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Su FingerBooks chi ama leggere e scrivere può incontrarsi, scoprire, pubblicare e condividere storie brevi e nuovi racconti. Su FingerBooks chiunque può raccontare una short story e trasformarla in un grande eBook per condividerlo attraverso i propri social networks.
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https://beta.fingerbooks.com/#!/book/Lungo-periodo/WBITA000213263
un paio di racconti di queste pagine sono finiti su Fingerbooks.com.
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un credito verso il lettore
Ho un metodo infallibile per capire se un libro è buono: leggere l'incipit e sfogliare il finale.
Non credo che un autore possa vantare un credito di più di dieci pagine per convincere il lettore che debba leggere il suo libro.
Se in dieci pagine un libro non mi prende, difficilmente lo farà nelle rimanenti.
Non ne ho mai trovato uno che lo facesse, anche quando mi sono costretto a proseguire.
Sembra una teoria autoimmune – secondo logica: se non prosegui la lettura allora diventa automatico che il libro non ti è piaciuto – ma credo che sia una riduzione di complessità nel mestierante di libri, sia egli lettore, aspirante scrittore, editore o correttore.
Se c'è materia, questo magma debordante deve essere chiaro dall'inizio, una sorta di contratto, di patto tra autore e lettore: guarda che il libro è questo, te lo presento fin dalle prime pagine, come una relazione che getta le basi su qualcosa di solido, l'autenticità e la chiarezza.
Un corollario che sembra più accettato alla mia personale teoria, che diventa una prassi diffusa quando sono in libreria, è questo: quasi tutti i grandi libri hanno anche grandi incipit.
Anche questa sembra un'affermazione autoimmune, priva di ogni falsificabilità, poiché, se qualcosa ti piace, ti piace nel suo intero.
Ma, anche nella posizione di lettore, ci vuole onestà intellettuale: ci sono incipit fantastici, scritti a tavolino per rapire il lettore, che coprono una certa struttura di fondo scricchiolante.
È il caso di alcuni tomi della miriade di thriller presenti in libreria con mille fascette che ne decretano l'istantaneo successo.
Bisognerebbe approfondire, come il critico e filologo: non parlo di libri di consumo, parlo di libri che parlano all'anima, che hanno una pretesa di arte della parola.
Perché se l'obiettivo principale è vendere, è chiaro che lo scrittore non può permettersi di lasciare troppe pagine prima di catturare il lettore. Ha delle cartucce da sparare e deve farlo subito.
Per il libro d'arte dovrebbe valere, suppergiù, la stessa cosa: non si può menare il can per l'aia troppo a lungo, giustificandosi con le proprie esigenze artistiche.
L'arte viene corroborata dalla capacità di sintesi. Il massimalismo non ha mai fatto per me.
Lungi da me, comunque, voler ricalcare una scena famosa di Dead Poet Society, in cui vengono stracciate delle pagine di critica letteraria che tendono a rappresentare la grandezza di un poeta su ascissa e ordinata. Non ci sono formule magiche per sentenziare la grandezza di un libro, tantomeno la sua capacità di successo. Gli eteronimi di Pessoa sono rimasti chiusi in un baule anni prima del loro riconoscimento come patrimonio dell'umanità, vedi alla voce Poesia, appunto, con la maiuscola.
Dico solo, malamente, senza l'arguzia critica di un professionista né la accidia dei critici praticanti la letteratura solo dall'altra parte della barricata, quella dei giudici: se scrivi un buon incipit rischi di scrivere anche un buon libro. È un promemoria per me stesso, lo è sempre stato. E lo giro, così com'è, con il beneficio di inventario, a tutti. Prendetelo con le pinze, pensatela come volete, ma scrivete – questo sì, per favore – solo buoni inizi. Il resto verrà. E se riuscite a dire in una frase quello che avreste voluto dire in tre, bene, stiamo facendo tutti dei progressi.
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PURO. Sui muri di Vigevano. Chi è puro?
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biliardo
Il biliardo è quello classico, all'italiana. Non ci sono buche. I birilli sono il nostro obiettivo: rosso bersaglio grosso, bianco quello minore. Se li butti giù tutti, vinci.
La stecca colpisce la nostra biglia che colpisce l'avversaria per farla rotolare sul castello, abbattendolo. Se la nostra va sul castello, beviamo, cioè diamo punti al nostro avversario.
La terza biglia, il pallino, è l'incognita. Ma se ci accostiamo, oltre ai punti, abbiamo qualche vantaggio. Spesso infatti è tra i piedi, di steola, e non consente il tiro diretto.
Le sponde sono la misura del tavolo, il campo di battaglia. Solo giocando possiamo capire quanto rispondono, come rispondono, se sono nuove o usate.
La quintessenza del biliardo è il tiro di sponda. I filotti li sanno fare tutti, quando vedono l'occasione diretta.
Esiste una tecnica per calcolare l'entrata e l'uscita dalle sponde, la direzione. La somma deve fare cinquanta. L'altro cinquanta per cento dell'abilità consiste nel dosare effetto e forza.
Solo allineando occhi, mano e stecca sulla stessa linea di sparo, dalla nostra biglia all'avversaria, abbiamo il colpo perfetto. Controllare direzione, effetto, forza. È tutto quello che serve per risolvere la partita a nostro favore.
La strategia è ancora più importante della tecnica, che deve essere data per scontata ad un certo livello.
C'è chi è inesorabile del marcare punti non appena vede uno spiraglio, giocando il tutto per tutto a costo di rimanere scoperto. Chi invece fa della copertura l'arte di mettere in difficoltà l'avversario, non concedendo varchi ed impegnandolo, ad ogni colpo, ad un livello di difficoltà superiore.
Inutile dire che il campione sa plasmare la strategia sull'avversario e non sulle proprie preferenze.
Il biliardo è terapia.
Il resto della metafora è abbastanza chiaro.
Il colpo perfetto è solo applicazione.
Senza di essa ci si può solo illudere di essere creativi. O capire il gioco.
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lungo periodo
§
Potrei parlare, ma mi manca l'aria sufficiente. Vivo come un asceta, il cibo mi andrebbe di traverso, non potrei mai digerirlo e si fermerebbe lì. Mi bagno appena le labbra, quando posso.
Per il resto tutto bene, le mie piccole cellule grigie continuano ad arrovellarsi, diventano sempre più bianche. E poi rosse, perché il poco sangue che scorre, per via della forza di gravità, non può fare altro che ricoprirle del suo colore.
Domino il mio mondo, da qui. Continuo a pensare, vedere, sentire, annusare.
Perché? Come? Dove? Le grandi domande, insomma. Soprattutto perché.
Perché c'è un grande assente. Continuo ad inviare segnali, ma niente. Una cosa da impazzire, se ci fosse in me ancora materia di cui impazzire. Ma non ho più lo sfogo della follia. È la follia di non aver più nemmeno una speranza di follia, una catarsi in cui rinchiudere le nefandezze del pensiero fine a se stesso. Raziocinio puro. Datemi problemi logici da risolvere, in continuazione, perché io possa concentrarmi su quello e dimenticare ciò che sono stata.
Con estremo sforzo forse potrei ricominciare a comunicare col mondo. Sussurrare qualche parola, probabilmente incomprensibile. O forse prendere una penna in bocca, tra i denti, oppure infilata in una narice, muovere i muscoli del collo, le mie radici e tentare di scrivere.
Vergare di segni che sono io lo stesso spazio bianco, prima che qualcuno me lo faccia scivolare via definitivamente.
Ma anche una sola parola mi costerebbe una fatica immensa. Potrei distillarle come gocce di vino. Ma come potrei mai articolare qualcosa di complesso? Fosse una semplice risposta ad una equazione, quella potrei scriverla. Ma la mia storia, quella come potrebbe starci in due parole?
Ecco, sono entrate due persone. Nel mio mondo, nella porzione di mondo che è la mia vita. Idea. Anche loro potrebbero guardarmi. Potrei fare loro una domanda. Una o due. Pazzo di solo pensare, cerco di distillare le uniche gocce che potrebbero indurre un mio simile a pensare.
Forza. Non mi viene niente. È difficile senza gli stimoli esterni. Finalmente. La verità, ecco cosa devo scrivere.
Sono un cervello monco.
Ma la lingua ha sbavato, la penna è scivolata proprio sul più bello. Soffio il foglio di carta verso di loro e sento quasi la vita abbandonarmi, uscire da me.
Ecco, uno dei due si è accorto. È quasi calvo, anche se cerca di coprirsi con il riporto.
Ride? Ride. Ride a crepapelle!
Il padrone fa segno con il pollice verso di me. Lei, che lo accompagna gli mette una mano sulla spalla. Smette subito. Gli faccio pena.
Allarga le braccia, sconsolato. Poi alza la mano per chiedere scusa. Il padrone legge il foglio. Poi mi guarda e urla “Possibile che tu sia così scemo?!” e lo straccia.
Cervelo mondo.
Questo sono riuscito a scrivere. Ha ragione il padrone. Migliaia di ore di pensiero e questo è il risultato. Errori da analfabeta, troppo oscuri per sembrare voluti.
Disperato cerco di ingoiare la lingua. Ma non avendo che uno straccio di gola e nemmeno una trachea da soffocare, l'opzione del suicidio è fuori discussione. E non posso nemmeno fracassarmi la testa contro il muro o gettarmi da basso. Vorrei urlare, ma non posso fare nemmeno questo.
§
Quel chiletto in meno mi rende incredibilmente leggero. Non ho mai avuto una coda e ora non ho nemmeno un capo a cui rendere conto. Certo, non ho nemmeno un timone. Ma a cosa servirà mai?
È inebriante. Libertà assoluta. Nessun limite, nessun freno imposto. Gli ostacoli che incontro posso aggirarli. Posso agire indisturbato. Mi guida la memoria dei muscoli, che hanno imparato le azioni necessarie per il mio lavoro. E poi c'è l'intestino, il cervello più antico. Si contrae e si rilascia. Non tradisce mai. Ho ancora la pelle, perciò arrivano tutte le informazioni necessarie. La musica, ad esempio. Una vibrazione ancestrale nello stomaco. Così la fame, la sete, la stanchezza. Devo solo stare attento al cuore. A non sovraccaricarlo. Perciò porto spesso le dita sullo sterno.
È l'unica cosa che non deve fermarsi mai. Perciò, ogni tanto devo fermarmi io, devo smettere di camminare e trovare un po' di riposo. Quando non lo sento battere, vuole dire che sono pronto a rimettersi in marcia. Camminare è la cosa che so fare meglio. Fino a quando incontro qualcosa o qualcuno. Certo, non sono più svelto e attento come un tempo.
Ma con l'esperienza riesco a venirne sempre a capo. Quello che devo riconoscere ed evitare sono le cose acuminate o taglienti. Per questo ho sempre un bastone in mano. Chi mi vede mi scansa e il resto posso gestirlo.
E poi il bastone mi serve a percuotere. Non le persone, perché non fanno rumore, ma le cose. Subisco il fascino primordiale del ritmo, che è la massima vicinanza possibile a dio.
Quando ho tentato di comprenderlo è stato un fallimento. Ora che lo faccio solo per sentirmi vivo, l'ho sentito.
È l'unico piacere che mi resta. Niente cibo, niente sesso. Ho troncato di netto ogni via di accesso del piacere. Sono un'autarchia ambulante. Consumo l'energia che mi anima, la ricarico, rispondo a stimoli semplici come on-off. Il resto non mi interessa e non voglio nemmeno rappresentarmelo.
Altrimenti il mio cuore scoppierebbe.
§
Ho comprato quella testa come trofeo da appendere alla parete. Ad una cifra ragionevole per dare un tono al negozio di robe vecchie.
Avevo letto di quel pollo o tacchino che era riuscito a sopravvivere senza testa. Mi avrebbero dato, nel pacchetto regalo, anche il corpo. Ma non sono mica fesso, era una trappola. Prima cosa: avrebbe richiesto troppa cura e attenzione. Seconda cosa: era raccapricciante. Perché, sapete, continuava a muoversi. Avrebbe fatto scappare anche Re Mida, davanti al mio negozio.
Per un po' è andata bene. Ne parlavano tutti, dell'esperimento di separazione testa-corpo. La chiamavano la Nuova Frontiera.
Ma la parola frontiera, evidentemente, non ha mai detto bene all'uomo.
Così, poco per volta, la gente non è più venuta nemmeno a vederla, la mia testa. La prima testa tagliata vivente. Figuriamoci a comprare.
Gli affari andavano male.
Ma la bontà di un investimento si vede solo nel lungo periodo.
Così, in un giorno da lupi – che sia benedetto da dio – quando ormai avevo passato in rassegna tutti i modi più o meno leciti per disfarmene, ecco che nel mio negozio entra lui. Proprio lui, il corpo!
La testa cercava di chiamarlo a sé, con un filo di voce. Il corpo che non trovava via d'uscita e continuava a sbattere contro il muro e il bancone che avevo spostato ad arte.
Non potevano riconoscersi come uno. Erano a meno di un metro, bastava che quella carcassa allungasse una mano, che potesse sentire o che la testa scivolasse fatalmente dal ceppo a cui l'avevo relegata. Invece no. Erano uno strazio. Da lacrime agli occhi, tra il pianto e il riso.
Grottesco forse è la parola adatta.
Vennero a frotte. In pullman, aereo e con ogni mezzo.
Il mio video aveva scosso l'opinione pubblica, come si suol dire. Anche i grandi entusiasti del taglio netto mente-corpo dovettero ricredersi.
Con le parole giuste – è un atto troppo definitivo, dissi – riuscii a fare più soldi di quelli che avrei potuto mai immaginare.
Ah, il lungo periodo...!
Bisogna saperci vedere lungo.
Anche se non troppo, perché nel lungo periodo siamo tutti morti.
Anch'io, quando un tale riuscì a riunirli.
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inconscio
L'inconscio era un piccolo cubo che portava splendidamente i suoi cento anni.
Qualcuno in più, a dire la verità, ma si arrotonda sempre per difetto sull'età ed il conto in banca.
Un cubo che ha fatto la sua storia e su di essa si è sempre concentrato. Dentro e sotto di lui solo immondizia. Cose che non si possono pensare e quindi nemmeno dire, perché diventerebbero istantaneamente cristallo.
La faccia su cui era appoggiato a terra determinava la sua modalità.
Ogni faccia era diversa: specchio, diga, animale, concime, sonno e luce.
Con un colpo di reni, secondo gli assestamenti idrogeologici del terreno sui cui poggiava, di tanto in tanto si dava una sgranchita alla faccia e cambiava modalità.
Finché un giorno, un maestro artigiano decise di farla finita, una volta per tutte.
“Coi dadi ci si gioca anche la casa” disse e iniziò a segare gli angoli del cubo, facendo fatalmente mischiare su un nuovo piano tre modalità, da sempre ortogonali, simmetriche e perfettamente logiche.
Aveva sempre ragionato meccanicamente. Una modalità escludeva l'altra e non contemplava il contrario di niente e, pur non contenendo in sé coppie di opposti, non riproduceva altro che se stesso. La modalità specchio, infatti, era la sua preferita. Gli permetteva di ammirare il suo contenuto, conservandolo gelosamente alla vista degli altri. L'alone di mistero, che lo proteggeva dall'essere capito fino in fondo, era un tocco di classe nella sua continua ricerca di essere utile a qualcuno oltre a sé stesso. Ma lo faceva sentire inutile. Senza un posto nella vita né una ragione per esistere. Ognuno di noi ne avrebbe fatto volentieri a meno.
“Ho sempre odiato gli angoli” disse l'artigiano, non ancora pago del suo lavoro. “Chissà perché il tale che si è preso il disturbo di crearci ci ha fatto senza angoli. Che sia buddista, cristiano, animista, induista, o che il diavolo se lo porti, la cosa più appuntita che ci ha fatto è la lingua”.
Anatomicamente e metaforicamente, verrebbe da aggiungere. Ma la lingua è molle, non dura come quel cubo, ora cubottaedro, di 14 facce.
Continuò quindi a tagliare gli angoli, in progressione lineare.
Smussando e limando, l'inconscio diventò, senza aver firmato alcuna liberatoria, una sfera.
Infinite membrane tangenti gli infiniti piani offerti dalla superficie curva. Infinite possibilità.
Si sentiva parte di un flipper cosmico, finalmente. E, naturalmente, un po' strano, perché non ben definito. Un animaletto inoffensivo che passeggia sulla diga quasi colma, al crespuscolo, si specchia nell'acqua col desiderio improvviso di non trattenere più le sue feci. Di fatto era solamente una pallina.
Non aveva equilibrio in sé. L'unica possibilità di equilibrio era incontrare una superficie piana, in asse perlomeno con questa terra.
Quando la trovò, apprezzò il riposo. Poi venne testato in un labirinto. I colpi ricevuti dai percorsi obbligati in cui era stato costretto lo fecero pensare. Per la prima volta nella sua esistenza, considerò il suo passato.
Allo strumento che era stato. Manipolato e gettato a seconda delle esigenze per dimostrare qualcosa, attraverso le sue modalità di funzionamento.
Lo volevano immondezzaio? Perfetto: modalità diga o concime, a seconda delle stagioni, per contenere o tracimare il fiume di feccia che lasciava la coscienza. Lo volevano trasgressivo? Animale. Profetico? Modalità sonno, connessa al sogno, da decodificare in interpretazione. Pochi lo consideravano raggio di luce che squarcia l'oscurità.
Le sue modalità fornivano agli utilizzatori delle chiavi di lettura, che scambiavano per la realtà. Erano diventate un mezzo per dimostrare qualcosa. La descrizione si era sostituita all'essenza. E molti viaggiavano con la fantasia.
Ora che l'inconscio aveva scoperto nell'asse terrestre il proprio vero equilibrio, voleva finalmente fare qualcosa per sé. Sentiva energia scorrere sulla propria superficie. Come una palla infuocata, bruciò il labirinto e cercò di sfuggire ad ogni costrizione. La sua energia avrebbe condotto qualcuno a vederlo per quello che è. Una forza della natura in continuo divenire. Che rotola finalmente in avanti, nelle contraddizioni del futuro.
L'artigiano prese in mano l'inconscio. Aveva in sé la rifrazione di ogni colore, quando lo tenne per la prima volta tra il pollice e l'indice.
“Giochiamo” disse.
La mise in terra. Avrebbe dovuto districarsi tra cicche, cicche di sigarette, rifiuti, preservativi usati. Dall'altra sponda del ruscello c'era una piccola buca, il richiamo perfetto per il bambino che era stato.
Appoggiò delicatamente il pollice dietro la biglia. Fece leva di di esso con il medio. Caricò e poi scoccò il tiro. Doveva essere un tiro perfetto.
Ma si fermò sul bordo della buca.
“Devo farci un po' la mano” e sorrise.
Ma era bello avere una biglia in tasca.
“Questo è veramente un gioco”.
E finalmente prese l'inconscio per quello che è sempre stato.
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