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francescaboenzi-blog · 9 years ago

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Read | Un tentativo di arginare la merda

Un´ intervista a Enzo Mari di ANTONIO GNOLI, 7 settembre 2015 - Repubblica.it

La faccia scavata e in parte coperta da una barba bianca, i capelli leggermente arruffati e lo sguardo severo e perso. Enzo Mari somiglia a Ezra Pound: "Dopo gli ottant'anni tutti i vecchi somigliano a Pound", dice con leggero sarcasmo. Siede su un divano, disegnato da lui. Gli sono accanto. Incollato da sentirne il respiro, le pause, la disperazione: "Non è un divano. È la mia nave. Ci vivo da anni. Salgo a bordo la mattina e scendo la sera. Qualche breve intervallo. Pisciare. Mangiare. Rispondere a qualche scocciatore. Dormire. Io e questo cazzo di divano siamo diventati una cosa sola. Potrei ancora progettare da qui; richiamarmi alla realtà, il solo tabernacolo al quale mi inchino. Ma so che è tutto inutile. Superata una certa soglia mentale tutto diventa inutile".

Qual è la parola meno inutile che conosce o che oggi impiegherebbe?

"È la parola "cazzate". Ormai si dicono solo cazzate. Conosce per caso discorsi seri, argomentati, convincenti in grado di spiegare il nostro presente?".

Cosa intende per "cazzate"?

"È la nostra inadempienza - morale, estetica, conoscitiva - verso il mondo. Una parola di denuncia, intendo questo. Ma non serve. È inutile, come questa città nella quale vivo".

Lei è nato a Milano?

"Sono nato nel 1932 in un ospedale di Novara. Fino all'età di 3 anni ho abitato con la famiglia a Cerano. Sulla sponda del Ticino dalla parte del Piemonte. Poi ci trasferimmo a Milano".

Immagino per lavoro.

"Mio padre non sapeva fare nulla. Sopravviveva. Mia madre stagionalmente faceva la mondina. Una figura fin troppo mitizzata. Altro che belle ragazze con le cosce tornite e i seni prosperosi. Tornava, la mamma, che era uno straccio. Eravamo persone molto povere. Isolate. La sola compagnia veniva dalle zanzare. Mi hanno voluto bene, intendo i miei. Ma non ricordo un gesto di intelligenza, di generosità. Era un affetto rassegnato, il loro".

A Milano come fu l'impatto?

"Non lo ricordo. Mio padre trovò un lavoro più stabile in una bottega di barbiere. Sarebbe stato questo, in seguito, il suo mestiere. Aveva programmato un figlio ogni cinque anni. Non so cosa gli frullasse per la testa. So, che in seguito, nacquero un fratello e una sorella".

La sua adolescenza?

"Tra la guerra e il dopo. Ci fu l'occupazione nazista. La città brulicava di tedeschi e di fascisti. Il quartiere generale dei nazisti era all'Albergo Regina. Vi si era installata la Gestapo. E poi c'era San Vittore, diventato il carcere delle torture. Un altro luogo del terrore era Villa Trieste, tristemente celebre grazie alla Banda Koch".

Come visse quei mesi?

"Non furono mesi. Ma quasi due anni durissimi, dal 1943 al 1945. C'è un episodio che mi torna alla mente. Eravamo verso la fine. Scuola elementare. Quarta o quinta. Il maestro ci dà un tema: descrivete la vostra città. Consegno il foglio. L'insegnante comincia a elogiare tutti i temi, tranne il mio. Anzi, neppure mi nomina. A quel punto scoppio a piangere".

E cosa accade?

"Il maestro mi si avvicina e mi dice: non devi piangere, il tuo era il componimento più bello, ma se lo avessi elogiato, sia tu che io, avremmo rischiato la rappresaglia. Avevo raccontato la violenza della città, gli ammazzamenti cui avevo assistito. Il gioco sadico con cui le milizie fasciste legavano la corda al collo dei malcapitati e lentamente stringevano fino al soffocamento. Sui banchi di scuola alcuni compagni più grandi di me esibivano minacciosi la rivoltella".

Finita la guerra e l'occupazione?

"Milano, come Roma suppongo e altri centri, viveva in uno stato di febbrile eccitazione. Mi sentivo un estraneo".

Perché?

"Era il senso della sopravvivenza che si imponeva su tutto il resto. Ecco, mi sentivo un sopravvissuto. Non avevo strumenti per relazionarmi agli altri. Non sapevo parlare. Né ridere. Trovai un lavoretto che per un po' mi permise di guadagnare qualche soldo. Svuotavo le cantine dei condomini dalla spazzatura. Ci fu gente in passato che uccideva i chiari di luna, io uccidevo topi della stazza di un bassotto".

E la Milano culturale?

"Quale? Non avevo nessun rapporto. Intendiamoci cominciavo ad avere le mie idee in fatto di arte e di design. Mi iscrissi all'Accademia di Brera. In realtà fu un espediente per evitare il servizio militare. Giravo per gallerie, assistevo a qualche conferenza. Ma restavo sempre zitto. Silenzioso. Guardavo con disprezzo le cose del mio piccolo mondo. Cominciavo a interessarmi agli effetti della percezione visiva e al ruolo sociale che poteva rivestire il design".

Una figura importante è stata per lei Bruno Munari.

"Sì, in lui avevo individuato la persona più vicina al mio modo di concepire l'arte. Era più grande di me. Forse aveva l'età di mio padre. Andai a trovarlo. Mi disse dove raggiungerlo. Pensai che avesse uno studio. Invece lavorava a casa. Lo vidi su un divanetto con un taccuino in mano che disegnava. Gli mostrai i miei lavori. Li apprezzò. Mi incoraggiò e in seguito collaborammo ad alcuni progetti comuni".

Che anni erano?

"La seconda metà degli anni Cinquanta. Alla fine di quel decennio sia Munari che Max Bill scrissero una piccola monografia su di me. A Max estorsi un testo andando a trovarlo in Svizzera. Con Bruno il rapporto si era consolidato. Tanto che nel 1962 realizzò per la Olivetti la mostra "Arte Programmata". Fu un successo che in seguito esportammo in giro per l'Europa e a New York".

Cos'era l'"Arte Programmata"?

"L'espressione la coniò Munari, credo insieme a Giorgio Soavi, in quegli anni il punto di riferimento artistico culturale alla Olivetti. Si trattava di un lavoro sulle neoavanguardie cinetiche. Ossia quei gruppi di artisti (Gruppo N, Gruppo zero, Grav) o singoli - come Alexander Calder, Jean Tinguely, Salvatore Scarpitta - che avevano in qualche modo posto al centro l'idea della macchina come espressione del vivente".

Le macchine di fatto già occupavano la vita delle gente. Dov'era la novità?

"Munari aveva profeticamente colto proprio il senso di alienazione e di asservimento che dalle macchine si originava. E immaginò che l'artista con i suoi oggetti "cinetici" potesse riscattare questo stato di servitù. Condividevo il suo punto di vista, anche se Bruno restava un idealista e io ero un materialista".

Materialista nel senso?

"Tutto il mio lavoro è sempre partito dalla realtà. Per me il problema era chiaro: si realizzano cose per sopravvivere. Nel nostro mondo industriale non sono i sogni e le favole a guidare i progetti. È il profitto. Come rispondi al profitto? Il design italiano - indiscutibilmente grande - ha pensato che l'estetica fosse la soluzione. L'alibi. Franco Albini, Achille Castiglioni, Ettore Sottsass, Marco Zanuso - tutti di una generazione precedente alla mia - hanno guardato all'estetica. Io alla forma".

Dov'è la differenza?

"Un oggetto non deve piacere a tutti; deve servire a tutti. Indipendentemente da quello che ciascuno pensa. Dalla fede che ha. Dall'ideologia che persegue. Naturalmente è un'idea limite. Ma l'ho sempre considerata un mio precetto. Non si può sovrapporre la bellezza alle situazioni di vita. Ed è la vita che conta. Ha mai visto le case del Sud?".

A cosa allude?

"Al fatto che quasi sempre sono costruzioni mai finite. Non c'è mai un tetto, ma tondini di ferro che spuntano come lance, mattoni a nudo, scheletri di muretti. Pensano che prima o poi aggiungeranno un altro piano. Questo pensano, nel nome della vita. Fottendosene dell'estetica".

Ma come fa un artista a escludere la bellezza dal proprio orizzonte?

"Non so cosa voglia dire essere artisti. Particolarmente oggi che nell'arte si produce soprattutto merda".

Tutto il suo lavoro come lo definirebbe?

"Un tentativo di arginare la merda. Ciò che conta è la conoscenza. E questa deve basarsi sull'esperienza storica. La qualità di questo mondo è terrorizzante. Forse esagero con l'idea di purismo. Ma sono convinto che nella forma vada eliminato il superfluo per ritrovarla povera, essenziale".

C'è una forma in particolare che accetta?

"Una forma è giusta se è; non è giusta se sembra. Decenni di postmoderno hanno avvelenato l'aria, più dell'Ilva di Taranto. Un guazzabuglio di pensieri e di teste fintamente pensanti hanno liberato le forme dalla loro responsabilità. E pensare che il cervello è la macchina più potente che ci sia! Ho sempre insistito con i miei allievi: usatelo. Uscite dal conformismo. Dimenticate i libri e le pubblicazioni scolastiche. Ragionate con la vostra testa".

A proposito di libri, lei è famoso anche per avere ideato parecchie copertine.

"Famoso non saprei. Nel 1963 progettai la grafica delle prime copertine Adelphi, per la collana i classici. Poi anche per la Boringhieri e altre case editrici".

Anche qui il principio dell'essenzialità?

"Sì. Se il testo è giusto non ci sono parole più importanti di altre che vanno in qualche modo gridate o sottolineate".

Cosa legge?

"Un tempo leggevo di tutto. Oggi mi limito ai testi scientifici. Perché lì non si può barare. Non si possono sovrapporre sogni".

Lei ha un figlio scrittore: Michele Mari.

"Ho anche una figlia e diversi nipoti. E una moglie, Lea Vergine".

Comincerei da suo figlio.

"Lo vedo di rado. Anzi quasi mai".

Ha dichiarato, o scritto, che è stato un padre difficile, importante, per certi versi terrorizzante.

"Se esistesse un Dio - e non esiste - si rivelerebbe nei bambini, nella loro straordinaria purezza e intelligenza".

Cosa intende dire?

"Che alla nascita l'infanzia non è condizionata dal nostro sistema di regole e di comunicazione. Sono in disaccordo con le persone che vezzeggiano i bambini. Non gli si insegnano le parole giuste. Ho molto rispetto per loro, perché dargli delle regole?".

Insomma, la cura è una forma di indifferenza e di severità.

"Non c'è cura. C'è il carattere".

Quello di suo figlio è abbastanza franco da continuare così: "Mio padre mi ha insegnato a non curarmi degli altri, mi ha insegnato a non cercare mai di piacere agli altri. Ero un bambino depresso. Ma per lui essere soli era un titolo di merito. Mi diceva: le aquile volano da sole, i polli razzolano in compagnia e io mi bevevo quello che diceva...". Si riconosce?

"Il confronto etologico sulla natura dei diversi volatili mi pare conservi una sua verità spicciola. Vede, di mio figlio giovanissimo apprezzavo la forte capacità di autonomia rispetto al bric-à-brac delle cose che venivano raccontate. Era la riprova che i piccoli rappresentano un universo a parte".

Poi crescono, si integrano e arriva la delusione. Questo intende?

"Intendo che alla fine ciascuno è un'isola. Ogni testa è un'isola. Vorrei farle una domanda io. Anzi avrei dovuto fargliela prima di iniziare questa discussione: le piace la situazione attuale?".

No, non mi piace. Ma non invertirei i ruoli.

"Perché no. Mi giudica così vecchio da essere rincoglionito?". Non la giudico. Al contrario, apprezzo la sua franchezza.

"Non le sembra che il mondo vada a scatafascio e che quell'antico conflitto tra padri e figli - con l'immancabile condimento del mito - sia diventato superfluo? Tutti dovrebbero progettare per evitare di essere progettati".

Pensa che tutti possano essere creativi?

"Magari. Ma non è così. La creazione è un atto di guerra non un armistizio con la realtà".

Accennava a sua moglie.

"Ci siamo conosciuti più di mezzo secolo fa. A Napoli. Io designer, lei critico d'arte giovane e bella. Ero già sposato. Aleggiò il concubinaggio. Cinquant'anni di slanci e litigi. Che dire di più? Mia moglie è la sola persona che conosca che non avendo la mentalità da casalinga si occupa della mia sopravvivenza. Da tutti i punti di vista. Senza di lei, forse starei sotto i ponti".

È sempre così catastrofico?

"La vecchiaia restringe l'orizzonte. Il tempo che resta vola via. I vecchi sentono meglio l'avvicinarsi della tempesta. Conosce il detto: inutile incazzarsi, meglio farsene una ragione? Ecco. Dopotutto non sono così catastrofico. Quando un uomo anziano sparisce non è mai una vera tragedia. Sono qui sulla mia piccola "nave" e attendo che le cose si compiano".

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francescaboenzi-blog · 10 years ago

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T-A-X-I is out!

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francescaboenzi-blog · 11 years ago

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Rivista Apparente #4 | Jonatah Manno Dimethyltryptamine | Text

available on lulu.com

Nel gennaio 2013 il giornalista scrittore britannico Graham Hancock presenta per la piattaforma TED una conferenza dal titolo “The War on Consciousness” in cui espone una serie di idee sulla coscienza umana e la sua evoluzione. Hancock parla delle pratiche sciamaniche ancora oggi diffuse in Amazzonia e racconta come l’uso di DMT sia comune fin dall’antichità nell’ambito di quei rituali volti alla ricerca di un contatto più spirituale e meno strumentale con l’ambiente circostante. Hancock difende la possibilità che alterazioni di coscienza di natura responsabile e attenta possano invertire la tendenza distruttiva dell’uomo verso l’ambiente che lo circonda. Il modello odierno di società basato sull’alert problem solving state of conscioussness - uno stato di coscienza sempre vigile, per rispondere alla continua richiesta di soluzioni – si è rivelato infatti fallimentare. I termini del suo fallimento risiedono appunto nell’incremento illimitato della produttività, della crescita economica, nello sfruttamento irresponsabile delle risorse. Nei confronti di un sistema economico e sociale di questo tipo, le pratiche descritte da Hancock possono essere considerate una forma di sottrazione e disobbedienza. Il talk è stato accusato di essere parascientifico e bandito immediatamente dal sito web.

Nel suo scritto più famoso e discusso - Contro il Metodo. Abbozzo per una teoria anarchica della conoscenza (1975), il filosofo e sociologo austriaco Paul K. Feyerabend criticava il modello razionalista su cui si basa il metodo scientifico ed auspicava un approccio di tipo anarchico alla conoscenza. L’anarchismo teorico rappresentava per Feyerabend una possibilità più generosa e aperta, in grado di incoraggiare il progresso più di quanto non possano fare le alternative fondate sulla legge e sull’ ordine. La scienza alla pari di un’ideologia repressiva è fondata su regole troppo rigide. Un avanzamento della conoscenza sarebbe invece possibile eludendo le convenzioni del pensiero, aprendo al confronto con altri ambiti e prendendone in considerazione congiunture e giustapposizioni. Feyerabend affermava inoltre che i successi degli scienziati sono molto spesso scaturiti da ispirazioni e intuizioni che hanno a che fare con il mito e con la religione più che con la ragione e immaginava un modello di società in cui "tutte le tradizioni hanno uguali diritti e hanno ugual accesso ai centri del potere".

Il pensiero creativo rappresenta un modello esplorativo e cognitivo disinibito, di per sé aperto e accogliente. La ricerca di Jonatah Manno parte da un interesse di tipo antropologico e analizza pratiche ed esercizi di esplorazione spirituale e materiale che nel corso dei tempi hanno segnato la relazione dell’uomo con l’ambiente circostante e su cui gli uomini di diverse civiltà hanno basato la loro conoscenza ed esperienza del mondo. Esperimenti condotti in ambito scientifico, religioni esoteriche, approcci mistici, le pratiche trascendentali di alterazioni di coscienza e i rituali di allontanamento dal sé, i richiami reciproci e le mutue interferenze tra questi campi, hanno contribuito a formare un’idea complessa e irriducibile del mondo. Al persistere delle domande è corrisposta una moltiplicazione di risposte che il modello logico razionale da solo si è rivelato il più delle volte insufficiente e inadatto a esplorare. Un tale fallimento dimostra la necessità di fondare un sistema, che restituisca centralità e libertà speculativa al soggetto. Le figure nei lavori di Jonatah Manno esistono in virtù di una sottrazione alle relazioni funzionali, alle convenzioni sociali, economiche, cognitive. Siano essi presenze umane, oggetti, spoglie architettoniche, si tratta di elementi che hanno perso la funzione rispetto al contingente o vi si sono consapevolmente sottratte. Jonatah Manno analizza il loro valore di archetipi e la possibilità di una loro interazione a diversi livelli. Questi, estrapolati ai rispettivi contesti di riferimento e posti in confronto dialogico all’interno dell’opera, si prestano a letture polivalenti. L’opera diventa un sistema aperto di segni e significati che ne legittimano la molteplicità di interpretazioni. Rispetto alla realtà determina uno scarto paradigmatico, rappresenta la collisione tra razionale e irrazionale, scienza e magia, natura e architettura, tra libertà personale e imposizione sociale.

Francesca Boenzi

#Museo Apparente #Jonatah Manno #Rivista Apparente #text #Francesca Boenzi

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francescaboenzi-blog · 12 years ago

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PROJECT | CREMA DI MENTE

a group show featuring works by the students of Städelschule - Frankfurt am Main: Magnus Andersen, Bianca Baldi, Leda Bourgogne, Olga Cerkasova, Kitsum Cheng, Ian Edmonds, Richard Ess, Linda Grevenrath, Flaka Haliti, Billie Maya Johansen, Johanna Kintner, Dan Kwon, Erika Landström, Chloe Malcotti, Aislinn McNamara, Luzie Meyer, Anna Lucia Nissen, Jonathan Penca, Merle Richter, George Rippon, Jessica Sert, Helena Schlichting, Giovanni Sortino, Marcello Spada, Anina Trösch, Reece York, Dario Wokurka.

Sala del Lazzaretto Complesso Monumentale di Santa Maria della Pace Via dei Tribunali 226, Napoli 24.05.- 01.06.2013 opening 23 May 5 p.m.

The exhibition 'Crema di mente' is the result of artistic and experimental research stemming from a trip taken to Naples in 2012 by a group of students of the Städelschule, Frankfurt am Main.The exhibition is inspired by the ideas of Claude Levi Strauss in his book "The Savage Mind" in particular the analysis of the concept of bricolage and the structure of the wild thought. That is the attempt to immediately reorganize available signs and events at hand into a new structures. The exhibition will be accompanied by the second issue of Rivista Apparente, a publication project initiated in 2013 by Anna Haas and Corrado Folinea. 'Crema di mente' is a project by the students of Judith Hopf developed in collaboration with the curator Francesca Boenzi. The exhibition is part of Maggio dei Monumenti 2013 and will be open from 24 May to 1 June 2013.

With many thanks to Städelschule Portikus e.V., Staatliche Hochschule für Bildende Künste, Städelschule Frankfurt am Main, Assessorato Cultura e Turismo del Comune di Napoli, IV Municipalità Francesca Boenzi, Corrado Folinea/ Museo Apparente, Anna Haas.

#Francesca Boenzi #Judith Hopf #Städelschule #Exhibition

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francescaboenzi-blog · 12 years ago

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Rivista Apparente #2

special issue for the exhibition “Crema di Mente”

Starting from 1948, the British anthropologist, sociologist and psychologist Gregory Bateson wrote a series of seven Metalogues. These conversations between father and daughter were revolving around problematic topics and ideas such as order and disorder, boundaries, rules, game. According to the same Bateson they ��should be such that not only do the participants discuss the problem but the structure of the conversation as a whole is also relevant to the same subject.” The process that led to the exhibition Crema di Mente and to this special issue of Rivista Apparente is the result of a similar negotiation and the exhibition in the Lazzaretto can be seen as a conversation of this kind, problematizing and questioning the process itself. Also, in the Metalogue About game and being serious, Gregory Bateson discusses the importance of disorder as a necessary condition for the generation of new ideas. “in order to think new thoughts or to say new things, we have to break up all our ready-made ideas and shuffle the pieces”. The knowledge produced in the arts realm is often the result of a disorder. Not bound to methodological rigor of scientific kind, falls outside the given forms of cataloguing, is built on the collection and reconsolidation of fragments of knowledge, on the decomposition of pre-existing rules and creation of new ones. Of this negotiation between order and disorder, between game and reality, this work is partly the result.

Francesca Boenzi

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francescaboenzi-blog · 12 years ago

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I like | Lorenzo Scotto di Luzio “Senza Titolo”

until February 2nd, 2013 Gallery Krome, Berlin

In the mid-70s, the young Carmelo Bene spoke in an interview about Buster Keaton and said: “If one imagines the earth as a sphere whose surface is utterly covered with Soap, obviously one cannot prevent from slipping”.

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francescaboenzi-blog · 12 years ago

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Landscape (notes)

a contribution to t-a-x-i

a project by CRIPTA747 - Torino

#Francesca Boenzi #Federico Maddalozzo #Marco Bruzzone #Giulia Piscitelli #text #cripta747 #T-A-X-I

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francescaboenzi-blog · 12 years ago

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Message in a Box | Periscope project space

MESSAGE IN A BOX

Eröffnung/opening: Freitag, 26. Oktober 2012, 19.30 Uhr Dauer/duration: 27. Oktober 2012 - 17. November 2012 Periskope:project:space Sterneckstraße, 10 - 5020 Salzburg

Von der Ausbildung bis zur Praxis gehen Kurator_innen und Künstler_innen nicht unbedingt die gleichen Wege. Schnittpunkte und gemeinsam Interessen gibt es - Unterschiede wahr- scheinlich auch: kuratorische Arbeit versteht sich möglicherweise so, dass sie mehrere oder viele künstlerische Positionen überblickt, aus diesem Netzwerk auswählt, sie in einen Zusammenhang stellt und einen Kontext bildet (bildet, abbildet oder auch formt?) oder gibt es hier schon unterschiedliche Auffassungen? periscope möchte den Blick hinter die Kulissen richten, auf die Schnittstelle, an der nicht primär die Zuordnung in künstlerisch oder kuratorisch relevant ist, sondern in- haltliche Auseinandersetzung geschieht. - Vor allem interessiert: Welche Anliegen, Herangehensweisen und Methoden gibt es auf dem Gebiet? Welche Rolle spielt die räumliche Inszenierung? Wie verändern sich die Inhalte innerhalb dieses Rahmens? Inwieweit trägt der kuratorische Kontext die Einzelelemente? Inwieweit lässt sich so etwas wie ein kuratorischer Verfremdungseffekt beschreiben? Gibt es sie, die fruchtbaren Missverständnisse oder unausgesprochene Gemeinplätze und wie lassen sie sich beschreiben? Gibt es einen kuratorisch-wissenschaftlichen Ansatz oder lässt sich das, was man kuratierend mitge- staltet, gar nicht unverfälscht abbilden wollen? - Welche Rolle spielen also diskutierte Begriff wie Autor_in, Handschrift, Manipulation, Wissenschaftlichkeit, politische Haltung in der kuratorischen Arbeit? Gibt es dazu unterschiedliche Ansätze? Wo können sich künstlerische Interessen und kuratorische Anliegen treffen? Und vor allem wem und was will man kuratierenderweise Raum geben? Fragen über Fragen. Teilnehmer_innen: Francesca Boenzi, Ingrid Gaier, Bildetage, Bärbel Hartje, Tina Teufel, Sabine Winkler

Link www.periscope.at

#Periscope #text #Francesca Boenzi

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francescaboenzi-blog · 12 years ago

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Text | Nomadic Subject

“Nomadic Subject” is the title of the text I wrote for Timea Anita Oravecz, recently published in Rita sagen Sie jetzt nichts!, catalogue of Goldrausch Stipendium 2012

#Timea Anita Oravecz #Goldrausch Künstlerinnenprojekt #Text #Francesca Boenzi

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francescaboenzi-blog · 12 years ago

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I like | Lorenzo Scotto di Luzio “La vie en Rose” at ABC Berlin

La vie en rose or: “Portrait of the artist’s family in front of a cash dispenser” an heterosexual gender work by Lorenzo Scotto di Luzio

The continuous mirroring game between fiction and reality is the focus of Lorenzo Scotto di Luzio’s artistic research. Contemporary to his time, the artist tries to be contemporary to his own sensibility. With “Portrait of the artist’s family in front of a cash dispenser” Scotto di Luzio engages the theme of economic crisis that has dominated the international media in the past few years and that has become a kind of cultural dogma. The traditional sculpture genre is here evoked as “cultural material”, as a dogma to be used against another dogma. The figures made in bright colours have the caricature features of a marzipan composition. As in previous works, here Scotto di Luzio stages his disenchant, leaving the observer with the interpretational dilemma of a mise-en-scène where it is hard to recognize the borders between drama and farce.

—> links

ABC art berlin contemporary

Galleria Fonti

Kröme Gallery

#Galleria Fonti #Kröme Gallery #ABC Berlin #Lorenzo Scotto Di Luzio

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francescaboenzi-blog · 13 years ago

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Federico Maddalozzo | Interview

published in Flash Art Italia June 2012

Faithful to Error

Francesca Boenzi: What interests you about errors?

Federico Maddalozzo: An error represents a completely new point of view, unexpected and unwanted. It changes the shape of things and their meaning. In most cases one gives way to the error, lets it go. There is always a range within which it is tolerated: in serial production, for example, we have become accustomed to defects caused by machines. This incongruity fascinates me. Its randomness. The possibility to discover new options when a mechanism has malfunctioned. Some of your works from 2010 represent an important moment in your production. They are made from sculptural bases or straps exerting pressure on spray cans. Before then your approach was more analytical, focusing on archiving structures, codes and standards in order to capture errors. Here the tension between a form of control and an unpredictable element has a “performative” focus. I’m interested in this dialectic triggered by an action that is more physical than mental. Something new in your practice.

In these works my action plays the role of the error. It aims to be disruptive, annoying and destructive. The cans are used as a standard, they determine the spatial and temporal coordinates of the action: the duration and the amount of painting do not depend on me. I only put in motion the mechanism. Once the action has started, the damage is already done and is out of control. One has to wait until the end to understand the complete process. I am interested in performing actions only for what they leave.

In the work Nine days away, you have erased front pages of The New York Times, as many as you were able to, using the black paint contained in one spray can. The can being once again the tool and the unit of measurement. Since then you have begun a series of works using the front pages of newspapers. In these works you question fairly radically the relationship between image and information. How?

With Nine Days Away I wanted to question the usefulness of the information and how it acts over a certain period of time. It came about as an experiment. When a piece of information has major importance it echos for a long time. Irrelevant information is forgotten rather quickly. I have erased nine consecutive days of History. Once exhibited, the work demonstrated that the information returned to memory in those that had lived in that particular place and time. This happened thanks to the photographs that still could be seen under the color. Memory and the structure of information were then the starting point for a new series of works that I am still working on. In this series my intervention is more radical. I delete the image. In its place the color predominant in the original image is reduced to a point or a line derived from the composition of the image itself. Now more in evidence, the original caption gains importance and has more meaning.

In the past you were interested in structures observed in the urban landscape such as construction site fences, for example. Lately, you are paying attention to the traces and details of tags and graffiti that remain after cleaning certain surfaces. Rather than draw on reality or reproduce it I think you want to move these elements. What attracts you to these signs and how do you think of translating them into works?

The frames of the windows start out as elements with a structural function and they become surfaces when they are “tagged”. There is an attempt to cyclically clean these surfaces with the purpose of recover their original function. These are attempts at restoration made with a limited amount of care, that finally generate a perpetual game of failures, that are extremely fascinating to me. In this series of works, the color scanning and the 1:1 reproduction of the structural parts are the only elements I keep of reality. The doors and windows completely dematerialize, are transformed and forced to change their functionality. In the end, they exist only on account of the trace of color they support.

Do you reflect on painting in these works?

Realizing these works does require reflecting on painting, which is still very present in my research, even if I work in a more clinical and precise medium. Something similar happens with regard to sculpture when I work with architectural structures.

#Interview #Federico Maddalozzo #Flash Art #Francesca Boenzi

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francescaboenzi-blog · 13 years ago

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Benja Sachau | Die Zeitliche Segnung

Das Higgs-Boson, auch Gottesteilchen genannt, ist in der Teilchenphysik ein theoretisches Elementarteilchen dessen Existenz bisher noch nicht nachgewiesen werden konnte. Sobald das geschieht, wird als Folge unser Verständnis und Wissen des Universum neu definiert. Das Gottesteilchen, das anderen Teilchen eine Masse verleihen soll, könnte alle grundlegenden Interaktionen der Natur offenbaren. Genau diesem Schwebe- und Wartehaltungszustand widmet sich die Ausstellung Heppenheim – Die Zeitliche Segnung.

Die Dauer der Ausstellung wird durch die Installation Zeitliche Segnungsanlage definiert, bestehend aus zwei Klangschalen, eine innerhalb und eine außerhalb des Ausstellungsraums. Über einen Mikroprozessor gesteuert starten sie zeitgleich gegeneinander laufend im Abstand der Fibonaccisequenz, nur Anfang und Ende finden zeitgleich statt. Der Betrachter wird somit eingeladen, die Ausstellung als Zeremonie zu erleben. Diverse Objekte und Skulpturen, wie auch die generelle Atmosphäre in dem Raum sind von einer ambivalenten Kombination aus heilig und profan, wissenschaftlich und mystisch geprägt.

Entgegen ihrem ursprünglichen Gebrauch als asiatische Frühstückschalen werden in der westlichen Esoterik Klangschalen zur Meditation eingesetzt und funktionieren nun als akustischer Rahmen in Sachaus Segnungszeremonie. Sowohl in ihrer Substanz als auch in ihrer Form reflektieren drei verschiedene Beispiele von Elementarteilchen eine darunterliegende hierarchische Gesellschaftsordnung. Ein Taufbecken in der Form eines UFOs beinhaltet einen Nachbau eines 4000 Jahre alten stromerzeugenden Behälters, der unter Anhängern der Präastronautik als Beweis für extraterrestrischen Besuch auf der Erde gilt. Das Video Gruppenbild mit Feuerverkäuferin, Kracheranzünder, Sekt- und Blumenhändlerin, Padre und dem Konicamann zeigt ein interdisziplinäres Joint Venture einer Massenautosegnung in Bolivien. Das vom Mathematiker und Physiker Roger Penrose entwickelte Penrose-Parkett benutzt der Künstler, um ein schwarzes Quadrat aus handgesägten, aperiodisch angebrachten Holzkacheln anzuordnen. In der Tat wurde dieses dekorative Motif bereits vor 500 Jahren im Iran benutzt. Somit setzt der Künstler mit der Kachelarbeit Trauerndes Konstrukt heutiges Wissen mit Ideen auf eine Stufe, die über die Jahrhunderte verloren gegangen sind, und stellt gleiche Auffassungen von Entdeckung und Fortschritt in Frage. In seinen Werken hinterfragt Sachau die Grenzen des Bekannten und Unbekannten und inwiefern kommerzielle Forschung alleine zum Verständnis der Welt beitragen kann.

Alle Werke, die hier gezeigt werden, kombinieren diverse Historien und Wissen; funktionieren als Hinweise auf wissenschaftliche Theorien aber auch auf mystisches oder parawissenschaftliches Glauben; sind Ausdruck eines umfassenden und komplexen Verständnises der Welt, das von der Koexistenz und dem Geflecht ferner kultureller Positionen keinen Abstand nehmen kann.

Mit Heppenheim – die Zeitliche Segnung deutet Benja Sachau darauf hin, dass es keine Lösung der Kontinuität wirklich geben kann. Sollte menschliches Wissen regelmäßig Veränderungen und Revolutionen durchleben, ist das, was wir heute von der Welt verstehen im Endeffekt das kumulierte Ergebnis vieler Zivilisationen und Jahrtausende der Geschichte. In diesem Zeitraum und über Kontinente hinweg haben sich Ideen und Formen gebildet, die wieder verschwunden und manchmal wiedergekehrt sind.

Francesca Boenzi

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Kunstverein Heppenheim

#Kunstverein Heppenheim #Exhibition #Benja Sachau #Francesca Boenzi

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francescaboenzi-blog · 13 years ago

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Laure Prouvost Interview

an imperfect english version of the interview published in Flash Art Italia, March 2012

Francesca Boenzi: I would like to start talking about your grandfather and the tunnel he was excavating when he has disappeared… Laure Prouvost: Yes it’s really sad. We still don’t know where he is. It’s been months now. It was one of his last conceptual works digging a tunnel without the authorities knowing about it. But one evening, a few months ago, he didn’t come back home. My grandma is very worried.

Why is the image of the tunnel recurring so often in your work, in videos and in installations? I wanted to explore the physical sensation my grandfather must feel down there: the darkness, the muddy walls, being an animal hiding in the ground, his two eyes shining in the middle of the mud, the wet feet and water in the grounds, the worms, the sliminess, the smell of damp, the few packets of chips I found here and there when I went down searching for him, the tightness of the walls, the mud on my hands, the cold, the bottom of my grandma stuck by the entrance as she came worried looking for me… I had to push her out but she is pretty heavy, as she does not move anymore since my granddad has disappeared. She only eats sitting on the sofa. The house is covered in mud too, everywhere, just the gass hobs are visible these days. The tunnel is very much an invitation and somewhere impossible to escape from … we have no idea where it will end. We sent our dog there the other day, attaching him with tape. He came back all tangled in tape, just his tongue coming out, breathing heavily and he did not even find grandpa. We are pretty worried. What comes to mind is a totally uncomfortable claustrophobic place where sensations are amplified and distorted. It resonates. A passageway suspending prior experiences of the world… Claustrophobia is a subject I constantly go back to. It connects to this idea of being somewhere you can’t escape, where there is only one direction. The idea of norms and following one direction is something I struggle with or I want to get hold of. This is why you often say you want to lose control of the work. That sounds as a way to avoid given rules and directions… Control, yes. I am not in control. I don’t know if any of us are. So I am interested in suggesting alternatives, proposing different possibilities that hopefully both impose and break with ideas of control. I am also conscious that so many things come to the work. The viewer makes most of the work with his or her judgements and wishes – which are very different from mine. In that sense, I have no control over its interpretation, which I like. I recently read an essay of a film of mine, which saw it as a love story. I hadn’t thought of it like that before but that’s fine – it adds something more to it. Time also plays a crucial role. Time changes the perception of the work: The work will have a completely different meaning depending when it is shown or how. Of course context is something we are all aware of, but I like the idea that my work can take of different guises at different moments. In relation to the idea of losing control I would like you to tell something about the new films - The Wanderer - you are working on. You decided for the first time to work with actors and a sort of story/script… Are you changing your mind? I am working on a new film existing in 6 parts, each part being independent from the other: the time sequence, the wet sequence, the gossip sequence, the communication sequence, the drunk sequence, the old and new sequence, the authority sequence. It’s a film adaptation of the artist Rory Mcbeth’s ‘mistranslation’ of a Kafka novel, from German to English, without any dictionary and without understanding German. The story gets pretty surreal and towns become characters. I mistranslated his text into a film. The actor had to act in daily life situations as streets, pub houses, hairdressers… clashing with different realities. The location changed from the text. The actors improvised as much as reciting the text. We shot 80 hours of film that need to be edited and form sequences of less than 15 minutes. So I have a lot of work to do! The film will also exist as one film with all the sequences together. It’s been a challenge working with a big crew as most of my work in the past was mostly done on my own. And in this case the work consists more of directing a group of people, articulating your thoughts and being precise with how you want things, a totally new challenge for me… In this sense I needed to be in control! But then I filmed so much because I wanted to let things come in the film, out of my control again, to let surprises enter the film and affect the process. You make me thing of what I remember Robert Filliou sayed: “Art is what makes life more interesting than art”. I see a constant competition between art and life and the effort of comprehension and expression as central considerations in your work. Art often tries to compete with life, but will never totally grasp it. All the energy and movement that is produced between people, across cities, cultures and media is mind-boggling and inter-related and totally fascinating for me and this I want to somehow grasp - or at least articulate my failure in trying to grasp it – because how can I? As we use only a very small part of our senses - like sound, vision, texture and smells, then I would like to provoke smell in the mind and texture while looking. I like a quote by Broodthaers. It goes something like: “I don’t believe in film, nor do I  believe in any other art. I don’t believe in the unique artist or the unique work of art. I believe in  phenomena, and in men who put ideas together.” I don’t believe in the single mind or the single artist. Everything belongs together. Everything influences everything. I get annoyed by the importance art and artists give themselves. I get as stimulated or influenced by seeing an exhibition as by going to an African market or a hardware shop or to the dentist (perhaps not really to the dentist), by the sounds, the smells, the feelings one gets from these environments. On the street you see the most extraordinary things … I find it interesting what sees and notice in a familiar place and how one constantly edits. We edit sounds - not wanting to hear the traffic our brain manages to switch it off so we can hear a conversation. But when you film you hear every thing so it needs a different translation, an edited translation of an experience or feeling. All this leads to some considerations about the outcomes of communication and translations … The signature of your email reads ‘Prouvost and sons – We promote imperfections’ I share this statement. Do you believe in the potential of errors and imperfections? Yes. They let things and ideas come into the work. Otherwise everything would be very static, predictable and controlled. Less layers will exist, less possible interpretations. Mistakes and imperfections can take you somewhere else, somewhere you did not expect. Letting the unconscious in is important. I think in my work I am not so conscious of the decisions I make, or the reasons I let things out. I don’t really understand myself either, but most of us share similar emotions and want to relate one to another. That’s what film and art makes constantly tries to communicate. Then I have to say that I am not a big perfectionist and my approach comes out of my laziness towards perfection… I’m thinking of the story you often tell about fruits falling down from the sky, making a hole in the ceiling of your room, you calling your grandfather, a conceptual artist… Do you believe in miracles? And what’s your relation with conceptual art?

I like that there are many things I misunderstand and fail to communicate and I want to create narratives around them in order to understand it or believe in a solution. I like the idea of the mind approaching the supernatural and how a little story can grow into a big one, simply moving from one person to the next… it’s kind of reassuring, I guess. There is the feeling of something stronger than us and conceptual art is the opposite in a way… so maybe it all makes sense.

www.laureprouvost.com

#Interview #Flash Art #Laure Prouvost #Francesca Boenzi

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francescaboenzi-blog · 13 years ago

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Thomas Kilpper | in conversation

Francesca Boenzi: For Speech Matters – the group show curated by Katarina Gregos for the Danish Pavilion at the Venice Biennale – you built up a wooden extension to the original space using materials left over from the last Architecture Biennial. You often re-use materials that you find in situ. Is this just a cheaper, more practical solution or are there other reasons for it? Thomas Kilpper: Using recycled materials isn’t a must or a dogma, but of course our present, high-consumption mode of production is not what I aim for. Re-using materials – sometimes considered ‘waste’ – is something I quite like for several reasons: ecologically, to produce less waste; economically, as you mention, to save money; and last not least it is a nice contradiction to the notion of artistic ‘values’ with high price tags.

You carved portraits and scenes relating to current political events in the wooden floor. How did you select the subjects?

My idea was to create a work that generates its intensity from the contradiction between open structure and sinister content. I built a sort of romantic place in amongst the greenery; a sub-pavilion and an anti-palazzo that invites people to have a rest and stay for a while… but when you enter the space you become aware that it’s heavily loaded with social problems and political conflict. Like real life: desire meets reality. In the floor-cut I focused on the fact that sections of the extreme right in Europe have managed to draw near to the centres of power. Within the last decade this has happened in Austria, Italy, the Netherlands, Belgium, Switzerland, Denmark, Norway and France. Some European governments are now dependent on the votes of the extreme right in parliament – with devastating consequences. This trend is represented in my piece through portraits of conservative and right-wing politicians. Another focus is the roll-back on the ‘freedom of speech’, censorship and media manipulation. The Danish anti-Islam cartoons, the new Hungarian media law and others.

A ‘Speaker’s Corner’ was set up as part of your pavilion. How was it activated?

Everybody visiting my Pavilion for Revolutionary Free Speech can use it – but because there’s no amplifier it needs personal power to actually get heard if you want to make a statement. I quite like the fact that my megaphone sculpture can be used in both ways: to speak and to listen, for example, to what people are talking about at the entrance of the Swiss Pavilion.

I saw some Italian personalities among those present in the woodcut. I was then considering the fact that the Press Freedom Index compiled by Reporters without Borders in 2010 ranked Italy at number forty-nine together with Burkina Faso. And right now the attempt to stop the anti-phone-tapping law drafted by the Berlusconi government is a serious issue. Being an Italian who’s concerned about the situation in my country, I can’t avoid thinking how appropriate it would have been to bring the issue to the attention of the international art audience on this occasion…

I wasn’t aware of that when I was ‘digging’ up my floor. But it totally fits because there’s no ‘freedom of speech’ under state surveillance or wiretapping. It’s a shame I didn’t know about it. You lived in Florence last year as an artist on the Villa Romana fellowship, and you often come to Italy.

How do you see what’s going on in Italy and the engagement of Italian artists in political and social debate?

I don’t know the Italian art scene very well, but I am surprised about the circumstances for example of the Italian Pavilion in Venice. Vittorio Sgarbi’s approach to contemporary art seems clear: he wants to demonstrate how bad contemporary art is. The disturbing or irritating thing is that he was able to find some prominent support from intellectuals like Agamben… It seems that the art scene for the most part does accept the whole show with him. This is the corresponding attack of the Berlusconi government – against the poor, the migrants, the justice or education sector – but here the attack is on contemporary art and the cultural sector. I think there should be a far stronger stand and opposition against this policy. But somehow I had the feeling that the Italian cultural field is unlikely to move from its inactivity and tends to remain more or less calm.

I find the intense physical effort you put into disfiguring and reconfiguring spaces very interesting; the way you carve floors to turn them into matrices that represent historical and political issues. And I was wondering how political engagement and activism influenced your artistic practice.

The physical aspect of my work is a matter of fact somehow. Initially, when I started my floor-cuts, it was just important to have more resistance in comparison to charcoal drawings I’d made. My self-perception as a young boy was dominated by a feeling of physical weakness and I think this was deeply inscribed in my subconscious. To reach my physical limits and to exhaust my energy by working on my projects seems a necessary challenge and a way of overcoming this feeling. Later, as a young adult, I got involved in left-wing and environmental activism for a decade or so. Empowering myself through direct action… These years in part shaped my personality. But working as an artist is something different – doing art is not doing politics even if your work reflects social and political issues. They are other ways of dealing with those issues.

Straight after the Danish Pavilion I visited the Swiss one by Thomas Hirschhorn. When I read the text the artist had written about his installation, The Crystal of Resistance, I liked how the concepts were expressed in a very simple and direct way. These included the question of how to involve a ‘non-exclusive public’; art as a form of resistance; the possibility of the work being frontal in order to avoid the viewer moving backward and gaining distance. I think somehow you share similar concerns. How do you see art’s capacity for wide communication, resistance and frontality?

Well, for me, Thomas Hirschhorn’s installation is one of the strongest works in Venice. Maybe our approach to art has something in common? I don’t know. But if the environment I work in is unfair, violent and hierarchic… my work might become resistant and sometimes even frontal. At least I try to reflect the environment and the world we live in, and the transformations I long for are towards the implementation of more social equality and less use of violence and power. Of course art can communicate this; it has to. To what extent this might lead to broader reflections or transformations within society is another open question.

Since you mention the context you work in, I’d like to ask you to say something about After the Butcher – the space you run together with your wife Franziska Böhmer – and particularly about the participation of this space in the Based in Berlin exhibition…

After the Butcher is a not-for-profit exhibition space. Our main focus is to present those artists we personally think should be shown more often. And we encourage the artists we invite to develop new works relating to our space in one way or another. I consider After the Butcher one of my on-going art projects. I very much hope to be able to continue with it for many years to come. It should be experimental, fresh, critical and daring. When After the Butcher was invited to Based in Berlin as a ‘sub-curator’ this year, we decided to ask the artists we had already worked with whether to participate and collaborate or not. While we shared the critical attitude that was taken by the artist initiative Haben und Brauchen, we also felt that just saying ‘no’ to participation would be too easy. We at least wanted to try to find a way that would make taking part make sense, if under protest, for it is and remains a controversial or even bad exhibition. After some very intense discussions we came up with a concept for our participation: six different groups of artists conceived six time-based performative projects. Besides that, the third floor of the Kunstwerke remained empty, only one piece was shown there: Allegory of Government, a photo of the Mayor of Berlin by the artists Clegg & Guttmann.

For those of you who wish to know more about, here below the letter Thomas wrote to the visitors of Based in Berlin (only in German for now) and few other links…Thank you!

*APPENDIX

liebe besucherInnen,

after the butcher ist ein unabhängiger ausstellungsraum für zeitgenössische kunst und soziale fragen in berlin-lichtenberg, der die dritte etage in den KW kuratorisch verantwortet. nach unserer einladung zu based in berlin haben wir alle berliner künstlerInnen, mit denen wir in unserem raum bereits zusammengearbeitet haben bzw. uns das in zukunft vorstellen können, angefragt, für diese ausstellung beiträge zu entwickeln. aus einem intensiven diskussionsprozess sind sechs zeitbasierte, performative projekte von sechs verschiedenen künstlergruppen entstanden. im ansonsten leeren raum befindet sich nur ein für diese ausstellung in auftrag gegebenes bild, ein portrait des regierenden bürgermeisters von Clegg & Gutmann. die gründe für dieses ausstellungsformat liegen in unserem widerspruch gegen die politik dieses ausstellungs-projekts, das als “leistungsschau junger kunst aus berlin” angepeilt wurde, zum zwecke des “beweises”, dass berlin eine neue kunsthalle braucht. dafür wurde eine aufforderung als “open call” an alle berliner künstlerInnen gerichtet, sich für diese ausstellung zu bewerben, drei “überkuratoren” als beratendes gremium sowie fünf junge kuratoren bestellt und die berliner kulturprojekte gmbh damit beauftragt, die ganze sache zu organisieren. 1,7 mio Euro wurden von der politik für dieses projekt zur verfügung gestellt. in zeiten schmaler finanzmittel und allseitiger etat-kürzungen ein dicker brocken, der darauf hindeutet, dass die politik dieser ausstellung höchste priorität einräumt.

wir sind künstler - wir lieben es, kunst zu machen und wir machen es mit vollem einsatz, wir verabscheuen es aber, uns über “leistung” zu definieren. kunst funktioniert weder nach den gesetzen einer dampfturbine, noch nach denen eines tierzuchtvereins. kunst funktioniert durch intensitäten, widerständigkeit, widersprüche und irrsinn. kunst - auch wenn es permanent versucht wird - lässt sich nicht objektivieren - kunst ist form und inhalt und gebunden an subjektives wahrnehmen, und das ist auch gut so. uns in eine “leistungsschau” zwängen zu wollen, empfinden wir als angriff auf unser sein: wir brauchen unsere faulheit wie unseren fleiss, wir brauchen unser nickerchen wie unsere wachheit, wir brauchen unsere zweifel, flops und scheitern genauso wie unsere hightlights, wir brauchen kontemplation genauso wie handeln. und wir denken, dies betrifft nicht nur uns künstlerInnen, dies sind universelle qualitäten des menschlichen seins schlechthin, sie auszublenden und uns auf “leistung” zu reduzieren degeneriert uns. und es führt in seiner konsequenz nicht selten zu krankheit: stress, burn out, depression, drogen, suizid.

wir müssen dies hier betonen weil eine korrektur der begrifflichkeit und damit ein verständnis für den berechtigten protest von seiten der politik nicht nur ausblieb sondern insbesondere der regierende bürgermeister klaus wowereit stur und ignorant daran kleben bleibt und die ausstellung trotz titeländerung weiterhin als “leistungsschau” bezeichnet.

wir nehmen an dieser ausstellung unter protest teil, da die belange der bildenden kunst von der politik nicht wirklich ernst genommen werden. wowereits absichtserklärung in seiner antrittsrede nach der wiederwahl, eine kunsthalle in berlin zu gründen, folgten keine praktischen schritte. es liest sich für uns eher als leeres versprechen, das das ausbleibende tatsächliche engagement für die zeitgenössische kunst verschleiert.

die notwendigkeit einer kunsthalle kann nicht durch eine ausstellung ermittelt werden. die notwenigkeit und die machbarkeit muss in einem offenen austausch mit allen beteiligten - künstlern, kuratoren, kunstvereinen, galerien und museen…, und in einem öffentlichen diskussionsprozess ermittelt werden.

wenn der berlinischen galerie der ankaufsetat für zeitgenössische kunst gestrichen wird, wenn die kunstwerke KW oder die kunstvereine NBK und NGBK vor substantiellen finanziellen engpässen stehen, wenn es kein einziges berliner förderprogramm für “off-spaces” und selbstorganisierte ausstellungsräume gibt…, wie soll da eine neue kunsthalle funktionieren?

wir lassen uns nicht instrumentalisieren!

wir wünschen uns berliner politik, die ernstzunehmen ist, die auf eine verbesserung der lebensbedingungen der sozial schwachen orientiert. viele berliner künstlerInnen erleben seit jahren genau das gegenteil: unsere lebens- und produktionsbedingungen werden schwieriger, mieten und lebenskosten steigen, förderungen werden gestrichen, bei rückläufigen einnahmen. mit katharina sieverding sagen wir: “arm aber sexy” ist out. es ruiniert und diskriminiert uns und unsere Kunst.

thomas kilpper

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