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Gregorio Nardi a Budapest, 11-13 maggio 2017
11 maggio, ore 18.00 Intervento (musicale) all'inaugurazione della mostra "Liszt e l'Italia", Museo Commemorativo Liszt Ferenc http://www.iicbudapest.esteri.it/…/mostra-liszt-e-l-italia.…
12 maggio, ore 19.00 Concerto all'Istituto Italiano di Cultura http://www.iicbudapest.esteri.it/…/concerto-gregorio-nardi-…
13 maggio, ore 11.00 Concerto al Museo Commemorativo Liszt Ferenc - Vecchia Accademia della Musica http://www.iicbudapest.esteri.it/…/concerto-gregorio-nardi-… http://www.lisztmuseum.hu/en/events/299/
foto di Vincenzo Moneta
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Sabato 13 maggio 2017, ore 11.00
Alla Vecchia Accademia della Musica, Budapest - Sala da Camera Liszt Ferenc. Terrò un concerto con il programma - collegato alla mostra Liszt e l’Italia presso il Museo Commemorativo Liszt Ferenc - che prevede musiche di Franz Liszt, Giuseppe Buonamici, Ferdinando Casamorata, Vincenzo Bellini, Franz Schubert, Hans von Bülow, Fryderyc Chopin.
Informazioni sull’acquisto biglietti (HUF 1500 / 750) : www.lisztmuseum.hu Organizzato dal Museo Commemorativo Liszt Ferenc in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura
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Martedì 04 aprile, sono stato a Roma. Nell'atrio del Conservatorio di Santa Cecilia veniva inaugurato un nuovo busto di Liszt, in sostituzione del vecchio che il tempo (degli orologi) e il tempo (metereologico) avevano rovinato. Si trattava di un regalo degli amici ungheresi che mi avevano invitato, rappresentati tra gli altri da Szuszanna Domokos, direttrice della Casa Museo Liszt a Budapest, Istvan Puskas, nuovo direttore dell'Accademia d'Ungheria, Janos Herzog e ancora altri. E poi c'erano Domenico Carboni, Maurizio D'Alessandro, Antonio Rostagno, Claudio Bonechi e tanti altri amici musicologi, e il direttore Roberto Giuliani. C'era anche Markus Engelhardt, direttore della sezione Storia della Musica dell'Istituto Germanico (insomma, vorrei poterli elencare tutti). Una magnifica, semplice festa. Glielo dovevamo tutti al vecchio Liszt, in qualche modo siamo tutti nipotini suoi - anche perché è stato l'unico dei grandi che teneva a noi, sinceramente con tutto il cuore.
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Nel 2012 sono andato per la prima volta in Colombia con due programmi magnifici ma - per chi mi conosce - anche un po' sorprendenti. Gli amici sanno, infatti, che non sono un fanatico estimatore della musica classica sudamericana. Magari la ascolto volentieri, ma difficilmente mi viene in mente di eseguirla. Eppure a Medellin suonai un programma solistico con una prima assoluta di Carlos Posada-Amador, brani di Luis Antonio Escobar, Lucas Estrada, Antonio Maria Valencia - e qualche capolavoro di un compositore che amo sempre di più, Guillermo Uribe Holguín. C'era anche musica (bellissima) di Luis Carlos Figueroa, che visitai nei giorni seguenti, e adesso ha novantaquattro anni. Un altro programma era con orchestra: il monumentale Concerto di Jesus Bermudez Silva (era la seconda volta che veniva eseguito) e l'agile Concerto di Adolfo Meja, composto a Parigi all'inizio degli anni Quaranta: quella sera ne ero il primo interprete.
Dovevo la conoscenza di questa musica magnifica a un amico carissimo che ci aveva da poco lasciati: Rodrigo Valencia. Rodrigo era un musicologo appassionato, ottimo direttore di coro e clavicembalista, bravo pianista, organista davvero unico per genio creativo, con una fisicità inimmaginabile. Lo ricordo eseguire, incomparabile, brani di Ives su un organo fiorentino: un esperienza che scuoteva.
Era anche un insegnante affascinante. Anche a me, con infinita cortesia, seppe ispirare conoscenza ed entusiasmo per questa musica splendida che in principio guardavo con diffidenza. Lo vedevo da lontano nel mio quartiere che ero ancora un bambino. Scoprii negli anni seguenti le sue grandi qualità. Ci incontravamo ancora per strada, lui in bicicletta, e facevamo progetti - l'ultimo, irrealizzato, sarebbe stato una specie di sfida: Rodrigo a suonare Bach all'organo, io al pianoforte con gli stessi brani trascritti da Liszt. Era una persona stupenda, che manca terribilmente a tutti quelli che l'hanno conosciuto.
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16/04/2017
E' FINITO L'OTTOCENTO? "Persone estranee, incontrate per caso in tram o nei negozi mi facevano spesso una carezza sulla testa che aveva capelli castani a boccoli, ma più spesso lodavano i miei occhi: Hai visto che occhi grandi ha quella bambina! Io li spalancavo ancora di più, fissa e attenta. E sono gli occhi di allora, tenuti aperti sul mondo intorno, per vedere, capire, imparare, che ancora mi servono, ora che gli occhi di oggi son brutti e deboli. E attraverso gli occhioni di allora sfila come una pellicola di avvenimenti, persone e cose. Avvenimenti e persone talune note, altri vivi solamente per quel tempo che ancora vivrà la mia persona e la mia memoria; che quando questa sarà spenta morranno, questi morti, una seconda volta e per sempre, perché sono io a tenerli ancora in vita nel ricordo". Quando trovai nel nostro archivio queste righe - l'inizio di un lungo testo inedito di mia nonna Lelia Cartei Bargellini - mi sorpresi riconoscendovi una sensazione che conoscevo bene dalla frequentazione di persone assai di me più anziane: la loro memoria teneva in vita il passato. Mio nonno Rio Nardi morì nel 1984, e forse nessun altro più ricordava la voce di Giosuè Carducci che lo aveva tenuto sulle ginocchia da bambino. Mio padre Roberto è morto nello scorso luglio, era l'ultima persona credo che ricordasse la figura viva di Gabriele D'Annunzio, io stesso ingenuamente lo sentivo vivo fino ad allora. Gli aveva chiesto di salire sul suo aeroplano, ma il poeta gentilissimo aveva dovuto negarglielo, riempiendolo in compenso di doni magnifici che ancora conserviamo. Sabato scorso 15 aprile è morta Emma Morano, l'ultima persona vivente che fosse nata ancora nell'Ottocento - il 29 novembre 1899. L'aveva vissuto per pochi giorni, trentatré. Tanto bastava per recarcene la testimonianza. Pensateci: era nata nell'anno in cui Debussy aveva terminato i Nocturnes per orchestra, Mahler aveva iniziato i Rückert-Lieder e Charles Ives la sua prima sinfonia; nell'anno della Pavane pour une infante defunte di Ravel e della Verklärte Nacht di Schönberg, dello Tsar Saltan di Rimkij-Korsakoff e della Cenerentola di Massenet. La vita della signora Morano misurava la lunghezza della storia, ci faceva sentire come contemporanei - perché lo erano per lei - avvenimenti di cento anni fa, quando Emma aveva diciassette anni. Fino a sabato scorso persino l'Ottocento poteva dirsi nostro contemporaneo - ora, temo, non più. Tra cento anni un bambino si ricorderà di noi, così come siamo oggi: prestiamoci attenzione.
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Nell'ultimo numero (il 16) dei Quaderni dell'Istituto Liszt - che dallo scorso anno sono pubblicati da LIM e non più da Rugginenti - trovo una bellissima recensione al primo volume del mio libro "Con Liszt a Firenze - Il soggiorno di Franz Liszt e Marie d'Agoult negli anni 1838-1839". Porta la firma di Annarosa Vannoni, bibliotecaria del Conservatorio di Bologna, è fin troppo generosa, comunque precisissima nel riconoscere i vari intenti della mia ricerca. Un grazie sincero. Ricordo a chi non lo avesse saputo che questa mia fatica (alla quale prima o poi si affiancherà il secondo volume, dedicato ai passaggi fiorentini nella seconda metà del secolo) è pubblicato da Logisma, e nel dicembre 2015 ha ricevuto il Fiorino d'Argento per la saggistica. Nello stesso numero della rivista, tra molti altri, c'è uno splendido articolo di Bianca Maria Antolini su alcuni inediti di Giovanni Sgambati acquisiti dall'Istituto. La cosa è per me assai importante: una lettera è inviata al conte Pio Resse che ospitò Liszt a Firenze nel gennaio 1886, un'altra a Sofia Buonamici, figlia di Giuseppe Buonamici che fu primo insegnante di mio nonno Rio Nardi. Bianca Maria non manca di segnalare che le informazioni su Resse e su Sofia provengono da me: la ringrazio di cuore. Un'altra lettera è inviata a Ernesto Consolo, l'ultimo insegnante di mio nonno, che gli successe alla classe fiorentina di pianoforte. Consolo era allievo di Sgambati: molte delle sue partiture sono nella mia collezione, difatti anche coi segni di Sgambati. La ricostruzione di Bianca Maria è concisa e impeccabile - e mi ha fatto molto piacere che ricordasse per primo mio nonno tra i suoi allievi. http://www.lim.it/nuovosito/scheda.php?id=849&ritorno=collana.php&ritorno2=&id_ritorno=
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Ancora un accenno al libro di Borciani, che lessi un quarto di secolo fa e di nuovo scorro in questi giorni. Vi ritrovo un consiglio che non apprezzai da ragazzo, ma che capisco assai meglio adesso. "Non si eseguano troppo [...] i passaggi più belli musicalmente; ma si cerchi di smembrarli nei vari elementi, per non provocare una stanchezza che potrebbe poi togliere freschezza all'esecuzione". E' comunque un punto di vista controverso: sembra voler favorire maggiore spontaneità; alla fin fine però in pubblico si fa quel che abbiamo studiato, e la spontaneità è un arduo punto di arrivo, non di partenza. La si dovrebbe praticare ogni giorno a casa. Un compromesso necessario: analizzare mentalmente ogni pur minimo elemento della frase proprio mentre ci si abbandona alla sua esecuzione; riconoscere, cioè, il controllo della libertà e il suo cosciente conseguimento.
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Paolo Borciani (1922-1985), l'indimenticato primo violino del Quartetto Italiano, pubblicò nel 1973 il manuale "Il Quartetto" che è tra le cose migliori ch'io conosca scritte da un interprete. Il capitolo più bello, per me pianista, è quello dedicato al metodo di studio. Parte proprio dall'inizio: le battute sono state numerate, il metronomo è accanto al leggio, la matita è appuntita ... e procede a smontare la partitura in brevissime sezioni, con un'acredine che avevo già letto nelle testimonianze su Rachmaninov. "All'opera nociva delle ore di riposo fra una seduta e l'altra resisteranno, maturando anzi, solo i passaggi studiati bene", scrive, avvertendo che il lavoro sarà più noioso ma più efficace. "Sarà meglio che dopo tre ore [...] si sia concluso e ben fissato nella mente poco, piuttosto che si sia suonato molto, senza aver portato nemmeno una battuta alla dovuta chiarezza". La regola generale è dunque questa: "Insomma, prima bisogna rifinire i singoli 'pezzi', poi montarli; non procedere alla 'pulitura' dei pezzi durante il montaggio".
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Wiosna, primavera in polacco, forse la linea melodica più semplice e commovente scritta da Chopin. Pareva impossibile farne qualcosa senza appesantirla, e invece Liszt ci è riuscito. Tutte le volte che la suono mi tremano le mani per l'emozione. "Siedo su una roccia, canto una melodia dolce per me stesso. Che bel posto quieto, abbandonato! Eppure si muovono rimpianti nella mia mente, il cuore si gonfia, sorgono lacrime nei miei occhi. Una lacrima sfugge, è una marea che mi canta dentro, sopra di me risponde un'allodola. Apre le sue ali, appena visibile, alta, sempre più alta, perduta tra le nuvole."
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Ho finalmente identificato tutti i personaggi di una magnifica fotografia eseguita a Mosca nel novembre 1910 – e spero di non essermi sbagliato. Dieci eleganti signori e un’affascinante signora, occupati con tre buffi pelouche – una situazione piuttosto inconsueta.
In prima fila, seduto sulla sinistra con la folta barba bianca è il pianista Raoul Pugno (1852-1914), musicista di grande cultura, collezionista d’arte, sindaco di Gargenville. Fu molto importante per me, quand’ero bambino, e vi spiego il perché. Mio nonno, Rio Nardi, aveva una grande collezione di dischi storici. Le più antiche interpretazioni erano registrazioni da rulli di pianoforte automatico e datavano dal 1905. Quando giunsero in casa le esecuzioni di Pugno – un vecchio riversamento canadese – notai che erano del 1903, e questo mosse la mia curiosità. Quanto indietro potevo andare nel tempo per conoscere le scuole pianistiche del passato? Cominciai allora a studiare l’argomento, divenuto una delle mie massime passioni. Per ora la mia collezione è giunta al 1888, ma non dispero di addentrarmi in una datazione più alta.
Accanto a Pugno, il violinista Eugène Ysaÿe (1858-1931), la più bella sonorità del suo tempo, e un ottimo compositore. Suonava in duo con Pugno. Facevano magnifica musica e ottima cucina: due entusiasti mangiatori. Il terzo è Gabriel Fauré (1845-1924), mirabile creatore di delicate strutture – non credo necessiti di una mia presentazione. Accanto a Fauré, la signora Wieniawski, della quale non ho trovato il nome. Il marito è alle sue spalle, con un bel cranio lucido e una splendida cravatta, il compositore Adam Tadeusz Wieniawski (1879-1950): nipote del più celebre violinista Henryk, era allievo di Fauré del quale imitava in qualche modo lo stile (per quel poco che di lui conosco). Ma in precedenza aveva fatto a tempo a studiare addirittura con Woldemar Bargiel, il fratellastro di Clara Schumann. La prima fila termina a destra con Lucien Capet (1873-1928), fondatore e primo violino del celebre Quartetto Capet, il miglior ensemble francese del primo Novecento (pochissimo vibrato, ma un po’ troppi glissandi). Negli anni Venti registrarono non meno di dodici capolavori: Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert, Schumann, Franck, Debussy, Ravel. Un tesoro per la nostra conoscenza dello stile cameristico d’anteguerra.
La seconda fila non è meno interessante. Il primo, dietro a Pugno, è Anatoliy Brandukov (1858-1930), il violoncellista prediletto da Pëtr Il'ič Čajkovskij, assistente di Turgenev, maestro di Gregor Piatigorsky, primo ammiratore di Rachmaninov che gli dedicò la sua meravigliosa Sonata op. 19 e lo volle testimone alle sue nozze. Accanto a lui troviamo il violista Henri Casadesus (1879-1947). Col suo quintetto di strumenti antichi eseguiva in tutta Europa composizioni recentemente riscoperte di Händel, Mozart, Carl Philipp Emanuel Bach e Johann Christian Bach… che in verità lui stesso aveva composto con impeccabile competenza stilistica. Sua figlia Gisèle, donna di rara eleganza e bellezza, è tuttora attiva come attrice di prosa malgrado i suoi cento e tre anni. Non sempre, ma in alcuni lunghi periodi, Henri fungeva da viola del Quartetto Capet.
Abbiamo già incontrato Wieniawski, accanto al quale – col suo tipico sorrisino canzonatorio – è Alexander Siloti (1863-1945), pianista allievo di Liszt e cugino di Rachmaninov. Per quanto venerato da molti appassionati, di lui ci resta poco: l’impressione è quella di una possente sonorità usata in modo sì coinvolgente ma piuttosto indelicato e un po’ scontato. Le sue pagine autobiografiche sono piacevolissime, e prodigiosamente inattendibili. Gli ultimi due della fila sono il secondo violino e il violoncello del Quartetto Capet: Maurice Hewitt (1884-1971), e Marcel Casadesus (1882-1914). Il primo sarebbe poi stato attivo nella resistenza contro i nazisti. Arrestato, segregato a Buchenwald, riuscì indomito a organizzare un quartetto d’archi insieme a prigionieri polacchi e dopo la guerra divenne, tra l’altro, produttore discografico. Il secondo sarebbe morto trentaduenne a Foncquevillers durante un’azione bellica all’inizio della Prima Guerra Mondiale.
Un cosmo di storia musicale, di arte, di vita – raccolto intorno a un leoncino, una scimmietta e un elefante di pelouche. Erano artisti che non conoscevano la spocchia, e neanche la bieca trovata pubblicitaria.
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Oggi sarebbe stato il compleanno di Elis Regina, una musicista che significa molto per me. Avrebbe compiuto settantadue anni, e invece se n'è andata nel 1982, non ancora trentasettenne. Eccola qui, è un piccolo omaggio, il mio, dedicato soprattutto a chi ama la musica da camera - perché io la immagino proprio così. https://www.youtube.com/watch?v=Bj6gmH5-PXg
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Ieri mattina a Parigi hanno avuto luogo le esequie di una grande amica, Marianne Lyon. Dal 1977 al 2007 fu la direttrice del Centre de documentation de la musique contemporaine. Era la moglie di Gianfranco Vinay, al quale devo tanto come musicologo e come amico. Ed era una donna splendida, per bellezza e per anima.
https://www.facebook.com/149086885169390/photos/a.197650453646366.48804.149086885169390/1369991356412264/?type=3
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14/03/2017
Da sempre ricerco ed eseguo autori di cultura ebraica, uno degli impegni che più mi sta a cuore. Quale ne sia la ragione, non so: al proposito non ho legami familiari né culturali; né alcunché nella mia casa vi si riferisce. Eppure, fin da ragazzo, vi riconobbi la dimora di un mio passato mitico. Mi sentivo a casa lungo le scale buie di Kafka e nelle soffitte luminose di Bruno Schulz; nelle cucine dense di odori grassi di Isaac Singer e nelle botteghe di Joseph Roth; nelle calde stalle di Isaak Babel' e nei laboratori troppo vasti di Primo Levi. Anche sotto i soffitti bassi di Jean Paul, e quelli altissimi del mio Studio, e tra le colonne del tempio di Sunio ero a mio agio, ma quello è il mio presente, il paesaggio interiore che ogni giorno mi guida, non la memoria che mi assale inattesa. Saul Friedlaendler dice che essere ebrei è una scelta - ecco, quella decisione io non l'ho mai presa: in alcun modo potrei essere mai monoteista. Non ricordo quale vecchio rabbino diceva, invece, che non esistono non-ebrei ma solo ebrei peccatori: potrei profittare dell'opportunità offertami, eppure nemmeno in questo mi riconosco; solo nelle luci, negli odori, nelle voci, nelle strade di qualche Lublino, di qualche Tarnopol, di qualche Prešporok - sognate e mai conosciute. La strada che ho percorso, da esterno, m'è parso di scorgerla nei miei compositori: Mendelssohn che, fatto protestante dal padre, tornò orgogliosamente al suo nome e alle sue radici; Gershwin che volle essere nero e fu molte genti; Kurt Weill che, figlio di un Chasn, ne ereditò la melodia ma non la fede; Ullmann, antroposofo, al quale il Lager rammentò spietatamente l'antica religione; Paul Dukas, che si diede per vinto; Schoenberg, che si diede per vincitore; Johann Strauss, convertito per ragioni di carriera; Alkan, il cui credo fu d'ispirazione e di alibi - e più o meno altri mille che conosco assai bene. Tutti loro io incontro nei corridoi oscuri della mia ricerca, in una stanza priva di accessi che è l'interpretazione. Per nessuna ragione al mondo parlerei di musica ebraica. Mi è arduo anche definirli compositori ebrei: la maggioranza di loro non sarebbe d'accordo. Dovrei parlare di un mondo ebreo, tangibile fino a settant'anni fa, ma forse non più se non nelle piccole, importanti decisioni quotidiane. Semplifico, parlo di cultura ebraica, mi riservo così un margine di errore. Walter Benjamin proponeva che una vera domanda non debba inevitabilmente (e surrettiziamente) contemplare una risposta; piuttosto, tutte le risposte: la domanda stessa sarebbe allora la risposta che cerchiamo. Diceva anche che le domande che rivolgiamo al passato sono poste a noi stessi.
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Avrò avuto dieci anni quando in casa trovai una voluminosa raccolta di poesie da tutto il mondo, tradotte da Vincenzo Errante e altri della sua scuola. Fu lì che lessi per la prima volta i lavori latini di Pascoli e i poemi di Leopoldo Lugones, gli inni degli antichi egizi e gli Haiku, Keats e la Achmatova, i greci moderni e gli spagnoli barocchi: un libro che formò e trasformò la mia ricezione della letteratura. Tra gli autori che più fortemente toccarono il mio cuore era Annette von Droste-Hülshoff (1797-1848): ravvisavo in lei la stessa mia struggente partecipazione di luci e suoni nei paesaggi, l'attesa di un miracolo immanente ma non ancora compiuto, il legame indissolubile con la tradizione familiare eppure la necessità di ali capaci di portare lontano. Più tardi lessi il suo meraviglioso romanzo; e il frammento Ledwina, che è per me tra le pagine più potenti e misteriose della cultura occidentale. La sapevo nata nel castello avito, tra i boschi, le acque, gli agrifogli del Münsterland. Poco sapevo della sua vita ulteriore. Ieri, in un momento di riposo, ero a Meersburg sul lago di Costanza, deciso a visitare il bel castello nella Oberstadt. Ho avuto la sorpresa di trovarci una piccola esposizione dedicata ad Annette. Non sapevo che la grande poetessa aveva vissuto lì gli ultimi otto anni della sua vita, e che proprio in quel castello era morta, in una graziosa stanzetta con la vista luminosa sul grande lago, lontano seicento chilometri dalla sua patria. Nello studiolo adiacente, rotondo, tre grandi finestre attraversano la massiccia muratura. La sua sedia, il suo tavolo, la sua lampada, il luogo forse dove compose i meravigliosi Letzte Gaben. Vi ho sentito, emozionato, la sua fragile presenza, una vita ridotta ai minimi avvenimenti, il viaggio temerario attraverso le smisurate profondità dello spirito e della natura.
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Ecco una stupenda fotografia di Ferruccio Busoni, eseguita a Milano da Varisco e Artico nel 1913. E' proprio Busoni tale e quale mio nonno Rio Nardi lo ricordava. Lo ascoltò infatti per la prima volta la sera di sabato 11 maggio 1912. Del suo programma, il nonno menzionava - col ricordo indelebile che è dei bambini - la Fantasia Cromatica e Fuga di Bach, le Variazioni in do minore di Beethoven, la prima e la quarta Ballata di Chopin, le due Leggende francescane di Liszt e le Variazioni su un tema di Paganini di Brahms. Accanto al nonno, nel pubblico, Felice Boghen prendeva appunti sulle sue partiture: e fu il primo incontro col vecchio musicista. Dopo il concerto, il bisnonno Mario riuscì a intrufolarsi col bambino alla cena in onore del grande pianista: erano pochissimi ospiti, ma il bisnonno sapeva essere convincente e mio nonno aveva già allora un fascino speciale che attirava l'attenzione e lo rendeva ben accetto in ogni situazione. Nella sala del suo albergo, Busoni suonò ancora fino a tarda notte. Chiese al nonno se fosse musicista: il nonno rispose di sì ma evitò di pronunciare il nome del suo maestro: tra Giuseppe Buonamici e Busoni non correva buon sangue. Busoni gli disse, con gentilezza, di farsi ascoltare da lui la prossima volta che fosse stato a Firenze. Il nonno non dimenticò - i bambini non dimenticano mai le promesse - e cominciò a prepararsi per quella eventualità. Nel maggio del 1914, Busoni diresse tre concerti a Firenze. Il nonno seguì le prove, durante le quali conobbe Egon Petri, ma non ci fu tempo per un incontro più esteso; che ebbe invece luogo a Roma, nel febbraio 1916: la prima lezione di Rio Nardi con Busoni.
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Ho acquistato una cartolina in Germania: un ritratto di Adolf Hildebrand, il più grande scultore tedesco nella seconda metà dell'Ottocento. La tengo sul tavolo di lavoro, mi ricorda il mio primo incontro col Liszt fiorentino: mio nonno mi mostrò la sua casa alle pendici del colle di Bellosguardo e mi disse semplicemente "qui era stato il vecchio Liszt". Gliel'aveva raccontato il suo maestro, Giuseppe Buonamici. Pure, Hildebrand non era portato alla musica. Nel 1876, eccolo ascoltare Liszt in casa di Jessie Laussot, sul finire del Lungarno Vespucci. "Liszt suonò Chopin con Variazioni, che non mi dice nulla. Nient’altro che semplici motivi triviali rifilati con ogni sorta di trucchi virtuosistici e confusi. Dopo però suonò un valzer viennese o qualcosa di simile, affascinante e pieno di vita e di grazia, proprio per eccitare le donne. Mentre suona è veramente notevole". Una decina d'anni dopo, nel 1885, lo troviamo a Berlino con Clara Schumann: "è stato molto piacevole e ha anche suonato, purtroppo però solo Schumann, che non mi interessa molto". Così volentieri gli avremmo evitato l'incomodo, rendendoci disponibili al suo posto in quelle occasioni.
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