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Il resto di niente, Enzo Striano
Romanzo storico classico e tradizionale nella struttura, e lo stesso Striano riconosce il suo debito verso Aristotele, Tasso, Manzoni. Linguaggio “barocco”, gonfio, colto, ma incrostato di vivide espressioni dialettali; descrizioni sciorinate per accumulo di particolari. La vita di Eleonora Pimentel de Fonseca, raccontata dal suo arrivo a Napoli, ragazzetta vivace e curiosa, alla morte per cappio sanfedista e borbonico. Uno squarcio sulla città, dalla metà del ‘700 al tragico epilogo della Repubblica Napoletana. Nulla di particolarmente forte, detto così. Ma perché questo romanzo mi ha preso l’anima, mentre i promessi Sposi non li riesco proprio a digerire? Basta l’identificazione nella figura femminile, la Lenòr che cade ma si rialza, che è tormentata ma risoluta, che spera ma agisce? Basta la familiarità con i luoghi, con le espressioni colorite? Basta la possibilità di vedere un ponte tra passato e presente, la persistenza del lazzaro che è sempre uguale a se stesso, non più scalzo, ma con telefonino e motorino, pronto a servire il “re” purchè gli si offra la possibilità “dell’arricchimento” (il saccheggio impunito)? E la persistenza di una classe di intellettuali divisa, autoreferenziale, vibrante di spasmodici slanci ma incapace di progettare il futuro? Questo non basta a rendere “Il resto di niente” un romanzo straordinario. Nonostante il cupo pessimismo che vi si agita, fra il marciume del cibo e il libertinaggio dei costumi, dionisiaca danza, domina il valore incalcolabile della speranza come atto di fede nella possibilità di cambiare il mondo, di portare il nuovo. Fede totalmente laica, umana. E’ questo che rende speciale il romanzo di Striano. Grande metafora sul bisogno degli animi belli di trasformare in meglio il nostro mondo, nonostante le cadute, le incertezze, il dolore. Anche se la ragione porta a dire che di tutti gli sforzi non rimane che il resto di niente, dentro, nell’animo, ti sembra di dover raccogliere il testimone. Un grumo di dolore e speranza. Miliare
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Mondo crematorio: Necropoli di Boris Pahor
Boris Pahor si riferisce all'esperienza dei campi come al mondo crematorio. Nel mondo crematorio la vita è a termine, e il termine è indicato dal fuoco del camino che brucia i corpi e le anime. La dissolvenza fisica, l'odore e il sapore della cenere del camino che impregna l'aria, il ruvido telo a strisce e l'incartapecorito strato di pelle che riveste le ossa, rami secchi da destinare al forno, è la tortura più grande, più della fame, delle umiliazioni morali, delle sofferenze fisiche, dell'agonia. E il prigioniero Boris Pahor, sloveno, appartenente alla minoranza riottosa destinata alla dissolvenza, è un infermiere, pertanto privilegiato nel campo. Riesce a dare senso alla sua esistenza nel limbo della premorte lavorando alacremente per lenire le sofferenze degli altri. E' il suo lavoro che dà senso al presente del mondo crematorio, al di là dell'inutile speranza nel futuro, al di là del doloroso annegamento nel passato. E paradossalmente l’attaccamento alla vita, si tramuta , nel tempo, in senso di colpa verso la moltitudine dei non sopravvissuti. Di straordinario impatto emotivo è il linguaggio: denso, corposo, materico, vera reificazione del passato , RESISTENZA al mondo crematorio il cui progetto aveva destinato l’uomo a trasmutarsi in fumo e polvere. Tornando al campo, meta di visitatori, i fantasmi del passato lo tormentano. Ma forte è una consapevolezza, per noi un monito: “Ma qui non c’è niente di vivo che potrei portarmi via. Nessuna rivelazione. Al massimo la conferma che non può esistere una divinità buona e onnipresente che sia rimasta testimone muta davanti a questo fumaiolo. E davanti alle camere a gas. No, se c’è qualche divinità, è una divinità che non conosce e non può conoscere distinzione tra il bene e il male. Ma questo, di nuovo e ancora una volta, significa che soltanto l’uomo può dare ordine al mondo in cui vive e cambiarlo in modo che sia possibile realizzarvi le idee buone piuttosto che quelle cattive.”
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