La fotografia nel XXI secolo; Analizziamo insieme l'impatto della digitalizzazione della fotografia sulla società
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Un mercoledì in quel del FabLab di Torino
Anche se con un po’ di ritardo, a causa di una serie di problemi tecnici, ecco a voi le foto della visita svoltasi il 20 maggio 2015 con il gruppo di Rivoluzione Digitale presso il FabLab di Torino, alla scoperta delle stampanti 3D e altre fantasticherie degne di “Ritorno al futuro”.
La lezione è stata svolta da Davide Gomba, CEO presso Officine Arduino.
Quest'opera di Martina Andrulli è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.
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Fotografia espressiva
Fotografia autorizzata da Devin Mitchell sul sito del progetto
Quante volte vi è capitato di guardare una fotografia, osservare l'espressione sul volto del soggetto e riuscire a capire come possa sentirsi? Guardandone una avete mai affermato: “Ecco! Mi sento anche io così!”? A me è successo diverse volte: i colori, l’immagine raffigurata e spesso anche l’inquadratura suscitavano in me una reazione particolare, come se questa combinazione mi facesse sentire realmente a mio agio in quel momento. Da queste mie esperienze ho capito il potere che la fotografia ha come mezzo di comunicazione, per questo motivo vorrei segnalarvi il Veteran Vision Project, un progetto che mostra la biforcazione tra il civile ed il veterano, ovvero racconta le storie di ex militari, rientrati a casa, che si sentono quasi estranei alla loro vecchia vita.
Fotografia autorizzata da Devin Mitchell sul sito del progetto
L’intero progetto è stato realizzato utilizzando fotografie scattate quasi tutte nello stesso modo, eppure ciascuna racconta una persona, il suo disagio e la sua esperienza, sfidando quasi l’osservatore ad immaginare la sua storia e a provare, se possibile, le stesse sensazioni. Il fotografo che si è occupato di questo progetto è Devin Mitchell, il quale ha reso libere le foto tranne per fini collegati al profitto, e per il momento non sembra interessato ad abbandonare il suo lavoro anche se le sue ormai sono più di 200 fotografie. “Non mi importa se ci vogliono dieci anni”, ha affermato Mitchell. “Così come cambia il tempo, potrebbero farlo le foto e quello che stanno riflettendo. Possiamo solo aspettare e vedere". L’utilizzo di programmi professionali di fotoritocco da parte di Devin è esemplare ed ha portato sempre più veterani a voler essere fotografati da lui: le sue immagini e come lui le modifichi per adattarle al soggetto e al suo passato, sembrano essere il modo più adatto per raccontare realmente cosa vi è dietro la divisa.
Fotografia autorizzata da Devin Mitchell sul sito del progetto
Il fotografo americano Elliott Erwitt afferma: “Il punto fondamentale è scattare la foto in modo che poi non ci sia bisogno di spiegarla con le parole”. Questa frase si addice molto alle fotografie del Veteran Vision Project: esse dimostrano come si possa rinunciare a descrivere la foto, lasciare che sia chi la guarda a concentrasi sull’immagine… a volte una fotografia è capace di emozionare più di molte parole.
Marina Verrascina
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SELFIE DA UN SECOLO
Agosto 2013 “SELFIE” entra a far parte dell’Oxford English Dictionary, definito come “Una fotografia di sé stessi, tipicamente ripresa con uno smartphone o una webcam e pubblicata attraverso un social network”. Nonostante la vera e propria moda dell’autoscatto sia nata di fatto nel 2010, grazie all’uscita dell’iPhone 4 (primo dispositivo attrezzato di fotocamera anteriore), il termine “selfie” fu ufficialmente coniato dallo scrittore Jim Krause nel 2005, nel suo libro “Photo Idea Index” .
Ma che cosa si nasconde dietro al selfie, parola dell’anno 2013?
Malgrado l’incredulità di molti, la mania di scattarsi selfie è stata associata ad un disturbo psicologico, che rivela mancanza di autostima e lacune nella propria intimità, tali da costringere il soggetto a compensare l'immagine di sé attraverso la presenza artefatta e curata dello scatto su i più svariati social network. La notizia è stata divulgata dall’ente di riferimento internazionale degli psicologi: l’American Psychological Association. L’APA ha definito l’ossessione per i selfie una patologia mentale, per la quale è stata addirittura creato il termine “sefitis”, che in italiano viene tradotto “seflite”- un termine quasi ridicolo per indicare una vera e propria malattia. L’APA ha persino stabilito una scala che permetta agli psicologi di graduare la gravità del disturbo, in modo da poter ideare una cura specifica –non ancora esistente, benché gli psicologi assicurino che un intervento di tipo cognitivo-comportamentale potrebbe essere sufficiente per ottenere miglioramenti sul piano sintomatico.
Sono stati individuati, dunque, tre principali divisioni a seconda del numero di autoscatti giornalieri:
borderline, per chi si fotografa almeno tre volte al giorno, senza pubblicare gli scatti;
acuta, per chi oltre a ritrarsi per almeno tre volte al dì, pubblica i suoi scatti sui social;
cronica, per chi condivide foto per un totale minimo di sei scatti.
Personalmente rimango scettica riguardo la suddetta “selfite”, soprattutto in una società come la nostra, in cui questa tipologia di scatto fotografico sta acquistando sempre più importanza a livello di marketing della persona. Per l’appunto non mi è nuova la notizia che alcuni stilisti come Marc Jacobs o Donna Karan facciano i loro casting sfogliando il profilo Instagram della candidata.
Ma quello che più mi stupisce è il fatto che i selfie non sono una moda poi così tanto nuova come crediamo! Infatti, se tralasciamo il fatto di poterli caricare sul web, i nostri selfie sono esattamente fotoritratti: scattati con le stesse modalità, ma con macchinari più ingombranti e meno avanzati degli attuali smartphone.
Il primo selfie della storia risale all’ottobre del 1839 ad opera di Robert Cornelius, placcatore d’argento di Philadelphia che si ritrae all’esterno del negozio di famiglia. Il suo interesse per la fotografia e il successivo titolo di pioniere del selfie derivano dal suo lavoro con Joseph Saxton, che lo contattò per creare un piatto d’argento per il suo dagherrotipo.
Foto rilasciata in CC
Altro interessante selfie è datato 1913 come allegato ad una lettera in cui appare un’affermazione a noi tutti familiare: “[…]fare questa foto è stato molto difficile perché mi tremavano le mani.” Si tratta della granduchessa Anastasia Romanov(sì, quella del cartone animato), figlia minore dell’ultimo zar di Russia Nicola II. La zarina, ancora giovanissima –pare avesse solo 12 anni- si ritrae di fronte a uno specchio tenendo tra le mani un’avanzatissima(per l’epoca) macchina fotografica Kodak Brownie. Si dice che la “povera” Anastasia fosse solita ritrarsi davanti grandi specchi, in diverse pose e ambientazioni sempre nuove.
Infine vi propongo due autoscatti degli anni ’20, che fanno parte della collezione di oltre 23.000 pezzi del Museo della Città di New York. Gli scatti ritraggono i cinque Lord della Byron Company, storico studio fotografico di New York: Joe Byron, Pirie MacDonald, Colonel Marceau, Pop Core, Ben Falk.
Foto rilasciata in CC
Oggigiorno verrebbero chiamati “usie”, ovvero un selfie di gruppo dove “self” è sostituito da “us” (= noi).
Federica Sarti
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Nice to meet you! Facciamo le presentazioni!
Il video ha l’intento di raccontare un po’ di me e ciò che affrontiamo nel nostro blog. Venite a dare un’occhiata!
-Federica Sarti
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Quando si fotografano persone a colori si fotografano i loro vestiti. Quando si fotografano persone in bianco e nero si fotografano le loro anime.
Ted Grant
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Video realizzato da Marina Verrascina.
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Ecco a voi il mio video di presentazione per Il corso “Rivoluzione Digitale“ del Politecnico di Torino, in cui parlo anche di questo blog..e quindi GUARDATELO!
-Claudia
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Presentazione di Martina Andrulli.
Enjoy!
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Narratori di istanti - Steve McCurry
Ciascuno di noi è in grado di scattare una foto, di modificarla, di ricreare la vita attraverso un’immagine. Pochi però sono in grado di raccontare una storia intera con uno scatto, e ancora meno sono coloro che, nel tempo, creano un ricordo indelebile nella mente di chi le guarda.
Proprio loro sono i “narratori di istanti”, che mostrano come da una semplice passione, possa nascere e concretizzarsi un progetto più grande come l’essere un fotografo.
Immagine in CC di John Ramspott
Una delle foto più significative degli ultimi trent’anni, rimasta impressa nella memoria di chi è vissuto negli anni dello scoppio della guerra Afghana, è sicuramente quella di Steve McCurry, classe 1950, intitolata per l’appunto “la ragazza afghana”.
Immagine in CC di Emanuele
La sua carriera ebbe inizio a seguito della sua laurea in Arte e Architettura presso la Penn State University, quando intraprese, nei primi anni settanta, un viaggio che lo condizionò profondamente sia dal punto di vista professionale che umano, divenendo un fotografo freelance in India e Nepal.
Ciò che emerse fin da subito era senz’altro la ricerca del dettaglio, volendo ricreare un’immagine che per molti versi non si limita al solo scatto, ma è in grado di cogliere gli aspetti più scarni, intimi e talvolta malinconici dell’animo umano.
Come ci riesce? Egli affermò che la pazienza costituisce la più grande dote di un fotografo, e l’attesta, la costanza e la tenacia, se mostrate nei tempi e nei modi giusti, fanno sì che "la gente si dimentichi della vostra macchina fotografica ed il loro animo più profondo si mostri”.
E aggiunse, "la maggior parte delle mie foto è radicata nella gente. Cerco il momento in cui si affaccia l'anima più genuina, in cui l'esperienza s'imprime sul volto di una persona. Cerco di trasmettere ciò che può essere una persona colta in un contesto più ampio che potremmo chiamare la condizione umana. Voglio trasmettere il senso viscerale della bellezza e della meraviglia che ho trovato di fronte a me, durante i miei viaggi, quando la sorpresa dell'essere estraneo si mescola alla gioia della familiarità" - - Steve McCurry per Il volto della condizione umana (2003) prodotto dal regista francese Denis Delestrac -
Immagine tratta dal sito di Steve McCurry
Nel 1979, conobbe lungo il confine del Pakistan, alcuni profughi che lo informarono della guerra ormai imminente in Afghanistan, e così, tra bombe e fughe con i ribelli mujaheddin, riuscì a scattare la foto che lo rese celebre in tutto il mondo e che fu poi pubblicata nel 1985 dalla rivista National Geographic.
A partire dal 1986, Steve McCurry entrò inoltre a far parte dell’associazione Magnum, che si occupa tutt’oggi di attività per la tutela della libertà d’espressione e divulgazione delle notizie.
Immagine in CC di calafellvalo
La fotografia di McCurry è associata ad un modo di intendere l’arte completamente rivoluzionario, in cui non è la notizia in sè a fare scalpore, ma l’immagine che, data la sua intensità, riesce a trasmettere con i colori, le espressioni, i segni del tempo, una storia che a parole non può esser descritta.
I suoi soggetti preferiti sono, come appare chiaro dagli innumerevoli scatti visionabili sul suo sito, le persone che vivono in condizioni di guerra e di miseria, e che, venendo immortalati, sbalordiscono per la capacità di renderci partecipi della loro vita segnata da dolore e miseria.
Immagine in CC di Guillaume Baviere
Immagine in CC di FotoCla
Peculiarità di McCurry, è la grande ammirazione che egli prova nei confronti della fotografia analogica, che gli ha inoltre concesso l’opportunità di scattare con l’ultimo rullino Kodakchrome ufficialmente prodotto dall’omonima casa fotografica.
Tuttavia non è tantomeno da trascurare l’impatto che le sue “street photos” hanno avuto sulla società perlopiù americana.
Celeberrime, e significative, sono quelle scattate durante l’attentato dell’11 settembre 2001 a New York, che dimostrano quanto il terrore, la malinconia e la solitudine siano rappresentabili attraverso un solo scatto.
“A picture can express a universal humanism, or simply reveal a delicate and poignant truth by exposing a slice of life that might otherwise pass unnoticed.”
- Un'immagine può esprimere una universalità umana o semplicemente svelare una verità delicata e struggente, esponendo uno spaccato di vita che potrebbe altrimenti passare inosservati. -
Steve McCurry - [Foreword] Behind photographs (Archiving photographic legends) by Tim Mantoani, Channel Photographics, San Diego CA, 2011
Martina Andrulli
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Foto che lasciano il segno
Cosa succede quando l’arte, in generale, si impegna a mandare un messaggio educativo?
E cosa succede quando è la fotografia a farlo? Si può fare?
Da sempre le arti figurative sono il modo migliore per mandare un messaggio diretto, che sia di impatto, perché non c’è bisogno di pensare, non si deve conoscere un particolare linguaggio per capire quello che un’opera, qualunque essa sia, vuole comunicarti.
Te la ritrovi davanti e non devi far altro che farla tua, immagazzinare quel messaggio; e per quanto ad ognuno possa apparire diverso, il messaggio finale sarà uguale per tutti.
Anche la fotografia è un’opera d’arte. Anche la fotografia si impegna a mandare dei messaggi particolari.
Quando penso ai modi in cui la fotografia può influenzare chi la guarda, comunicando dei messaggi, non posso non pensare, ad esempio, ad un’iniziativa di livello internazionale: Weapon Of Choice.
Questo progetto è tanto semplice quanto d’impatto: attraverso la fotografia, e il make up, si vuole mostrare come le parole possano ferire, a volte, più delle azioni stesse; e grazie al make up, con questa campagna, è possibile “vedere” queste ferite anche in superficie.
I volontari che hanno partecipato al progetto, hanno subito questo tipo di abuso, e hanno scelto la parola che si sono sentiti più spesso ripetere, che li ha feriti nel profondo. Non a caso una delle parole più scelta è stata “stupido” ma anche parole forti come “sgualdrina” o “femminuccia”.
È bello sapere che il sito Internet del progetto ha ricevuto visite da 144 Paesi e che le fotografie servono come campagna contro la violenza, di qualsiasi forma.
Questo è solo uno dei casi in cui la fotografia manda dei messaggi tanto forti da essere definiti di impatto.
Ma anche la fotografia unita al “digitale” può riuscire in questo stesso intento.
Un connubio perfetto tra fotografia e tecnologia è una campagna pubblicitaria della Fundación Anar. Per i cartelloni pubblicitari è stata utilizzata la tecnica della stampa reticolare che permette di mutare l’immagine a seconda del punto di osservazione. Il cartellone è fatto in modo che solo i bambini fino a 10 riescano a vedere un messaggio, con il numero da contattare in caso di abusi, e il volto di un bambino con i segni della violenza.
Gli adulti invece non vedono il messaggio né i segni della violenza sul volto del bambino, e sul messaggio che leggono loro c’è scritto: “A volte gli abusi sui minori sono visibili solo dai bambini che li subiscono”.
Un altro modo per creare immagini forti è grazie all’utilizzo di Photoshop, software specializzato nell’elaborazione di immagini.
Photoshop è anche un software molto discusso, poiché sempre più spesso è utilizzato per falsificare la realtà, sopratutto in ambito della moda dove le modelle vengono “trasformate” per essere adatte a determinati “canoni”.
Martin de Pasquale e Guillaume Lamazou, ad esempio, utilizzano Photoshop per creare delle immagini spettacolari.
Martin de Pasquale, su behance, è un art director e digital artist argentino; egli crea illustrazioni uniche che combinano molte immagini e l’applicazione di molti effetti di Photoshop.
Guillaume Lamazou, su Instagram Zoumala, è un designer francese che illustra su Instagram le sue emozioni quotidiane.
Alcune di queste sono “un gioco” ma altre sono profonde, a tratti morbose, e oltre a dimostrare che un software su cui si discute molto, se usato in modo creativo può invece rivelarsi un’arma potentissima, rendono queste foto bellissime.
-Claudia
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SHARE SOCIETY
INQUADRARE. SCATTARE. PUBBLICARE.
…E aspettare che qualcuno metta un “like” alla nostra opera d’arte.
Ma esattamente, che cosa ci è concesso immortalare nei nostri scatti per non incappare in situazioni sgradevoli? Condividiamo ininterrottamente ogni momento della nostra vita sui social, spesso ignari e noncuranti delle conseguenze in cui potremmo incorrere. A questo proposito vorrei trattare due dei casi che possono essere di nostro maggiore interesse.
Bisogna prestare molta attenzione ai monumenti: possono sembrare il soggetto perfetto per una bella foto, magari al tramonto, da pubblicare sul nostro profilo. Ebbene, così innocui non lo sono!
Infatti le opere architettoniche -che più precisamente vengono definite “libertà di panorama”- sono fotografabili in qualsiasi momento, ma non sempre pubblicabili! Questo perché ogni edificio o monumento, ed ogni sua parte creativa, è tutelato dalla legge 633/41 sul diritto d’autore! In particolare citiamo(non integralmente) gli articoli 1 e 2:
“Sono protette ai sensi di questa legge le opere dell'ingegno di carattere creativo che appartengono alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all'architettura, al teatro ed alla cinematografia, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione. [...]”
Legge del 22 aprile 1941, n. 633, art 1.
(interessante il paragrafo per i programmi per elaboratore)
“… 4) le opere della scultura, della pittura, dell'arte del disegno, della incisione e delle arti figurative similari, compresa la scenografia; 5) i disegni e le opere dell'architettura; …”
Legge del 22 aprile 1941, n. 633, art 2.
Secondo il Codice Civile italiano i diritti d’autore valgono fino a 70 anni dopo la morte dell’artista. Per fortuna (o sfortuna?) in Italia le opere di maggior interesse storico sono fotografabili senza alcuna limitazione e dunque possiamo dare libero sfogo al nostro estro e pubblicarne quante più desideriamo! Ad ogni modo bisogna ricordare che qualora un monumento venisse trasformato o ad esso venisse aggiunto un nuovo design –come illuminazione o inserimento di nuovi fabbricati- è essenziale ottenere l’autorizzazione del nuovo architetto.
Questo è il caso, non molto famoso, della candidata per le nuove sette meraviglie del mondo: la Tour Eiffel. Nel 1989, infatti, venne commissionata l’elaborazione e l’installazione di un impianto di illuminazione artistica della torre. Tale intervento è da considerarsi a tutti gli effetti coperto da diritto d’autore in quanto opera d’arte a sé stante! Inoltre, poiché gli autori sono ancora in vita, uno scatto in notturna necessita di autorizzazione.
Analogo è il caso riguardante il recentissimo allestimento dell’illuminazione, a cura del premio Oscar Vittorio Storaro e della figlia architetto Francesca Storaro, dei Fori Imperiali a Roma.
Flickr- Alessandro Prada “Paris - Tour Eiffel”
Passiamo ora al caso più comune del ritratto in pubblico. Nessuna norma vieta di fotografare persone in luoghi pubblici, ma per quanto concerne la pubblicazione bisogna restare cauti. In merito sono significativi gli articoli 96 e 97 della legge 633/41 sul diritto d’autore (sì, quella di prima).
“Il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa, salve le disposizioni dell'articolo seguente. Dopo la morte della persona ritrattata si applicano le disposizioni del 2°, 3° e 4° comma dell'art. 93.”
Legge del 22 aprile 1941, n. 633, art. 96.
“Non occorre il consenso della persona ritrattata quando la riproduzione dell'immagine e' giustificata dalla notorieta' o dall'ufficio pubblico coperto, da necessita' di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione e' collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico. Il ritratto non puo' tuttavia essere esposto o messo in commercio, quando l'esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all'onore, alla reputazione od anche al decoro della persona ritrattata.”
Legge del 22 aprile 1941, n. 633, art. 97.
In conclusione basta stare attenti a chi si trova nello sfondo!
ATTENZIONE! Nel caso in cui si tratti di un vero e proprio ritratto, bisogna procurarsi la liberatoria, ossia un documento rilasciato dal soggetto, il quale autorizza la pubblicazione dello scatto esplicitandone gli usi concessi.
Da un punto di vista prettamente giuridico, il consenso alla pubblicazione della propria immagine costituisce soltanto l’esercizio di un diritto- precisamente il diritto inalienabile all’immagine- e dunque la liberatoria risulta essere revocabile in ogni momento. In mancanza di autorizzazione del soggetto ritratto, accanto alla violazione del diritto della persona all’onore e alla reputazione, si affianca il danno patrimoniale e ne consegue una bella multa!
Flickr- cristian “another point of view”
Spero di aver stuzzicato la vostra curiosità, ma soprattutto la vostra sete di informazione, perché, a mio giudizio, sono argomenti a cui non viene attribuita l’importanza che realmente meritano. Nostra culpa!
-Federica Sarti
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Internet: la scoperta di un mondo
Nel 2000 la Basilicata ha creato il progetto “Un computer in ogni casa” prevedendo un rimborso a tutte quelle famiglie che accettassero di comprare un computer in quel periodo. Grazie a questo progetto anche la mia famiglia comprò il primo computer, aveva bisogno di un mobile tutto per sé ed il mouse era più grande della mia mano. Nel momento in cui lo vidi mi sembrava di essere in un film di fantascienza ed era per me meraviglioso assistere alla prima accensione di quell’oggetto straniero. Mio padre cercò di capire come funzionasse ed aprì un programma di disegno, dicendomi di non cliccare su nessuna icona strana. Trascorsi i pomeriggi di quella settimana a disegnare piccoli alieni verdi con la loro navicella e, per un po’ di tempo, per me quello era il solo utilizzo possibile di quella macchina. Eppure il computer diventava sempre più importante agli occhi degli altri, le professoresse chiedevano ricerche sul web, ma penso che in quel periodo neanche loro fossero davvero in grado di spiegare come farle. Nessuno poteva insegnarmi ad usare quella macchina grigia e grande, ed i suoi programmi, che per me non erano altro che piccoli disegni sullo schermo. Quasi me ne vergogno ma una delle cose per me più difficili fu prendere immagini da Internet ed inserirle nei testi delle mie relazioni, volevo assolutamente imparare ad usare quella macchina e mi emozionavo ogni volta che ne scoprivo una sua funzione nuova. Come poteva quella “scatola” saper fare così tante cose? Una persona normale sapeva farle tutte?
Immagine personale rilasciata con licenza Creative Commons
A circa 10 anni scoprii che alcuni programmi di messaggistica offrivano anche la possibilità di giocare con altre persone, così iniziai a trascorrere le serate a chattare e a giocare a dama con i miei compagni. Quando non sapevo come fare qualcosa, o quando qualche errore strano appariva sullo schermo, cercavo sul web e nella maggior parte dei casi trovavo in fretta la soluzione. Con il passare del tempo navigando in rete ho notato che era molto più semplice cercare con il computer le informazioni, piuttosto che sui libri, e quando mia madre mi chiese se avessi bisogno di un’enciclopedia io risposi che ormai c’era Internet. Effettivamente non penso che mi sbagliassi. Ora uso Internet tutti i giorni: per studiare, per velocizzare i miei tragitti in città, per consigli su come svolgere determinate cose, per tenermi in contatto con le persone lontane, ma anche solo per far trascorrere più in fretta il tempo libero. In questo momento non riesco ad immaginare più di una settimana senza Internet, sarebbe più impegnativo svolgere molte cose, dovrei cercare una soluzione a tutto da sola, ma molto probabilmente avrei più tempo: tutto quello passato sui social a leggere post e a guardare video. Sicuramente all’inizio non credevo che si potesse preferire passare la serata a navigare sul web al divertirsi con gli amici, eppure oggi spesso è così.
Immagine rilasciata con licenza Creative Commons (da Flickr)
Possiamo usare il nostro cellulare per essere dall’altra parte del mondo in un attimo, per soddisfare le nostre curiosità, cercare di assimilare più informazioni possibili ed essere costantemente aggiornati...grazie ad Internet ormai il mondo è racchiuso anche solo in uno smartphone.
Marina Verrascina
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Il mondo ora contiene più fotografie che mattoni e sono, sorprendentemente, tutte diverse.
John Szarkowski
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Generazione 2.0
Faccio parte della generazione 2.0.
Quella generazione cui fanno parte i giovani tra i 18 e i 30 anni. Quella generazione che è cresciuta insieme alla tecnologia tanto da non riuscire a concepire un mondo senza.
E probabilmente è questo uno dei motivi che crea maggiore divario con la generazione precedente - quella dei genitori!
Ma cominciamo dall'inizio. Sono nata negli anni ‘90 e ho visto l'evolversi della tecnologia, quasi come ho visto evolvere il mio corpo - non che sia cambiata così tanto e così velocemente nel corso di questi 20 anni!
Proprio perché la tecnologia è sempre stata parte della mia vita, non ricordo il mio primo approccio con quest'ultima, ma in compenso ricordo tante prime volte; tanti piccoli ricordi, magari anche insignificanti che però mi hanno portata alla conoscenza e alla concezione che adesso ho della tecnologia.
Non ricordo di che modello fosse il primo pc della mia famiglia, ricordo però che mi fu concesso di avvicinarmici su per giù all'età di 5 anni, e ricordo anche che era enorme - ma davvero enorme! - occupava metà scrivania dello studio di papà!
Immagine rilasciata in CC
Per me, però, era bellissimo! Non avevamo internet, mio padre lo utilizzava per lavoro, per cui non potevo fare chissà quali scoperte tecnologiche!
All'età di 5 anni il mio più grande passatempo era 'PAINT', un programma che consentiva di disegnare e colorare… finché non era pronta la cena!
Con il primo anno di scuola elementare, iniziai a frequentare l’aula informatica e lì potevamo sperimentare e imparare qualcosa sui computer e ciò che ne riguardava!
La mia meraviglia, quell'anno in cui scoprii la memoria di archiviazione "Floppy disk", non si può descrivere.
Immagine rilasciata in CC
Quale magia poteva far 'entrare là dentro’ ciò che io elaboravo?
Ero letteralmente affascinata da quei “quadrati neri”, ne avevo davvero tanti, a volte se cerco qualcosa conservato da tempo mi capita di imbattermi ancora in uno di essi.
Altro passatempo preferito in quel periodo erano i giochi, alcuni di essi già presenti sul pc – credo che non esista una sola persona della mia età che non abbia giocato almeno una volta a Spider, Solitario, Hearts, Prato Fiorito ecc.
Successivamente arrivò anche a casa mia la possibilità di connettersi ad Internet senza problemi e quella fu la vera e propria svolta!
Certo fu anche motivo di molte liti con i miei genitori per vari motivi. Internet infatti non era semplicemente utile per fare ricerche scolastiche o per ascoltare musica.
Iniziarono a diffondersi le prime nuove piattaforme di comunicazione, come ad esempio Windows Live Messenger, o anche detta MSN. I miei genitori non sapevano come comportarsi nei confronti di questa nuova ‘invenzione’ che poteva anche avere dei risvolti negativi, per cui mi fu vietato di utilizzarla!
Col tempo la tecnologia si è maggiormente evoluta ed io, riuscendo a stare al passo con i tempi, sono diventata “il tecnico informatico” della mia famiglia.
Immagine rilasciata in CC
Quando mi hanno regalato un computer tutto mio le cose sono cambiate maggiormente. Potevo sperimentare e imparare cose nuove semplicemente con l’esperienza dei problemi che andavano sorgendo e cercare le soluzioni aiutandomi anche con internet.
Nel frattempo che Internet e il Web andavano sempre più diffondendosi, si iniziavano a creare altre piattaforme di comunicazione a distanza, in modo che si potessero mantenere i contatti anche con persone distanti, come permette di fare l’ormai diffusissimo Facebook, ad esempio.
Ma anche i cellulari sono stati “invasi” da Internet, basti pensare ai vari Smartphone in commercio, checi permettono di utilizzare Internet quando e dove ne abbiamo più bisogno.
Immagine rilasciata in CC
Insomma, Internet ha proprio cambiato tutto.
Anche le abitudini più semplici, come leggere un giornale o un libro sono cambiate.
Credo che come tutte le varie innovazioni, anche Internet può avere dei risvolti negativi – alcuni di essi sono già osservabili e li conosciamo bene – ma non si può dire che Internet non ha cambiato la società anche in meglio.
Personalmente credo che non si potrebbe più tornare indietro; questo tipo di tecnologia ormai fa parte della nostra società.
Come in ogni cosa è giusto cercare di imparare ad utilizzarla al meglio e diffondere un’educazione volta al giusto utilizzo.
-Claudia
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Let me take a “SELFIE”!
“Ehi, facciamoci un selfie!”
Quante volte al giorno ripetiamo, anche un po’ per abitudine, questa frase? Quante volte è capitato di sentirsi dire “appena puoi pubblica la foto”?
Immagine rilasciata in licenza CC (Pasko Tomic)
La generazione del 2000 forse, più di tutte, verrà ricordata per la quantità industriale di autoscatti prodotti al giorno, in una quotidianità che tra Instagram e Facebook non lascia scampo a nessun volto.
Secondo una recente inchiesta della celeberrima testata giornalistica Time, si è potuto mettere a confronto diverse città, le 100 “selfiest cities in the world” ovvero le 100 località dove sono state scattate più selfie nel mondo. La classifica ha preso in considerazione solo le foto pubblicate su Instagram, identificate mediante il tag “selfie” e analizzata in due periodi di 5 giorni ciascuno, dal 28 gennaio al 2 febbraio e dal 3 al 7 marzo. Durante questi dieci giorni sono state scattate 402.197 foto.
Al primo posto troviamo la città filippina Makati City, con 258 selfie-takers per 100mila abitanti e 4155 le selfies scattate da 2915 persone. Segue New York, con 202 selfie-takers e 3823 selfies scattate da 3004 persone a Manhattan e sul terzo Miami con 155 selfie-takers e 747 selfies scattate da 621 persone.
Giunti all’ottavo posto troviamo il nostro Paese, ed in particolare Milano, con 108 selfie-takers per 100mila abitanti, ovvero 1751 selfies scattate da 1340 persone. Scendendo la lista però compariamo ancora al 22° posto con Firenze, al 30° con Bologna, al 48° con Bari, al 52° con Napoli, al 69° con Roma e all’83° con Catania.
Come fotografa per passione, più di qualche volta mi è stato chiesto di modificare una foto per poi pubblicarla sui social network, di correggere le imperfezioni e poi esporre il risultato finale come un manifesto sulla prima rete di passaggio. E quante volte, seppur storcendo il naso, lo ammetto, l’ho fatto.
Nell’epoca del narcisismo, dell’egocentrismo più sfrenato, la fotografia è diventata il mezzo di comunicazione più potente al mondo. L’unica che, più delle parole, ti permette di affermare “Ecco chi sono, idolatratemi e fate di me la vostra icona”.
Immagine rilasciata in licenza CC (Elise Weber)
Probabilmente anche Niépce e Daguerre, inventori rispettivamente della eliografia e della dagherrotipia (nda: possiamo considerarli i padri fondatori della moderna fotografia), se fossero vissuti oggi avrebbero ceduto alla tentazione di rendere pubblici i loro volti con un autoscatto e di celebrare le loro opere attraverso i moderni canali di trasmissione.
Ma la vera domanda è, si riduce davvero ogni attimo della propria esistenza ad una foto artefatta con filtri? E quanto è sottile il filo che divide il filtro artificiale da un filtro che si crea sulla nostra personalità?
Perché in questo bisogna essere sinceri. La bellezza della fotografia e la bravura del fotografo, per come sono intese oggigiorno da una moltitudine di ragazzi, sono legate a meri aspetti come i “mi piace”, o il numero dei “followers” che instancabilmente commentano e pigiano pulsanti manifestando il loro gradimento.
Immagine rilasciata in licenza CC (Ken Walton)
Ma il web è pieno, anzi oserei dire logoro, di foto tutte uguali, di gente che si professa fotografo perché sa usare i soliti cinque effetti pre-impostati, o al più è in grado di eliminare qualche brufolo di troppo grazie a Photoshop o Gimp.
E allora, non siamo forse ciechi di fronte alla bellezza di un ritratto fotografico? Non siamo più capaci di commuoverci davanti a quella che è la vita vista dagli occhi di un Fotografo (e sottolineo con la F maiuscola)? Siamo così aridi dentro da non lasciarci più trasportare dallo splendore del tramonto, dalla profondità di uno sguardo?
Dalla magnificenza di chi è in grado di cogliere ciò che il nostro cuore vorrebbe scrivere, semplicemente attraverso uno scatto.
Immagine rilasciata in licenza CC (John C Bullas)
Curiosità: Il termine “selfie” è entrato a far parte dei vocaboli italiani attestati dall’Accademia della Crusca nel 2012; trovate il significato qui.
Martina Andrulli
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Oggi, con le nuove tecnologie digitali, tutti si sentono fotografi ma non è così. La fotografia è un vero linguaggio e ci sono tanti analfabeti.
Paolo Roversi
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Mano nella mano con la tecnologia- la prima volta su Internet
Sono nata nella metà degli anni ’90, quando la tecnologia ancora non aveva sconvolto la nostra società, ma piuttosto, come mi piace pensare, ci stava accompagnando verso l’Era tecnologica. Non ho un nitido ricordo del mio primo approccio alla tecnologia, in quanto questa faceva già parte della mia famiglia ancor prima che io nascessi.
Il mio primo contatto con il mondo della rete è strettamente collegato a quello della scuola, come probabilmente accade per la maggior parte dei miei coetanei. Ricordo la vigile presenza di mio padre mentre navigavo, ai tempi delle scuole Elementari (Scuola Primaria per i più pignoli), in cerca di informazioni e immagini per arricchire la ricerca di storia su Maya ed Aztechi. Ciò che mi affascinava maggiormente era la possibilità di inserire delle illustrazioni e decidere la loro posizione rispetto al testo (un banalissimo layout), o cambiare il colore del titolo(non il solito rosso!) oppure poter evidenziare nel testo concetti e parole chiave semplicemente attraverso un click: G grassetto, C corsivo e S sottolineato.
Immagini rilasciate in creative commons
L’installazione del nuovo computer fisso aveva suscitato talmente tanto entusiasmo in famiglia da far decidere ai miei genitori di cambiare l’assetto della casa, sostituendo la camera degli ospiti con uno studio. Da allora quella stanza diventò “il regno di papà”, accessibile a noi figlie-combina-guai solamente in occasioni eccezionali. Al contrario a casa del nonno il computer era sinonimo di divertimento. Mi ricordo che, data la mia estenuante vivacità, il nonno aveva ideato un efficace stratagemma: mi faceva sedere sulle sue ginocchia e giocavamo insieme a Il Solitario, Freecell, Prato Fiorito, indicandomi mosse ed astuzie per vincere. Inoltre, aveva acquistato un gioco bilingue su CD per l’apprendimento dell’inglese e l’acquisizione di nuovi vocaboli italiani, affinché questo rivoluzionario dispositivo potesse essere utile anche alla mia educazione.
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Per il mio tredicesimo compleanno avevo ricevuto un PC portatile Hp Pavilion dv6-1199eg ed ero ufficialmente diventata un’utente della rete. A quell’epoca avevamo l’ADSL Infostrada, che, oltre alle porte LAN per la connessione via cavo, aveva anche la funzionalità di router wireless. Avevo cominciato così la mia avventura su Internet! In primis attraverso Windows Live Messenger, più comunemente conosciuto come MSN: un programma di messaggistica istantanea prodotto da Microsoft. Per la prima volta potevo rimanere in contatto con i miei amici e compagni, senza la noia di dover telefonare a casa. Potevamo addirittura videochiamarci poiché i nostri computer erano muniti di webcam: un’innovazione straordinaria ai miei inesperti occhi. In seguito mi ero iscritta a Netlog, un social network rivolto in particolare agli adolescenti, abbandonato in tempi rapidissimi per la sua versione più moderna: Facebook. Ovviamente mi destreggiavo su Internet sotto la rigida supervisione dei miei genitori, che rimanevano diffidenti e soprattutto preoccupati per la mia incolumità “virtuale”(se così si può chiamare), in quanto mi stavo affacciando ad un universo ancora oscuro persino a loro.
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Da quel momento ho iniziato ad inoltrarmi sempre di più in questo intricato labirinto di siti, social network e quant’altro che costituisce Internet, vivendo in prima persona il suo sfrenato e continuo sviluppo. Sono convinta che il suo approdo nella società abbia segnato il cambio di un’Era: una radicale trasformazione che ha ridimensionato il nostro stile di vita, con ambo benefici e risvolti negativi.
Federica Sarti
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