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Shortelling;
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L'arte di raccontare storie incompiute.
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lebowskimike-blog · 7 years ago
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Hel (II)
L’atmosfera nel saloon era satura dall’acre odore di whiskey e dall’opprimente olezzo di baciodidonna. Qualcuno di quei gentiluomini aveva evidentemente avuto la brillante idea di lanciarlo in uno dei tizzoni all’ingresso dell’Auld Lang Syne. Archard Benoit ne osservava la lenta combustione. Bruciando, la resina contenuta nel verde ramoscello lanciava piccole scintille cerulee nella fiamma che manifestava la propria approvazione crepitando vivacemente. Sorseggiava la sua birra in disparte. Sufficientemente lontano dagli schiamazzi e le grasse risate che di tanto in tanto esplodevano nella sala. Erano state già due le avvenenti ragazze che, nel corso della serata, avevano offerto i loro servizi. La terza, evidentemente affascinata dall’uomo, aveva persino avanzato uno sconto piuttosto importante. Superò il tavolo a testa bassa e con le braccia lunghe sui fianchi quando sentì declinare l’offerta. La ragazza non era certo da biasimare. Con tutta probabilità anche le precedenti colleghe erano state spinte a muovere un’avance dall’aspetto intrigante di quell’uomo solitario. 
L’unico individuo in tutta la sala a mantenere sul capo un cappello da cowboy a tesa larga, lunghi capelli castani che arrivavano alle spalle, e due occhi cinerei che brillavano sotto l’ombra del copricapo. Tolti quei punti salienti, non avrebbe avuto nulla di eccezionale rispetto agli altri commensali. Come tutti gli altri vestiva infatti un poncho largo, blu jeans scoloriti dall’incessante sole meridionale ed un paio di stivali in cuoio dal tacco consunto. Ma quegli occhi… Marybeth Lowe percepiva in quegli occhi il freddo ed attraente bacio della morte. Era sicura che sotto quel serape non si celassero comuni pistole, ma la falce della Santa Muerte in persona. I suoi erano gli occhi di un predatore, ed un lupo non siede mai con le pecore. Lui sedeva in silenzio. Osservava il fondo del suo boccale di birra come una vecchia indovina legge il futuro nelle foglie di tè. Percepiva di sentirsi osservata dall’uomo misterioso sebbene sedesse a diversi tavoli da lei e gli desse le spalle. Come se madre natura gli avesse fornito un paio di occhi aggiuntivi sulla nuca. L’uomo al piano aveva abbozzato un principio di “Sing Lil’ Joe”, e sebbene non fosse particolarmente convinto nell’esecuzione, dall’area limitrofa al bancone si alzò un coro di voci lagnanti e impastate dall’alcol, un coro di cani randagi in preda a guaiti isterici. La verità era che sotto quel poncho, Archard Benoit non celava né la falce dell’Oscura Signora, né tantomeno comuni ‘pistole’. Una Colt non poteva essere definita una comune revolver, figuriamoci una pistola. Quando nello specifico era una Single Action Army in versione artillery. L’aveva rinominata ‘Hel’, in onore della gigantessa regina degli Inferi. La portava sul fianco sinistro, nella fondina in cuoio consunta quanto i suoi stivali. Quasi se ne scorse il luccichio quando si alzò dal suo tavolo, pronto per lasciare quel locale squallido dimenticato da Dio. Incrociò i grandi occhi della ragazza di prima, probabilmente non aveva smesso di fissarlo sin dal loro limitato scambio di parole e altrettanto avrebbe continuato ad osservare i battenti della porta alla sua uscita. Quegli occhi grandi e castani, quel piccolo naso scolpito all’insù dallo stesso artista che le aveva donato due labbra socchiuse e carnose la rendevano davvero graziosa. Naso numèro, lo chiamavano oltre i confini della sua città natale benché non ne avesse mai colto il motivo. In tutta Numa non vi erano ragazze con un naso di tale forma, ma sapeva come funzionassero i detti popolari così finì per utilizzarlo anche lui.
I battenti del locale si spalancarono con forza. Archard ne sentì stridere i cardini arrugginiti nonostante il chiasso proveniente dalle sue spalle. Rufus, il pianista, stava compiendo il terzo ritornello di ‘Sweet tiny love’ accompagnato da una dozzina di disperati. La comitiva canora si interruppe bruscamente alla vista dei cinque nuovi arrivati. Solo dalla cordiera proveniva un lieve tremolio residuo da tanta baldoria. Benché si trovasse a circa sei passi dall’uscio, gli uomini si guardarono ugualmente in torno scorrendo tra le facce sbigottite dei clienti alla ricerca dell’interessato. Parvero ingenuamente sorpresi quando si trovarono il cacciatore davanti, sin dal principio. Più precisamente tre dei cinque. Todd e Rodd sembravano più interessati a rovistare con il proprio indice dentro le rispettive narici. La prima falange scompariva all’interno del setto nasale. Non sembravano particolarmente svegli ed Archard era sicuro che non fosse stato per la stazza decisamente importante sarebbero finiti a fare gli sguatteri presso qualche taverna, magari proprio quella. Facevano decisamente scena e parevano persino minacciosi occupando singolarmente lo spazio vitale di due uomini.
«Con questa fanno tre lune, cacciatore!» parlò l’uomo in centro al quintetto. La sua corporatura era tozza e appariva ancora più sferica se paragonata ai due omoni parcheggiati al suo fianco. «Ne hanno trovato un altro mentre stai qui a bere e importunare le nostre donne!» dalla sala si levarono mormorii di consenso. Ad ogni parola i folti baffi dell’uomo panzuto parevano gonfiarsi e smorzavano di molto l’effetto vessatorio sebbene le sue parole risuonassero per tutta la stanza e gli conferissero una certa autorevolezza.
«Mi rammarico pensi questo del mio operato, Sceriffo.» Chinò la testa in segno di riverenza, sapeva quanto l’uomo dalla pancia prominente amasse questo genere di ossequi, proseguì con il discorso quando sentì di aver centrato il cuore del suo interlocutore. «Come può immaginare, questo genere di demoni sono scaltri e incredibilmente mortali. Rivolgo le mie più sincere condoglianze alla famiglia di questa nuova innocente vittima, se ne aveva una.»
«Non l’aveva.» Lo corresse immediatamente lo Sceriffo Donald Parkins. Tornò a scorrere con gli occhi i volti degli spettatori di quella conversazione con un’espressione intorbidita dalla reminiscenza di una ferita profonda. «Come nessuno di noi.»
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lebowskimike-blog · 7 years ago
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Barche e tempeste. (I)
La vecchia luna era alta nel cielo e sembrava schernire i viandanti di quella terra scarna e desolata. Nello scuro manto notturno osservava con l’unico occhio visibile in quella porzione di volto illuminata. Un sorriso malvagio impresso sulla superficie butterata e cinerea. È l’ora della caccia e voi siete le prede. Un orecchio particolarmente fino avrebbe persino potuto udirne la rauca risata.
Non degnò la luna con più di qualche blanda occhiata. La testa era china al terreno, nei punti dove la terra era più secca si aprivano piccole voragini come quelle di un rift in miniatura. Nella lieve ma costante brezza notturna la polvere sollevata dagli stivali andava a sferzargli i calzoni. Che giornata maledetta, continuava a pensare. Questa è l’ultima volta che McGill me la fa sotto il naso. «Stavolta gliela faccio vedere io, aye» rivolse la promessa a sé stesso e alla vecchia luna, nel caso avesse voluto essergli testimone.
In tutta Drillpoint non vi era luogo migliore per corroborare lo spirito che non fosse l’Auld Lang Syne. Offrivano coraggio liquido per i disperati, amore in gonnella per i più solitari. Persino un tetto sulla testa in cambio di qualche moneta a chi fosse stato entrambe le cose. Questa sera Aunt Donovan, ‘il vecchio’ lo chiamano in città, si sentiva solo disperato. Ma confidava nella benedizione di Jack, e nell’assoluzione di Daniel’s, aye. Rise sommessamente, e quello fu l’ultimo suono che emise volontariamente in quella notte di caccia.
La fiera lo seguiva in silenzio. Ogni zampa si posava nel terreno nel punto di quella precedente. Ne fiutava il pungente odore di sudore, percepiva i suoi borbottii e i suoi passi pesanti e lenti. Dalle fauci colavano rivoli di saliva densi, sembravano sgorgare direttamente da quelle zanne robuste ed affilate. Se la preda si fosse voltata, avrebbe potuto scorgere in quel mare nero ed impenetrabile solo due occhi famelici lucenti come due lampade ad olio ed una fila di denti candidi più di qualsiasi luna che avesse mai visto. Non avrebbe potuto scorgerne il grosso muso nel quale tali occhi erano incastonati, o l’immensa mole pronta a digerirlo per mezzo di quelle stalattiti e stalagmiti, ciascuna lunga almeno quanto il suo avambraccio. Forse fu meglio così.
Forse fu meglio che il terrore sopraggiunse solo quando un boato gli scoppiò nell’orecchio sinistro. Un’esplosione? Un colpo di pistola? Molto più probabilmente un colpo di cannone. Ma chi aveva avuto la malsana idea di colpirlo con una palla di cannone? Quando fece per voltarsi si sentì strattonare come un bambolotto di pezza. Percepiva il mondo dondolare come un’esile barchetta in balia della tempesta del secolo. Sentì i flutti lambirgli il volto. Le narici si saturavano dell’aria salmastra. Ma quelli non erano flutti, erano saliva e getti di sangue provenienti dalle sue arterie recise. E l’aria salmastra ora puzzava di ferro. La lieve brezza notturna era calata, l’aria era immobile, il cicalio scomparso ed il mondo stesso pareva essersi fermato.
Sentiva il sapore del suo stesso sangue invadergli la gola. Le fragili assi della sua barchetta si spezzavano come ramoscelli ad ogni colpo inferto da quel destino beffardo che lo aveva spinto nel posto sbagliato al momento sbagliato. La cassa toracica gli implose in uno scricchiolio sommesso. Sto annegando, pensò. Non riusciva a respirare, ogni tentativo gli moriva in quella che qualche minuto prima era stata la sua gola. La spina dorsale scattando sotto le fauci della bestia emise un suono più definito, come quello di quando si arma il cane di una pistola. Con quell’ultimo orribile rumore, le braccia e le gambe del vecchio smisero di annaspare. Al tatto percepiva la morbidezza del manto del suo assalitore, una bestia lupoide alta all’incirca due metri. Dopo quello più nulla. Gli occhi vitrei erano ora rivolti alla luna, la vecchia luna. Vecchia come lui, ma perlomeno lei avrebbe vissuto un altro giorno.
Il cadavere di Aunt Donovan era ormai irriconoscibile, dilaniato da decine di coltelli che ne martoriavano le carni. I lembi di pelle del viso si piegavano su sé stessi, facendo spiccare il bianco del cranio. Il sangue colava a fiotti sul terreno arido, si insinuava tra quei canyon in miniatura di fango e terra. Sotto una luna beffarda, una fiera lupoide divorava il suo banchetto comodamente avvolta nel suo manto di oscurità. È l’ora della caccia e voi siete le prede.
Un altro predatore era nei paraggi quella notte, un cacciatore più famelico di quella bestia e infinitamente più astuto. Semplicemente non era la sua sera, apparteneva alla sua avversaria e lei ne aveva sapientemente colto l’opportunità. Era un gioco a scacchi tra due predatori simili, ma differenti. Ogni mossa aveva il suo prezzo. La luna successiva sarebbe stata il turno di quell’altra macchina da morte e sarebbe stata la bestia questa volta a fuggire, rannicchiarsi nell’ombra e scongiurare di non essere stanata.
Perché se è vero che persino gli incubi ne posseggono di propri a loro volta, quello della bestia si muoveva su due gambe e uccideva con rombi possenti tanto quanto i suoi ruggiti.
Terminò la cena lambita dai freddi raggi lunari e si voltò incamminandosi da dove era venuta, andandosene per come era giunta, in silenzio.
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