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La mente associativa
Da: Intelligenza emotiva (Daniel Goleman)
La logica della mente emozionale è associativa; per essa, elementi che simboleggiano una realtà o ne suscitano il ricordo equivalgono a quella stessa realtà. Per questo le similitudini, le metafore e le immagini si rivolgono direttamente alla mente emozionale, come fanno l'arte, i romanzi, i film, la poesia, il canto, il teatro, l'opera. Grandi maestri spirituali come Buddha e Gesù hanno toccato il cuore dei discepoli parlando il linguaggio dell'emozione, insegnando con le parabole, le favole e i racconti. Infatti il simbolo e il rituale religioso non hanno molto senso dal punto di vista razionale; essi si esprimono nell'idioma del cuore.
Questa logica del cuore - della mente emozionale - è ben descritta da Freud col concetto di "processo primario" del pensiero; è la logica della religione e della poesia, della psicosi dei bambini, del sogno e del mito (come afferma Joseph Campbell: "I sogni sono miti privati; i miti sono sogni condivisi"). Il processo primario è la chiave per decifrare il significato di opere come l'Ulisse di Joyce: nel processo primario del pensiero, associazioni libere determinano il flusso narrativo; un oggetto ne simboleggia un altro; un sentimento ne soppianta un altro e sta al suo posto; le totalità vengono condensate nelle parti. Non ci sono né il tempo né la legge causa-effetto. Anzi, nel processo primario non c'è negazione. Tutto è possibile. Il metodo psicoanalitico è in parte l'arte di decifrare e dipanare queste sostituzioni di significato.
Ciò che conta per la mente emozionale è come le cose vengono percepite; le cose sono ciò che appaiono. Quel che una cosa ci fa ricordare può essere molto più importante di quel che essa è.
La mente emozionale è infantile in molti modi e lo è tanto più, quanto più forte cresce l'emozione. Una delle sue modalità è il pensiero categorico, che vede tutto o bianco o nero, senza sfumature di grigio.
Un altro segno di questo modo infantile è il pensiero personalizzato, che percepisce gli eventi in maniera deformata, riconducendoli tutti al proprio io.
Questo modo infantile è autoconvalidante, perché sopprime o ignora ricordi o fatti che ne scardinerebbero le convinzioni e si aggrappa a quelli che lo confermano. [...] La mente razionale ragiona in base alle prove oggettive. La mente emozionale, invece, considera le proprie convinzioni assolutamente vere e perciò sottovaluta ogni prova contraria. Per questo è così difficile ragionare con chi è emotivamente turbato: quale che sia la saldezza del vostro argomento da un punto di vista logico, non ha rilevanza se si scontra con la convinzione emozionale del momento.
I sentimenti si autogiustificano con un insieme di percezioni e di "prove" tutte loro.
Ti accorgi di come vola bassa la mia mente È colpa dei pensieri associativi (Franco Battiato, Segnali di vita)
Che nell'incosciente Non c'è negazione. Svincolarsi dalle convinzioni Dalle pose e dalle posizioni. (Morgan, Altrove).
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L’importanza della lettura e il pericolo dei gusti
Se non avessi letto Sottomissione di Houellebecq, modesto e confuso romanzo sull’invasione islamica nella cultura occidentale, non avrei scoperto Huysmans e il suo capolavoro Controcorrente.
Il manifesto, anzi la Bibbia del Decadentismo.
Un’opera che decostruisce la forma del romanzo, inserendovi l’arte, la scienza, la storia. Insomma, un manuale, un sussidiario della cultura occidentale e delle sue radici cristiane, con lo sguardo dell’artista radicale di fine ‘800. Un passepartout che, partendo dal peccato capitale della Lussuria, conduce verso la Grazia.
Mentre si acuiva il desiderio di sottrarsi a un’epoca detestabile di rivoltante volgarità, era diventato più imperioso in lui il bisogno di non vedere più quadri raffiguranti esseri umani intenti ad arrabbattarsi in interni parigini o a vagare per le vie in cerca di denaro.
La solitudine aveva agito sul suo cervello come un narcotico. Dopo averlo dapprima eccitato e stimolato, gli portava un torpore minacciato da vaghe fantasticherie, annientava i suoi progetti, spezzava ogni sua volontà, guidava una sfilata di sogni che egli subiva passivamente, senza nemmeno tentare di sottrarvisi.
“Bisognerebbe poter fare a meno di discutere con se stessi”, si disse con dolore; “bisognerebbe poter chiudere gli occhi, lasciarsi trascinar via dalla corrente, dimenticare le maledette scoperte che negli ultimi due secoli hanno raso al suolo l’edificio religioso”.
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Superficie, cultura e limiti: da Aristotele a Charlie Hebdo
Non è che siamo superficiali, è che i tempi che abbiamo a disposizione per le nostre vite sono troppo condizionati dall’accumulo di impegni.
Riflessioni come questa fanno parte della cassetta degli attrezzi linguistici dell’uomo del XXI secolo. Siamo vittime di un bombardamento di stimoli; l’eccesso di informazioni rende più difficile conservarle; internet sta diventando per l’uomo una sorta di hard disk esterno. Fissiamo le nostre priorità (parecchie!) e tutto il resto viene sbrigato in velocità, con il pilota automatico se non con irritazione e insofferenza.
Siamo superficiali e ci adagiamo nella superficie. Come scrive qui Mauro Portello è come se avessimo accettato il fatto che di più non si può fare, che le nostre forze oltre non si possono spingere e che non fruire abitualmente (e quindi perdere) abilità preziose come, ad esempio, la memorizzazione, il calcolo, la complessità linguistica, la capacità di analisi, non sia poi tutto questo problema. In fondo, l’organizzazione sociale protegge le nostre vite quotidiane con le sue complesse articolazioni e, tutto sommato, per vivere “banalmente” non ci vuole molto, no? Non sarà che la superficie - si chiede Portello - è diventato un luogo in qualche modo confortevole?
Confortevole sì, ma esposta. Esposta alle pressioni politiche, economiche, sociali tra le quali ci destreggiamo a fatica. Esposta alle mode e alle ondate emotive. Avere un’opinione immediata su tutto ciò che accade, informarsi e decidere da che parte stare in pochi minuti. Da qui a farsi travolgere è un attimo!
Ed ecco in una sintesi di superficie i fatti del caso Charlie Hebdo, in due parti:
Pt.1: difesa delle vignette cariche di insulti verso l’Islam in nome della libertà d’espressione;
Pt. 2: indignazione verso le vignette che raccontano con altrettanto cinismo il dramma del terremoto del centro Italia;
La reazione italiana alle vignette sul terremoto è stata altisonante. Ma senza entrare nel merito dei contenuti delle vignette, la domanda sorge spontanea:
Davvero non sapevamo che alla redazione di Charlie Hebdo si lavora così? Che questo è il loro atteggiamento, da sempre, riguardo a ciò che accade nel mondo?
Forse lo sapevamo, forse no. Forse siamo dei paladini della libertà di espressione ovunque essa ci conduca o forse siamo stati superficiali. Ok, proviamo ad essere indulgenti e ammettiamo che l’ondata emotiva ci ha sopraffatti nella difesa del settimanale francese ma la questione sulla libertà di espressione rimane. Per parlare di libertà, concetto legato a doppio filo al principio di giustizia (ricordiamo tutti la celebre frase di Sandro Pertini…), può essere interessante partire da quello che oggi consideriamo la sua negazione, cioè il limite. Oggi, come scrive Remo Bodei nel suo Limite (Bologna 2016), «è diventato urgente ripensare l’idea di limite, di cui si è in parte persa la piena consapevolezza – normale in altri tempi –, in modo da essere meglio in grado di definire l’estensione della nostra libertà e di calibrare la gittata dei nostri desideri».
Viene in mente Schopenhauer:
“Fissare una meta ai nostri desideri, imbrigliare le nostre bramosie, dominare la nostra ira, tenendo sempre presente che solo una parte infinitamente piccola di tutto ciò che si possa desiderare può essere raggiunta dall’uomo.”
Come racconta qui Francesca Rigotti, Bodei sposa una definizione di limite cara alla civiltà ellenistica classica, dove il termine riceve una connotazione positiva: La «limitatezza» non alludeva per gli antichi greci a una imperfezione o a una privazione quanto a una condizione di pienezza, a un fattore di legge, ordine e perfezione. Sul piano etico o morale, il «peccato», il vizio, il male, stanno per il pensiero greco classico nell'eccesso; il bene, nella moderazione e nella misura. Attributo della saggezza, la moderazione o anche l’auto-moderazione diventa prerogativa della libertà del singolo. La connotazione opposta - limite come mancanza - è caratteristica della società contemporanea, quella dell’illimitatezza esasperata.
Il soggetto moderno vive in un'epoca di illimitatezza esasperata in cui le nuove tecnologie e i nuovi media hanno compresso il tempo e vanificato lo spazio fino a condurre al rifiuto dell'idea della fine, del confine e del limite.
Troppi stimoli, miriadi di informazioni, infiniti desideri ed eccoci intrappolati nel diabolico loop che ci riporta alla superficie. Abbiamo smarrito il senso del limite e ci basta un contenitore piuttosto ambiguo come quello di “Satira” per giustificare ciò che ci fa comodo. E allora difendiamo la libertà di espressione di un settimanale satirico francese come un principio garantito dai nostri valori, giustificando anche l'oscenità dei suoi contenuti con la sproporzione evidente e drammatica della punizione subita.
Ma se la cultura è strumento di emancipazione e trasformazione sociale, forse il nostro vorace consumo di contenuti culturali (in superficie!) ci sta rendendo stupidi e senza tatto come degli algoritmi che rispondono allo stimolo con logica e innocente abduzione. L’algoritmo di Facebook, ad esempio, pone dei limiti (Zuckerberg è stato molto furbo a porsi in tempo il problema del limite!) e ci risparmia non senza moralismo quel mare magnum di pornografia che è invece alla portata di chiunque su Twitter. Ma all’algoritmo non si può chiedere di andare troppo in profondità ed è così che anche dei nudi artistici possono subire la censura.
EPILOGO L’unico limite che non riusciamo a superare pare essere quello della superficie. L’ironia di questa vicenda, per quanto amarissima, rimane un meccanismo altamente affascinante e meriterebbe riflessioni ben più autorevoli. Una cosa però è chiara: se l’autocensura è un gesto di cultura, essa è anche conveniente perché ci mette al riparo da giudizi frettolosi che ci fanno prendere le parti di qualcuno con cui, tutto sommato, abbiamo poco con cui spartire.
“La conoscenza è limitata, solo la stupidità non ha limiti” - Arthur Schopenhauer
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Collezione di sabbia
tratto da “Collezione di sabbia”, di Italo Calvino, 1984.
La tradizione orale - scrive Giorgio Agamben - mantiene il contatto con l’origine mitica della parola, cioè con quello che la scrittura ha perduto e che continuamente insegue: la letteratura è l’incessante tentativo di recuperare quelle origini dimenticate.
Il linguaggio (ogni linguaggio) costruisce una mitologia, e questo modo d’essere mitologico coinvolge anche ciò che si credeva esistesse indipendentemente dal linguaggio. Da quando il linguaggio fa la sua comparsa nell’universo, l’universo assume il modo d’essere del linguaggio, e non può manifestarsi se non seguendone le regole.
La scrittura nasce nella Bassa Mesopotamia, nel paese dei Sumeri, capitale Uruk, intorno al 3300 a.c.. Siamo nel paese dell’argilla: documenti amministrativi, contratti di vendita, testi religiosi o di glorificazione dei re vengono incisi con la punta triangolare d’una canna o calamo su tavolette che vengono poi seccate al sole o cotte. Il supporto e lo strumento fanno sì che la pittografia primitiva subisca in breve tempo una semplificazione e stilizzazione spinte all’estremo: dai segni pittografici (un pesce, un uccello, una testa di cavallo) scompaiono le curve che sull’argilla non venivano bene; in questo modo la somiglianza tra segno e cosa rappresentata tende a scomparire. S’impongono i segni che possano essere tracciati con una serie di colpi di calamo istantanei. È la scrittura cuneiforme, che trasmette un’impressione di rapidità e movimento ed eleganza e regolarità compositiva.
La linearità della scrittura ha una storia tutt’altro che lineare, ma che si gioca tutta in una zona geografica ben delimitata, nel corso di due millenni e mezzo: tutto succede tra il Golfo Persico, la costa mediterranea orientale e il Nilo. Se è vero che anche la scrittura indiana e probabilmente perfino quella cinese derivano dallo stesso ceppo, possiamo concludere che per la scrittura (a differenza che per il linguaggio) si può parlare d’una monogenesi.
Quel che è certo è che, a differenza del linguaggio, la scrittura è un fatto di cultura e non di natura.
Perché proprio la Bassa Mesopotamia?
Cinquemila anni fa in quelle aride terre si forma un nuovo sistema politico-economico che ha per centro la città e la monarchia sacerdotale; i lavori d’irrigazione rendono possibile un grande sviluppo agricolo e si assiste a un’esplosione demografica: nasce la necessità d’una contabilità complicata per controllare le esazioni, gli scambi, i catasti tra un gran numero di persone su vasti territori. L’argilla, aiuto essenziale per la memoria, già prima della scrittura serviva per fissare messaggi esclusivamente numerici; ed ecco che accanto alle tacche che corrispondono a cifre si comincia a incidere figure rappresentanti merci (animali, vegetali, oggetti) o nomi di persona.
Ad aprire gli sconfinati reami spirituali della cultura scritta sarebbe stata dunque una necessità pratica, mercantile o addirittura esattoriale?
Le cose sono più complesse. Le forme primordiali di simbolismo grafico vengono adottate nei promemoria del dare e dell’avere perché già esse erano state elaborate in sede artistica, soprattutto nei vasi in ceramica dipinta. Già da tempo, in oggetti funerari e di culto come in oggetti d’uso, il “nome” degli individui e degli dei era stato rappresentato in figure che erano insieme espressione di ammirazione o paura o amore o dominio: stati d’animo, atteggiamenti verso il mondo.
L’espressione che possiamo già definire poetica e la registrazione economica sono dunque i due bisogni che presiedono alla nascita della scrittura; non possiamo farne la storia senza tener conto di entrambi questi elementi.
Al tempo di Ninive e di Babilonia queste impronte di zampa di gallina fitte fitte ci raccontano l’epopea di Ghilgamesh, o ci forniscono un vocabolario, un catalogo di biblioteca, un trattato sulle dimensioni della torre di Babele (che risulterebbe essere stato uno zigurat di sette piani, alto 90 metri). Mentre in Mesopotamia si può seguire l’evoluzione da una prescrittura alla grafica cuneiforme, in Egitto i geroglifici si presentano tutt’a un tratto, certo un po’ balbuzienti e disordinati agli inizi, ma senza antecedenti che si conoscano. Questo vorrà dire che la scrittura è stata importata in Egitto dalla Mesopotamia? La cronologia (un paio di secoli di differenza tra le prime pittografie di Uruk e i primi geroglifici) darebbe sostegno a questa tesi, ma il sistema egiziano è tutto diverso. Si tratta allora d’un invenzione indipendente? Forse la verità sta nel mezzo: gli Egiziani hanno con la Mesopotamia stretti rapporti commerciali e non tardano ad apprendere che i Sumeri “scrivono”; questa notizia apre nuovi orizzonti alla loro inventiva e non ci mettono molto a elaborare un metodo di scrittura originale, che resterà solo loro.
L’alfabeto, ossia la serie di segni che corrispondono ognuno a un suono e che variamente raggruppati possono rappresentare tutti i fonemi d’una lingua, nasce con 22 segni sulla costa della Fenicia (il Libano attuale) verso il 1100 a.c. Dal “consonantico lineare fenicio” derivano direttamente il moabita, l’aramaico, l’ebraico e più tardi il greco.
Il destino d’ogni scrittura è di cadere in polvere, e pure della mano scrivente non resta che lo scheletro. Righe e parole si staccano dalla pagina, si sbriciolano. Il principio vitale di tutte le metamorfosi e di tutti gli alfabeti riprende il suo ciclo.
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Il futuro passa dalla rete... e può funzionare!
Lo dicono i dottori, lo dice la scienza. Fumare fa bene e ci rende più cool. Controindicazioni? Neanche a parlarne.
Erano gli Stati Uniti degli anni ’50, era il boom economico, la libertà, l’emancipazione e c’era la voglia di potersi permettere un bel vizio. Lo diceva anche Babbo Natale!
Poi l’entusiasmo di quegli anni si è bruscamente interrotto dopo la scoperta che qualche piccolo effetto collaterale c’era.
Ci vollero decenni per avere la meglio sulle multinazionali del tabacco
fino all’obbligo di scrivere sui pacchetti che il fumo fa venire il cancro, e proibirlo in molte aree pubbliche, ma qualcosa fu fatto!
A Marzo del 2017 Adam Alter, professore associato all’Università di New York, ha pubblicato il suo secondo libro, The Rise of Addictive Technology and the Business of Keeping Us Hooked.
Alter descrive la tecnologia come un nuovo oppio dei popoli, illustrando le ragioni di quella che definisce un’assuefazione in grado di generare dipendenza.
Le persone - dice lo studioso - sembrano ossessionate dall’impulso di controllare le email o le notifiche social. Un bisogno compulsivo che si inserisce in tutti i momenti della nostra vita.
La tesi di Alter è che dovremmo porre un argine a questa epidemia, sottrarre queste tecnologie seduttive ai nostri figli e chiedere ai governanti regole più rigide per limitarne l’uso, come è stato fatto per il tabacco.
È interessante notare come tale ossessione sia aumentata in modo decisivo con l’avvento dell’iPhone nel 2007 e dell’iPad nel 2010.
Ironia vuole che proprio il mago alchimista dei suddetti prodigi, Steve Jobs, decise di proibire l’uso dell’iPad ai suoi figli. Perché lo fece? Per Alter la risposta è semplice: i tecnici della Bay Area sapevano benissimo come funziona il nostro cervello e come le persone siano biologicamente portate a essere catturate da certe esperienza.
Si tratta forse di fondamentalismo anti-tecnologico?
Forse, se consideriamo i rimedi drastici proposti da Alter. Meno, se guardiamo a più recenti studi sulle nuove dipendenze e sugli effetti antisociali di certe tecnologie.
Il passaggio decisivo in questioni complesse come questa è l’atteggiamento con cui si giudica, il non lasciarsi andare al tifo per l’una o l’altra parte, non semplificare la realtà - come oggi accade ossessivamente - con la dicotomia tra bianco e nero, tra giusto e sbagliato.
La rete - figlia e profeta delle nuove tecnologie - è uno strumento meraviglioso.
Lo è ancora e non smetterà di esserlo, a patto che non venga persa, dai suoi gatekeeper, una direzione valoriale, equa e non esclusivamente speculativa.
Se la società di oggi ci invita ad essere qualcuno con la promessa del guadagno economico, la rete non potrà che essere una cassa di risonanza per la ricerca della celebrità. Quando le grandi istituzioni che regolano la società vengono meno, i risultati vengono spiattellati in maniera violenta e in cross-platform.
Gestire l’assuefazione trovando spazi di socialità reali e ritrovare l’attitudine ad un futuro guidato da chi ha competenze nel proprio campo.
Questa la sintesi di chi crede che la cultura abbia ancora un ruolo decisivo nel traghettare l’esperienza e gli insegnamenti del passato nel futuro e nell’agire da calmante e da collante sociale in un epoca di muri, divisioni e super bombe.
Il 29 Aprile 2017, Goffredo Fofi, a Palermo per ricevere la cittadinanza onoraria, ha ricordato l’importanza di unire l’azione al pensiero, riallacciandosi ad echi di ideologie lontanissime che in una società sempre più immobile, chiusa su se stessa e con lo sguardo puntato verso uno schermo, potrebbero avere quanto mai senso per riscoprire un’attitudine al futuro. Un futuro reale che abbia, come succedeva fino a non molto tempo fa, un’accezione indiscutibilmente positiva!
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Jung: la scienza, la fretta, il progresso.
[Tratto da “Ricordi, sogni, riflessioni”]
Le nostre anime, come i nostri corpi, sono composte di elementi individuali che erano già presenti nella catena dei nostri antenati. Le “novità” della psiche individuale è una combinazione variata all’infinito di componenti antichissime. Il corpo e l’anima hanno perciò un carattere eminentemente storico e non si trovano a loro agio in ciò che è appena sorto, vale a dire i tratti ancestrali di trovano solo in parte a casa loro. […] Siamo precipitati in una fiumana di un progresso che ci proietta verso il futuro con una violenza tanto maggiore quanto più ci strappa dalle nostre radici.
Ma se si apre una breccia nel passato, esso per lo più crolla e non c’è più nulla che trattenga. Ma è proprio la perdita di questo legame, la mancanza di ogni radice, che genera tale “disagio della civiltà” e tale fretta che si finisce per vivere più nel futuro e nelle sue chimeriche promesse di un’età dell’oro che nel presente, a cui del resto la nostra intima evoluzione storica non è neppure ancora arrivata. Ci precipitiamo sfrenatamente verso il nuovo, spinti da un crescente senso di insufficienza, di insoddisfazione, di irrequietezza.
Non viviamo di più di ciò che possediamo, ma di promesse, non viviamo più nella luce del presente, ma nell’oscurità del futuro, in cui attendiamo la vera aurora. Ci rifiutiamo di riconoscere che il meglio si può ottenere solo a prezzo del peggio. La speranza di una libertà più grande è distrutta dalla crescente schiavitù allo stato, per non parlare dei spaventosi pericoli ai quali ci espongono le più brillanti scoperte della scienza. Quanto meno capiamo che cosa cercavano i nostri padri e i nostri antenati, tanto meno capiamo noi stessi, e ci adoperiamo con tutte le nostre forze per privare sempre più l’individuo delle sue radici e dei suoi istinti, così che diventa una particella della massa, e segue solo ciò che Nietzsche chiama lo “spirito di gravità”.
I miglioramenti che si realizzano col progresso, e cioè coi nuovi metodi o dispositivi, hanno una forza di persuasione immediata, ma col tempo si rivelano di dubbio esito e in ogni caso sono pagati a caro prezzo. In nessun modo contribuiscono ad accrescere l’appagamento, la contentezza o la felicità dell’umanità del suo insieme. Per lo più sono addolcimenti fallaci dell’esistenza, come le comunicazioni più veloci che accelerano il ritmo della vita e ci lasciano con meno tempo a disposizione di quanto ne avevamo prima. Omnis festinatio ex parte diaboli est: tutta la fretta viene dal diavolo, come erano soliti dire i vecchi maestri. Le riforme che si realizzano col ritorno al passato, invece, sono di regola meno costose e più durature, perché esse ci riportano alle più semplici e provate vie del passato, e richiedono il più parsimonioso uso di giornali, radio, tv e di tutte le novità che si pensa ci facciano guadagnar tempo.
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La giustizia al di là del bene e del male: da Rossi a Zidane.
È facilissimo esser buoni, ma il difficile è esser giusti. Con questo celeberrimo aforisma, Victor Hugo pone un sigillo ad una delle più importanti opere del XIX secolo, cardine dell’Europa che verrà.
È davvero così? È più facile schierarsi dalla parte dei buoni o da quella dei giusti? E perché queste due categorie non sempre coincidono? I miserabili è una storia di cadute e risalite, che narra le vicende degli ultimi, gli emarginati nella società francese della prima metà dell’800. “Cadute” e “ultimi” sono anche i termini al centro di questa breve digressione su un fatto sportivo che offre spunti di riflessione un po' più ampi (non troppo!).
È il 25 ottobre 2015 e il campione dei campioni Valentino Rossi butta letteralmente fuori pista, forse anche con un calcetto, l’astro nascente del motociclismo, Marc Marquez. Non consideriamo il fatto in sé (le immagini parlano da sole), proviamo a fidarci del 46 e diamo per scontato che sì, Marquez complottava contro di lui per fargli perdere il mondiale (o da buon aiutante - secondo lo schema di Propp - per farlo vincere a Lorenzo, eventuale antagonista della storia).
Se così fosse, ha fatto bene Valentino - che qualche scorrettezza nella sua lunga carriera l’ha commessa - ad usare tutte le armi a disposizioni (anche quelle non lecite) per farsi giustizia in una situazione di evidente svantaggio oppure avrebbe dovuto lasciar trionfare il male rinunciando all’azione, lasciando intatta la sua aura di leggenda dello sport?
Secoli di storia non son bastati per rispondere con certezza a questa domanda. Volendo semplificare parecchio (ahimè) le cose per ragioni di sintesi, potremmo abbozzare una dicotomia: da un lato Socrate che, nel corso della sua vita, ha subito spesso veri e propri maltrattamenti in seguito alle sue continue dispute, e ha sopportato tutto ciò con rassegnazione: una volta preso a calci, sopportò pazientemente la cosa e disse a chi se ne meravigliava: “dovrei forse far causa a un asino, se questo mi avesse colpito?” […] "la contumelia, il saggio non la prende neanche in considerazione!”. Rinunciando in qualche modo alla giustizia in nome di una virtù superiore, la morale, prerogativa della sua condotta e della sua concezione dello stare al mondo. Concetto quantomai osteggiato da Nietzsche che a proposito di morale, ritiene come essa non sia un qualcosa di originario, di ancestrale nell’uomo quanto piuttosto una costruzione sociale che fa gli interessi di qualcuno ai danni di altri (una vera e propria ingiustizia!). Egli afferma infatti che i concetti di bene e male, in passato, non coincidevano con buono e cattivo. Al contrario, è bene ciò che permette all’uomo di affermare se stesso, ossia il coraggio di osare, di affermarsi sugli altri uomini, anche schiacciando i più deboli ma senza per questo dover subire una condanna, perché nel suo percorso “non vi è cattiveria, ma solo energia, volontà di potenza che lo spinge verso il bene”. Da che parte stiamo quindi? Da quella di chi riesce a raggiungere la vittoria, anche quando questa richiede furbizia e forse delle scorrettezze (con la sanzione a Valentino, infatti, Marquez avrebbe raggiunto il suo scopo di vederlo soccombere)? Oppure stiamo dalla parte di chi il torto l’ha subito e, frustrato, reagisce e per questo viene punito?
Il 9 luglio 2006, nella notte magica di Berlino, dubbi non ne abbiamo proprio avuti! Bravissimo Materazzi a provocare Zidane, pollo Zizou nel cascarci. A pochi è venuto il dubbio che il dolo del sempre corretto Matrix possa aver contato (e parecchio) nell’epilogo di quella finale, trionfalmente vinta dalla nazionale italiana grazie a Fabio Grosso, l’eroe che non ti aspetti. Il vecchio dilemma della questione morale, come diceva qualcuno molto tempo fa!
No, in quel caso non ci siamo chiesti cosa fosse giusto e cosa sbagliato, quali fossero i confini tra lo yin e lo yang. Oggi le cose si ribaltano e a noi tifosi di Rossi ci tocca stare dalla parte degli sconfitti, degli ultimi, cosa che sicuramente accade a Vale che da ultimo, come i Miserabili di Hugo, dovrà provare la risalita nell’ultimo gran premio della stagione. Ma il Dottore ci ha abituato ad imprese leggendarie e forse anche stavolta la giustizia trionferà. Oppure no. Voi da che parte state?
Diceva l’immortale Jim Morrison, “fra il bene e il male c’è una porta e io l’aprirò”. Quella porta, oggi Vale, l’ha chiusa in faccia a Marquez!
La saggezza non è comunicabile. La saggezza che un dotto tenta di comunicare ad altri, ha sempre un suono di pazzia ( è necessario che suoni sempre un po' sciocco alle orecchie degli altri). Siddartha, Herman Hesse.
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Il lavoro ai tempi del neo-liberismo: parola d’ordine resilienza?
Qualche giorno fa leggevo su CheFuturo un articolo molto interessante di Alessandro Rimassa a proposito di lavoro e del modo in cui se ne parla nei media italiani. Il tema del lavoro, dice Rimassa, viene trattato in Italia:
1-come una priorità costante
2-parlandone al futuro
3-raccontando solo le storie negative
Facile individuare il filo rosso che lega i 3 elementi. Più difficile calarli in un contesto più ampio che ne spieghi il significato.
Un’ipotesi si trova nel libro La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista che gli autori Pierre Dardot e Christian Laval presenteranno giovedì 20 febbraio nella Sala Zuccari del Senato e di cui è possibile leggere un estratto qui.
A questo si rivolge la teoria neoliberista, in grado di omogeneizzare il “discorso dell’uomo intorno alla figura dell’impresa. La nuova figura del soggetto opera un’unificazione senza precedenti delle forme plurali della soggettività che la democrazia liberale tollerava e di cui sapeva servirsi all’occorrenza per perpetuare la propria esistenza”. Governare il soggetto, renderlo unitario richiede un coinvolgimento personale completo. Far lavorare l’individuo per l’impresa come farebbe per se stesso, “sopprimendo così ogni alienazione come ogni distanza tra l’individuo e l’impresa che lo assume”. Governare gli uomini come si governa se stesso, una macchina perfetta, una gabbia d’acciaio come la definiva Weber, che però anziché essere imposta dall’alt(r)o viene costruita da ciascuno di noi su misura.
Eppure, parlando di modellamento degli individui viene in mente un concetto già noto come la resilienza (capacità di un materiale di resistere agli urti) mutuato dall’ingegneria e oggi a servizio di numerose discipline, dall’informativa alla biologia, dalla religione alla psicologia.
Perché dunque resilienza? perché la metafora del materiale che resiste, che non si spezza, che si adatta assume un valore più contemporaneo della più celebre resistenza. Finite le grandi ideologie (così dicono), la resistenza, lo star fermi e saldi contro una forza a cui ci si oppone, trova pochi spazi di sviluppo e in molti hanno trovato nuove forme per resistere come Luigi Anolli, autore del libro “Ottimismo" in cui si definisce resilienza come “una competenza a sviluppare fattori protettivi in grado di contrastare e di ridurre gli esiti di situazioni difficili e di eventi negativi che, di norma accadono a tutti nella vita”.
L’ennesima alternativa che tenta di diluire la lotta dei duri e puri o l'antidoto al problema? Collegando quest’ultimo concetto alla tesi di Rimassa ovvero che "non serve solo la storia eccezionale ma sono necessari tanti piccoli racconti di ordinaria quotidianità, di piccole soddisfazioni, di sorrisi ed energia” forse si apre uno spazio che trae, da ogni singola esperienza la forza per uscire dalla gabbia.
Media permettendo! Ma questa è un’altra storia...
Qual è la tua opinione in merito?
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Facebook tiene traccia dei messaggi mai inviati?
Pensate che Google vi spii? Che l’NSA vi guardi attraverso la webcam dei vostri notebook? In tal caso “vi farà piacere” sapere che Facebook tiene traccia di ciò che digitate…anche se le cancellate prima di condividere!
Passiamo un sacco di tempo a pensare cosa postare su Facebook, chiedendoci “interesserà il mio punto di vista politico? piaceranno le canzoni che ascolto? a qualcuno interessano le foto del mio gatto?” A tutti noi è capitato di cominciare a scrivere qualcosa e dopo, magari saggiamente, cambiare idea!
Sfortunatamente, Facebook cattura ciò che digitiamo anche se decidiamo di non pubblicarlo, quindi scegliendo implicitamente di mantenerlo privato.
Questi pensieri destinati all’oblio, Facebook li chiama “self-censorship”, Un recente studio, condotto da Sauvik Das e Adam Kramer, ha rivelato in che modo Facebook monitora i nostri pensieri “nascosti”.
Lo studio esamina gli status update, i post sulle bacheche di altri utenti e i commenti ai post altrui. Per registrare il testo, Facebook invia del codice al browser. Questo codice analizza automaticamente quello che digitiamo nei box di scrittura e invia i metadati indietro al mittente.
Tale pratica non è una novità. Gmail, ad esempio, salva automaticamente come bozza qualunque cosa tu scriva, anche se chiudi tutto prima di salvare. La tecnologia è la stessa, la differenza è che Google salva quei messaggi per aiutarti (li ritroverai automaticamente in nella cartella “draft”). Si può dire lo stesso di Facebook?
Premettendo che la policy sulla privacy adottata da Facebook non preveda nulla del genere. Facebook, dal canto suo ha risposto a questo studio, precisando che l’azienda registra solo se c’è stato un self-censorship e non il contenuto del messaggio. Come dire, la tecnologia ce lo permette ma noi non spiamo!
Difficile non cadere in tentazione dato il valore che si può trarre da quel contenuto. Facile trovare un collegamento tra questa storia è le recenti news sul caso NSA. D’altronde, l’NSA spia conversazioni private che noi condividiamo con qualcuno, Facebook va oltre, analizzando qualcosa “che non è mai successo”.
Perché farlo? Das e Kramer sostengono che il self-censorship è pericoloso in quanto trattiene informazioni potenzialmente di valore. E se pensiamo che Facebook propone delle pubblicità personalizzate in base ai nostri interessi, iniziamo a darci qualche risposta.
“All that happens must be known” recita il motto della recente opera di Dave Eggers, The Circle, un’affascinante distopia sull’universo dei Social Network che potete approfondire qui.
Una distopia pericolosamente vicina alla realtà!
Qui per leggere il post originale di Business Insider
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Libro vs Ebook un'opposizione apparente
Qualche giorno fa ho letto questo articolo su Mashable. Argomento: il rapporto tra libri digitali e libri cartacei.
Da anni ci si chiede “quando” gli ebook sostituiranno i libri tradizionali eppure quello che sembrava un fenomeno imminente tarda ad arrivare, tanto che in molti cominciano a chiedersi “se” gli ebook sostituiranno i libri tradizionali!
Secondo una ricerca condotta negli States, la percentuale di americani che hanno letto almeno un libro nell’anno solare è passata dal 23% del 2012 al 28% del 2013. Nello stesso periodo la percentuale di chi ha letto libri cartacei è passata dal 65 al 69%.
La prima considerazione è che tra il 2012 e il 2013 è cresciuto il numero di libri letti, bene! Ma un dato ancor più interessante è che solo il 5% tra coloro che hanno letto un ebook non hanno letto libri cartacei.
Nella conclusione dell’articolo si sostiene dunque che seppure gli ebook stanno acquisendo popolarità, il libro “printed” rimane il fondamento delle abitudini di lettura negli USA.
Eppure credo che almeno una considerazione vada aggiunta: al di là del trend di crescita degli ebook in continuo aumento anche grazie alla lettura da tablet, sono assolutamente convinto (e non sono il solo) che la crescita nella lettura digitale abbia stimolato anche quella tradizionale:
1) perché i puristi del libro tradizionale hanno sentito il bisogno di difendere le vecchie abitudini, alimentando allo stesso tempo il proprio amore per la lettura
2) perché probabilmente la circolazione della cultura in formato digitale, anche quando questa è diventata pirateria, ha dato linfa vitale alla lettura in generale, in qualunque formato si presenti.
Molti studi d’altronde sembrano dimostrare questa relazione, che si traduce in un guadagno per i lettori e per la cultura in generale. E tale guadagno potrebbe riguardare anche gli autori, “contratti editoriali” permettendo!
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Il paradosso della scelta: less is more!
Nel suo libro del 2004, The paradox of choice, lo psicologo Barry Schwartz mette in discussione un principio fondante delle società occidentali: la libertà di scelta.
Dogma delle società occidentali secondo Swartz è il raggiungimento del benessere dei cittadini attraverso la massimizzazione della libertà individuale. Il tutto secondo una semplice formula:
più scelte = più libertà = più benessere
Il giudizio di Schwartz è che la scelta non ci abbia resi più liberi ma più immobili; non più felici ma più insoddisfatti. Perché? Lo psicologo statunitense individua 4 cause:
Regret and anticipated regret: l’eccessiva scelta crea paralisi. Le troppe opzioni a disposizione ci impediscono di essere soddisfatti delle nostre scelte, indecisi!
Opportunity costs: Se è vero che il valore che diamo alle cose dipende dalla possibilità di confrontarle con altre, quando abbiamo un gran numero di opzioni è più facile trovare dei pregi in ciò che non scegliamo, che renderanno meno attraenti le nostre scelte!
Escalation of expectations: Una così grande possibilità di scelta ci convincerà che tra queste ci sia l'opzione “perfetta”. Ciò crea aspettative altissime che difficilmente verrano mantenute!
Self-blame: Con poche opzioni a disposizione non ci sentiremo in colpa se la scelta sarà sbagliata, ma nella situazione in cui ci troviamo non ci sono scuse, tutto dipende da noi e dobbiamo scegliere il meglio!
[questa è forse una sintesi estrema del pensiero di Schwartz, potete approfondire qui]
Si stava meglio quando si stava peggio? Pare di si secondo lo psicologo statunitense che ironizza ma non troppo quando svela che il segreto della felicità sta nell'avere basse aspettative. Eravamo come dei pesci in una boccia, il nostro mondo finiva lì e lì dovevamo trovare il modo di essere felici. Adesso la boccia si è rotta e il mondo la fuori pare essere troppo grande per dei piccoli pesci.
Cosa fare dunque? Schwarz conclude il suo pensiero chiamando in causa il miglioramento paretiano, il concetto economico secondo cui una riallocazione delle risorse è in grado di migliorare la condizione di un individuo senza peggiorare quella degli altri, producendo un aumento dell’efficienza complessiva del sistema. Ovvero, se saremo in grado di condividere le risorse (e quindi le cosiddette opzioni) con i paesi che ne hanno poche o addirittura zero, miglioreremo non solo la loro vita ma anche la nostra!
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La mafia uccide solo d'estate
La mafia uccide solo d'estate è innanzitutto un film bellissimo. Ed è un film originale perché racconta la mafia da un punto di vista ancora inesplorato, quello della sottile ironia, del sarcasmo e dell'ingenuità di un bambino di 10 anni.
Un film intelligente ed emozionante che ho provato a riassumere in 5 cinque punti:
1) PIF. Scopriamo che Pierfrancesco Diliberto, per tutti PIF, è bravissimo anche come regista! Probabilmente non si tratta una novità per chi segue da sempre le sue inchieste, dal linguaggio giornalistico brillante e innovativo. L'ingenuità che il suo stile trasmette, nasconde in questo film con una forza ancora maggiore la critica a volte sottile, sempre spietata non solo verso le istituzioni, colpevoli di una situazione che PIF dimostra di conoscere molto bene, ma anche verso tutti quei comportamenti che ogni giorno legittimano in vari modi la presenza della mafia. Esemplare in tal senso l'inserimento della tragicomica e reale richiesta di una donna palermitana infastidita dal suono delle sirene delle auto che scortano i magistrati, la quale propone uno spostamento di questi ultimi fuori città, così per stare tutti tranquilli!
2) La storia. Il film realizza un perfetto intreccio tra la storia di Arturo, protagonista del film, e alcune delle principali tappe della storia recente della mafia a Palermo, che scandiscono ferocemente i momenti chiave della vita del bambino, poi adulto, che non capisce la portata del fenomeno (i giornali minimizzano, i politici tacciono, persino il padre lamenta l'eccessiva stretta sulla vita di onesti lavoratori che la magistratura sta compiendo) ma riconosce attraverso i suoi sentimenti che c'è qualcosa di sbagliato attorno a sé. Il modo in cui Arturo scopre l'inquinata realtà italiana è un piccolo capolavoro. PIF non poteva scegliere come idolo del bambino un personaggio più azzeccato di Giulio Andreotti, il Divo, paradigma assoluto della Prima Repubblica in Italia, un uomo capace di affermare che "Ambrosoli se le andava a cercare" e di giustificare la sua assenza al funerale del Generale Dalla Chiesa affermando "preferisco andare ai battesimi". Riuscire a mantenere costante la presenza di Andreotti e strappare delle risate è tutt'altro che facile e PIF lo fa in maniera ironica e grottesca, senza peraltro perdere l'elemento contraddittorio e paradossale che questa storia italiana porta con sé.
3) I palermitani. Forse non tutti avranno la fortuna di vedere questo film a Palermo, ma non farlo significa perdere tutta una serie di commenti, battute e ragionamenti che accompagnano la proiezione, senza disturbarla, ma anzi aumentando l'esperienza sensoriale. Altro che realtà aumentata!
4) La "palermitanità". Questo film è interamente permeato dalla cultura palermitana e non poteva essere altrimenti. Il dialetto, i modi di fare, le virtù e i vizi, le molteplici facce della città e della sua gente. Una rappresentazione allegorica che è croce e delizia del film. Apprezzabile per la semplicità e la naturalezza con cui viene tratteggiata, essa lascia qualche dubbio sull'interpretazione di un destinatario che non conosce la realtà che emerge sotto il Monte Pellegrino. Sarà forse il voler cercare il pelo nell'uovo, ma l'idea che questa allegoria leggera e mai superficiale possa alimentare altrove in Italia (proprio per il suo essere sottile) una cieca consapevolezza che la piaga mafiosa non sia "cosa di tutti" ma che soprattutto essa sia atavicamente associata a Palermo, alle sue tradizioni, al suo folklore e al suo futuro merita una riflessione.
5) Il finale. Non una commedia e neppure una tragedia, proprio per questo un film che riesce a far ridere e successivamente a commuovere il pubblico in sala ha inevitabilmente qualcosa di speciale. Vedere una tale commozione all'interno di un cinema a Palermo, scatena una serie di emozioni supplementari, legate non solo al dolore per una ferita mai chiusa, ma anche alla rabbia, alla frustrazione di un mondo troppo grande e troppo complicato per essere cambiato. L'opera prima di PIF denuncia senza mezzi termini una realtà che ancora oggi qualcuno si ostina a non vedere (qualcuno di voi ha mai visto un "campanello con su scritto Mafia"?), lo fa senza piangersi addosso ma rivolgendosi quasi sussurrando e con una straordinaria innocenza a quello che tutti possono devono fare senza dover necessariamente essere degli eroi. Così, un Arturo adulto dirà:
QUANDO SONO DIVENTATO PADRE HO CAPITO DUE COSE: LA PRIMA CHE AVREI DOVUTO DIFENDERE MIO FIGLIO DALLA MALVAGITA' DEL MONDO, LA SECONDA CHE AVREI DUVUTO INSEGNARGLI A DISTINGUERLA!
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Nel mare ci sono i coccodrilli...e a volte anche la speranza!
Enaiatollah Akbari è un ragazzino afghano, gentile, a tratti impacciato eppure sveglio. Nel mare ci sono i coccodrilli è un libro di Fabio Geda, che racconta la vera storia del viaggio che ha portato Enaiatollah dall'Afghanistan all'Italia. Un viaggio quello di Enaiatollah, che come per tanti significa speranza, significa abbandonare il tranquillo villaggio di Nava, luogo che non è più sicuro per quelli di etnia hazara come lui, perseguitati da pashtun e talebani.
"Se nasci in Afghanistan, nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, può capitare che, anche se sei un bambino […] qualcuno reclami la tua vita. Tuo padre è morto lavorando per un ricco signore, il carico del camion che guidava è andato perduto e tu dovresti essere il risarcimento. Ecco perché quando bussano alla porta corri a nasconderti. Così un giorno tua madre ti dice che devi fare un viaggio. Ti accompagna in Pakistan, ti accarezza i capelli, ti fa promettere che diventerai un uomo e ti lascia solo".
Da questo smisurato atto d'amore nasce questa storia, raccontata dagli occhi di un ragazzo che non conosce neanche la sua età e che da un giorno all'altro viene catapultato in una durissima lotta per la vita. Eppure il suo sguardo rimane lucido, il suo racconto è fatto si di frammenti, di brandelli, ma così indelebili da essere ricuciti con chiarezza, anche a costo di riaprire la ferita di una storia che sarebbe più semplice dimenticare.
Non usare mai droghe e armi, non rubare e non truffare il prossimo! Queste sono le tre promesse che la madre chiede al figlio prima di lasciarlo. E lui non verrà mai meno ad esse neanche quando…
"Il diciottesimo giorno [di viaggio] ho visto delle persone sedute…erano sedute per sempre. Erano congelate. Erano lì chissà da quanto tempo. Tutti gli altri sono sfilati di fianco, in silenzio. Io, a uno, ho rubato le scarpe, perché le mie erano distrutte e le dita dei piedi erano diventate viola e non sentivano più nulla, nemmeno se le battevo con una pietra. Mi andavano bene. Erano molto meglio delle mie. Ho fatto un cenno con la mano per ringraziarlo. Ogni tanto lo sogno".
Sembrerà retorico, ma pur con tutte le informazioni che abbiamo su ciò che accade nel mondo, è difficile immaginare che questa sia una storia vera e forse la distanza che ce ne separa ci aiuta a leggere i particolari crudi, disumani di questa odissea.
Il viaggio di Enaiatollah non è il vagabondaggio nella Dublino di inizio '900 dell'Ulisse di Joyce e non è neanche l'evasione dalla realtà sensoriale ricercata dai personaggi di Baudelaire. Il giovane afghano non fugge dalla realtà, la affronta, ne combatte gli aspetti più drammatici e si confronta con la miseria e la nobiltà degli uomini stringendosi nella sua convinzione e pur non avendo la certezza di dove questa lo condurrà, non perderà l'ironia e l'ingenuità che lo rendono così simile al principe Idiota nato dalla penna di Dostoevskij.
Enaiatollah troverà infine un posto dove fermarsi e avere la sua età, anche grazie a degli italiani incontrati nel suo viaggio, che con le loro piccole e grandi azioni lo hanno accolto e hanno incoraggiato la sua speranza di una vita normale.
Il resto di questa storia dal sapore natalizio potete leggerla in questo magnifico libro, ricco di riflessioni e significati utili per tutti i giorni dell'anno!
Poserò la testa sulla tua spalla
e farò
un sogno di mare
e domani un fuoco di legna
perché l'aria azzurra
diventi casa
chi sarà a raccontare
chi sarà
sarà chi rimane
io seguirò questo migrare
seguirò
questa corrente di ali
[Khorakhanè - Fabrizio De Andrè]
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Destinazione Italia: passato o futuro?
Un paio di settimane fa ho ascoltato a Bologna Guido Scorza parlare di editoria digitale, copyright e di agenda digitale nel nostro paese. Scherzando, ma non troppo, egli auspicava il superamento della SIAE, almeno nella sua forma attuale cosi da permettere la tutela della proprietà intellettuale senza però bloccare la possibilità di condividere la cultura. Se ne accennava in questo post, il nodo centrale della questione è proprio il ruolo della SIAE nella transazione tra produttore e consumatore, che vede quest’ultimo ridotto oggi a un cattivo pirata da perseguire. E le parole di Scorza sapevano di ottimismo, lasciavano ben sperare circa la direzione da prendere.
Ma l’idillio personale non è durato a lungo. E’ bastato questo articolo di Guido Scorza per spazzarlo. Scorza l’ha chiamata la settimana nera delle nuove tecnologie in Italia e la definizione non sembra affatto azzardata. La tripletta si è consumata in pochi giorni: il 6 dicembre la Camera dei Deputati ha detto si alla web tax, il 12 dicembre l’Autorità Garante nelle Comunicazioni ha varato la sua personale legge sul diritto d’autore online attribuendosi il potere di vita o di morte su qualsiasi genere di contenuto pubblicato online e solo un giorno dopo il Consiglio dei Ministri ha approvato il Decreto Destinazione Italia, che blocca drasticamente la condivisione della conoscenza. Per capirci, probabilmente io dovrei pagare i diritti per le fonti che ho citato in questo articolo!
Rimandando all'articolo di Scorza per gli approfondimenti tecnici, questi deliranti provvedimenti hanno scatenato molti intellettuali a difesa della cultura e c’è chi come Massimo Russo, direttore di Wired, ha provato a raccontare, sotto forma di distopia, quello che potrebbe attendere l’Italia se l’Europa non boccerà queste posizioni (qui l'articolo). Se stabilità, dice Russo, significa congelare tutto e paralizzare ogni cosa, forse quello scenario da isolamento telematico non è poi così distante.
Perché il cambiamento spaventa?
In questo bell'articolo Francesca Carabini scrive: La storia sociale dell’uomo ci insegna che in ogni epoca storica i cambiamenti culturali hanno sempre spinto verso una maggiore volgarizzazione. Nel rendere accessibile la conoscenza a un pubblico sempre più ampio, spesso sotto gli occhi impauriti e contrari dei governi e di molti intellettuali conservatori.
Quando il libro ha iniziato a fare la sua apparizione nell’antica Grecia, la maggior parte dei filosofi deplorava il nuovo strumento conoscitivo. La cultura era basata sulla tradizione orale e si temeva che la scrittura avrebbe reso l’uomo stupido, perché indotto a dimenticare. Ci vollero secoli perché il libro diventasse strumento del sapere.
Il libro, la tecnologia dell’epoca per diffondere la cultura, veniva messa al muro, colpevolizzata come se si trattasse di un soggetto attivo, piuttosto che di un mezzo. Senza ignorare le caratteristiche e i cambiamenti che un mezzo porta con se, e quindi la sua capacità di influire, reificare la tecnologia è roba da tecno-scetticismo ormai anacronistico (ne parlavo già nell’ultima parte di questo articolo). Un po’ come se pensassimo che l’ignoranza galoppante che vediamo sui social, fatta di “hai” che diventano “ai” e viceversa o di “e” che vengono accentate un po’ a caso, sia colpa di facebook e non di chi scrive!
Ma è davvero nel tecno-scetticismo che dobbiamo ricercare la causa di tale oscurantismo?
Per rispondere ci viene in aiuto un articolo di Luca De Biase in cui, pur giustificando obiettivi condivisibili quali la salvaguardia del copyright o la lotta all’elusione fiscale, si sottolinea cosa si sta sacrificando, ovvero la crescita, l’occupazione, l’innovazione. Ma ecco che torna in ballo la SIAE. Dice De Biase: È un po’ come la tassa sulle memorie elettroniche: per dare qualche soldo in più alla Siae, fa pagare di più ogni oggetto elettronico dotato di memoria a tutti i consumatori, anche a quelli che non fanno copie di materiali soggetti a copyright. E quindi di fatto ha conseguenze su tutta la filiera del digitale, compresa quella legale, innovativa, favorevole alla crescita e all’occupazione.
Dopo una lunga ricerca, abbiamo trovato un attore che trarrà vantaggio da questi provvedimenti. Senza fare facili e superficiali speculazioni, rimane il fatto che le belle parole di Scorza sull'apertura in termini di copyright digitale rischiano di essere solo un utopia e L’ADI (agenda digitale), monumentale progetto per eliminare l’analfabetismo digitale, un lontano ricordo se, tra le altre cose, viene rimosso l’obbligo di adozione degli e-book per la scuola entro il 2015.
Nel 1953 Ray Bradbury pubblica il romanzo Fahreneit 451. Ambientato in un imprecisato futuro posteriore al 1960, vi si descrive una società distopica in cui leggere o possedere libri è considerato un reato, per contrastare il quale è stato istituito un apposito corpo di vigili del fuoco impegnato a bruciare ogni tipo di volume (fonte: Wikipedia).
Il titolo, fahreneit 451, si riferisce a quella che Bradbury riteneva essere la temperatura di accensione della carta.
Qualcuno sa a che temperatura si accende la cultura digitale?
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Lawrence Lessig e la Trasparenza della rete
Quache giorno fa ho letto “Trasparenza della rete”, opera di Lawrence Lessig, guida nei miei studi universitari nonché uno dei 50 top visionaries secondo la rivista Scientific American per il suo impegno nel promuovere un’interpretazione innovativa del concetto di copyright.
Convinto sostenitore della stretta relazione tra nuove tecnologie, trasparenza e partecipazione politica, in quest’opera Lessig si concentra sul peso di questi fattori all’interno della democrazia americana. Da questa analisi cerchiamo degli elementi che possono essere esportati ad altre realtà, come la nostra, utili per delle considerazioni generali.
Dove non è arrivata la classe politica ci ha provato il mondo delle imprenditoria. Ci abbiamo creduto, ci siamo fidati, ma non era quella strada: le imprese non fanno del bene e non è comunque corretto demandare a loro un compito che spetta ad altri. Lo stesso concetto di democrazia economica secondo Lessig è molto pericoloso in un contesto di acerrima competizione globale. Come dire, hanno già i loro problemi, non carichiamoli ulteriormente.
Il problema centrale per Lessig è la dipendenza della politica dal denaro. Il denaro non è necessariamente qualcosa di negativo, semplicemente occorre riconoscere che in certi contesti “avvelena” la fiducia, o meglio la possibilità di avere fiducia. Lo colleghiamo a un secondo fine, a un intrallazzo, un inciucio che distoglie dal vero obiettivo dell’attività politica. Quindi, non solo il denaro è spesso fonte di corruzione, ma ancora più grave per Lessig, esso è la causa della sfiducia nelle istituzioni, la stessa fiducia che impedisce la partecipazione attiva, unica fonte di cambiamento!
E qui si entra nel merito del problema più importante secondo me, questione che ci tocca sicuramente da vicino e che non sempre ha avuto la riflessione che meritava. Dice Lessig: Certo possiamo prendercela con i politici corrotti, però insomma, sono corrotti; magari si sentono imbarazzati quando li scopriamo, ma nel loro animo non pensano di essere una brava persona che cerca di fare del bene. E’ gente che pensa “ok, cerco di fregare il sistema e di guadagnare più possibile”. Invece i politici dall’animo buono potrebbero essere in imbarazzo se non riuscissero a farlo come si deve, potrebbero sentirsi assolutamente inadeguati.
Ci potremmo chiedere se nel nostro Paese esistono ancora anime buone in politica, ma correremmo il rischio di esser definiti populisti. Il punto di svolta, per il fondatore di Creative Commons, è il crescente ruolo della rete all'interno di questa perfetta equazione politica-denaro. Sarà la rete a creare un’economia diversa, diversa da quella classica commerciale. Un’economia condivisa in cui ci sarà molta più interazione e il sistema delle ricompense non sarà sempre calcolato in denaro. Esistono già esempi positivi come Flickr, ma anche negativi e in tal senso Lessig cita starwars.com, il sito della serie cinematografica di George Lucas!
L’ibrido che ne verrà fuori, o meglio, che già oggi sta nascendo da questa contaminazione, è solo un segnale del cambiamento possibile attraverso la rete. Questa dinamica ci sta facendo diventare realmente dei fattori abilitanti, e alcune esperienze seppur controverse nel nostro paese ce lo stanno dimostrando. L’orizzonte di una democrazia che inviti le persone a partecipare, in un modo che rende questi ultimi più efficaci ed efficienti, più attivi rispetto alla modalità precedente, quella della ricezione broadcasting della politica, non è poi così lontano, conclude Lessig, se tutti siamo disposti ad impegnarci realmente!
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#Teletopi 2013: l’Italia digitale si incontra a Bologna
Venerdì 29 novembre presso il Dipartimento di Scienze della Comunicazione dell’Università di Bologna si è svolta la premiazione dei Teletopi, l’oscar delle WebTv organizzato da AltraTv.
E’ stata l’occasione per fare il punto sullo stato delle web tv in Italia e per discutere sul futuro digitale e social della tv italiana. Un momento di condivisione della conoscenza in compagnia di alcune personalità di spicco come, tra gli altri, Giampaolo Colletti (padrone di casa), Vincenzo Cosenza e Guido Scorza.
Proprio da alcuni degli speech che hanno animato la sessione mattutina della giornata ho provato a estrapolare alcune considerazioni per provare a rispondere alla domanda:
Qual è la strada da percorrere per la web tv in Italia?
Un video è definito virale se raggiunge 10mila views e 1000 condivisione in un giorno!
Elementi ricorrenti dei video virali sono: la parodia, il contenuto spiritoroso, il sesso, la situazione assurda e il “something to do” una sorta di call to action nei confronti dell’utente!
Sappiamo cosa metter dentro e quale obiettivo raggiungere ma c’è un ma! E questo” ma” si traduce in una domanda. Dice infatti la Cosenza, la viralità non parte da zero ma viene amplificata se parte da un gradino più alto, ovvero se viene promossa, rilanciata, veicolata da un influencer o da una celebrità. Quale allora il modo per intercettare tali nodi privilegiati della rete?
Video in rete oggi significa anche tutela della proprietà intellettuale minacciata da quel demone della pirateria. Beh, pare non essere proprio così e a dircelo è un come sempre illuminante Guido Scorza. Illuminare in un contesto sempre più convinto che internet sia nemico della proprietà intellentuale significa dimostrare il contrario, significa citare semplicemente una delle tante ricerche che dimostrano come gli introiti sui diritti d’autore siano aumentati grazie a internet. La questione è molto importante, ed è centrale a mio avviso per capire realmente qual è il contesto di riferimento. In questa sede ci limitiamo a mettere in luce quello che secondo Scorza è il nodo fondamentale della questione: la disintermediazione, ovvero la necessità di accorciare la filiera che lascia spesso le briciole all’autore e che fa arricchire chi sta in mezzo a questo scambio di valori. Ecco, conclude Scorza, nuove tecnologie come le web tv possono essere il presupposto per scardinare questo sistema e avvicinare produttore e consumatore e forse un giorno il mondo si accorgerà che non siamo tutti pirati e che potrebbe piacerci pagare per qualcosa di cui fruiamo!
Consapevoli che la chiusura e la repressione non ci porteranno lontano, andiamo avanti e passiamo all’intervento di Vincenzo Cosenza, che con la consueta abilità, fa parlare i numeri e ci spiega il ruolo e il peso dei social media all’interno della questione. Risparmierò le doverose premesse fatte dal celebre analista per concentrarmi su un concetto espresso, quello di Social Audience, concetto trasversale sia alla tv online che a quella tradizionale. Che i social siano un fattore nei comportamenti di acquisto, nel marketing e nella pubblicità è cosa nota. Quali elementi tenere in considerazione un po’ meno. @Vincos ci spiega infatti come dati quali fan e follower seppur non siano le misure più importanti per valutare l’efficacia di un account social, diventano molto importanti per determinare la propria social audience. In particolare, l’analisi dei nuovi fan/follower restituisce una fotografia sul pubblico online di un dato programma e può fornire una direzione verso cui orientare la propria attività. A questo va aggiunto che i dati raccolti in termini di retweet, menzioni e preferiti non coprono per intero lo spettro d’influenza e a questi bisognerebbe aggiungere un’analisi di tutte le conversazioni che gli utenti hanno sul tale argomento, indipendentemente dal coinvolgimento diretto dell’account!
Un altro contributo importante lo fornisce Piero Gaffuri, che si concentra sugli elementi principali che caratterizzano esperienze di successo, provenienti dall’estero, in particolare dagli Stati Uniti. L’innovazione di prodotto ricercata in Italia può prendere spunto da alcuni fattori. Anche in questo caso, tali fattori gravitano intorno ai social. L’innovazione passa attraverso l’uso dei social media e l’integrazione del pubblico alla trasmissione che questi facilitano. In questo senso Gafuri cita Colbert Nation, tv che fa del rapporto con il proprio pubblico il suo successo. Il pubblico di Colbert Nation, non solo interagisce ma indirizza, in qualche modo, il dibattito attraverso i suoi tweets. Un pubblico che viene costantemente preso in considerazione e che viene menzionato e premiato al termine delle trasmissioni.
E se il second screen e le applicazioni ad esso dedicate, diventano protagoniste, un peso altrettanto considerevole, secondo Gaffuri ce l’hanno i contenuti geolocalizzati. In tal senso vengono presi come esempio il sito Ikea e Memory Traces, un sito che raccoglie le storie provenienti dalla comunità italiana di Boston in occasione dei 150 anni del nostro Paese e le organizza creando uno storytelling di successo.
Terzo elemento, che sintetizza i precedenti, è la singolarizzazione, l’esperienza personalizzata. Esempio di successo è Unti e Bisunti, il celebre programma di DMax, condotto da Chef Rubio. In un colpo solo, questo programma riesce a valorizzare la cucina e lo street food italiano attraverso il confronto tra una celebrità e un esperto sul campo, una persona reale della nostra quotidianità. La sfida viene svolta nel contesto territoriale (Chef Rubio compra gli ingredienti per le strade dei mercati cittadini) e viene giudicata da una giuria popolare, composta da gente del luogo. Mai come in questo caso, la tv ha sfondato la barriera dello schermo e ha reso il pubblico protagonista del prodotto.
Abbiamo gli elementi da inserire nei contenuti, l’approccio legale alla questione, il contributo dei social media e degli esempi pratici. Cos’altro aggiungereste?
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Comunicazione è partecipazione: la Protezione Civile e i Social Media
Venerdì 15 novembre ho assistito al workshop "La Protezione Civile e i social media: comunicare il rischio e il rischio di comunicare", una giornata di studio organizzata dalla Protezione civile allo scopo di riflettere sull'utilizzo dei social media per potenziare e migliorare i canali di comunicazione con i cittadini.
La giornata è stata molto interessante e ricca di spunti utili, ha avuto tra i relatori personaggi di spicco del mondo della comunicazione e dei social media come Riccardo Luna, Alessio Jacona e Giovanni Arata e ha riscosso un gran successo sui social, con l'hashtag #SocialProCiv costantemente nei TT per tutta la durata della manifestazione.
Molte le riflessioni e gli spunti della giornata, che qui raccolgo non secondo un ordine cronologico ma secondo un percorso che parte dal bisogno di aiuto che gli enti pubblici, e tra questi la Protezione Civile, hanno nella gestione dell'amministrazione ordinaria e straordinaria (soprattutto quando si parla di emergenze e disastri naturali) e arriva agli strumenti con cui la cittadinanza attiva può dare il suo contributo.
Se la comunicazione è elemento basilare per coinvolgere, per ottenere partecipazione e, in un'ottica più ampia, per creare una rete sociale che sia davvero smart, il linguaggio è un elemento fondamentale, tanto più per quegli attori che hanno grandi responsabilità e si trovano a dover comunicare in situazioni di crisi. In quest'ottica Franco Sabatini, presidente onorario dell'Accademia della Crusca, ha fornito diversi esempi su come in Italia non sia così scontato l'uso di un lessico semplice, chiaro, non ambiguo e non oscuro nella comunicazione del rischio. Quanto ci piace il burocratese!
Forse è proprio questa distanza tanto linguistica quanto culturale che ci impedisce di stabilire un contatto in un contesto, quello dei network sociali, che ribalta le lente e complicate procedure. Così, in questo contesto, in cui l'immediatezza ha un ruolo principale, accade che l'istituzione debba guadagnarsi uno status acquisito nella vita reale e gli amministratori, come Luca Biagioni, assessore del Comune di Castelnuovo di Garfagnana, debbano darsi da fare per essere riconosciuti. "Siete davvero voi?" la domanda più frequente ca cui ha dovuto rispondere, almeno inizialmente, sui social!
La distanza esiste e ci sono anche dei fattori concreti che la giustificano. Il cambio di paradigma non può essere indolore e il passaggio dai media tradizionali - in cui il produttore del messaggio possiede la notizia e sceglie in che momento e con quali mezzi mostrarla - ai nuovi media richiede una riflessione:
in termini di privacy, come sottolinea Alessio Jacona. Ciò che si scrive sui social non appartiene a chi la produce, la notizia è di chi la riceve;
in termini di contenuti, come ricorda Luca Calzolari, direttore de ilgiornaledellaprotezionecivile.it. Basta prendere ad esempio Twitter, 140 caratteri a cui togliere quelli per gli hashtag e per i link, una situazione in cui comunicare rischia di essere davvero una sfida di comprensione e il pericolo di una decodifica aberrante è davvero dietro l'angolo!
La riflessione è doverosa, ma una cosa è chiara: la Protezione Civile (e non solo...) non può ignorare i social media, non può ignorare il mezzo più rapido in assoluto, l'unico vero sistema di informazione mondializzato, come lo definisce Maurizio Ferraris, professore di filosofia teoretica all'Università di Torino.
La soluzione ce la offre Riccardo Luna, in un intervento tanto breve (purtroppo) quanto illuminante (come sempre)! Si, perché la rete è l'habitat naturale per la partecipazione, un (non)luogo pienissimo di risorse e popolato da cittadini attivi pronti a dare una mano. Come attivare queste risorse? Con la trasparenza innanzitutto (e non mi stancherò mai di dirlo!). Essere trasparenti genera fiducia e innesca un circolo virtuoso. E poi con un piccolo ma decisivo step culturale, uno step che ci convinca che "una piattaforma partecipata è una piattaforma intelligente" e che ci dia il coraggio di includere i tanti civic hacker che abbiamo per migliorare il funzionamento delle nostre istituzioni in rete e sui social. Includere la generazione della condivisione e dell'open (source piuttosto che data) così come si è fatto con il portale OpenRicostruzione in Emilia, un portale aperto che consente di seguire l'evoluzione dei progetti, che restituisce, agli addetti ai lavori e non, una fotografia sempre aggiornata dello stato dei lavori e permette di verificare il modo in cui è stato speso il denaro. Ciò significa, tra le altre cose, evitare infiltrazioni mafiose nella ricostruzione (una bella novità per il nostro paese!).
E' arrivato il momento in cui tutto questo può accadere? Forse è il caso, perché, come ha detto in chiusura Jacona: "Adapt or people will die"!
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