla divina providenza. Itala non voleva più appartenersi. Voleva essere tutta di Dio, come figlia obbediente del Padre, discepola fedele di Cristo, tabernacolo puro dello Spirito Santo. La sua esistenza, vissuta eroicamente nell’esercizio delle virtù cristiane, è la risposta positiva alla preghiera trinitaria di Gesù: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti. Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di Verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo coosce. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi» (Gv 14,15-17). La consapevolezza di questa inabitazione trinitaria la rendeva serena nello spirito, incrollabile nella fede, forte nella sopportazione dei suoi malanni fisici e gioiosa nell’offerta al prossimo del suo buon esempio. L’intensa carità trinitaria la riversava sul prossimo bisognoso con delicatezza, dolcezza e concretezza. Oltre alla preghiera e al consiglio, Itala, nonostante le sue non floride condizioni economiche, era generosa nella beneficenza, aiutando gli indigenti con collette in denaro, offerte di vestiti e di cibo, aiuto nella soluzione dei tanti problemi della vita quotidiana. E tutto ciò nonostante le difficoltà di una salute cagionevole, che la portò prematuramente alla morte. 6. La Beata Itala Mela ci lancia un appello. La chiamata universale alla santità vale anche per i fedeli laici, che, se vivono con autenticità il loro battesimo, possono diventare i protagonisti della nuova evangelizzazione. La società ha bisogno della santità laicale in ogni settore della sua molteplice realtà: nell’educazione, nella famiglia, nella comunicazione sociale, nell’economia, nello sport, nel mondo del lavoro, nella politica. Nella Beata Itala Mela la Chiesa lascia un messaggio di fiducia nella possibilità del laicato non solo di vivere in pieno la santità cristiana, ma anche di essere artefice e protagonista del rinnovamento culturale e spirituale della società. Il mondo ha bisogno di laici santi, che fecondano la società con i frutti preziosi della bontà, della fraternità e della carità.” Read the full article
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f1dimension · 5 years ago
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🏁 #accaddeoggi 🏁 - 15 giugno 1958, Gran Premio del Belgio. Una gara storica per il Circus, segnata dalla prima partecipazione di una donna in un GP di Formula 1. Detentrice di questo record fu l'italiana Maria Teresa De Filippis, apparsa già nelle prove ufficiali del Gran Premio di Monaco dello stesso anno mancando peró la qualificazione. 'Pilotino' (soprannome della De Filippis) riuscì anche a portare a termine la difficile corsa di Spa-Francorchamps, portando la sua Maserati al decimo posto a due giri di distanza dal vincitore Tony Brooks (Vanwall). Per Brooks fu la prima vittoria in solitaria nel Circus (vinse anche il Gran Premio di Gran Bretagna 1957 condividendo la vettura con il connazionale Stirling Moss). Alle spalle del pilota britannico tagliarono il traguardo Mike Hawthorn (Ferrari) e Stuart Lewis-Evans (Vanwall). #onthisday #tonybrooks #f1 #otd #belgiangp #nestedia #formula1 #maserati #spa #spafrancorchamps #formel1 #mariateresadefilippis #vanwall #motorsport #formule1 https://www.instagram.com/p/CBdZpmEoxRU/?igshid=ww1lzx62g04g
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albertopassa15albymusic · 6 years ago
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Juan Manuel Fangio (Balcarce, 24 giugno 1911 – Buenos Aires, 17 luglio 1995) è stato un pilota automobilistico argentino, campione del mondo di Formula 1 nel 1951, 1954, 1955, 1956 e 1957. https://it.m.wikipedia.org/wiki/Juan_Manuel_Fangio #fangio #juanmanuelfangio #juanmanuelfangiof1legend #rascassemonaco #statuefangio #juanmanuelfangiostatue #monaco🇮🇩 #passa15 #albertopassaquindici #albertopassa15 #albymusic #albymusicbypassa15 (presso Juan Manuel Fangio Statue) https://www.instagram.com/p/BwxIj7UBjLe/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=r6cc0ithyz1r
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carmenvicinanza · 4 years ago
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Marilyn Monroe
https://www.unadonnalgiorno.it/marilyn-monroe/
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Marilyn Monroe è stata la diva per eccellenza, l’icona assoluta della bellezza del ventesimo secolo.
Ha ammaliato il pianeta col suo fascino, alcune indimenticabili scene dei suoi film sono passate alla storia del cinema.
In soli trentasei anni di vita è stata la donna più fotografata, più amata, più criticata, più imitata, più invidiata e forse la più infelice di Hollywood.
Nacque con il nome di Norma Jeane Mortenson il 1° giugno del 1926 a Los Angeles. Non aveva mai conosciuto suo padre e la madre, Gladys Monroe, era affetta da gravi disturbi mentali, che la costrinsero a frequenti ricoveri in un ospedale psichiatrico.
Per buona parte della sua infanzia, ha alternato permanenze in orfanotrofi o affidi a famiglie temporanee a turbolenti ritorni a casa. Quando alla madre fu diagnosticata la schizofrenia, la piccola Norma Jeane venne presa in tutela dalla sua migliore amica, Grace McKee, archivista di pellicole alla Columbia Pictures, fu forse da lei che apprese l’amore per il cinema. Era una ragazzina con evidenti carenze di affetto e bisogno di sicurezza, mentre era al liceo conobbe il suo primo marito James Dougherty, che sposò a soli 16 anni, nel 1942 e da cui si separò dopo quattro anni.
Trovò un impiego presso un’industria aeronautica produttrice di paracaduti. Fu lì che il fotografo David Conover, impegnato a documentare il lavoro femminile nel periodo bellico, notò la sua incredibile bellezza e la convinse a intraprendere la carriera di modella. Da quel momento, sotto la guida di un altro fotografo, Andrè de Denes, cominciò a comparire sulle copertine delle riviste. A vent’anni, nel 1946, venne messa sotto contratto dalla Fox e le si aprirono le porte di Hollywood. Divorziata, si schiarì i capelli e cambiò il suo nome in Marilyn Monroe, il cognome era quello da nubile della madre.
Ha iniziato a fare la comparsa in vari film, per poi conquistare piccole parti che la lanciarono nel firmamento del cinema. Giungla d’asfalto, Eva contro Eva, Monkeys Business e altri ancora.
Nel 1952 ottenne il suo primo ruolo da protagonista in La tua bocca brucia. Il successo mondiale è arrivato nel ’53 con Niagara.
Con Come sposare un milionario e Gli uomini preferiscono le bionde, si è confermata una delle star più amate dal pubblico. Seguirono altri clamorosi successi.
Nel 1954 Marilyn Monroe ha sposato il famoso giocatore di baseball, Joe DiMaggio, da cui ha divorziato in meno di un anno e iniziato a collezionare una serie di profonde delusioni sentimentali che la trascinarono sempre più in un grande vuoto esistenziale.
Dopo la separazione si è trasferita a New York per studiare all’Actor’s Studio. In quel periodo ha conosciuto Arthur Miller, affermato commediografo, e affascinante intellettuale che vantava la rappresentazione delle sue commedie in tutto il mondo. I due si sposarono nel 1956. In quel periodo ottenne una nomination al Golden Globe per Fermata d’autobus.
Nel 1957 l’attrice ha fondato, con l’amico fotografo Milton Green, la sua casa di produzione cinematografica, la Marilyn Monroe Productions, con cui ha girato un unico sfortunato film Il principe e la ballerina al fianco di Laurence Olivier.
Due anni dopo si è ripresa con la sua partecipazione all’esilarante commedia di Billy Wilder A qualcuno piace caldo, personaggio stampato indelebilmente nella mente degli spettatori.
Marilyn aveva bisogno di continue conferme e attenzioni e iniziò varie relazioni con altri uomini, che infiammarono i tabloid di gossip e pettegolezzi.
Nel 1962 ha ricevuto il Golden Globe come migliore attrice. Veniva finalmente riconosciuto il suo talento e carisma. Ma fu comunque una magra soddisfazione. Aveva iniziato una relazione segreta con il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy che la trattava come un gradevole passatempo e nulla più.
La sua instabilità emotiva si aggravava, forse proprio a causa delle tormentate storie d’amore in cui si gettava. Ha cominciato a rifugiarsi nell’alcool e nei barbiturici e a entrare e uscire dalle cliniche.
Nel 1962 è uscito il suo ultimo film, Gli spostati scritto per lei da Arthur Miller, con cui nello stesso anno, ha divorziato.
Venne cacciata dal set di Something Gotta Give perché era diventata ingestibile, si presentava ubriaca, non rispettava gli orari, era fuori controllo. Poco confortata da una relazione con Robert Kennedy, più affettuoso del fratello, la diva è precipitata definitivamente nel gorgo della depressione.
Il 5 agosto del 1962 è stata ritrovata senza vita, senza vestiti e con la cornetta del telefono in mano nella sua camera da letto. Il referto fu di suicidio per un’overdose di barbiturici, ma molte cose non erano chiare nella ricostruzione degli eventi, tanto che ancora oggi la sua morte è uno dei misteri irrisolti di Hollywood.
Ciclicamente ritornano le ipotesi di omicidio, di servizi segreti, di vendetta a causa della sua relazione coi due uomini più importanti del tempo. Ma forse la verità non la sapremo mai.
Nel suo testamento si lesse che aveva lasciato il suo patrimonio (un paio di milioni di dollari) alla scuola di recitazione di Lee Strasberg, alla sua psicoanalista e alle cure per la madre malata. È stata sepolta al Westwood Memorial Park di Los Angeles.
Della bellissima bambina Marilyn Monroe, come l’aveva chiamata Truman Capote, ci restano migliaia di mostre, di sue immagini, i suoi film, i segreti che si è portata dietro.
È stata un’attrice e una cantante straordinaria. Unica a suo modo. Una donna bellissima e sensuale come poche, molto generosa ma con un mal de vivre che l’ha accompagnata per tutta la sua breve esistenza.
Su di lei si è detto e scritto di tutto. Che fosse impossibile lavorarci insieme. I ritardi. Le battute mai imparate. Gli infiniti ciak. La testa sempre altrove, persa nei suoi vortici. La sua sensazione di sconforto e di sostanziale solitudine. È stata ricordata in libri, film, retrospettive. Ancora si scrivono articoli su come viveva, cosa mangiava, come vestiva. I suoi abiti di scena sono stati battuti all’asta e rappresentano importanti cimeli. La sua vita è stata setacciata in migliaia di aneddoti, indiscrezioni, racconti. È stata donna più desiderata eppure la più infelice. Comunque, un mito intramontabile.
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wetagconsulting · 5 years ago
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Shunk-Kender - L'arte attraverso l'obiettivo (1957-1983)
1 Marzo - 30 Giugno 2020 - MASI Palazzo Reali
In marzo 2020 il MASI ospita una mostra dedicata al fotografo tedesco Harry Shunk e a quello ungherese János Kender. A partire dagli anni ‘50 Shunk e Kender diedero avvio a una duratura e fruttuosa collaborazione. Il duo documentò, principalmente a Parigi e New York, inaugurazioni, biennali, artisti all’opera nei loro atelier o impegnati in performance pubbliche. Tra gli artisti immortalati: Yves Klein e Jean Tinguely, Niki de Saint Phalle e Eva Aeppli, Jean Fautrier e Daniel Spoerri, Andy Warhol e il suo entourage, Yayoi Kusama e Trisha Brown. L’esposizione giunge a Lugano dopo essere stata presentata al Centre Pompidou.
Le immagini di Shunk-Kender sono un'importante testimonianza della scena artistica della seconda metà del XX secolo, ma possono essere considerate anche un'opera con piena dignità e autonomia. In sintonia con l'arte del tempo, Shunk e Kender abbandonarono lo studio fotografico per essere presenti nei luoghi in cui le opere venivano alla luce. A differenza dei fotografi a loro precedenti, Shunk e Kender intrattenevano un rapporto intimo e diretto con i propri soggetti, così da divenire coautori più ancora che testimoni delle creazioni artistiche. La fotografia, anziché "umile serva delle arti", secondo la nota definizione di Baudelaire, diviene un’indispensabile compagna degli artisti, in un’epoca contrassegnata da creazioni volutamente effimere, azioni estemporanee, performance e happening. L’esposizione, che giunge a Lugano dopo essere stata presentata al Centre Pompidou, attinge dalle oltre diecimila stampe originali donate al museo parigino nel 2008 da parte della Roy Lichtenstein Foundation cui si deve la raccolta e tutela dello straordinario fondo fotografico Shunk-Kender.
Orari Martedì - Domenica: 10:00 - 18:00 Giovedì: 10:00 - 20:00 Lunedì chiuso Gratuito Primo Giovedì sera del mese (17.00–20.00)
Prevendita LAC Online Piazza Bernardino Luini 6 6900 Lugano +41 58 866 42 22 +41 58 866 42 40 [email protected] http://www.masilugano.ch http://www.luganolac.ch
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tmnotizie · 6 years ago
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ANCONA – Ecco l’ agenda estate 2019, tutti gli eventi dal 2 al 5 agosto
VENERDI 2 AGOSTO
SAPPANICO
dal 2 al 4 agosto  “50° SAGRA DELLA SPUNTATURA” organizzata dalla locale PROLOCO
con giochi popolari e vari intrattenimenti presso il parco comunale e lungo le vie della frazione
per la rassegna  “TEATRO PER TUTTI… UN PO’ DAPPERTUTTO”
Frazione SAPPANICO
ore 21,15 “Il fidanzato ideale” – Compagnia Teatro x caso –  ANCONA
INGRESSO LIBERO E GRATUITO
 MARINA DORICA
PER LA RASSEGNA “SOTTO LE STELLE”
PIAZZETTA DEL TRIANGOLONE
ORE 21,30 TRIBUTO A ZUCCHERO
al Cinema ITALIA – c.so Carlo Alberto
per la rassegna TROPICITTA’ – ore 21,30 proiezione del film  A STAR IS BORN
Ingresso € 6,50 ridotti € 5,00
MOLE – LAZZABARETTO
DAL 2 AL 4 AGOSTO   ACUSMATIQ FESTIVAL XIV  FESTIVAL DI MUSICA ED ARTE ELETTRONICA
www.acusmatiq.it     https://ift.tt/2YfbYNc
ORE 19,00 – MAGAZZINO TABACCHI
RAM#  RITMI AUTOMATICI MARCHIGIANI
Mostra di batterie elettroniche vintage, rare e rarissime provenienti dalle Marche. In collaborazione con Museo del Synth Marchigiano. INGRESSO LIBERO
CORTE MOLE – ingresso a pagamento € 8,00
ore 21,00  PLASTER   (ITA) Live set
ore 22,00 WRAETLIC aka ALEX SMOKE  (UK) live a/v set
ore 23,00 TIM EXILE  (UK)  live a/v set
LAZZABARETTO  pre e post concerti
TALES  dj set – ingresso gratuito
SCRIGNI SACRI 2019: tutti i venerdi alle ore 11, fino al 22 novembre, itinerari gratuiti con visita guidata attaraverso le principali piazze ed edifici religiosi di Ancona, quali le chiese di Santa Maria della Piazza, San Domenico, San Francesco alle Scale, Cattedrale di San Ciriaco e conclusione con gli arazzi di Rubens al Museo Diocesano. Ritrovo ore 11 a Santa Maria della Piazza, durata circa 3 ore.
SABATO 3 AGOSTO
per la rassegna ESTATE… al Parco Belvedere – Posatora
ore 21,30 “BEPPE E LA SWING BAND” brani swing italiani dagli anni 50 ad oggi
INGRESSO LIBERO
SAPPANICO
dal 2 al 4 agosto  “50° SAGRA DELLA SPUNTATURA” organizzata dalla locale PROLOCO
con giochi popolari e vari intrattenimenti presso il parco comunale e lungo le vie della frazione
MOLE – LAZZABARETTO
DAL 2 AL 4 AGOSTO   ACUSMATIQ FESTIVAL XIV FESTIVAL DI MUSICA ED ARTE ELETTRONICA
www.acusmatiq.it     https://ift.tt/2YfbYNc
MAGAZZINO TABACCHI  ore 17,30
incontro/seminario  LA BATTERIA ELETTRONICA ITALIANA
un viaggio attraverso la storia delle drum machines nazionali di ieri e di oggi
CORTE MOLE  concerti  ingresso a pagamento € 10,00
ORE 21,00  MACCHINENOSTRE  (ITA)  “Computerythm”  Live
ore 21,30  OVAL   (DE) live a/v set 
ore 22,30 GRISCHA LICHTENBERGER  (DE) IVE A/V set
ore 23,30 JORGEN THORWALD  (ITA) live a/v set
LAZZABARETTO  – pre e post concerti
REDD dj set   – ingresso gratuito
MARINA DORICA
PER LA RASSEGNA “SOTTO LE STELLE”
PIAZZETTA DEL TRIANGOLONE
ORE 19,00 TEATRINO PELLIDO’ – spettacolo di burattini
al Cinema ITALIA – c.so Carlo Alberto
per la rassegna TROPICITTA’– ore 21,30 proiezione del film NUREYEV THE WHITE CROW
Ingresso € 6,50 ridotti € 5,00
OSSERVATORIO ASTRONOMICO – via del Conero (Pietralacroce)
G-ASTRONOMIA .. a cena con le stelle 2019
a cura dell’Associazione Marchigiana Astrofili – INGRESSO LIBERO
info 388 1457526–338 6866321   www.amastrofili.it  – programma delle serate:
ore 19,00 osservazione del Sole
ore 20,00 panini & grigliate di carne
ore 21,30 presentazione “Il cosmo in pillole”
ore 22,15 osservazione del cielo con i telescopi
DOMENICA 4 AGOSTO
per la rassegna  “TEATRO PER TUTTI… UN PO’ DAPPERTUTTO”
Frazione MONTESICURO –  piazzetta
ore 21,15 “Pronti a tutto’”-  Gruppo Teatrale Recremisi – Ancona
INGRESSO LIBERO E GRATUITO
MOLE – LAZZABARETTO
DAL 2 AL 4 AGOSTO   ACUSMATIQ FESTIVAL XIV
FESTIVAL DI MUSICA ED ARTE ELETTRONICA, ANIMATO DA UN TAGLIO E DA UNA PROSPETTIVA INEDITA
ingresso libero
MUSEO DELLA CITTA’- Pzza del Plebiscito
per la rassegna PRIMA DOMENICA DEL MESE AL MUSEO
LA STORIA DI SAN CIRIACO E LE SUE AVVENTURE
ore 11,00 attività per famiglie
ore 17,30 visita guidata
MOLE – LAZZABARETTO
DAL 2 AL 4 AGOSTO   ACUSMATIQ FESTIVAL XIV  FESTIVAL DI MUSICA ED ARTE ELETTRONICA
www.acusmatiq.it     www.facebook.com/acusmatiq/
ORE 19,00 – LAZZABARETTO
presentazione del libro “BREVE STORIA DELLA MUSICA ELETTRONICA E DELLE SUE PROTAGONISTE”  di Johann Merrich-Arcana Edizioni con la presenza dell’autrice
ORE 21,00 MAGAZZINO TABACCHI
ASMOC 05 – ACUSMATIQ SOUNDMACHINES MODULAR CIRCUS concerto performance collettiva per synth modulari
ore 23,00  LAZZABARETTO
TALES  selecta  – ingresso gratuito
SAPPANICO
dal 2 al 4 agosto  “50° SAGRA DELLA SPUNTATURA” organizzata dalla locale PROLOCO
con giochi popolari e vari intrattenimenti presso il parco comunale e lungo le vie della frazione
al Cinema ITALIA – c.so Carlo Alberto
per la rassegna TROPICITTA’–ore 21,30 proiezione del film DOLOR Y GLORIA
ingresso € 6,50 ridotti € 5,00
LUNEDI 5 AGOSTO
al Cinema ITALIA – c.so Carlo Alberto
per la rassegna TROPICITTA’–ore 21,30 proiezione del film  MARIA REGINA DI SCOZIA
alla MOLE CINEMA Lazzabaretto
ore 21,30 proiezione del film IL SETTIMO SIGILLO – regia di Ingmar Bergman (Svezia, 1957)
Omaggio Bergman&Andersson – in collaborazione con Cineteca di Bologna
versione restaurata in lingua originale –  sottotitoli in italiano
ingresso unico 4€
PORTONOVO
dalle ore 16,30 TEDxMEZZAVALLE Beach (Technology Entertainment e Design)
evento organizzato da un gruppo di giovani che si è posto domande cruciali sul futuro e le ha rivolte ad alcuni autorevoli relatori. info su  www.tedxmezzavallebeach.it per partecipare i biglietti sono in vendita su www.eventora.com/it/Events/tedxmezzabeach
FINO AL 14 AGOSTO “LIBRI DA MARE” – prestito di libri in spiaggia a Palombina Nuova
promossa dal servizio Biblioteche del Comune di Ancona in collaborazione con l’Assessorato alla Partecipazione Democratica
presso lo stabilimento n. 18 SUNSET BEACH – Spiaggia di Palombina Nuova
il martedi e giovedi dalle ore 15,00 alle ore 18,00
mercoledi e venerdi dalle ore 9,00 alle ore 12,00
E..STATE IN BUS      fino al 1 settembre; 7-8 settembre e 14-15 settembre
per PORTONOVO    linea 93  e linea 94:  30 corse/giorno
                                     NAVETTA di COLLEGAMENTO FERMATA 93 – BAIA sempre gratuita
 per PALOMBINA      LINEA A –  LINEA B – LINEA C – LINEA J : 70 corse/giorno
integrazione scontata dell’abbonamento scolastico per periodo estivo: -40€
per il PASSETTO     linea 91 – linea  92 – CS – Linea ¼:  oltre 100 corse/giorno
biglietto integrato bus + ascensore a 3€ per andata e ritorno
numero verde 800218820       www.conerobus.it        www.atmaancona.it
MOSTRE
c/o INFORMAGIOVANI – PIAZZA ROMA
fino al 30 AGOSTO “PERCHE’ PARTIRE” – mostra fotografica dell’autrice Michela Verdenelli – reportage sulle motivazioni delle partenze dall’Africa subsahariana verso l’europa
orari: lunedi e martedi  9,30-13,00  / 16,00-19,00
mercoledi e venerdi 9,30-13,00     / giovedi 10,00-18,00
MUSEO TATTILE STATALE OMERO – MOLE VANVITELLIANA
FINO AL 1° SETTEMBRE –  RABARAMA e i giovani artisti
ingresso libero –  orario luglio e agosto: dal martedi al giovedi e sabato 17-20. venerdi, domenica e festivi 10-13 e 17-20. tel. 071-2811935    [email protected]     www.museoomero.it
per la rassegna SCRIGNI SACRI – Le meraviglie dell’arte – VII edizione
MUSEO DIOCESANO “Mons. Cesare Recanatini”  – piazzale Duomo –
aperto con visite guidate GRATUITE tutti i venerdi ore 10-17, oltre a tutti i sabati e le domeniche (ore 10-12,30 e 16-19)
info: 320 8773610  www.museodiocesanoancona.it   [email protected]
fino al 22 novembre aperture straordinarie delle seguenti chiese:
chiesa di Santa Maria della Piazza: da sabato a giovedi ore 10-12 e 16-18 venerdi ore 10-18
chiesa dei SS. Pellegrino e Teresa (conosciuta come degli Scalzi): da sabato a giovedi ore 7,30-11, venerdi ore 7,30-15,30
ESTATE IN MOVIMENTO 2019
Il Comune di Ancona e la UISP propongono una serie di attività gratuite all’aria aperta che si svolgeranno dal 1 giugno al 30 settembre nei parchi cittadini:
PARCO CITTADELLA
TAI CHI – lunedi dalle ore 18,00 alle ore 19,00
YOGA – martedi dalle 9,00 alle 10,00
1 KM IN SALUTE – martedi dalel 18,00 alle 19,00
GINNASTICA DOLCE – martedi dalle 19,00 alle 20,00
NORDIK WALKING – giovedi dalle 8,30 alle 9,30
PARCO BELVEDERE
YOGA- lunedi e giovedi dalle 9,00 alle 10,00
TAI CHI – lunedi dalle 10,00 alle 11,00 e il  mercoledi dalle 18,30 alle 19,30
PARCO DEGLI ULIVI
YOGA  – martedi dalle 18,00 alle 19,00
FORTE ALTAVILLA
YOGA – mercoledi dalle 18,00 alle 19,00     
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senzalinea-blog · 6 years ago
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I CLASSICI DISNEY La storica collana riparte dal numero 1 con l’albo “La grande caccia al tesoro”
I CLASSICI DISNEY La storica collana riparte dal numero 1 con l’albo “La grande caccia al tesoro”
A giugno I Classici Disney tornano alle origini! L’iconica testata, che allieta da più di 60 anni gli appassionati Disney italiani, riparte dal numero 1, cambiando formato e ripristinando la storia inedita che, in ogni numero, accompagnerà e farà da raccordo alle altre storie contenute nel volume. Il protagonista del primo numero sarà Zio Paperone.
Nata come I classici di Walt Disney nel 1957, la…
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levysoft · 6 years ago
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La famiglia Chaplin è una dinastia di artisti di spettacolo.
Charles Chaplin Senior (1863–1901) è noto soprattutto per essere stato il padre dell'attore e regista Charlie Chaplin , sposò Hannah Harriet Pedlingham Hill (1865–1928) da cui ebbe tre figli:
Sydney John Chaplin (1885–1965), adottato, nato Sydney John Hill in quanto figlio di Sydney Hawkes; si sposò due volte ma non ebbe figli.
Sir Charlie Chaplin - (Londra, 16 aprile 1889; Corsier-sur-Vevey, Svizzera, 25 dicembre 1977) - era figlio degli artisti Hannah Chaplin, conosciuta come Lily Harley, e Charles Chaplin Senior. Ebbe due fratellastri, uno maggiore di quattro anni, Sydney, nato da una precedente relazione della madre, e uno minore di venti, Wheeler Dryden, figlio della madre Hannah e del cantante Leo Dryden. Charlie Chaplin ebbe undici figli in tutto: il primo nacque dal matrimonio con Mildred Harris, durato dal 1918 al 1920, ma il bambino, Norman Spencer, nato con gravi malformazioni, sopravvisse solo tre giorni. Ne ebbe due dalla seconda moglie Lita Grey, con cui fu sposato dal 1924 al 1927 e altri otto dalla quarta e ultima moglie Oona O'Neill, sposata nel 1942 e con cui rimase fino alla morte[2].
George Wheeler Dryden (1892–1957), adottato, figlio di Leo Dryden; sposò la ballerina Alice Chapple; 1 figlio.
Charlie Chaplin junior (Beverly Hills, California, 5 maggio 1925 - 20 marzo 1968), fu un attore e agente. Morì all'età di 42 anni per un'embolia polmonare .
Sydney Earle Chaplin (Los Angeles, California, 31 marzo 1926 - Rancho Mirage, California, 3 marzo 2009), attore.
Géraldine Chaplin (Santa Monica, California, 31 luglio 1944) attrice, compagna del regista spagnolo Carlos Saura dal quale ha avuto un figlio, Shane Saura. Con il marito, il direttore della fotografia cileno Patricio Castilla invece, ha avuto una figlia, Oona Chaplin (nata a Madrid il 4 giugno 1986), anche lei attrice.
Michael John Chaplin (Santa Monica, California, 7 marzo 1946), attore. Ha due figli e tre figlie, tra cui le attrici Carmen Chaplin (New York, 4 febbraio 1972) e Dolores Chaplin (New York, 28 ottobre 1976).
Joséphine Hannah Chaplin (nata a Santa Monica, California, il 28 marzo 1949), sposata con Maurice Julien Marie Robinet (Nizza, 13 aprile 1927 - Parigi, 14 marzo 1983), attore, regista e scrittore francese noto con lo pseudonimo di Maurice Ronet, dal quale ha avuto un figlio, Julien Ronet (nato nel 1980). Ha inoltre avuto altri due figli in altri rapporti.
Victoria Chaplin (Santa Monica, California, 19 maggio 1951), attrice, sposata con Jean-Baptiste Thiérrée, attore e scrittore francese con il quale ha fondato Le cirque bonjour, quindi Le cirque imaginaire, più tardi Le cirque invisibile (Il circo invisibile). La coppia ha avuto due figli: Aurélia Thierrée (nata il 24 settembre 1971 a Losanna), attrice, e James Spencer Henry Edmond Marcel Thierrée (nato il 2 maggio 1974 a Losanna), attore.
Eugene Antony Chaplin (Corsier-sur-Vevey, Svizzera, 23 agosto 1953), produttore di spettacoli di circo. Ha avuto molti figli, tra cui Kiera Sunshine Chaplin (nata a Belfast, il 1º luglio 1982), modella e attrice.
Jane Cecil Chaplin (Corsier-sur-Vevey, Svizzera, 23 maggio 1957) attrice, è stata sposata con il produttore cinematografico e televisivo messicano Ilya Salkind, dal quale ha avuto due figli.
Annette-Emilie Chaplin (Corsier-sur-Vevey, Svizzera, 3 dicembre 1959), attrice.
James Christopher Chaplin (Corsier-sur-Vevey, Svizzera, 6 luglio 1962), attore.
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pangeanews · 7 years ago
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“Ho avuto orrore e compassione per Ted Hughes”: dialogo con Connie Palmen, che ha scritto il romanzo definitivo sulla coppia “maledetta” della poesia
Forse è bene rifilare questa storia – accumulando fiato – dalla fine. Lei si chiama Assia Wevill, indossa una bellezza che stordisce e il terzo marito si chiama David. Ted Hughes si innamora di lei nel maggio del 1962, il giorno in cui Assia compie 35 anni. Otto anni prima Ted, tra i grandi poeti del secondo Novecento, ha conosciuto Sylvia Plath, il cui talento lirico, dirà, è impareggiabile, pari soltanto a quello di Emily Dickinson. Quattro mesi. S’incontrano in Inghilterra nel febbraio del 1956; si sposano in giugno. Vivranno da ingenui, da estremi, da folli. Nel 1957, per la Faber and Faber di Thomas S. Eliot, Hughes esordisce alla poesia con The Hawk in the Rain; il genio di Sylvia, invece, ossessionata dalla tracotanza lirica del marito, ci impiega più tempo a esplodere. Nel 1960 esce la placca The Colossus, ma il ‘mito’ di Sylvia levita dopo la sua morte, per merito del marito fedifrago. Sylvia si uccide l’11 febbraio del 1963, dopo aver raffinato una poesia, preparato la colazione ai figli, sigillato finestre e porta, la testa nel forno. L’estate prima Ted copulava con Assia, “la mia Lilith, in una camera d’albergo, le strappai di dosso i vestiti con tutta la nera tensione che avevo accumulato e la presi. Non pensai a mia moglie, né a suo marito, né ai miei figli, né al futuro”. Ted si mette con Assia, ha una figlia da lei. Sei anni dopo il suicidio di Sylvia, nello stesso modo, si uccide Assia. “Il 23 marzo 1969 mise la testa nel forno e uccise con il gas se stessa e nostra figlia Shura, di quattro anni appena compiuti. Nella morte mia moglie si rivelò – come mia Euridice e come artefatto letterario – un’avversaria più pericolosa che non in vita”. Ted Hughes, geniale poeta dal verso barbarico, viso di incauta bellezza, giocava a fare gli oroscopi, s’imponeva una mitologia privata, giostrava con la Cabbala. “Dopo il suicidio della mia musa nera mi convinsi che era tutta opera degli dèi. Ero un dannato, errante tra gli spettri, che contagiava tutte le donne della sua vita con l’oscurità malinconica da cui lui traeva una gioia tragica, ma che distruggeva loro”. Vado alle spicce. Iperborea ha pubblicato uno dei libri più sinistri e fascinosi della stagione letteraria presente. S’intitola Tu l’hai detto (pp.256, euro 17,00), e specula negli inferi della “coppia ‘maledetta’ della letteratura moderna” (così la quarta). Il libro potrebbe facilmente sfogare nel patetico, ma Connie Palmen, l’autrice, tra le grandi d’Olanda – in Italia ha avuto un certo successo Le leggi, pubblicato da Feltrinelli – ha scelto la via ardua, folle. Ha dato voce a Ted Hughes. Ha indagato l’ugola e la mente del “bugiardo fedifrago e traditore ipocrita”, come è stato tacciato Ted, eletto ‘Poet Laureate’ nel 1984 e morto vent’anni fa, poco dopo aver pubblicato il canzoniere d’amore per Sylvia, le struggenti Lettere di compleanno. Il romanzo, ruvido e complesso, è grande quando si eleva sull’ustione biografica facendo rintoccare il poetico e il sublime: “Esplorare la propria vita interiore senza riconoscere la nostra origine ed eredità animale è un esercizio vuoto, astratto. Bisogna osare il salto, mollare gli ormeggi per raggiungere un io autentico. L’originalità di uno scrittore si riconosce dal coraggio con cui ha osato lanciarsi nell’abisso, e da quanto questo è profondo”. Già sedotto da Ted e da Sylvia, stralunato da questo romanzo, ho raggiunto Connie.
Come, quando, perché l’idea di scrivere un romanzo sulla vicenda di Ted Hughes e Sylvia Plath, per voce di Ted?
Il ruolo passivo che Ted Hughes ricopre nelle diverse biografie dedicate a Sylvia Plath, nelle vesti del marito di una donna suicida, mi ha intrigato – e nello stesso tempo mi ha riempito di orrore e di compassione. Tutti noi siamo personaggi nelle storie degli altri, ma nessuno di noi ha letto una trentina di libri in cui è raffigurato come l’assassino di un genio.
Il romanzo mi pare un’anamnesi psichica di Ted Hughes, una esplorazione analitica del cuore di Hughes. Quali sono state le sue fonti? Quando ha capito che questa storia, tragica, possente, poteva essere narrata dal punto di vista di Hughes?
Per tutti quegli anni, dalla morte della moglie, Ted Hughes è rimasto in silenzio, senza commentare le analisi dei diversi biografi. Poi, otto mesi prima di morire, ha pubblicato 88 poesie scritte intorno al suo amore e alla sua vita con Sylvia Plath. La raccolta di poesie s’intitola Lettere di compleanno. Biografie, poesie, lettere e diari di entrambi i poeti e queste 88 poesie costituiscono la fonti principali del mio romanzo.
Ted Hughes è stato – ed è – spesso trattato come il traditore, il torturatore, il mentitore. Mentre Sylvia Plath è diventata una specie di Madonna della poesia contemporanea, Hughes è stato visto come un demone. Che giudizio ha di entrambi? Perché il matrimonio di due poeti tanto vertiginosi è naufragato in tragedia?
Dopo aver scritto un romanzo intitolato Lucifero, volevo che il mio prossimo libro fosse ispirato al Nuovo Testamento, incentrato sul personaggio di Giuda. Sia nel Vecchio che nel Nuovo Testamento, Dio ha bisogno del male per fare il bene. Nel Nuovo Testamento, il male è il tradimento di Gesù, in modo che egli possa adempiere al desiderio di Dio. Questa è la struttura che ho cercato analizzando il matrimonio tra la Plath e Hughes, senza giudicarli.
Nel romanzo, Hughes sembra sempre percepire la tragedia che incombe: è il poeta che fa oroscopi, pratica la Cabbala, parla dei miti. Anche l’amante di Hughes si suicida, emulando la morte di Sylvia Plath? Perché? Forse la poesia è un rischio così alto da uccidere chi è amato dal poeta?
Non è la poesia a essere responsabile delle tragedie che costellano la vita di Ted Hughes, ma è ciò che rende un uomo un poeta, una sensibilità celestiale, una impaziente eccitazione nel trovare forme diverse di verità rispetto a quelle comuni, e l’amare in modo non convenzionale.
Da decenni si parla della vita di Sylvia Plath e di Ted Hughes. Forse la vita ha oscurato l’opera di questi due poeti formidabili… Lei ama la poesia, e chi preferisce leggere, la Plath o Hughes?
Amo la poesia – e come poeti li ammiro entrambi, Sylvia Plath e Ted Hughes.
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videolandia · 6 years ago
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lo stile Shotokan
Lo Stile Shotokan (松濤館流 Shōtōkan-ryū?) è uno stile di karate, nato dall'incontro di varie arti marziali, codificato dal Maestro Gichin Funakoshi (1868-1957) e da suo figlio, il Maestro Yoshitaka Funakoshi (1906-1945). Un termine spesso accoppiato a Shotokan è Shotokai. Spesso si identifica erroneamente la parola Shotokai come un sottostile dello Shotokan, ma non è così: shotokai non è altro che l'associazione (kai=associazione[1]) mondiale che regola lo stile Shotokan. Il Maestro Gichin Funakoshi è universalmente riconosciuto per aver esportato e diffuso il karate dall'isola di Okinawa all'intero Giappone, anche se alcuni importanti maestri, come Kenwa Mabuni e Chōki Motobu, vi insegnavano già il karate da tempo prima. Lo Shotokan è dunque uno degli stili moderni del karate giapponese, oltre a Shitō-ryū e Wado-ryu. Nonostante abbia avuto origine come un'unica scuola di karate, sviluppatasi all'interno della Japan Karate Association, al giorno d'oggi esistono parecchie organizzazioni indipendenti.
Indice
1Etimologia
2Caratteristiche
3Filosofia
4Lo Stile Shotokan nel mondo
5Termini comuni
6Kata
7Kumite
8Note
9Bibliografia
10Voci correlate
11Altri progetti
4.1I Venti Principi Guida di Funakoshi (松濤二十訓, Shōtō Nijū Kun)
4.2Le Regole del Dōjō (道場訓, Dōjō Kun)
Shoto (松濤 Shōtō?) significa "brezza nella pineta" (o più precisamente "onda di pino") ed era lo pseudonimo che il Maestro Funakoshi utilizzava per firmare le sue poesie ed i suoi scritti. La parola giapponese kan (館 kan?) significa invece "sala", ed è riferita al dojo. In onore del loro Maestro, gli allievi di Funakoshi crearono un cartello con la scritta Shoto-kan che posero sopra l'ingresso del dojo in cui egli insegnava. In realtà il Maestro Funakoshi non diede mai un nome al suo stile, definedolo semplicemente "karate".
La pratica dello Shotokan è in genere divisa in tre parti: kihon (i fondamentali), kata (forme o sequenze di movimenti, ovvero un combattimento reale contro uno o più avversari immaginari) e kumite (combattimento). Le tecniche eseguite nel kihon e nei kata sono caratterizzate, in alcuni casi, da posizioni lunghe e profonde, che consentono stabilità, permettono movimenti forti e rinforzano le gambe. Le tecniche del kumite rispecchiano queste posizioni e movimenti al livello base, ma con maggior esperienza diventano più flessibili e fluide. Nel karate shotokan, inoltre, si usano tecniche di leve e di proiezioni.
Il Maestro Gichin Funakoshi espose i Venti Principi del Karate (o Niju kun), che costituirono le basi della disciplina prima che i suoi studenti fondassero la JKA. In questi principi, fortemente basati sul bushidō e sullo zen, è contenuta la filosofia dello stile Shotokan. Essi contengono nozioni di umiltà, rispetto, compassione, pazienza e calma sia interiore che esteriore. Il Maestro Funakoshi riteneva che attraverso la pratica del karate e l'osservazione di questi principi, il karateka era in grado di migliorarsi. Molte scuole Shotokan recitano tuttora il Dōjō kun alla fine di ogni allenamento, per trovare e aumentare sia la motivazione che lo spirito.
Lo stesso Maestro Funakoshi scrisse: "Lo scopo ultimo del karate non si trova nella vittoria o nella sconfitta, ma nella perfezione del carattere dei partecipanti".
Nella prima metà degli anni sessanta, i responsabili della Japan Karate Association, in primis il maestro Masatoshi Nakayama, decisero che era giunto il momento di portare il "loro" karate nel mondo. A tale scopo inviarono negli Stati Uniti e in Europa alcuni giovani maestri che sarebbero diventati nel tempo pietre miliari del karate internazionale: Hidetaka Nishiyama e Hirokazu Kanazawa negli Usa, Taiji Kase in Francia, Hiroshi Shirai in Italia, Keinosuke Enoeda in Inghilterra, Hideo Ochi in Germania. Da questi paesi la diffusione fu capillare, niente fu lasciato al caso: stages, competizioni, seminari e una organizzazione perfetta, fecero sì che in pochi anni il karate Shotokan ebbe sotto la sua egida milioni di praticanti in tutto il mondo.[2]
I venti principi fondamentali dello spirito del Karate insegnati dal maestro Gichin Funakoshi sono:[3]
Non dimenticare che il karate-dō comincia e finisce con il saluto. (一、空手は礼に初まり礼に終ることを忘るな 。)
Nel karate non esiste primo attacco. (Karate ni sente nashi), (二、空手に先手無し。).
Il karate è dalla parte della giustizia (三、空手は義の補け。).
Conosci prima te stesso, poi gli altri (四、先づ自己を知れ而して他を知れ。).
Lo spirito viene prima della tecnica (五、技術より心術。).
Libera la mente (il cuore) (六、心は放たん事を要す。).
La disattenzione è causa di disgrazia (七、禍は懈怠に生ず。).
Il karate non si vive solo nel dōjō (八、道場のみの空手と思うな。).
Il karate si pratica tutta la vita (九、空手の修行は一生である。).
Applica il karate a tutte le cose, lì è la sua ineffabile bellezza (十、凡ゆるものを空手化せ其処に妙味あり。).
Il karate è come l'acqua calda, occorre riscaldarla costantemente o si raffredda (十一、空手は湯の如く絶えず熱を与えざれば元の水に返る。).
Non pensare a vincere, pensa piuttosto a non perdere (十二、勝つ考えは持つな、負けぬ考えは必要。).
Cambia in funzione del tuo avversario (十三、敵に因って転化せよ。).
Nel kumite devi saper padroneggiare il Pieno e il Vuoto (十四、戦は虚実の操縦如何にあり。).
Considera mani e piedi come spade (十五、人の手足を劔と思え。).
Oltre la porta di casa, puoi trovarti di fronte anche un milione di nemici (十六、男子門を出づれば百万の敵あり。).
La guardia è per i principianti; più avanti si torna alla posizione naturale (十七、構えは初心者に、あとは自然体。).
I kata vanno eseguiti correttamente; il kumite è altra cosa (十八、型は正しく、実戦は別もの。).
Non dimenticare dove occorre usare o non usare la forza, rilassare o contrarre, applicare la lentezza o la velocità, in ogni tecnica (十九、力の強弱、体の伸縮、技の緩急を忘るな。).
Sii sempre creativo (二十、常に思念工夫せよ。).
Le regole del Dojo Kun, che letteralmente significa "
Regole del luogo in cui si pratica la Via
", in giapponese
Hitotsu, Jinkaku Kansei ni Tsutomuru Koto - Prima di tutto, cerca di perfezionare il carattere
Hitotsu, Makoto no Michi wo Mamoru Koto - Prima di tutto, percorri la via della sincerità
Hitotsu, Doryoku no Seishin wo Yashinau Koto - Prima di tutto, rafforza instancabilmente lo spirito
Hitotsu, Reigi wo Omonzuru Koto - Prima di tutto, osserva un comportamento impeccabile
Hitotsu, Kekki no Yu wo Imashimuru Koto - Prima di tutto, astieniti dalla violenza e acquisisci l'autocontrollo
Molti termini utilizzati nel karate derivano dalla cultura giapponese. Mentre alcuni sono nomi (ad es. Yame, Gankaku), altri sono esclusivi delle arti marziali (ad es. kata, kumite). Parecchi termini sono solo raramente utilizzati nella vita quotidiana (ad es. zenkutsu dachi) mentre altri appaiono di frequente (ad es. rei). Questa terminologia giapponese è spesso mantenuta anche nelle scuole al di fuori del Giappone, per conservare la cultura originaria di Okinawa e la filosofia del Maestro Funakoshi.
I kyu sono 9 a partire dalla cintura bianca fino alla cintura marrone che è il passaggio da kyu a 1º dan la cintura nera. Riguardo ai kata, inizialmente questi erano 15 (oltre i Taikyoku, considerati preliminari), che il Maestro Funakoshi considerava la base dello stile. Heian shodan, Heian nidan, Heian sandan, Heian yodan, Heian godan, Tekki shodan, Tekki nidan, Tekki sandan, Bassai-dai, Kanku-dai, Jion, Empi, Jitte, Hangetsu, Gankaku. Gli altri furono aggiunti successivamente.
Taikyoku shodan
Taikyoku Nidan
Taikyoku sandan
Heian shodan
Heian Nidan
Heian Sandan
Heian Yondan
Heian Godan
Tekki Shodan
Tekki Nidan
Tekki sandan
Bassai dai
Bassai sho
Kanku sho
Kanku dai
Jion
Empi
Hangetsu
Gankaku
Jitte
Nijushiho
Sochin
Unsu
Gojushiho dai
Gojushiho sho
Jiin
Wankan
Meikyo
Chinte
Gichin Funakoshi esegue il kata
Kanku dai
(観空)
Il kumite è l'applicazione dei kihon (o tecniche basilari) attraverso il confronto con un avversario. Una delle regole più importanti di questa applicazione è l'autocontrollo. Senza autocontrollo non è possibile combattere in modo sicuro, in quanto ci si potrebbe infortunare anche in modo grave (fratture ecc.). L'obiettivo, invece, è quello di sprigionare la massima energia, rapidità e forza nell'attacco, in modo da renderlo il più reale possibile ma con il massimo controllo, soprattutto a livello del viso. Ai praticanti più avanzati si permette infatti un contatto a livello del tronco, Allo stesso modo, chi difende, deve essere il più veloce e scattante possibile per parare, evitare i colpi, rientrare a sua volta con tecniche di attacco e rimettersi nella posizione che garantisca una difesa impeccabile.
Il kumite può avere diversi tipi di forme:
1. Gohon kumite: l'attaccante fa 5 attacchi, ognuno con il passo avanti
2. Sanbon kumite: l'attaccante fa solo 3 attacchi con il passo avanti
3. Kihon ippon kumite: l'attaccante fa un solo attacco con un solo spostamento in avanti
4. Jiyu ippon da 3 metri: uguale a quello precedente, solo che l'attaccante è distante 3 metri dal difensore e quindi deve avanzare
5. Jiyu kumite: gli avversari combattono senza dichiarare i colpi (kumite libero).
^ 会 - Wikizionario
^ Copia archiviata, su budokan.it. URL consultato il 26 giugno 2010 (archiviato dall'url originale il 2 aprile 2009)..
^ Gichin Funakoshi, I Venti Principi Guida del Karate, Edizioni Mediterranee, 2010, ISBN 978-88-272-2104-4.
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