I grandi uomini non parlano, Come fiori di ciliegio si disperdono, Prima delle discendenze che si ostinano a sopravvivere agli eroi, Ma come il fiore reciso che io scelsi tra mille per te, Il piú belloé il giovane che prima cade sul prato, Dimostrando che vivere non ha senso senza il morire, Ripercorrendo il sostanziale sacrificio degli eroi.
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“LE CORSE INDURISCONO IL CUORE. LA MORTE È COMPRESA NEL CONTRATTO.”
Nella sua prima gara in Formula 1, il Gran Premio dei Paesi Bassi 1970, aveva visto la tragica morte di Piers Courage. Per tutta la corsa la vettura ha continuato a bruciare, con il casco dello sfortunato pilota che rotolava in mezzo alla pista. François rimase profondamente scosso per questa scomparsa, ma sa altrettanto bene che le corse induriscono il cuore dei piloti e quando sulla stessa pista di Zandvoort, nel luglio del 1973, lo sfortunato Roger Williamson perirà in circostanze simili, non proverà la stessa emozione, allo stesso modo in cui ha cancellato dalla sua memoria la sua uscita di pista a più di 300 km/h durante le prove del Gran Premio d’Italia del 1970. Lui non aveva toccato nulla, ma il giorno dopo, 200 metri più avanti e mentre girava ad appena 140 km/h, Jochen Rindt era uscito di strada e si era ucciso. François era rimasto lucido, sapeva che la morte è inclusa nel contratto di ogni pilota. La mattina del 6 ottobre 1973 François è in gran forma. Osserva il suo meccanico, Jo Ramirez, mentre prepara la sua vettura: “Vedrai il tempo che farò segnare! Hai notato che io guido la Tyrrell 006 numero 6, motore 66 e oggi è il 6 ottobre? E’ la mia giornata!”. Sono le 11:54 quando la Tyrrell n. 6 rientra nel suo box. Con 1’40”44 François ha appena fatto segnare il quarto tempo nelle prove del Gran Premio degli Stati Uniti che si disputa sul circuito di Watkins Glen, lo stesso in cui ha conseguito la sua prima e unica vittoria due anni prima. Ha la sensazione di poter migliorare ancora e battere i tempi di Peterson, Reuteman e Fittipaldi. Al terzo passaggio François stacca il suo miglior tempo con 1’40”03. Percorre il giro seguente in 1’40”07. Non completerà mai il quinto giro. François sa di disporre della vettura giusta per vincere; entra largo nella sequenza di curve destra-sinistra-destra in leggera salita chiamata le “S”, ma resta con l’acceleratore schiacciato a fondo. Perde il controllo e urta il piccolo cordolo. La vettura s’invola, urta le protezioni, attraversa la pista e s’incastra sulla barriera di sicurezza del lato opposto. Una cappa di piombo si abbatte sul circuito. François Cevert è morto. Il 29 giugno 1966, quando aveva appena iscritto François al Volante Shell, Nanou aveva consultato una veggente. “Supererà un esame, avrà un grande successo. Vedo una carriera molto brillante, ma…” La veggente aveva taciuto un momento e poi aveva semplicemente aggiunto: “… devo dirtelo: questo ragazzo non arriverà mai al suo trentesimo compleanno.” François non credeva in queste cose e era andato lui stesso alla fine di settembre a vedere la veggente, sicuro che gli avrebbe predetto un avvenire diverso, ma la risposta fu del tutto identica. Il Gran Premio degli Stati Uniti del 1973 fu l’ultima corsa di François, appena prima del suo trentesimo compleanno.
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Revson incarnò alla perfezione lo stereotipo del pilota da corsa anni ‘70: piaceva alle donne, era un ribelle, uno spericolato ma dotato di una sensibilità non comune. Una vita vissuta al limite ma con stile.
They say an end can be a start Feels like i've been buried yet i'm still alive It's like a bad day that never ends I feel the chaos around me A thing i don't try to deny I'd better learn to accept that There are things in my life that i can't control They say love ain't nothing but a sore I don't even know what love is Too many tears have had to fall Don't you know i'm so tired of it all I have known terror dizzy spells Finding out the secrets words won't tell Whatever it is it can't be named There's a part of my world that' s fading away You know i don't want to be clever To be brilliant or superior True like ice, true like fire Now i know that a breeze can blow me away Now i know there's much more dignity In defeat than in the brightest victory I'm losing my balance on the tight rope Tell me please, tell me please, tell me please, tell me please... if i ever feel better Remind me to spend some good time with you You can give me your number When it's all over i'll let you know Hang on to the good days I can lean on my friends They help me going through hard times But i'm feeding the enemy I'm in league with the foe Blame me for what's happening I can't try, i can't try, i can't try, i can't try... No one knows the hard times i went through If happiness came i miss the call The stormy days ain't over I've tried and lost know i think that i pay the cost Now i've watched all my castles fall They were made of dust, after all Someday all this mess will make me laugh I can't wait, i can't wait, i can't wait, i can't wait... If i ever feel better Remind me to spend some good time with you You can give me your number When it's all over i'll let you know If i ever feel better Remind me to spend some good time with you You can give me your number When it's all over i'll let you know It's like somebody took my place I ain't even playing my own game The rules have changed well i didn't know There are things in my life i can't control I feel the chaos around me A thing i don't try to deny I'd better learn to accept that There's a part of my life that will go away Dark is the night, cold is the ground In the circular solitude of my heart As one who strives a hill to climb I am sure i'll come through i don't know how They say an end can be a start Feels like i've been buried yet i'm still alive I'm losing my balance on the tight rope Tell me please, tell me please, tell me please, tell me please... If i ever feel better Remind me to spend some good time with you You can give me your number When it's all over i'll let you know If i ever feel better Remind me to spend some good time with you You can give me your number When it's all over i'll let you know If i ever feel better Remind me to spend some good time with you You can give me your number When it's all over i'll let you know
https://www.youtube.com/watch?v=ub36ffWAqgQ
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“non è però lo stesso anello, non sarà mai lo stesso. Non è il ricordo di mio fratello Ricardo. E non so , adesso, se mi porterà la stessa buena suerte”
Lo disse proprio in francia al Le castellet. E appariva preoccupato.
Non gli ha portato “buena suerte”.
alla seconda corsa senza il suo vero anello. Pedro Rodriguez de la Vega ha trovato l’appuntamento decisivo con il proprio destino di pilota.
Può un anello decidere il destino di un uomo? E’ irrazionale pensarlo al mondo di oggi. Ma anche la vita dei piloti, di coloro che fanno del rischio il proprio mestiere quotidiano, sembra legata a queste manifestazioni di superstizione.
E allora di irrazionale resta la polizza assicurativa più congeniale a chi non sa cosa può attenderlo dietro una curva o su un rettifilo, come in cielo e come in mare, per tutti coloro, cioè che il rischio lo affrontano senza conoscere l’umano sentimento della paura.
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È stato da molti considerato il pilota più veloce anche se in Formula 1 mostrò probabilmente troppo poco del suo innato talento a causa delle poche partecipazioni, sebbene non mancò di dare spettacolo: si tratta del personaggio di Pedro Rodrìguez de la Vega.
Nasce nel caldo Messico il 18 gennaio del 1940, cresce insieme al fratello minore Ricardo e sono soprannominati “I piccoli messicani”; giovani e pepati: cominciano a correre da giovanissimi in bici e a soli 10 anni Pedro è già campione nazionale. Aggiungiamo un motore alle due ruote? Nessun problema per lui: a 12 anni comincia, a 13 e 14 è campione nazionale. Complichiamo le cose – il ragazzo ha talento – passiamo all’automobilismo: sempre a 14 anni il padre gli regala la sua prima auto, una Jaguar con la quale il ragazzino brilla piazzandosi primo alla Carreda Avàndaro Internazional: la sua fama raggiunge il vecchio continente.
Compiuti i 18 anni viene contattato da Luigi Chinetti, importatore Ferrari, che lo pone al volante di una 250 Testa Rossa per la gara di Le Mans ma per problemi d’età dovrà far coppia con un altro pilota che non è il fratello e viene pertanto scelto Jean Behra. Concluderà la gara con un ottimo quinto piazzamento e l’amore per il tracciato francese lo porterà a ripresentarsi per ben quattordici anni di fila riuscendo a vincere nel 1968 a bordo della Ford GT40 in coppia con l’italo-belga Lucien Bianchi. Con il fratello invece prenderà parte alla 12 ore di Sebring dovendosi però ritirare e a bordo di una Dino correrà la Targa Florio classificandosi settimo al termine della classifica generale e primo di categoria. Sempre con il fratello ripeterà la gara del Sebring piazzandosi terzo ed insieme otterranno anche il secondo posto alla 1000 km del Nürburgring. Nel 1962, ultima gara a fianco del fratello, a bordo di una Ferrari 250 GTO otterrà la vittoria alla 1000 km di Montlhèry bissando la sua presenza in territorio francese.
Malauguratamente nel 1962 il fratello Ricardo muore a soli 20 anni durante le prove del GP del Messico e ciò lascia in Pedro una profonda ferita dalla quale sembra non potersi più riprendere, ma a sorpresa si presenta l’anno seguente prendendo parte alla 3 ore di Daytona, alla 12 ore di Sebring e alla 24 ore di Le Mans senza particolari risultati, mentre significativo è il suo ingresso nella massima serie, la Formula 1. Entrato nel team Lotus prende parte a due gare dovendosi sempre ritirare. Nel 1964 gareggia a bordo della Ferrari nella gara di casa piazzandosi sesto ed ottenendo così il suo primo punto nel mondiale, che lo posizionerà 22° nella generale al termine del campionato; la stagione successiva sempre a bordo della Rossa parteciperà al GP degli Stati Uniti e a quello del Messico classificandosi rispettivamente in quinta e sesta posizione che lo collocheranno 14° nel mondiale piloti. Nel ’66 torna al team Lotus per tre gare in cui il risultato è sempre lo stesso: il ritiro. Finalmente nel 1967 può dirsi pilota ufficiale di F1 guidando una Cooper – Maserati ed ottenendo a sorpresa la vittoria al primo GP della stagione: infatti John Love, il quale stava conducendo senza problemi in testa, fu costretto ad un rabbocco a pochi giri dal termine consegnando così la vittoria al messicano il quale vide per una volta la Fortuna dalla sua parte. Durante il resto della stagione otterrà alcuni risultati tra il quinto ed il nono posto ma anche vari ritiri che lo relegheranno in 6° posizione al termine del campionato iridato. Stagione 1968: il messicano prende parte al campionato a bordo di una BRM ma nelle prime tre gare è costretto al ritiro, mentre successivamente ottiene dei buoni piazzamenti: nel GP del Belgio è secondo mentre in quello d’Olanda è terzo ripetendosi in Canada; concluderà di nuovo 6° in classifica generale. Nel ’69 corre sempre con la BRM ottenendo solo qualche punto qua e la e collezionando molti ritiri, una stagione disastrosa. Nel 1970 la vettura proposta dalla BRM a Pedro, la P153, risulta un po’ più competitiva e grazie soprattutto al suo innato talento vince nel Gran Premio del Belgio ad una media di 241 km/h. Sarà questa la sua ultima vittoria nella massima serie.
Durante gli anni Pedro non smetterà mai di intrecciare il mondiale F1 con quello Marche correndo con la Ferrari inizialmente e poi portando agli esordi la Porsche 917K Gulf con il numero 21. Clamoroso nel 1970 quando vince con 48 giri sulla prima delle Ferrari alla 24 ore di Daytona; vince anche a Brands Hatch, in Inghilterra, correndo sul bagnato come non mai tanto che Chris Amon rientrando ai box Ferrari esclamò: ”Qualcuno vuol dire anche a Pedro che sta piovendo?”. Quell’anno la Porsche otterrà il mondiale Marche.
Il messicano era sempre stato molto superstizioso e da quando era morto il fratello portava con sé al dito un anello d’oro come ricordo ma nel 1971 lo smarrì in un aeroporto americano, confidando ai suoi cari di sentirsi insicuro sebbene ne avesse fatta fare una copia identica all’originale; lo stesso anno l’amico svizzero Muller, suo ex compagno alla Targa Florio, gli propose di fare qualche giro in gara al Norisring, in Germania, a bordo di una Ferrari 512M. È l’undici luglio quando alla chicane l’auto di Pedro, forse a causa di una cedimento alla sospensione destra, esce di pista: l’impatto contro il muretto è durissimo, lui viene letteralmente sbalzato fuori dall’abitacolo mentre l’auto prende fuoco rientrando in pista e viene tamponata.
Tutt’oggi a lui e a suo fratello è stato dedicato il circuito di Città del Messico, mentre il primo tornante del Daytona International Speedway è stato battezzato “Curva Pedro Rodrìguez”. Nel luogo in cui perse la vita invece è presente una targa di bronzo commemorativa. Molto è quello che questo giovane pilota ha lasciato, compreso un incolmabile vuoto nel cuore degli appassionati di tutto il mondo ma le sue imprese riecheggiano ancora nei luoghi in cui Pedro Rodrìguez de la Vega ha solcato col suo caldo cuore messicano.
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“vince anche a Brands Hatch, in Inghilterra, correndo sul bagnato come non mai tanto che Chris Amon rientrando ai box Ferrari esclamò: ”Qualcuno vuol dire anche a Pedro che sta piovendo?”
I'd rather be a sparrow than a snail Yes I would, if I could, I surely would I'd rather be a hammer than a nail Yes I would, if I only could, I surely would
Away, I'd rather sail away Like a swan that's here and gone A man gets tied up to the ground He gives the world its saddest sound Its saddest sound
I'd rather be a forest than a street Yes I would, if I could, I surely would I'd rather feel the earth beneath my feet Yes I would, if I only could, I surely would.
https://www.youtube.com/watch?v=pey29CLID3I
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"E' troppa questa fortuna. Comincio un poco a preoccuparmi perché potrebbe non continuare."
una favola triste quella di un ragazzo dagli occhi grigio-azzurri che sognava di vincere il titolo mondiale per poi ritirarsi e dedicarsi alla moglie Nina e alla piccola Natascha…e non per continuare e cercare di battere il record di Jim Clark…non a caso, al suo biografo, perplesso dalla volontà del pilota di ritirarsi qualora avesse vinto il titolo, Jochen aveva risposto ”Guarda Jimmy dov’è ora”.
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Seguirono cinque giri. "Era davanti a me" – raccontò Chris Amon– "settimo o ottavo posto. Non guadagnava terreno, sebbene io andassi piano." "Era ottavo, dopo quattro giri" – confermò Eric Dymock, il giornalista suo amico. "In una curva a sinistra perse aderenza, ma fu bravo a riprendere il controllo della macchina" – raccontò un testimone. "Sul bagnato le Firestone da pioggia erano inutili" – disse Amon che le usava quel giorno. "Entrò nella successiva curva a destra, forse un po’ troppo veloce" – raccontò un commissario. "…circa 200 Km/h" – racconta Heinz Pruller, il giornalista tedesco che era presente. "…almeno 220 Km/h" – afferma David Tremayne, un altro giornalista, irlandese. "…oltre 250 Km/h" – ribatte ancora Eric Dymock, che sarebbe diventato il suo biografo.
La difficile valutazione della verità da parte della stampa. "Quella curva era lunga e sulla destra, piuttosto dolce e larga, la si poteva percorrere appaiati a 240 Km/h, anche sulla pioggia" – è il parere di Derek Bell, cinque volte vincitore a Le Mans e quel giorno quarto nella prima manche guidando per Frank Williams. Una curva facile. "I grandi piloti muoiono nelle curve facili" – ha scritto qualcuno.
La pioggia. Anche su questo ci sono testimonianze diverse, contraddittorie. "C’erano pozze dappertutto" – racconta Chris Amon. "Al via della prima manche non pioveva. Era piovuto prima, sarebbe ricominciato a piovere dopo, ma al via della prima manche no, non pioveva" – questo dichiarò dopo la gara l’inglese Piers Courage, terzo assoluto e quinto in quella prima fatale manche. "Alla prima curva non si vedeva nulla, assolutamente. C’era ‘water-spray’ ovunque, si vedevano solo, in alto, le cime degli alberi e l’unica cosa che si poteva fare era curvare seguendole, senza vedere dove mettevi le ruote. Rallentai molto, ma sorprendentemente nessuno mi sorpassò" – è il ricordo di Max Mosley, oggi presidente della FIA, allora debuttante in Formula 2 con una Brabham. "La visibilità era sufficiente, abbiamo corso in condizioni molto peggiori." – ancora Courage. "Davanti si vedeva abbastanza, ma dietro non doveva essere facile" – Henri Pescarolo, secondo. "Un muro d’acqua, c’era un muro d’acqua. Impossibile vedere qualcosa" – Chris Irwin, settimo. Difficile ricostruire l’incidente e ipotizzarne la causa.
Facile, terribilmente facile, stabilirne subito le conseguenze. Drammatiche, definitive. "L’auto si mise di traverso, non cambiò mai direzione, sfondò la recinzione a bordo pista e si schiantò contro un albero dividendosi in due all’altezza dell’abitacolo"- un testimone. "Tutto accadde all’improvviso, in una frazione di secondo. La macchina rossa e oro sembrò cambiare direzione, puntandomi addosso. Mi veniva diritta addosso. Scivolando sfondò la recinzione a meno di dieci metri da dove mi trovavo, poi urtò contro l’albero con un rumore che non dimenticherò mai più. Sembrò finire in mille pezzi" – raccontò un commissario di gara, unico testimone oculare dal bordo della pista. "La carcassa della Lotus era ridotta così male che non era possibile nessuna valutazione oggettiva sulle cause dell’incidente" – ricorda Nick Georgano, storico dell’automobile. Chapman sostenne da subito la tesi del cedimento di uno pneumatico. "Un’improvviso afflosciamento della gomma posteriore destra, gli fece perdere il controllo" – afferma David Sims il meccanico di Jim Clark. "La causa più plausibile per spiegare l’incidente è la foratura della ruota posteriore sinistra…" – scrisse Tony Dodgins sul Daily Telegraph. "Si spense improvvisamente il motore, non fu una gomma.Erano due giorni che lavoravano per risolvere il problema all’accensione e non ci erano riusciti. A quella velocità gli si devono essere bloccate le ruote posteriori. Nemmeno Jimmy avrebbe potuto tenerla in pista, neppure lui" – è invece la convinzione di Derek Bell. "…la più probabile spiegazione di questo inspiegabile incidente, è l’esplosione di una gomma…" – è la certezza di Eric Dymock. "… una foratura provocò il progressivo afflosciamento di uno pneumatico, che in curva uscì dal cerchione bloccando la ruota e rendendo impossibile controllare la macchina…" – Tremayne se lo è spiegato così. "La causa dell’incidente in cui perse la vita Jim Clark fu la rottura della sospensione posteriore destra. Alla Lotus era un problema comune, per lo stesso problema era morto sei anni prima Ricardo Rodriguez. La Firestone accettò di prendere la colpa per fare un favore alla Lotus e a Colin Chapman" – avrebbe dichiarato molti anni dopo Fred Gamble, all’epoca Direttore del settore sportivo della Goodyear. Goodyear, la casa rivale della Firestone.
Gomma destra, no sinistra, velocità 200 Km/h, no 250 Km/h, esplosione, no lento afflosciamento, rottura di una sospensione, ma altri parlarono di un bambino che sfuggito ai genitori aveva attraversato la pista, di un colpo di vento laterale, di un cervo che si sarebbe parato davanti e che nessun altro avrebbe visto. Dopo quarant’anni d’ipotesi e di misteri, una certezza.
Jim Clark, trentadue anni, due volte Campione del Mondo di Formula 1, primo europeo a vincere la 500 miglia di Indianapolis nel dopoguerra, recordman di vittorie, di "pole position" e di giri veloci in Formula 1, era morto all’istante. Lo soccorsero, lo portarono a Mannheim, ma era già morto. Lo speaker dell’autodromo annunciò che era ferito; la notizia venne tenuta nascosta per un paio d’ore, mentre al gara finiva con la vittoria in entrambe le manches di Jean Pierre Beltoise, un pilota che sull’acqua aveva pochi rivali. Poi fece il giro del mondo in un baleno.
"Mi mancherà il suo sorriso" – dichiarò Graham Hill il suo compagno di squadra, ma anche uno dei suoi più agguerriti rivali, a chi si aspettava chissà quali altre parole. "Se è morto uno come lui, che speranza possiamo avere noi?" – mormorava ai box della Ferrari un angosciato Chris Amon. "Quando scesi dall’auto chiesi come stava Jim Clark. Nessuno mi rispose, ed allora capii subito" – racconta Beltoise.
Jim Clark non c’era più. Per otto volte aveva ottenuto "pole position", stabilito il giro più veloce in gara, e vinto il Gran Premio partendo in testa senza mai cedere il comando. Fangio, Moss e Hawthorn c’erano riusciti una sola volta, una sola, Jack Brabham due, Alberto Ascari, cinque. Lui otto e due volte al Gran Premio d’Inghilterra che aveva vinto per cinque volte in tutto. Cinque vittorie al Gran Premio d’Inghilterra, il Gran Premio che Graham Hill non aveva mai vinto, non avrebbe mai vinto. Numeri da campione, i numeri di Jim Clark. Negli Stati Uniti la notizia arrivò quasi subito. Era famoso, per Indianapolis e per altro, per la vittoria e per le volte che l’aveva accarezzata sfiorandola. A Los Angeles un disc-jockey di una radio interruppe la musica per dare la notizia e aggiunse: "Se, come me, siete addolorati per la morte di Jim Clark, allora accendete i fari delle vostre auto." Tutta l’autostrada, in pieno giorno, brillò di mille luci.
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Jim Clark - Team lotus - 500 miles Indianapolis 1965
La 500 Miglia di Indianapolis del 1965 rappresenta la grande occasione negli Stati Uniti per Jim Clark e Colin Chapman. Il fuoriclasse del volante e l’asso a capo della Lotus vogliono sbancare la gara più importante del panorama americano, e decidono addirittura di saltare il GP di Monaco di Formula 1 pur di tentare l’assalto alla Indy 500. Per vincere la gara, Chapman utilizza la Lotus 38, vettura di Formula 1 spinta da un motore Ford e adattata alle esigenze delle gare USAC.
Sulla strada di Clark ci sono però diversi piloti competitivi, AJ Foyt in primis. “Super Tex”, vincitore di 4 campionati USAC negli ultimi 5 anni e di due edizioni della 500 Miglia di Indianapolis, vuole battere la stella della Formula 1e dimostrare a tutti che il numero 1 in America è sempre lui! Foyt tra l’altro è equipaggiato da un telaio Lotus.
Nelle prove Foyt e Clark si danno battaglia a suon di giri veloci, ma le loro schermaglie vengono interrotte brevemente da un preoccupante cedimento tecnico sulla vettura del primo, che costringe i direttori di corsa ad estromettere dall’azione in pista la Lotus per mancanza delle condizioni di sicurezza. Dopo qualche giorno di lavoro, sono stati apportati dei correttivi sulle vetture di Chapman, che hanno potuto riprendere a girare.
La qualifica è tiratissima, e a spuntarla è Foyt, che realizza quattro giri a una velocità record di 161.233 miglia orarie (259,479 km/h, ndr). Clark è secondo, davanti a Gurney, vecchia conoscenza di casa Lotus, il giovane talento Mario Andretti e Parnelli Jones, vincitore della 500 Miglia di Indianapolis nel 1963.
Alla partenza della gara Clark e Foyt si contendono la prima posizione, con lo scozzese che salta subito in testa, venendo superato dal texano al secondo giro. Il pilota della Lotus si riprende la leadership al terzo giro, e mantiene saldamente la testa fino al giro 65, nel quale effettua il suo primo pit stop. Per regolamento, viene imposto a tutte le squadre di effettuare almeno due pit stop in gara, ed è proprio questo uno degli elementi decisivi per Clark. Colin Chapman non ha lasciato nulla al caso, e per la 500 Miglia di Indianapolis ha ingaggiato i fratelli Wood, famosi per le loro soste veloci nelle gare delle Stock Car. Sebbene le vetture USAC di Indianapolis siano totalmente diverse dalle berline, i fratelli Wood si dimostrano rapidissimi nelle fasi di pit stop, e impiegano la metà del tempo dei loro rivali.
Foyt, che è rimasto in pista qualche giro più di Clark, perde molto terreno durante la sua prima sosta ai box, e si mette a girare al limite per cercare di riacciuffare il campione di F1 1963. Al giro 115 il cambio della macchina di Foyt si rompe, e Clark non ha più avversari fra sé e la vittoria. Jim Clark vola e conquista una storica vittoria alla 500 Miglia di Indianapolis, imponendosi su Parnelli Jones, Mario Andretti e Al Miller, gli unici a non essere doppiati dal vincitore. L’unico brivido di giornata lo regala Bud Tingelstad, finito a muro in curva 3.
Grazie alla sua incredibile gara, con 190 giri da leader sui 200 totali, Clark porta per la prima volta al successo la Lotus nella corsa americana più importante, e per la prima volta sul catino vince una vettura col motore montato nella parte posteriore.
Non solo: qualche mese dopo Clark conquista il suo secondo titolo in Formula 1, ed entrerà nella storia come il primo e unico pilota capace di vincere nello stesso anno la 500 Miglia di Indianapolis e il mondiale di Formula 1.
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Colin Chapman e la sua creatura - Lotus 49 - & Jim Calrk - Dutch Grand prix 1967
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Monza Grand Prix - 1967
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Jim Clark - box lotus - Monza 1967
Nella carriera dello scozzese Jim Clark brilla una perla più di ogni altra. Per Gilles Villeneuve è stato il Gran Premio di Digione del 1979, per Ayrton Senna quello di Monaco del 1984. Per Jim Clark è senza dubbio Monza 1967. La caratteristica comune a queste tre autentiche leggende del MotorSport, è quella di non aver vinto la gara che più di ogni altra li ha visti protagonisti. Il canadese della Ferrari si arrese a Jabouille e alla sua Renault Turbo e Ayrton ad Alain Prost, con la partecipazione speciale della direzione di gara monegasca. Jim Clark a Monza, nel 1967, arrivò ad un tanto così dal compiere la più grandiosa rimonta della storia delle corse. Giunse terzo, certo. Non alzò la coppa del vincitore, ovviamente. Ma in quel giro d’onore, il pubblico di Monza gli omaggiò un tributo di applausi degno della più grande vittoria che un pilota possa ottenere in pista
Nel mezzo degli anni 60 in F1 c’è una vettura dipinta di verde molto british e disegnata da quel genio di Colin Chapman che ha l’abitudine di lanciare il cappello in aria dopo ogni vittoria. Per sua fortuna, è costretto a raccogliere tantissime volte quel cappello da terra, mentre Enzo Ferrari osserva da bordo pista, con lo sguardo infuriato nascosto dagli inseparabili occhiali scuri. Le sue vetture, le fantastiche Lotus, sono dannatamente belle. Leggere, filanti. Ogni elemento è alleggerito al massimo, limato, tornito, rimpicciolito. Tanti accusano Colin di esagerare. Lo accusano di mettere in pista vetture pericolose. Come se poi ci volesse Chapman a rendere pericolosa una lamina di acciaio sottile, spinta da 400 cv su quattro gomme che oggi non monterebbero neanche ad un passeggino.
Il legame tra Chapman e Jim Clark è fortissimo. Lo scozzese forma assieme a Graham Hill una coppia formidabile in pista. Le auto si rompono spesso, perché quando si gioca con gli spessori è normale che ci sia una certa tendenza al cedimento strutturale. Ma sono velocissime e se fai il pilota di F1 negli anni 60, ti basta questo. Quando il circus della F1 arriva a Monza nel settembre del 1967, Jim Clark ha già vinto due titoli di campione del mondo nel 63 e nel 65. La stagione non sta andando benissimo e Jim Clark ha raccolto solo due vittorie ed un sesto posto nelle gare in cui è arrivato al traguardo. In tutte le altre nisba. La dura legge di Chapman colpisce duro come nel 66, quando restò a piedi ben sei volte su nove con il n°1 sul musetto.
Durante le qualifiche i piloti riescono a mettere assieme pochi giri puliti, prima che un temporale colpisca il tracciato brianzolo. La configurazione di Monza è quella originale. Chicane neanche a parlarne. Le curve di Lesmo sono da infarto e la Parabolica è degna dei peggiori banking americani. Aggiungete aerodinamica zero, telai quanto meno discutibili e gomme che non rinfrescano neanche l’alito ed avrete il quadro piuttosto concreto per comprendere al massimo il rispetto dovuto al tracciato dai piloti dell’epoca. L’appellativo “Tempio della velocità” non cadde a caso su quel magnifico assieme di rettilinei e finte curve. Correre con il bagnato a Monza, equivale a tentare la roulette russa con cinque colpi su sei nel tamburo. Dopo aver già sparato il primo colpo.
Sul bagnato non gira praticamente nessuno, tranne Surtees che porta in gara la nuova Honda RA300, la vettura voluta da Mr. Soichiro per dimostrare che in Giappone fanno sul serio quando si parla di racing. Nei pochi giri fatti sull’asfalto asciutto, Jim Clark ha demolito il record della pista che apparteneva alla Ferrari. Il commendatore Ferrari, non la prende benissimo. La Pole resta allo scozzese, solo che lo start della gara si può condensare in tre parole pregne di significato: un autentico casino!
La Direzione Gara va in bambola totale e il via viene dato 30 secondi prima del dovuto. Alcune vetture si lanciano prima della bandiera e anche lo stesso Jim Clark viene tamponato da Amon partito meglio alle sue spalle. Il serpentone di vettura inizia a lasciare il rettilineo del traguardo, tra le urla lancinanti di motori a 6,8,12 e 16 cilindri. Alla faccia della F1 di oggi, in cui neanche Mozart bendato riuscirebbe a distinguere una Ferrari da una Mercedes.
In testa scatta Sir Jack Brabham, che ha già qualche annetto sulle spalle ma resta un mastino incredibile quando si va in gara. Alle sue spalle Dan Gurney sulla sua Eagle e la coppia Lotus di Hill e Clark, che riesce ad arginare la pessima partenza e spinge forte. Che Jim e la sua Lotus 49 siano in giornata lo si capisce subito, perché dopo tre giri lo scozzese ha già sverniciato il compagno di team e Brabham, che nel frattempo ha ceduto il passo allo yankee Gurney.
Anche per l’americano la sagoma verde della Lotus di Clark prende forma molto velocemente negli specchietti e all’ingresso della Parabolica lo passa in staccata, prendendosi la prima posizione di forza. Da quel momento in poi, Jim Clark detta legge imponendo il proprio ritmo che risulta inavvicinabile per tutti i rivali. Messo qualche secondo di vantaggio tra sé e gli avversari, Clark si limita a gestire il margine conquistato. Ma la legge di Chapman lo attende e inizia a perdere colpi in pista. All’inizio non sembra capire cosa lo stia rallentando, tanto da non accennare a chiudere il gas in rettilineo nonostante la Lotus 49 proceda sinuosa come un serpente posseduto. Iniziano a passarlo tutti e quel gran signore di Jack Brabham lo affianca per segnalargli che ha una gomma posteriore che si sta afflosciando. Per poco non esce di pista nel tentativo di avvertire il pilota della Lotus. Ve l’immaginate oggi Hamilton che affianca Alonso per avvisarlo che sta perdendo l’ala posteriore? Altri tempi, altri piloti e soprattutto altri uomini.
Jim Clark finalmente molla la presa e rientra ai box, mentre in testa alla gara Hill, Hulme e Brabham prendono il largo. Il pit stop non è esattamente da record e Jim riprende la pista con più di un giro di svantaggio dagli illustri colleghi in testa alla gara. Tantissimi altri piloti in una situazione analoga avrebbero probabilmente deposto le armi, cercando semplicemente di portare la vettura al traguardo. Non è il caso di considerare Jim Clark tra questi, visto che al rientro in pista lo scozzese prende un bel respiro e dopo si cala nella più clamorosa rincorsa della storia delle corse. Quando la sua Lotus 49 rientra in gara si trova in ultima posizione e Jim impiega solo otto giri per riportarla in undicesima posizione, a ridosso della top ten e soprattutto a portata di tiro per sdoppiarsi dai primi della gara.
Passa i battistrada con la semplicità con cui uno squalo bianco azzanna una biondina in un film horror. Spielberg non ha ancora girato The Jaws, ma il motivetto del film è incredibilmente appropriato per descrivere la circostanza. Al giro n°33 Jim Clark raggiunge il compagno di team Baghetti che si trova in settima piazza, mentre davanti si ferma Hulme. La classifica vede Brabham condurre su Surtees e Chris Amon con la Ferrari. Alle loro spalle Hill, Clark e Baghetti che formano un trenino tutto Lotus alla caccia del podio.
Il primo del terzetto di Chapman a mollare è proprio Baghetti, che vede il proprio Cosworth rendere l’anima al Dio dei motori, facendo venire più di un mal di testa ai tecnici Lotus. Monza è un tracciato durissimo per i motori e Jim Clark sta spingendo come un matto da inizio gara. Non sbaglia una cambiata e accarezza le traiettorie senza mai guidare di forza. Ma le buone maniere al volante e il talento immenso dello scozzese non sono una garanzia per l’affidabilità della macchina.
In effetti anche un’altra Lotus saluta la compagnia, ma è quella di Hill. Il suo V8 si ammutolisce proprio quando iniziano i problemi anche per la Ferrari di Amon. A questo punto Clark si trova terzo, e sta per coronare la rimonta ricongiungendosi con Brabham e Surtees, che sta facendo un’impresa sulla Honda assemblata pochi giorni prima della gara. Mentre la folla è letteralmente in delirio, lo scozzese della Lotus passa entrambi gli avversari nello stesso giro, uno alla Parabolica e l’altro alla Curva Grande, la prima dopo il rettilineo dei box.
A questo punto sembra davvero fatta, visto il ritmo insostenibile che Clark è riuscito a tenere per tutta la gara. Ma la tanto temuta legge di Chapman bussa alla porta proprio quando inizia l’ultimo giro. La Lotus inizia a perdere terreno, singhiozzando in rettilineo. Sembra che il carburante sia agli sgoccioli e a Jim Clark non resta che pelare il gas, sperando che il Cosworth vada ad aria per mezzo giro. L’attenzione si sposta per qualche secondo su Surtees e Brabham, con il pilota Honda regala una fantastica gioia a Mr Soichiro Honda. Ma il pubblico è tutto per Clark e per la sua singhiozzante Lotus che lo porta al traguardo prima di piantarlo in asso.
La pagina di storia è scritta, anche se la rimonta non è stata coronata da una vittoria. Cambia poco, perché tutti ricorderanno Monza 1967 per il terzo posto di Jim Clark e in pochi ricorderanno che Surtees ha vinto la gara con la Honda di un matto giapponese che venne in Italia ad insegnare al grande Maestro come si costruisce una F1. Per la cronaca, la benzina c’era ancora nel serbatoio di Clark, ma il Cosworth iniziò ad avere problemi di pescaggio. Se ne accorsero i tecnici subito dopo la gara. La legge di Chapman aveva colpito ancora, ma questo non gli impedì di lanciare il cappellino in aria e farlo ricadere sull’asfalto sporco. Era “solo” un terzo posto, ma ne valeva incredibilmente la pena.
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Nina Rindt timing Laps - 1965
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Jochen Rindt & Colin Chapman - Lotus box - Spain Grand Prix 1970
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Ogni foto, un sospiro. Allora come ora. Sospiri femminili ovviamente, visti i tratti, gli occhi blu tra i riccioli neri. Bello, ecco, come un eroe “nel fiore degli anni”. Di anni, oggi ne avrebbe 73, data di nascita: 25 febbraio 1944. Parigi, Francia, giusto per completare un ritratto all’apparenza fortunatissimo. François Cevert, il nome. Figlio di un ricco gioielliere russo, Charles Goldenberg, ebreo, fuggito nella capitale francese per cercare di sopravvivere alla persecuzione antisemita e poi costretto dall’occupazione nazista a utilizzare per il figli il cognome della moglie, Cevert, appunto.
La storia di questo ragazzo è smaltata, brillantissima, sino al penultimo capitolo. Cevert – in gara, come avrebbe fatto Ayrton Senna, con il cognome della madre – non è soltanto un bellissimo ragazzo. Va forte. Aiutato da una serie di coincidenze fortunate. Il fidanzato della sorella Jacqueline si chiama Jean Pierre Beltoise, pilota celebre e celebrato in Francia, pronto ad aiutarlo nei primi chilometri. Un percorso che François completa mostrando intelligenza e talento. Abbastanza da portarlo alle soglie della Formula 1 e quindi nei Gran Premi, su una March gestita da Ken Tyrrell, grazie a una doppia circostanza curiosa. Johnny Servoz Gavin, pilota del team inglese, decide improvvisamente di smetterla con le corse, e in aggiunta Jackye Stewart, primo pilota Tyrrell e campione del mondo 1969, lo nota e lo vuole al suo fianco. Esordio: 21 maggio 1970, Gran Premio d’Olanda.
Cevert diventa rapidamente una specie di figlio per Stewart. Al fianco del grande scozzese cresce, migliora. E vince. Gran Premio degli Stati Uniti 1971. Watkins Glen, la sua pista. Per la Francia è un eroe fresco e perfetto. Non solo velocità. François suona il piano, pilota personalmente il proprio aereo, con largo anticipo su una moda che diverrà ricorrente, conquista traguardi e cuori, compreso – si dice, si dirà - quello di Brigitte Bardot. Stewart vince di nuovo il titolo, proprio nel 1971. I due viaggiano in una rara sintonia dentro un’epoca farcita di tragedie.
Il 1973 sembra un anno chiave. Il maestro di Cevert punta al terzo mondiale e pensa di smettere per lasciare campo libero a quell’allievo ormai perfetto. Alto, magro, con le dita delle mani lunghe e sottili, un sorriso dolce da padrone. Del destino, del panorama. Consapevole di essere guardato, ammirato, amato, invidiatissimo. Cammina per i box a Monza e sembra un principe arabo, gli occhiali da sole sopra quello sguardo naturalmente formidabile. Occhiali da togliere all’improvviso, come un sipario spalancato su una consapevolezza collettiva.
Ottobre '73, Cevert arriva a Watkins Glen con una caviglia ferita dopo un cattivo incidente in Canada, con la voglia di prendersi la pole sull’asfalto che più ama. Ci prova, ci riprova, in lotta con Ronnie Peterson, velocissimo svedese della Lotus. Per cercare di abbassare il proprio tempo, decide di affrontare la esse, a inizio pista, scalando in terza marcia. Secondo Stewart è questa la decisione che determina l’incidente. Un incidente devastante. La corsa felice di Cevert finisce qui, il corpo e il collo sfigurati dal guard rail, il casco sfondato da una ruota. C’è chi parla di un malore, il casco contiene vomito, tracce di vomito vengono rilevate sulla tuta. Che importa?
François resta lì, intrappolato, quasi decapitato, senza vita tra i rottami della Tyrrell. Morto a 29 anni nel momento in cui si apprestava a diventare prima guida. Jackye Stewart rinuncia alla corsa, alle corse. Si ferma, con il suo terzo Mondiale appena conquistato.
Il viso bellissimo di Cevert resta una icona struggente da osservare, ormai e soltanto, nelle fotografie.
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Monza grand prix
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Got no reason For coming to me And the rain running down There's no reason And the same voice Coming to me like it's all Slowin' down And believe me I was the one who let you know I was sorry ever after '74 '75 It's not easy Nothing to say 'Cause it's already said It's never easy When I look on your eyes Then I find that I'll do fine When I look on your eyes Then I'll do better I was the one who let you know I was sorry ever after '74 '75 Giving me more and I'll defy 'Cause you're really only after '74 '75 I was the one who let you know I was sorry ever after '74 '75 Giving me more and I'll defy 'Cause you're really only after '74 ' https://www.youtube.com/watch?v=l-ITv4OBV9c
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