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Bartò frantumato 3 - di Niccolò mencucci ebook on-line
leggi in shade of blue: https://booky-italia.blogspot.it/2017/12/barto-frantumato-terza-serie-finale.html
22.
“Ricordate, ragazzi, l’importanza della nostra organizzazione no-profit!”, disse il portavoce del gruppo, un ragazzino della mia età smorto, simile ad un anziano. Ed eravamo lì, a seguire in cerchio una presentazione a dir poco dolciastra e perfino troppo idealista per me. E ne parlo da elettore del movimento! Ma con loro fu diverso; oltre agli ideali c’era un movimento più concreto, più fattuale. Una sera Fiorenza m’invito alla riunione settimanale in un pub ad Alberillo dove si erano riuniti alcuni attivisti del movimento interessati alla storia di un agriturista preoccupato sulla sua situazione. L’agriturista, di origini belghe (vagamente somigliante a P.Daverio) ci raccontò degli ultimi fatti del Comune: si presentò una mattina per alcune carte da far controllare presso uno degli uffici del Comune, quando s’imbatte in un protocollo da poco messo alla delibera del Consiglio riguardante la compravendita di due cave locali, di media grandezza, da parte di alcuni costruttori meridionali. Da qualche giorno c’era un continuo passo di camion, TIR, che scaricavano e caricavano in continuazione, senza sosta, tonnellate di materia e di calce, proveniente dalle cave, aperte! Questi sono i punti focali della situazione: In Italia la maggior parte delle cave sono state dichiarate “fuori uso”, ovvero non accessibili e non utilizzabili, “se non per scopi di bonifica locale a favore dell’ambiente e del turismo”. Le cave in questione, chiuse da oltre vent’anni, vengono riaperte solo con la delibera del Consiglio Comunale di un solo Comune, quando per spazio queste sono dislocate attorno a tre Comuni, tra cui quello della Valle dei Pini, sotto l’amministrazione della signora Civetta. In assenza di un ispettore ambientale, dato che il più vicino e a Firenze, il compito spetta alle autorità competenti, le quali non sempre prenderanno il fatto come decisivo per la stabilità ambientale, intanto compromessa dai primi movimenti. La firma sarà del sindaco, il quale può decidere per sua volontà anche senza prendere in considerazione qualsiasi consiglio o avviso da parte delle comunità o dei consorzi vicini (la presenza del Movimento è poco apprezzata al Consiglio; si dà per scontato un disinteresse da parte della “Sindachessa” ...) “Così mi disse un mio collega, proprietario di un agriturismo anche lui: “Se apriranno le cave, per noi sarà la fine!”, perché col fumo dei TIR, le polveri della cava e il riutilizzo delle materie danneggeranno la flora e la fauna locale, decimando il turismo già scarso.
L’evento mi colpì, soprattutto per l’interesse vivo del movimento a fare qualcosa, e allo stesso tempo di mobilitarsi con grande parsimonia di moti e passioni politiche, con molto basso profilo dunque. L’unica passionaria era Fiorenza, che discusse anche con i suoi genitori, arbitri della questione nonché persone responsabili della “cellula”. Io, forse ironicamente e con una certa ingenuità, pensai alla Mafia! Non risero, anzi, ci credettero. La Mafia che porta la corruzione; la Mafia che porta i rifiuti come a Caserta e riempie le cave per poi rimettere a posto tutto e farci anche delle case; la Mafia dei quaquaraqua di Sciascia...tutto molto assurdo e molto divertente, ma poco credibile. Sono passati mesi dall’ultima volta che seppi di questo affare, e mai chiesi come fosse andata a finire. Conoscendo la sindachessa comincio a capire che la battaglia non sarà facile: dalle mie parti sanno tutti che lei è una favorita dalle alte sfere locali, dagli industriali nei guai con la legge (forestale) come un certo S, il proprietario della C., da qualche anno fuori dalle indagini per inquinamento colposo alle falde (uno dei titoli della Nazione di Arezzo era.
23.
“TROVATO CADMIO NELLE COLTURE LOCALI. C. SOTTO INDAGINE!”
...il cadmio, quello che si usava come isolante per le barre di uranio!).
Una giornata, che pareva tranquilla accompagnava il lavoro del presidente, indaffarato nei mille impieghi dovuti all’amministrazione deficitaria sulla sua Azienda, in piena crisi nel settore metallurgico e chimico. Il suo ufficio è ben arredato, ricco di chincaglierie di prima qualità, che ben lo rispecchia, del resto, vestito azzimato e curato, da non far trasparire la sua anzianità. “Qual è la situazione?”, chiese il signor S. al suo assistente. Era nel suo ufficio, vicino alla sala d’amministrazione della sua Azienda, quando il volto del suo secco e timido assistente si appiattì, a significare il diniego delle sue aspettative. “Come sarebbe a dire?”, gli domandò con voce grossa. “Stai dicendo che sto per rischiare?”, e l’assistente approvò, alleggerendo i nervi e mostrando un sorriso amaro. Il signor S. si alzò dalla sua poltrona, e guardò fuori dalla finestra; cominciò a fumare uno dei suoi sigari toscani. Era tipico per lui favorire l’industria locale del tabacco e non quella importata cubana, seppure più gustosa. Si sentiva legato alla sua terra. “Maledetti! Se non era per me, tutti questi lavoratori, che io, Io ho messo in occupazione, sarebbero a mendicare! Centinaia di famiglie della Città, decine di case costruire con i miei soldi, interi quartieri nati per favorire l’entrata al lavoro dei miei lavoratori...e ora questo...”. Il giornale parlava chiaro. La sua azienda era a rischio, e non di poco: “Potrebbe chiudere l’azienda, signor presidente!”, con voce atona gli rispose l’assistente; “Doveva capire che prima o poi...”. “Come? Prima o poi? Ma che diavolo dici? Hai idea di quanto io abbia impiegato per evitare questo momento? E pensa a tutto il lavoro perché non si venisse a sapere di questo affare...tutto sprecato...” “Che dice il ragazzo?”, chiese mentre il suo sguardo si dirigeva verso il centro del paese. L’occhio catafratto si impuntava su una struttura bianca, moderna. “Dice che lui non può più far niente.”, rispose in maniera sciolta l’assistente. “Come non può far niente?”, si voltò per tre quarti il signor S. “Come potrebbe? Il suo compito è finito. Sono passati degli anni oramai...” “Già...otto all’incirca, è quasi primavera poi...”, notò solo ora che il cielo era aperto, e che alcuni ciliegi volevano superare il tempo proprio, fiorendo a discapito di pioppi e castagni, meli e peri, olivi e perfino roseti e altri fiori. “Che si può fare? Lui non ci aiuterà. Anche se qualche cosina la vorrebbe in cambio...” “A non fare nulla si diventa tutto ad un tratto vogliosi di lavoro, eh? Quel...”, e sbuffò fumo dalla bocca. “Ha fatto delle cose a suo favore; pretenderebbe qualcosa...”; l’assistente lasciò sul tavolo alcune carte, tra cui quella della sezione locale dei trasporti pubblici. Lui li guardò per un secondo: “Ah, vuole fare il capoccia dei bus? Vabbè, incapace dov’era, non farà più danni di quelli che la crisi non ha già fatto lì dentro!” “E al suo posto? Chi ci si mette?”, e fuori intanto arrivavano le auto della guardia. “Lo decideranno gli elettori. Il partito di quello prima, il signor D., è ancora ben voluto dalle nostre parti, se non sbaglio; mandategli qualcuno come suo successore, e lo voteranno a frotta! Tanto, qui l’opposizione non ha mai funzionato, né mai è servita! Che ci pensi quello nuovo a sistemare la faccenda. E sia chiaro! Che lo faccia chiamandomi!” “Certo, presidente, ma chi?”, e intanto dalle scale arrivavano le guardie. “Stiamo cercando il presidente della compagnia”, chiese la guardia ad uno degli impiegati. “Al momento è occupato in ufficio, col suo assistente, se vuole può aspettare.” “Mi spiace, ma devo fargli recapitare questo.” Mostrò all’impiegato l’avviso di garanzia da parte della procura della Città per inquinamento e distruzione colposa di falde ambientali. “Come può vedere, è urgente parlargli.” “Vede, è una persona molto indaffarata: tanto ha quasi finito...” “Non arrivano le guardie? Ci sono le vetture da dieci minuti, e non è lontana l’entrata dal mio ufficio.”, domandò impaziente il signor S. “Si vede che il personale sta cercando di bloccarli, di arrivare alla sua scrivania.”, “Inutile. Quelli mi vogliono. Non riesco ancora a capire perché quello scemo che abbiamo messo non riesca a bloccare anche questo! Sarà pure finito il mandato, ma non il potere che può esercitare!” “Presidente, non può chiamare, per caso, la Guardia, e fermare tutto. Lui deve stare attento alle mosse che può fare, altrimenti un’altra figuraccia lo distruggerebbe.” “Ti prego, non farmici pensare: abbiamo messo un imbecille, ma almeno l’unico abbastanza tale da essere di nostro appoggio.” Lo considerava imbecille per giusta motivazione. Accadde qualche anno prima, durante una conferenza alla scuola locale. Si parlava del nuovo programma dell’azienda locale di smantellamento rifiuti, di riciclare più rifiuti possibile con l’ampliamento dell’inceneritore e delle sale di riutilizzo dei rifiuti. Durante la chiacchierata del direttore degli uffici, il sindaco stava giocando con il suo cellulare mostrando ben poco interesse al futuro dei giovani, indaffarati nelle lezioni a saltare per volontà degli insegnanti lo studio dei scrittori dell’Ottocento per andare a vedere se il compost era a posto. In fondo stava emulando la grande attenzione dei tredicenni e dei dodicenni scolari, lì, bloccati dal preside a seguire la noia fatta discorso. Durò poco l’annoiarsi generale, quando uno dei conferenzieri chiese al sindaco se era giusto mobilitarsi per il bene dell’ambiente. Fece un sì con la testa, che ricordava gli asini quando sono contenti della carota che si trovano davanti, e a ragliare furono tutti per quella scena. “Dio, non so chi fosse più stupido in quel momento se lui o il preside che gli ha dato la possibilità di presenziare alla scena!” “Per fortuna che non gliene diedero altre di possibilità.” “Già. Per fortuna...” Bussarono alla porta: la segretaria, vestita con un colore grigiastro e rivestita in testa dalle doppie punte e dal volto stanco, chiese se il presidente era libero per poter parlare con il capo della Guardia. “Oh, no, signor Presidente, non è il capo, ma solo una guardia.” Il signor S. approvò, e la fece accomodare. Salve, e subito gli fece vedere l’avviso di garanzia. Il signor S. non fece piega e le chiese di attendere un attimo fuori dalla porta. “Mi spiace, ma lei deve venire immediatamente con noi, in questura, per essere interrogato sulle ultime vicende accadute.” “Sì, ne sono cosciente, ma vede, oggi, non è una bella giornata, e devo finire di discutere col mio assistente nei riguardi di alcune faccende in sospeso.” “Capisco. Io intanto attenderò fuori. Badi lei di non opporre resistenza. Non sono venuto solo apposta.”, indicando le vetture fuori dall’edificio, “Devo ammettere che di questi tempi non capita di rado un opporsi alle forze dell’ordine.” Uscito, il signor S. immediatamente scrisse su un foglio un nominativo, e lo chiuse a piega. “Senti, ragazzo, come hai capito mi devo assentare un istante. L’avvocato non mi farà trattenere a lungo dentro la questura, anche per via della mia età e della mia posizione. M’è venuto in mente un nome che può fare il nostro interesse, senza obiezioni: l’ho scritto qui dentro. Nascondilo per bene, affinché non ti faccia vedere dagli agenti quando uscirai da qui. Credo che tu la conosca, lavora per noi da qualche decennio. L’ho vista bambina e per favore dei suoi genitori l’ho fatta assumere da giovane da noi, se non averla fatta arrivare in poco tempo ai vertici. Stesso partito, pressoché la stessa età, solo che lei è più furba di questo qui! Non ci deluderà alle elezioni politiche.” Si preparò ad uscire, prendendo il cappotto di velluto appoggiato alla poltroncina del mini salotto dell’ufficio. L’assistente fece per aprire leggermente la carta che subito intese di chi si trattasse effettivamente. Guardò il presidente con uno sguardo sospeso tra lo stupore e l’incomprensione: una scelta del genere era rischiosa, dopo tutti questi anni. “Guardami quanto ti pare. Hai capito bene, la direttrice dell’ufficio; molto capace, starà zitta quando le verrà chiesto di assecondarci. Lei è l’ultima! Ah, e per il signor D…confermo l’idea di metterlo dentro il sistema dei trasporti. Non ci saranno problemi, dato che la sua famiglia gestisce l’azienda da generazioni. Il caso non si pone nemmeno così difficile!” Uscito dall'ufficio, si fa accompagnare dalla guardia fino all’uscita, fino a essere accompagnato da altre tre guardie, rimaste lì a fumare assieme agli uscieri dello stabilimento. Dopo due minuti non c’era più traccia né delle guardie, né del signor S.
24.
Questi attivisti non mi piacciono: parlano della bellezza degli ordini presenti in Germania, in Svezia, dove sono sovvenzionati ogni anno con cifre astronomiche, proprietari di servizi e di palazzi con tanto di impiegati full time, solo per negativizzare la situazione italiana sull’omosessualità. Un’ora intera a parlare del nulla! E il nulla era un passare di fogli colorati, di Power Point pieni di immagini sorridenti di associazioni, di locali, di riunioni all’aria aperta su tematiche come l’AIDS, il sesso, le famiglie di figli omosessuali e di diritti negati o in cerca di essere autentificati da qualche ministro non conservatore o assoggettato al potere. Eccoli lì! Lei, bellissima lesbica di ventotto anni, insegnante alle elementari, solare e divertente che spiega come mai in Germania c’è la parità nel testamento delle coppie unite, ma dell’assenza della possibilità di queste ad adottare se non prima dell’unione (prima single, poi adozione, e poi coppia!) Lui, il rachitico ragazzo effeminato che mi guardava da tutta la serata, mentre discuteva della crisi in atto all’interno dei gruppi, in Italia seguiti da attivisti più anziani dediti al paternalismo e alla formalità delle conferenze, con scene straordinarie del tipo: “Se tu alzi la mano e dici qualcosa, ti possono pure rispondere, “Ma chi sei?”, perché in certe situazioni l’unico a parlare è chi è alla cattedra!” Sì può fare qualcosa per tutto questo? Certo, una piccola associazione di studenti e lavoratori giovani può andare in Comune, sbattere il pugno sul tavolo e dire con parole forti, davanti al sindaco della città:
“Signori, qui c’è in gioco la dignità di noi froci! Vogliamo maggiore rispetto!”
Signori, altre prospettive non ce ne sono. Questa è la risposta! Esagero con questo giro di disprezzo snob sul loro idealismo, ma è chiaro come il sole che non è possibile avere un certo peso politico quando si è l’ultima ruota del carro! Come associazione facciamo ridere, perché già non esiste una sede ufficiale, e si vaga tra uffici e lotti liberi temporaneamente; secondo siamo alla merce di altri gruppi “non tanto messi bene”, che vorranno sfruttare qualche associazione per farsi belli davanti ai partiti: è un gioco a premi e di meretricio, a chi si mostra le primizie per primo e con miglior risultato! Le associazioni...che risata! Nessuna funziona se fatta da giovani idealisti! Purtroppo ho già avuto la mia dose di credenza alle piccole follie dell’attività, del fare la differenza: quasi un anno fa riuscì ad accedere ad un blog giornalistico, che pubblicava diversi scritti su tematiche diverse (politica, sociologia, cinema, psicologia, musicologia), per finire dopo alcuni mesi di buona attività e di riconoscimento a non essere più ripreso negli scritti, mentre la qualità del prodotto scemava sempre di più, con articoli di poco conto (però di gran lunga più sensati di tante testate giornalistiche!). E che manca il criterio! Il fatto di essere veramente piccoli, e di chieder chi può dare vero aiuto; non a farsi pubblicità da qualche associazione che ti sorride in faccia e dopo, nel vero momento di carità e di solidarietà, non si fa sentire al telefono (Tuu, tuuu, tuuuu). Il silenzio dell’altra presa, e di nuovo soli, in balia del disinteresse. Di attivisti veri in quella stanza ne ho visti ben pochi, assolutamente. Forse uno dei ragazzi alla mia destra sembravano veramente interessati, ma come me non mancavano chi assisteva solo per conoscere altri gay. Questi centri, questi gruppi sono da sempre grande movimento di ricerca, non del diritto e della tolleranza sociale, ma del bel ragazzo da conoscere, con cui poi uscire insieme e via, una notte a letto e la mattina a lezione! Siamo realisti, anzi, voglio fare il realista: il giorno in cui mi verranno a spiegare, come da programma, come affrontare il coming-out, ne riparleremo...ma poi, devo per forza sentire uno che mi dice come parlare i miei genitori del fatto che: “Sì, mamma, tuo figlio è gay. E gli piace tanto dormire coccolato da un bel giovanotto!”. L’occasione è quella, e cambia a seconda della situazione in cui si vive. Ci sono modi per dirlo, metodi da sviluppare. Ma il segreto di tutto questo è solo...avere la pazienza...cioè, se ti va di dirlo, ottimo, fallo! Ma non ti azzuffare, non piangere, non chiedere pietà! Dillo perché vuoi essere riconosciuto sia come figlio, sia come fratello, sia come nipote, ma soprattutto del fatto che ti senti gay, che sai che loro ti vedevano prima come etero e che adesso cambia tutto. Non c’è un tempo per dirlo: scegli te. Il coraggio viene a tutti, ma non allo stesso tempo. Quinto episodio Il contratto
25.
POSTINO: “Buon giorno, lei è? Ottimo, le è arrivato per posta un foglio, una raccomandata veloce a suo nome. L’accetta? Perfetto! Firmi qui! Ecco...ora qui! Tutto a posto. Ecco a lei, signore! Buona giornata!”
È doveroso ricordarle, signor N., che le direttive dell'amministrazione di cui lei è rappresentante esterno, non tollereranno in alcuna maniera possibile l’usura delle proprie risorse finanziarie ed economiche, costate all’incirca mesi di lavoro e di ricerca per lo sviluppo ai livelli consoni attuali, per investimenti a fondo perduto, quali il suddetto affitto in quella bicocca improvvisata in mezzo alle zone popolari di Firenze, nella condizione in cui si presenti il rischio di incorrere in un contratto in nero. Perché ciò non avvenga, sarà utile, se non indispensabile, l’acquisizione del tanto richiamato in sede “contributo d’affitto regionale”, alla quale lei è prossimo e in possibilità di richiesta. Basterà solo questo, e lei potrà continuare il suo soggiorno fino alla prossima crisi economica ed amministrativa. Provveda al più presto l’ottenimento di dati, prove certe che possano andarle a favore nei riguardi della sua scelta di proseguire fuori dalle mura domestiche i suoi studi privilegiati; in tal caso oltre ad essere del tutto disinteressati al sostegno monetario successivo di tale affare, verrà adottata una misura di denuncia e di pena per tutti i collaboratori della manovra fiscale evasiva. Anche il complice quale si ritroverebbe lei subirà la pena in questione, senza chiaramente la denuncia. L’amministrazione è conscia dell’utilizzo e dell’importanza di tale mezzo di cui lei in questi ultimi mesi sta disponendo, ma deve ricordarsi che al momento (e difficilmente anche in futuro) tutto il meccanismo regge su un finanziamento generoso ed abbondante, comprensivo di risorse ben superiori alle richieste effettive. Nei casi in cui lei deciderà di distaccarsi dall’arricchimento del budget da parte nostra, lei sarà il benvenuto, e ogni nostro controllo da parte sua cesseranno all’istante, se non per minime questioni necessarie. Qui in allegato si trovano tutti i dati richiesti per la conclusione di questo momento critico; la prego di essere molto preciso nell’acquisizione, e soprattutto discreto: numero di registrazione del contratto d’affitto presso l’Agenzia delle Entrate; contratto stampato con in vista nomi tutelari (locatori e conduttori) e firmatari; copia della ricevuta dell’agenzia delle Entrate e del compimento della registrazione e foglio digitale stampato sulla richiesta del contributo affitto per il Dipartimento. Le si fa ricordare l’urgenza e la scadenza di tale manovra, non oltre la prossima settimana. Eventuali riscossioni indipendenti a favore dell’investimento sono ben accetti, e più saranno influenti nel complesso, più le darà maggiore libertà d’azione e minore controllo da parte dei nostri organi competenti. Auguro a lei di poter proseguire negli studi da lei iniziati, facendole presente che è per tale motivo se lei si trova dislocato dalla sede. Buona giornata! 26.
Una voce echeggia tra i corridoi, per pochi istanti. “Mamma”. Ci salutammo con un bacetto, mentre salì sul vagone passeggeri del treno regionale veloce diretto in Città, nella speranza si fermasse presso la stazione più vicina alla mia dimora (anche se, trasportando un carrarmato pieno di vestiti e cibarie, un bottino degno di un contrabbandiere, per il peso mi parrà lontana!). Nella testa ritornano dei piccoli frammenti: un biglietto da otto euro, che mi pareva costoso in confronto a qualche mese fa; la vidimazione veloce con lo scocco della macchinetta colorata della stazione; e il via vai generale di turisti, lavoratori al rientro dalle ferie e studenti infelici della fine della loro libertà vigilata. Sempre in quei corridoi tornò quella voce, più tenue. Salimmo per l’ascensore d’emergenza per le valigie e i diversamente abili, tenendo premuto il pulsante della discesa, mentre sotto di noi stavano arrivando e tornando gente di ogni età, dispersa poi nelle strade, nei bar, e un po’ nel nulla della città. Il caos mi impedì di salutarla davvero. Quella voce è sempre accanto a me, al mio capezzale. I primi tempi ne soffrì, certamente: l'allontanarsi al grembo è forse l'impresa più ardua per un mammone come me, molto difficile. Come per tutte le cose, ci vuole un po’ di coraggio per fare quello che si fa. Arrivederci. Le porte si chiusero. Il treno partì. La stazione si allontanò da me. Lei mi parve più lontana. Il buio delle campagne si aprì ai miei occhi. Si è soli in compagnia di estranei odori, sguardi e movimenti. Si spensero le luci della città, all’ultima collina. Quella voce si spense. “Mamma” La scena intanto si riempie di rabbia, appena penso agli ordini materni del controllo, dell’indagine e del sospetto. Controllare, indagare e sospettare di chi ho intorno: già non mi mancano le paranoie; con queste si fa jackpot! Tutto questo stress...alla mia età...e a volte mi permetto di dirlo a chi mi è attorno! Geniale! Così si continua un’amicizia coetanea! Ottimo, davvero ottimo...sublime, ecco; mi ritrovo a fare l’agente segreto in casa mia! Io non so cosa diamine ho fatto per meritarmi una situazione del genere: ritorno a casa, per passare con la mia famiglia il piacere del fine settimana, e invece no! Subito a parlare di soldi! Contratti, affitti! E per diamine! La domenica dovrebbe essere per il piccolo ramo cattolico della famiglia un giorno dove non si parla di lavoro. E subito, a tavola dei nostri nonni, a ciarlare di costi, di spese, di questo e di buona notte!
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“Vuole la caparra assieme all’affitto? Avevi detto che l’avrebbe chiesta dopo!” “Non t’ha ancora dato i codici della registrazione? Guarda che hai firmato per il contributo, mica per essere in regola!” “Ma Frank non ha firmato? Non potevi fare come lui se non te lo dà il codice? “Ma sei sicuro che pagherà? Sei sicuro che non voglia fare l’evasore fiscale?” “Vuoi trovarti un lavoro? Non fare l’idiota! Hai da studiare, non da lavorare! Guarda che a noi i soldi non ci mancano per fronteggiare le tue spese: ma in regola, Dio! In regola almeno in quest’occasione!”
Come posso saperlo io, da uno che è pure commercialista; se ci riesce è perché ha le competenze necessarie per farlo! Devo mettere a soqquadro tutto, come accadde qualche settimana prima, che mi feci prendere dall’impulso di pretendere (con giustizia, chiaro, non si è folli a richiedere ciò!) un abbassamento della nostra tariffa mensile, davanti ai problemi presenti in casa, e di cui lui, a ragion del suo intermediario, avrebbe risolto...non l’avessi fatto! Tre giorni prima lo aveva chiamato con un principio di nevrosi assurda, bofonchiando parole come “sfratto”, “mensilità da pagare all’istante”, “accordi presi”; si calmò e chiese scusa, ma per la firma si dovette essere tutti calmi e decisi. Arrivò in giacca, molto azzimato; non sembrava così anziano da come me l’aveva raccontato l’intermediario, anzi, forse è più giovane di mio padre. Io rimango in silenzio e lui, seguito dal suo fratello notaio, controlla le carte e velocemente ci esorta a firmare. Velocemente, senza dolore. Gli chiedo di rilasciarmi il prima possibile i codici per la registrazione ai servizi regionali del Dipartimento per Lo Studio Universitario. Ancora non me li aveva dati, e dovetti aspettare, mentre il tempo era nemico giurato della mia calma e della mia pazienza. In casi sfavorevoli lo dissi imprudentemente e accidentalmente a Frank, quando ci incontrammo per l’aiuto richiesto per la borsa.
BARTO’: “Sai cosa succede se si scopre che è un contratto d’affitto? Succede che mi toccherà andare in questura, Frank! Sì! In questura! Svegliarmi di mattina presto, non fare colazione (già non la faccio per pigrizia, se ci si mette anche l’impedimento succede il disastro!), dovermi vestire di fretta: giacchetta, collo alto e camicia dentro i pantaloni; pantaloni della sera prima sporchi di birra o di pasta; passatine classica nei capelli (non vedo nulla senza la mia passata da donna!); scarpe qualsiasi (stivali, polacchini o scarponi che siano...) e via, fuori casa, senza avere nulla nello stomaco. Rientro preventivamene per prendere i fogli del contratto e soprattutto la carta d’identità, e via, di nuovo all’aperto! Passo dopo passo alla questura. Con tutti i poliziotti, gli sbirri lì a vedere uno vestito all’ultimo secondo e pieno di scartoffie; forse uno si fermerà davanti a me e mi chiederà: POLIZIOTTO: “Oh lei? Cosa fa con tutte quelle carte? AGENTE: “Sono in missione! Devo recare al maresciallo delle prove inconfutabili di un crimine commesso contro lo Stato, contro le Finanze della nostra Repubblica! Queste carte devono essere subito portate al cospetto dell’alto funzionario dell’istituzione dell’ordine! Io sono responsabile di questa scoperta gravosa e difficile: non posso non presentarmi al suo cospetto, per informarlo delle ultime indagini che io, in qualità di agente, ho portato al termine con grande sacrificio e con grave rischio per la mia, sì, la mia persona!” POLIZIOTTO: “...allora, ragazzo?” BARTO’: “No, nulla, devo parlare col responsabile per le denunce.” POLIZIOTTO: “Denuncia?” BARTO’: “Mi ritrovo a dover presentarmi davanti ad una persona che, se dovessi omettere qualche cosa subito dopo sarà la mia fine! Appunto, davanti a lui gli dirò...” MARESCIALLO: “Mi dica, cosa la porta fin qua dentro?” AGENTE: “Eccole! Eccole, tutte le carte del misfatto! Un evasore, signor maresciallo. Questo qui è un evasore fiscale: voleva appioppare un contratto in nero a noi! Era furbo, all’inizio disse che era un contratto d’affitto nazionale, quindi tranquillo e rispettoso delle leggi del nostro Stato. Poi, guardi...guardi! Imbroglia, e fa mancare questo! Questo! Il codice di registrazione nazionale del Ministero delle Entrate, dell’Agenzia a cui è tenuto l’onere di dover presenziare alla conferma dei documenti catastali”. FRANK: “Boh, non so...”
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La risposta migliore a tutto questo. Un boh, che vale tutto. Che gliene frega di questo dramma che mi sto creando personalmente, con tutte queste costruzioni personali gravide di paranoie e nevrosi intime. In dieci minuti eravamo a casa, mentre la valigia continuava a dondolare su se stessa per il pavimento contorto e poco agibile per le rotelle di un valigione usato e comprato ai saldi. Cominciai ad indagare tenendomi in bocca tutto il livore possibile della cosa: non dovevo fare altre scenate come quella passata, in cui pretendevo con fermezza e con incoscienza delle soluzioni inconciliabili con la realtà effettiva. La sera dopo uscì con un mio amico gay per le strade di Firenze, per poi fermarci fino a mezzanotte in un locale omosessuale per prenderci un po’ di birra. Ecco, Michè.
Michè vagava solerte al passo della sua cerca; voleva avere, voleva possedere, voleva vivere... ...il piccolo amore infruttuoso per lui era il piacere più grande. Godeva di poco: quella brama di passione tangeva le sue corde, vogliose di vita...
Mi parlava di come gli piaceva un ragazzo con cui era uscito poco tempo prima: gli avrebbe fatto da quanta voglia aveva in corpo sesso orale, veloce, da come gliene veniva goduria a farlo. Camminammo per le strade ancora vuote della città, dentro era il deserto. Un locale al neon, pacchiano, di dubbio gusto, ove per lo più si riuniscono anziani e adulti con amici e conoscenti, oppure coppie gay assetate di cocktail. Capitò quella sera un trio interessante: una coppia con una ragazza, americani, incapaci di parlare in italiano.
“Lei is beautiful. I’m so sorry but I can’t stop me to say you I wanna you kiss in your mouth, nella bocca sua, e touch suoi capelli, hair, biondi e long. You are so masculine, male, un virile, e avrei voglia solo di toccarla. Ha un so cute nose, aquilino, e gradevole di corpo mi sembra, you like. Oh, you are...cosa, ma non è gay! Quella lo bacia, Cristo!”
Etero, con la ragazza, in un locale gay. La fortuna vince ancora! Per fortuna che non arrivai che a fare solo pensieri, e a squadrarlo con gli occhi; a pensarci bene, non vedeva altro che la ragazza, quindi era difficile che lo fosse...mi chiedo cosa ci facessero lì...La serata fu piacevole, anche se stavo per crollare dal sonno. Finite le birre ci dirigemmo alla stazione, sebbene lui volesse tornare a casa col taxi, spendendo inesorabilmente una fortuna; lo costrinsi a prendere l’ultimo autobus, così da risparmiare sui costi e per poter risparmiare sul futuro. Uno studente dovrebbe ricordarsi che i soldi scarseggiano se si è solo tali e non lavoratori: un po’ di parsimonia non fa male alla nostra età. “E non sopporto che tu continui a buttare i tuoi soldi in sigarette, cavolo! Ti bruci dei soldi che potresti usare per fare la spesa, anche se fumi due pacchetti alla settimana. Beh, io posso fare la morale (oltre a non-fumatore sono figlio di un tabaccaio, di conseguenza il primo a sconsigliarti di fumarti il vitto), e ti consiglio di ascoltarmi sull’importanza di un pacchetto. Potresti comprarti al suo posto una minestra pronta: buttata nel fuoco, con un po’ di olio e aglio; mescolata e pronta per essere gustata con un po’ di pane, anche raffermo, se proprio non ne hai uno fresco (consigliata la cresta sul pane della mensa!)”. Il waffel al Burger King concluse tutta la serata, e la pace della giornata, e infine la tregua dell’intrigo. Dapprima chiamai il proprietario per sapere se era possibile ottenere i codici in tempo: lui mi esortò ad inviargli la mia email per avere la ricevuta dei dati.
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“Il codice di registrazione sovrascritto non è corretto. La preghiamo di ritentare.” AGENTE: “I...codici...non sono quelli? Devo ritentare...copia...incolla...” “Il codice di registrazione sovrascritto non è corretto. La preghiamo di ritentare.” AGENTE: “No, ti prego! Aspetta, forse è quest’altro...” “Il codice di registraz...” AGENTE: “Accidenti! Devo avvisare il Dipartimento della questione!” “Vorrei sapere perché (maledizione...il tempo scorre!) il sistema di registrazione per il contributo affitto in richiesta non riesce a salvarmi il codice di registrazione del contratto d'affitto (lo sapevo che era un truffatore! giuro che lo denuncio; lo denuncio!). Ovvero, perché quando provo ad incollare il codice di registrazione del contratto d'affitto immediatamente il codice scompare e non viene letto. (È falso, non è quello!)” Come andò a finire? Semplice. Il codice era nella pagina dopo della ricevuta. Salvata, stampata e pronta per essere spedita alla DSU. Tutto qua...niente paranoia, niente di nulla... AGENTE: “Pronto, sono io! Sì, riferisco che la missione può considerarsi conclusa! Falso allarme! Potete continuare a finanziarmi! Ora è tutto a posto! Ripeto: l’allarme era falso, non c’è rischio di evasione. La situazione è stabile. Passo e chiudo!”
30.
“Il codice di registrazione sovrascritto è corretto. si desidera andare avanti?” Sì, ora sembra che tutto sia a posto... Sesto episodio Troppe riflessioni
31.
Luna, al volgere del mio sguardo saprò che tu non pavido scherzo ma vera parvenza mia sarai la mia gioia rossa; ti cercherò, e riscalderò la tua docile patria, perché tu sola non possa rimanere. È il destino che ci vuole in vista del proprio amore, forse uno sguardo ci salverà dalla tenebra siderale...
La notte, la buia notte è fuori dalla finestra...tra le nubi si nasconde la Luna, lì, fissa a emulare il sole che non c’è, lontano, dall’altra parte del mondo. Lei è in attesa di vederlo per quell’istante che la separa dalle tenebre, nell’aurora, e poi nel tramonto, fino ai giorni successivi, nell’eternità. Si racconta che la Luna sia l’amante segreto del Sole: lei non poteva amare ciò che non risplendeva come lui, eppure non faceva che guardarla, lei, piccola e lontana dai suoi venti e dai suoi raggi. Accadde all’esplosione. Lui divampò, come dal nulla. Accese un nulla che ora è galassia. Si formò dall’idrogeno e parlò con l’elio, e guardò dalla sua corona l’universo nascere. Era un fermento di attività, di vita, sempre in un bollire e in un fondersi: tutti gli atomi esplodevano e lui da spettatore notava le fondazioni dei pianeti. Il sole brillava dagli albori della vita: quando i pianeti non esistevano, lui c’era; quando i pianeti erano in formazione, lui riscaldava; quando si formavano i satelliti, assisteva. Bruciava, come Mercurio, Venere e Marte. Tra questi nacque la Terra, e la notava diversa, piccola. Gli altri soli erano lontani, e desiderava conoscerli. Vedeva delle luci nel cosmo, brillare con colori diversi, dal blu al bianco puro, con dimensioni assurde o forme grottesche, quasi duplici. Troppo lontane, gli anni luce poteva solcarli; non poteva. Lui era immobile, ancorato alla sua posizione di guardia. Era un Sole, doveva essere una stella. Brillare, e dare calore ai suoi pianeti. Un millennio, però, vide staccarsi da un pianeta (non si ricorda se fu un distacco, forse anche una meteora o forse si stava formando...) un pezzo, e girava intorno. Non ci fece caso i primi eoni. Ora accadeva qualcosa. Si arrotondava e impallidiva. Era grigia, splendente, piatta. Una perla, che circumnavigava il buio. La Luna. Eccola, piccola che lo aspettava...lo guardava...era sempre lì, per lui. Non era un sole, non splendeva di luce propria, però era con la sua luce che era bella. Dopo qualche milione di anni la velocità aumentò e lei non si fece vedere. Non sapeva dov’era, la cercava in continuazione in tutte le epoche. Era scomparsa; una perla abbandonata negli abissi nella notte siderale. Si era staccata, esplosa, disintegrata, spaccata? Non sapeva il suo destino. Si decise di rincuorarsi, e di vedere gli abitanti di quella piccola perla blu diversa, che si muoveva non tanto all’esterno, ma all’interno, con tutti quei minuscoli esseri che la abitano. Era al loro tramonto, ed eccola. Davanti a lui, che appariva. Sembrava bianca, non grigia. Una perla bianca. Cominciò a diventare rosso, e lei lo vide; rosso fuoco, in procinto di scomparire. Non lo spazio, ma il tempo li separava, dalla sua calata al suo risplendere nel cielo di nera quiete. Era finita con la scomparsa di uno per l’avvento dell’altra, e viceversa. Erano destinati a non vedersi mai sempre. Il sole non poteva aspettare e lasciò scorrere il ciclo delle rivoluzioni, in attesa del ritorno ai primi momenti felici. L’amante è colui che va avanti quando tutti tornano indietro. Lei capì del suo amore: non lo cercava più per la velocità e per l’impegno costante per le sorti del pianeta; sentiva una mancanza, un vuoto. Non se ne voleva più separare. Lo inseguì, nella notte dei tempi, solo per vederlo. Ogni giorno, prima che lui scomparisse all’orizzonte, arrossiva, e alla sua apparizione diventava roseo, ai suoi saluti. Era un amore difficile, disunito e bloccato dal cosmo, ove tutto scompare e riappare, tra buchi neri e quasar pulsanti. Bastava che si vedessero quel tanto da non sentire di non esistere per entrambi, e di essere qualcosa che erano in fondo; il Sole però era sempre fermo; la Luna ruotava, si muoveva per vederlo, per scoprirlo. Era vicino allora, non più lontano. Era lì, alla sua portata.
Sole, dimmi dov’eri quando persi la tua luce? Ti cercai, volevo sentire ancora i raggi tuoi nel vuoto buio dei crateri miei, al silenzio della mia notte materna. Ti vedo da lontano che tu passi, e io vedendoti sento il tuo fuoco dirompersi nella Terra. Cercami, e dimmi che non solo sola nella landa dispersa del cosmo.
32
Seduto, solo, alla luce di una piccola lampada al muro con i fili scoperti, immerso nel disordine e nel ginepraio di una camera studentesca divisa da un muro di compensato e di cartongesso a barriera visiva tra me e il compagno di stanza. La notte fuori, e le sue luci. Sono qui. Il computer avanti al mio naso, con a dormire il mio coinquilino, stanco dall’eccesso di lavoro nel dipingere una strabiliante opera che non potrà mai rivendere perché sotto contratto con l’accademia in cui studia. Sembra una quinta teatrale, improvvisata alla meglio con mobili diversissimi, tra il moderno e l’antico, tra il progettato e l’improvvisato. La polvere domina sovrana suoi nostri piedi, e l’odore varia a seconda degli angoli in avvicinamento prossimo: il mio regno è neutro, fuori da ogni conflitto possibile con qualsiasi puzza infame di carogna e liquidi corporei di stabilizzazione; il suo ha l’odore anarchico, incorreggibile e impossibile da domare. Il buio mio è la sua luce; disegna, dipinge, asciuga e colora con una pazienza e una meticolosità degna di un accademico, o meglio da scapestrato. È una fortuna avere un compagno affine nel carattere e nel temperamento; sai di poter contare su una persona che una volta ha avuto uno spasmo e dal gesto inavvertito della mano stava per frantumare a terra un bicchiere di vetro, prontamente preso. È come se con lui mi comportassi da fidanzato, come se fossimo una coppietta, senza però effusioni o notti di sesso. I primi tempi un po’ infatuato lo ero, per quanto sapevo che non era corrisposto. Conoscendolo meglio l’infatuazione è scomparsa. È rimasta l’amicizia, per quanto breve, dato che finito l’anno si trasferirà fuori dall’Italia. Se riesco a ottenere, anche pagando, un suo quadro, saprò di non averlo perso. L’amicizia è così, un amore senza sesso. Ma forse non tutte le amicizie sono così: non è che vorresti scopare chiunque ma non puoi e così fai finta di amarlo sapendo di non poter farci nulla. Anche se mi chiedo se tra conoscenti ci sia un modo di rapportarsi così: l’amicizia vera, e non buona per qualche uscita, così, a ritrovarsi insieme e a ridere sbronzi o a fare le foto per suggellare un momento di felicità insieme, è rara. Implica un’affinità, un modo di vedere la realtà con gli stessi occhi, e di aver uno spirito affine, quella piccola cosa che renderebbe uniti a vita, o solo per quel momento. Non è necessario divertirsi insieme, o fare le stesse cose; scoprendosi ci si conosce e si è più uniti. Artisti lo siamo entrambi: lui di più, perché fa, produce già qualcosa di effettivo, proveniente da una sensibilità attiva, espressa compiutamente e non conclusa. Io mi lamento di scrivere poco, di non seguire un programma e di non avere delle belle idee. Ogni scrittore in erba deve avere la compiacenza di non considerarsi nemmeno tale: all’inizio sempre e solo “scribacchino”; un termine gentile, quasi un vezzeggiativo per chi ancora non sa andare avanti nel mare della narratività. L’artista poi è qualcosa che sa di arte, che la vive l’arte, e non ne parla per partito preso: è un po’ come la letteratura, o la si vive o la si scrive. E a scriverla non si ottiene il risultato sperato. Nessuno sa se sarà quello che spera di essere: ci vuole non tanto il tempo, quanto la formazione necessaria, il rigore e la credenza. Fede e ragione, ma non di una religione o di una scienza; si è ad affrontare un compito difficile e uno sa di dover credere in se stesso ora più che mai, di non poter contare sugli altri, i quali non potrebbero dare un aiuto sostanzioso (a meno che non siano colleghi, come un Pound con Eliot per la stesura della Terra Desolata). Inoltre dovrà oltre alla credenza prestarsi ad un regime auto-imposto per il controllo delle proprie forze, tralasciando ogni linfa vitale o emozione romantica. Deve essere razionale e preciso, non freddo ed austero. L’enfasi funziona ma non va abusata. Speranze di ottenere una fortuna nella propria arte a questo mondo non ce ne sono rimaste tante: si ha solo la speranza, nell’attesa che qualche d’uno non l’acquisti per pronto uso, tanto per una monetina in più nel proprio forziere. Con uno come me sarà difficile spuntarla, da come sono divenuto dritto e battagliero... Sì, un po’ bohemien lo sono diventato, un mezzo scapestrato instabile ed inquieto come pochi! Se mi do all’alcolismo forse ho grandi possibilità di diventare un autore da letteratura pulp. Il tempo della birra è meglio non chiamarlo, quella torna da se, coi suoi flutti magici. Ubriacarsi un tempo lo disprezzavo, sia per snobismo, sia per timore di perdere il cervello in qualche lago di alcol installato con l’eccesso etilico. Ho ancora l’età di sparare soperchierie e di passarla liscia: da adulti si è troppo responsabilizzati.
33.
COMPAGNO DI BEVUTA: “Cin cin!” BARTO’: “Alla tua! Tutta d’un fiato!” COMPAGNO DI BEVUTA: Te ce n’è voluto per iniziare a bere...” BARTO’: “Eh, sì, il timore di finire in un fosso a cantare un’aria da vecchi era grosso!” COMPAGNO DI BEVUTA: “Dai, su, come se avessi il cervello d’un rintronato...” BARTO’: “Ma nessuno ce l’ha...è che sono ancora piccolo...alla mia età pretendere di essere grandi è un’impresa titanica, impossibile, via...” COMPAGNO DI BEVUTA: “Grandi, in che senso, grandi?” BARTO’: “Nel senso di maturi, responsabili, saggi ed equilibrati.” COMPAGNO DI BEVUTA: “Ne conosci?” BARTO’: “Sì, adulti, che sembrano più calmi e riflessivi di me, inquieto e prossimo a diventare un mezzo saccente strafottente arrogante e pignolo come da bambino.” COMPAGNO DI BEVUTA: “...ripeti il primo verbo, scusa...” BARTO’: “Sembrare?” COMPAGNO DI BEVUTA: “Ecco! Sembrare, non essere! Non fare l’errore di equiparare i due verbi! Non sono la stessa cosa.” BARTO’: “La loro età li dà garanzia di esserlo, no? Si ascolta gli adulti nella loro esperienza...” COMPAGNO DI BEVUTA: “Alcuni adulti. Non tutti. Perché cambiano, gli adulti. Non sono una marca. Sono persone, che possono essere grandi, come dici te, come non grandi, ossia bambini, col corpo di un quarantenne...non illuderti troppo...” BARTO’: “Uno a quell’età avrà fatto molta esperienza, no? Io ho metà di quegli anni e ho fatto un certo numero di esperienze. Alla loro età sarò pronto...” COMPAGNO DI BEVUTA: “Basta con queste vaccate, via...Non si è mai pronti!” BARTO’: “Come? COMPAGNO DI BEVUTA: “Che tu credi? Che uno da vecchio è pronto? Come se la vita fosse un libro, o un manuale con le istruzioni da conoscere e memorizzare nel più breve tempo possibile! E la vita, la vita! O la si vive, o si fa come i bambini, e la si fa vivere ad altri, al posto tuo.” BARTO’: “Certo, gli adulti si distinguono dai caratteri, però avendo più anni, ha avuto più tempo per provare sulla sua pelle la vita. Va comunque ascoltato.” COMPAGNO DI BEVUTA: “Ma non seguito. Se quella persona crede in una cosa, non crederci pedissequamente, ma ragionaci sopra, e vedi se funziona. Provala, vediamo, e se ti è congeniale (attento alla storiella del “ma non è così che si fa, sei te che bla bla bla, non ti piace, sei troppo bla bla bla”) seguila. E passi. Fallo se vuoi, e senza imposizioni.” BARTO’: “Nonnismo, pensi?” COMPAGNO DI BEVUTA: “Ce ne sono troppi di capi gruppo che decidono i gusti altrui. Questa è gente da cui sentire ma non udire, capito?” BARTO’: “C’è la minaccia dell’ostracismo, e della solitudine.” COMPAGNO DI BEVUTA: “La facciano. O se non te la senti, seguili fin dove è possibile. Ma non ci credere. Lontano con la mente, fuori. Così farai buon viso a cattivo gioco.” BARTO’: “Ma allora è come essere soli...” COMPAGNO DI BEVUTA: “Vero. E allora credi negli amici, veri, che ti ascoltano e vogliono che tu li ascolti. Sarà fatta, allora.”
(questo è prima di una sbronza. Troppo idilliaco, certo. Persone del genere non parlerebbero così dopo una birra, o almeno non tutte. Se esistono, c’è da tenerseli stretti.)
BARTO’: “Questa birra è ottima, comunque.” COMPAGNO DI BEVUTA: “È una artigianale. Ottima qualità!” BARTO’: “Bisogna trattarsi bene a volte. Devo ammettere che bevendo mi sento più sciolto, più leggero, quasi un coglioncello.” COMPAGNO DI BEVUTA: “Sei più felice, ma non perché sei un alcolizzato. Come me, il tuo cervello prende l’alcool come un momento di distensione, e si fa leggero, quieto. Parli più sciolto, più fresco, e saresti capace di tutto.” BARTO’: “Ti avrò rotto da tempo di raccontarti tutte quelle storie su di me...” COMPAGNO DI BEVUTA: “Ovvia, piantala...ci passiamo tutti; una persona saggia vede nell’altro quello che è stato, e la incoraggia ad andare avanti. Se fa il bastardo e lo infama per azioni tipiche ad un’età precoce, c’è da ragionarsi con chi hai a che fare...” BARTO’: “Il fatto che l’hai passata significa che sei più avanti, o cosa?” COMPAGNO DI BEVUTA: “Non significa nulla. Non è una gara di corsa, o una maratona. Lo sbruffone crede in questo, e inciampa in continuazione, mentre il più sprovveduto lo supera in testa al gruppo. Si incolleri pure, l’idiota. Non capisce che è il carattere alla base di una personalità e l’approccio agli altri a determinare la buona riuscita.” BARTO’: “Perché si cresce allora? Ti senti superiore, per caso? COMPAGNO DI BEVUTA: “No.” BARTO’: “E allora perché uno lo fa? Per fare il maestro, il mentore del piccolo e fragile allievo di turno? Sono così, per caso? COMPAGNO DI BEVUTA: “Sì, te piccolo e fragile...al massimo ti sottostimi e ti metti troppo alla prova, rischiando di perderti in autostima...ma queste cose, su... BARTO’: “Perché allora si cresce?” COMPAGNO DI BEVUTA: “La risposta la sai...io non ti voglio dire più altro...” BARTO’: “Quindi uno cresce perché si sente di voler crescere. Tu vuoi diventare maturo, responsabile e giusto solo perché è il tuo spirito a volerlo: potresti fare il cazzaro a destra e a manca, perderti nel tentativo di fare il bambino per il resto della tua vita e divertirti fino all’esaurimento nervoso, senza obblighi, solo per quel momento. Cresci, e impari dalle esperienze, dalle tue e sole esperienze, senza farti precondizionare da altri sul sesso, sul fumo e sull’alcol…ossia, uno così è pieno di ferite?” COMPAGNO DI BEVUTA: “Non immagini quante. A volte si cade nella follia per troppe, e non si ragiona più. Alienati, e non ti va di godere...ecco, non si ragiona nemmeno con troppa maturità. La giusta, senza privarsi di nulla. Un po’ stupidi rimaniamo, per una certa libertà personale.” BARTO’: “Prima non mi piaceva bere perché temevo di diventare come quei babbei in giro a sputare a terra mentre passavano i pedoni, col gocciolone di saliva che usciva dalla bocca...” COMPAGNO DI BEVUTA: “Sì, sì, tutto molto bello. Tranquillo. Certa gente non è così perché diventata da troppo alcol. L’alcol c’entra poco con certi soggetti: sono stupidi per natura, e bisogna volergli bene, fargli le carezze, capito?” BARTO’: “Ne sarei capace di dargliene tante, di carezze!” COMPAGNO DI BEVUTA: “Vedo che c’intendiamo. La tua testa non scappa per tutto l’alcol o il fumo del mondo. Quella è bella fissa a te. Non se ne va. Anzi scommetto che forse forse ti darà qualche regalino durante quelle leggerezze al cervello.” BARTO’: “Quello è sicuro. Farò in modo di non caderci nella trappola della dipendenza. Il tuo discorso funziona, certissimo, ma chiaramente non lo prendo come un invito alla droga o all’alcolismo. Se fumerò uno spinello spero di farlo con un amico, o un amante, che me lo faccia assaporare per bene. Andare in catalessi paranoica con un ragazzo; la notte è garantita!” COMPAGNO DI BEVUTA: “Questo è lo spirito giusto! Toh, ecco un’altra birra!” BARTO’: “Presa. alla tua salute, my friend!”
34.
Le zanzare colpiscono ancora! Non è più estate e quelle piattole con le ali continuano a rovinarmi la notte. C’è la notte, fuori, è tutto tranquillo, e.…bellissimo, uno stormo pronto a bombardare di aghi la mia pelle! La luce della lampadina appesa al muro segnala delle ombre in avvicinamento. Sono vicine. Tra poco mi bombarderanno. Con quel suo zinzinino di persecuzione rovinano anche la più tranquilla delle serate, rendendola simile ad un duello di strategia
(dove possono essere? dov’è il loro rumore? cosa faranno? sono sulla mia pelle? mi stanno già bucando? dove diavolo sono? maledette, non mi avrete mai!)
C’è da farne una guerra con queste, qualcosa di spettacolare, all’americana, con tanto di televisioni e di gossip. Già m’immagino i titoli, con “Stragi di zanzare, uccise tre in una notte”, oppure “La macchia è prova! c’è stato un zanzaricidio!”. Arrivano di notte e nessuno riesce a fermarle. Il radar del mio cervello segnala la loro presenza al centosettantacinquesimo centimetro dal mio naso. Prepararsi alla presa immediata, all’annientamento totale! (mi faccio coinvolgere troppo da queste cose, se mi svegli di notte è chiaro che confondo realtà con fantasia più di quanto non faccia già nel reale). A letto. Coperto dalla testa ai piedi con la coperta estiva (quella invernale non riesco a portarla mai!) e provo a dormire, ormai abituato ai rumori fuori dalla mia finestra. Si avvicina una. Il zinzinino si fa sempre più forte, non smette di cessare, e voilà, sopra la mia testa, cercando un punto scoperto dove pungermi e bere i miei liquidi per dissetarsi. Gira intorno, come un elicottero, avvistando possibili eliporti o zone di atterraggio per qualche emergenza possibile. Nulla da segnalare, e si allontana, non prima che io l’abbia scacciata dal tuo tentativo di penetrarmi il cuoio capelluto alla ricerca del sangue. Mi viene in mente quando nella Seconda guerra mondiale...Dio, tutti quegli aerei in volo, sfrecciare tra le città e le campagne con una disinvoltura e un silenzio simile a quello della farfalla, nell’immensità della volta celeste, con le ali che tagliano le nubi e volteggiano tra i boschi e tra i colli, nei mari chiari, al sole del sereno...comunque, verso la fine della guerra, se non erro si trasmettevano tra aerei alleati, come quelli americani (coi loro bolidi super scattanti nel cielo, volando ad altitudini incredibili) segnali che i nemici non potevano decodificare: non parlo di codici classici da macchina Enigma, scritti criptati ottenuti con sequestri o rapine; voce, vera voce alla radio che immediatamente veniva disturbata per evitare intrusioni con le altre radio nemiche. I tedeschi non capivano mai nulla, non sapevano cosa volessero fare, e si beccavano le pallottole che uscivano fuori dalle ali del vento. Un aggeggio di morte, qualcosa che volava come un uccello, beato al sole e nella salsedine del golfo... Il zinzinno delle zanzare era da criptare in quel momento perché non sapevo come fare per fermarle, per capire cosa volevano fare data la situazione sfavorevole. Quale codice si poteva usare? Codice alfa-tre-diciassette-omicron-sigma? No, non avrebbe funzionato, troppo astruso e buono con le innocenti mosche (c’è chi li schiaccia, ma non fanno male a nessuno; si posano docili nella gamba e poi volano via. non pungono almeno, non qui in Europa; fossero tze-tze sarebbe ben altro!). Forse stavano cercando un punto scoperto nella coperta? Se ne avvicinava una, lentamente, e scrutava tra la foresta vergine dei miei capelli un punto dove agganciarsi; e inviava messaggi alle altre, cercando di segnalare la difficoltà dell’operazione: “Allerta! Zona pericolosa. Attendo istruzioni.” E loro, intorno alla stanza, a cercare un modo per venire incontro ai propri obiettivi. Attenzione, pronti a sparate. E zac, con la mano a schiacciarne una. Questa è l’operazione di difesa contro quelle maledette! Un colpo veloce, preciso, senza danno, a parte il muro probabilmente sfondato dalla manata che darei o solo macchiato dal sangue ricolmo e misto della zanzara. Il suo carburante, da ripulire prima che scoprano tutto! I cannoni aerei! Stanno per puntarli contro di me, lo sento. L’altro dorme, e mi aiuta con colpi ben assestati al muro. Ma devo pensare a me solo, e vedere di scongiurare la piaga notturna, per il bene della mia sonnolenza. Non voglio finire insonne, cavolo! Sono troppo giovane per diventare dipendente dalle pillole degli ansiogeni. Che inizi la guerra! Settimo episodio Serata in centro
35.
SERAFINO: “Cosa hai fatto oggi?”
La classica domanda di chi non sa come perdere il tempo in una notte, tra le 2 e le 3. Un locale gay vicino a Santa Croce, dopo aver visto un film al cinema: pieno di gente, di alcol fino all’ugola, tanto che diversi stavano vomitando. Tutti a chiacchierare del più e del meno, quando io arrivai, da solo, nel mezzo del caos; ed entravo, uscivo. Di tutte le età e di tutti i gradi alcolici, non si respirava dentro; un mortorio di cadaveri animati, e di occhiate balorde ai deretani e alle spalle dei più giovani. A dire il vero avrei preferito non andare in un locale da solo, per via delle mie paranoie nei riguardi negli abbordatori. Mi sento un po’ tradito da chi mi diceva che sarebbe uscito stasera. Non riesco a capire come faccia la gente a comportarsi in certi modi, e a pretendere il rispetto. Contenti loro! La serata era quella che era, non c’è tanto da lamentarsi. Il momento migliore era la scoperta di un film al cinema, che aspettavo di vederlo da quanto era alquanto sensibile alla mia condizione: la storia di una ragazza che infatuata di un ragazzo bellissimo scopre che è in realtà omosessuale, e da lì viene a scoprire altre realtà, con al fianco il suo amico e un possibile fidanzato all’orizzonte. Mi ricorda qualcuno! La corsa dalla mensa al cinema è stata divertente quanto inutile: uscito, via! Fuori, la pioggia che cade, le gocce che aumentano ad ogni passo e che si possono intravedere dal riverbero dei lampioni e dalle pozzanghere inanimate dalle onde; Con l’impermeabile corro in direzione della strada! Gira a destra, saltando tra i crostoni del marciapiede antico; pozzanghera, salto! Corsa veloce fino in fondo alla strada usando come parapioggia il mio impermeabile, facendo la figura del buffone con tutti gli ombrellisti in giro. Mancavano venti minuti quando ero partito dalla mensa, ed erano passati dieci minuti...dieci minuti! Ero in ritardo! Niente film, e io cosa avrei fatto? Aumento della velocità lì, a metà strada. Il traffico del centro era diffuso ovunque. Correre! Dall’altra parte. Pronto a ripartire dopo il rischio di venire investito da un tram urbano. Mi scorreva agli occhi tutti gli esercizi commerciali (pasticcerie, forni, bar, centri telefonici) che stavano chiudendo o erano ancora pieni di clienti e prossimi all’ora notturna. Prossimo taglio ed ero in dirittura d’arrivo. Passava una ragazza con una torta di compleanno, guarnita e delicatissima: un errore e la investivo. slalom e superata. Se sbagliavo di un minimo centimetro ero finito: colpita in pochi secondi si sarebbe rivoltata di centottanta gradi e avrebbe avuto in più il sapore della strada lercia. Tutta quella torta, nessun festeggiamento e la rabbia di aver lasciato alla figlia un compito così facile, per lei incompiuto a causa di un corridore maldestro. Il cinema, e non c’era la fila. Subito il biglietto...e l’attesa...mi dimenticai che c’era un ritardo aggiuntivo tra la fine della proiezione precedente e quella successiva; lì ad attendere di vedere il film, mentre guardavo il cinema riempirsi. La città ha sempre molto da offrire in fatto di locali, piazze, bar, pizzerie, osterie, ma la cosiddetta “compagnia bella” è difficile trovarla. Si ha quello che si tiene in pugno, e così funziona per chi deve passare la serata mentre passeggia per andare nel locale dove con molta fortuna non troverà il giusto ragazzo, per passarci la nottata. Non esiste allora la città morta, ma, in repentina, le persone, prive di vita e di drammaticità nel sangue. C'era voluta una lunga camminata per raggiungere il locale, tempestato di ragazzi dispersi nelle pratiche più complesse e semplici: dalla sbornia collettiva alla fumata fuori dal pub, con acconciature hipster di ogni livello. Pioveva leggermente, e tutti fuori a rinfrescarsi e a ciarlare del più e del meno. Le coppiette, i gruppi di amici, le coppie di amici, gli amanti, i compagni... Un bar, in fondo alla strada, in stile irlandese, traboccante di birra Guinness e di fumi dall’odore bruciacchiato, riconoscibile come marijuana. Uno stormo di persone, allineate al parlato più quieto e notturno. 36.
COMPAGNO 1: (con un tono spiritoso) “Ah, dunque siete una coppietta da poco fidanzata!” FIDANZATO: “Sì, ci siamo legati da qualche settimana!” FIDANZATA: “Ci conoscevamo da una vita e solo ora abbiamo capito tutto!” COMPAGNO 2: “Ma tu guarda, il classico amico che diventa amore!” FIDANZATO: “E io che l’ho sempre vista non come la migliore amica, ma come il mio amorino bello! Dio, quanto tempo sprecato a non dirglielo!” FIDANZATA: “E io quanto tempo ad uscire con ragazzi che non mi piacevano, quando tu eri quello ideale per me!” COMPAGNO 1: (con sarcasmo) “Oh, quanta tenerezza...mi viene da...” COMPAGNO 2: “No, lascia perdere. Non fare il babbeo...” FIDANZATO: (si altera) “Che c’è, vi da qualche problema?” FIDANZATA: “Ma che diavolo volete da noi!” COMPAGNO 1: “Scusate, ma mi sembrate un po’ sdolcinati...” FIDANZATO: “Ma che vuoi! Non possiamo nemmeno fare gli innamorati?” FIDANZATA: “Già! La pianti!” COMPAGNO 2: “Scusatelo, è che se non beve non si sente a suo agio e lascia sfogo alla sua boria incontrollata. Comunque, è piacevole il fatto che eravate già fatti l’uno per l’altra ma non ci credevate...” COMPAGNO 1: “Certo...una coppia di imbecilli va sempre assieme...” FIDANZATO: “Oh, ma che vuoi ora! Che offendi!” COMPAGNO 2: (irato) “Piantala! O stasera non ti faccio rientrare...” FIDANZATA: “Bravo! Glielo dica al suo compagno di stanza!” COMPAGNO 2: “Ah, ecco...” COMPAGNO 1: “Quanto sono ritardati...”
A qualche metro di distanza, all’angolo della strada, c'era un gruppetto di amici, appena usciti dal lounge bar, accaldati per le ragazze dentro il locale. Dopo l’apericena, in un locale dai prezzi bassi erano usciti e si erano prodigati verso questo localino, in cerca di qualche passatempo. Avevano bevuto due birre a testa, chi tre e chi una (la legge della statistica non si discute, né del pollo di Trilussa...), e continuavano a parlare dei loro romanzetti d’amore in formato digitale. Fino a quando non videro la selva di ragazze di cui era spettacolo il posto in cui si trovavano. Era un piacere per veri e propri maghi del gioco auto-erotico, e una speranza per maldestri sentimentali.
AMICONE 1: “Dio, quanta fresca che c’è lì dentro...Madò!” AMICO: “Sì, un sacco. Dovevamo mangiare qui, piuttosto che in quel cesso di...” AMICONE 2: (si altera) “Ehi, imbecille! Guarda che nessuno ha detto di no quando l’ho proposto. Chiudi la bocca quando dici certe cacchiate!” AMICO: “Oh, che hai, ti volevi fare quella del banco e non ce l’hai fatta e ora rompi con me? Guai a farlo, che sono anch’io in disagio per quella al tavolino: due zinne, cavolo!” AMICONE 1: “M’è capitata una volta...una biondina, bassa, sì, ma con un culetto morbido...l’ho limonata in bagno subito, senza pensarci...” AMICO 2: “Quale? Quella col fidanzato fuori dalla porta?” AMICONE 1: “Sì. Tanto me ne importava una...” AMICONE 2: “Ma non ti aveva preso a badilate?” AMICONE 1: (si altera) “A me? Ma sei matto! Uno come me con uno spicchietto come quello lì? Ma dai...una manata in testa sì, l’ho presa, tanto mi so difendere...” AMICO 2: “Manata? Era il doppio di te! Faceva judo, quello lì! Lo so perché una volta l’ho visto con quella lì che si baciavano mentre lui entrava in palestra, dalla porta della sala dove si fanno arti marziali.” AMICONE 1: “Ma guarda che non m’ha fatto nulla, per quanto grosso fosse...” AMICO: (si altera) “Non raccontare balle! Quello ti aveva preso al collo e te lo poteva spezzare in due, ma la sua ragazza si è opposta e ti aveva fatto ricadere, dandoti sì, una manata, ma da come me la raccontò la barista la sera dopo (ero con una tipa fuori a cena) volasti per due metri da quanto forte era...” AMICONE 1: “Oh, ma a te a farti gli affari tua no? Ma che cacchio, che fai, la civetta per conto mio!” AMICO 2: “Falso che sei! A fare il vanaglorioso con noi ubriachi!” AMICONE 1: “Perché, voi avete altre storie? È notte, fa freddo. Tanto vale...” COMPAGNO 2: “Ma come si fa a confonderci con due compagni di stanza, mio Dio!” FIDANZATO: “E che ne sapevo che eravate due froci!” AMICO: “Sempre, sempre col fatto della noia, di questa...la devi smettere di ripetere queste stupidaggini...scommetto che è da mesi che non te ne fai una!” AMICONE 3: “Mesi? Sei anche clemente con lui, dai...non vuole ammetter di essere come tutti noi sfigati. Sempre a fare lo sborone, come stasera, con la storiellina della bionda.” AMICO 2: “Dai, su rientriamo dentro. Che vedo che si sta incazzando come una bestia...” COMPAGNO 2: “Ehi, piano con i termini. Frocio per me è offesa, grave!” COMPAGNO 1: “Dai, su, che anche tra amici ci chiamiamo froci. Non t’incazzare...” COMPAGNO 2: “No, no. Ora voglio le scuse da questa macchietta dei miei...” FIDANZATA: “Aspetta. C’hai detto che ti faceva vomitare il nostro amore, quindi non cercare di infognarci tutti e due se t’ha chiamato frocio.” COMPAGNO 1: “Un attimo...scusa, ma questo c’entra poco...” FIDANZATO: “Ma ho sbagliato a darti del frocio?” FIDANZATA: “Non lo siete? O sì?” COMPAGNO 2: “No, senti. Andiamocene, che tra poco faccio un macello. Ma Dio! Sempre con la storia del termine frocio, del finocchio. Che cacchio di serata è?” AMICONE 1: “Porco...veramente, siete dei bastardi! Ora cominciate a pigliarmi in giro, voi sfigati, per questa cacchiata? Ma non rompete le balle, e siate anche voi meno ipocriti!” AMICO: “Oh, sentilo. Ma che ti prende? Qui l’idiota lo stai facendo solo te, mica noi. Hai iniziato te con la storiella della biondina. La vuoi te, piantare di fare l’altezzoso, il superiore con noi, cacchio? A volte sei veramente...” AMICONE 2: “Senti, piantiamola qui, che sta per piovere. Te, piantala con queste romanzate che non ti crede più nessuno. Ok? È notte, vogliamo divertirci o no?” COMPAGNO 2: “Lo volete capire che per me è un termine che mi dà sui nervi? È il classico termine che si usa per dispregiare, per offendere quelli come noi! Lo usiamo, sì, certo che lo usiamo, ma per non crederci più di tanto. Noi possiamo usarlo, come per le persone afroamericane il termine negro, che è offensivo se da parte dei bianchi...” FIDANZATO: “Io uso il termine solo per indicare. Avrei usato gay, ma per me ha lo stesso valore. Non sono mica uno che discrimina i gay! A offendere uso altre parole!” COMPAGNO 1: “Lo vedi? Forse è meglio finirla qui. Che se mi diventa rosso, dopo a letto non fa più nulla, mi capite?” AMICO: “Piuttosto, che si pensa di fare stasera, dopo questa parentesi infame?” AMICONE 3: “Io andrei in discoteca, c’è ancora tempo, no?” AMICO 2: “Ottimo, così un po’ di fregna la si trova. E lui non dovrà più mentirci...” COMPAGNO 2: “Oh! Ma che, vai a raccontare a perfetti sconosciuti le nostre cose? Ma che ti piglia? Manco avessi bevuto, Dio...” COMPAGNO 1: “Era per sdrammatizzare la situazione in cui ti sei cacciato da solo, caro...se te ne fossi stato zitto fin dall’inizio tutto questo non sarebbe capitato!” COMPAGNO 2: “Ma avanti, come fai a notare quanto smielata sia questa coppia! Ma santo...ma ti pare possa essere credibile una romanticheria così banale!” FIDANZATA: “Eh no! di nuovo qui siamo! Ma che gliene frega se siamo così. Mica ci conosciamo. La pianti lei di fare queste cacchiate belle o buone, a quest’ora poi...” COMPAGNO 1: “Ha ragione. Dai, su, calmati ora...” FIDANZATO: “Sennò a letto è un dramma, vero?” FIDANZATA: “Ti ci metti anche tu ora?” COMPAGNO 2: “Ora basta! Stupido fedifrago che non sei altro!”
AMICONE 1: “Vabbè, ok. Su, finiamola qui, che sono stanco...” AMICO: “Oh, non fare l’offeso. Ti sei cacciato te in questo guaio, sappilo...” AMICONE 2: “E ora dove va? Al cesso? E che ci va a fare?” COMPAGNO 2: “Maledetto! È perché mi tiene lui che non te le ho date!” FIDANZATO: “Pezzo di...lasciami, ti prego, che lo riempio di botte, stanotte, sto frocio!” COMPAGNO 1: “Finitela entrambi! E mai possibile che debba scemare il tutto in una ridicola situazione del genere?” AMICO: “E da un po’ di tempo che non esce...non è andato per urinare...ci mette troppo tempo...andiamo a vedere cosa fa?” AMICONE 3: “E perché? Io ho appena ordinato qualcosa. E c’è una lì nel bancone del bar che mi fissa da qualche minuto. Quasi quasi vo da lei, che col drink in mano mi fa tanto dark lady, una femme fatale...” AMICO 2: “Io rimango qui. C’è quella lì che mi piace tanto e vorrei vedere se per caso...” COMPAGNO 2: (irato) “Mi stanno sulle balle le coppiette tutte rose e fiori, ok? Non le posso vedere, mi danno fastidio? Perché dovevamo incontrare la coppietta fresca di amore! COMPAGNA 1: “Oh perché ti danno fastidio? Sembri una di quelle megere che non sopporta vedere quelli come noi pomiciare nei parchi. Per quelli come loro dovremmo fare in casa i nostri amplessi. Che ti piglia oggi? COMPAGNO 2: “Io...non lo so...sono solo stanco di queste scenette che non posso più vedere...mi danno fastidio e basta!” FIDANZATA: “Posso chiederle se per caso c’entra con voi? Da quanto state insieme? COMPAGNO 2: “Ma che gliene importa, scusa! Si faccia gli affari suoi!” COMPAGNO 1: “Da un anno! Anzi, un anno e mezzo.” FIDANZATA: “Allora forse c’è una spiegazione a tutto ciò...” FIDANZATO: “Ora li fai da consulente? A quello servirebbe la camicia di forza!” AMICO: “Io vado a vedere che combina in bagno. È stato un idiota, ma non si merita tutto sto male, che diavolo!” AMICONE 2: “Vabbè, vai come vuoi!” AMICO 2: “Ehi, signorina!” COMPAGNO 2: “La ringrazio dei suoi consigli! Ma nessuno gliele ha chiesti! Quello che c’è tra di noi è cosa personale, non vi deve riguardare, chiaro? FIDANZATA: “Si faceva per discutere, mica per altro!” COMPAGNO 1: “Non è la prima volta che mi diventa invidioso il mio compagno. Talmente brontolone com’è, i primi tempi per lui gli sembrano perduti...” COMPAGNO 2: “Ma che è, una congiura ora?” FIDANZATO: “Non ci credo, il gay invidioso dell’amore etero...roba veramente che ti capita una volta nella vita...mi viene da ridere!” AMICO: “Oi, ragazzi, venite! Presto!” AMICO 2: “Che vuoi ora, ma lascialo perdere!” AMICO: “Sul serio, venite tutti. È assurdo! Guardate!” AMICONE 3: “Ma cosa...non ci credo...” COMPAGNO 2: “Sentite, mi spiace per quello che è successo, ok...fate una buona serata, e ci si vede in giro...” COMPAGNO 1: “Ha ragione, e tu lo sai. Non capisco perché non capisci che è così...” FIDANZATA: “Non riesco a capire perché è così chiuso nei suoi confronti...come se tra di voi non ci fosse amore...” FIDANZATO: “No, dai, queste scene non esistono, via...ma che serata è?” COMPAGNO 2: “Ho voglia di tornare a casa.” COMPAGNO 1: “A me invece è venuta voglia di baciarti. Hai da ridire anche su questo?” AMICO: “Guardate come la bacia! Ma chi è quella?” AMICONE 2: “E che ne so! Quello lì fa tanto lo spaccafighe in giro, ed eccolo lì. Quello da lui non me lo sarei mai aspettato.” AMICO 2: “Non la limona nemmeno! Io non l’ho mai visto baciare così. Sembra un innamorato...lui? Non ci credo...ma chi è? La sua fidanzata?” COMPAGNO 2: “Piantala e vieni qui...” FIDANZATO: “Oh, e che diavolo! Ecco!” FIDANZATA: “Oh, così si fa!”
Una serata è noiosa se le si concede il beneficio del tempo. Se prende tutto il tempo a nostra disposizione allora si può essere sicuri che ciò che ci rimarrà sarà il miglior tempo, ovvero un minuto in una serata. Così è accaduto. La serata che si prospettava doveva essere tranquilla e soddisfacente, o per lo meno diversa dalle altre. Troppe pretese? Forse, ma ciò non significa che non possa finire così.
37.
Purtroppo scene del genere sono solo fantasie piacevoli. In giro momenti da cinematografia del genere non le trovi mai...mai! Sempre a parlare delle solite cose. La città ha molto da offrire in fatto di locali, piazze, bar, pizzerie, osterie, ma la cosiddetta “compagnia bella” è difficile trovarla. Si ha quello che si tiene in pugno, e così funziona per chi deve passare la serata mentre passeggia per andare nel locale dove con molta fortuna non troverà il giusto ragazzo, per passarci la nottata. Non esiste allora la città morta, ma, in repentina, le persone, prive di vita e di drammaticità nel sangue. L’ideale in questi casi sarebbe una chiacchierata libera, fuori dal caos, lontana dalla gente: noi due soli, a parlare, con tutta la quiete possibile. “Sì, è una bella serata, certo.” E io che mi avvicino a lui, col suo bel cappotto dei grandi magazzini e io col mio vecchio impermeabile. “Com’è la birra?”, che non è nulla di cattivo, mentre lui mi sorride e mi risponde tranquillamente: “Eh! Non è male per niente! Devo aggiungere che preferisco le classiche birre artigianali”, e si mette a descrivere la sua preferita, “quelle corpose e buone da morire...costano molto di più di una marca industriale, certissimo.” Gli si illumina il volto quando mi dice: “Hai ragione!” e lì la fantasia trionfa. Io lo bacerei, solo per quel sorriso che gli dona la luce della serata. Niente di più, un solo bacio. E lui che mi accarezza i capelli per il ricambio dell’affetto. Ci si avvicina dolcemente e si sente tutto il sensuale che ci fa piacere. Ma tutto questo è idillio, pura immaginazione. Troppo presto per baciare uno dal nulla. Se scatta, ben venga! Non a tutti funzionano i nervi con la stessa volontà di tenerezza e di calore. Chi vede troppi film, legge troppi romanzi d’amore finisce per illudersi troppo, per credere alla finzione piuttosto che alla realtà che lo circonda. E male! Malissimo vive nella fiction, in cui è personaggio di una storia che non esiste: pensa esista fuori di lui e invece è dentro di lui. Vorrei precisare che non parlavo di romanzi rosa, una sotto-categoria che parla di un amore classico, senza nemmeno riflettere sulla situazione, sulla persona; ce ne sono troppi di romanzi d’amore, da supermercato, quando tutti sanno che il rosa in un romanzo serio ci deve essere, giustamente, ma non deve sopraffare le altre componenti. La storia d’amore deve essere un moto proprio, qualcosa che faccia intenerire il lettore, ma non lo deve portare al diabete! Si deve caricare il romanzo di ben altro, di altri sapori! Il pensare nel romanzo è fondamentale. Se è vivo, se parla di qualcosa che è nell’amore, ma va intorno, e forse oltre, allora è un romanzo rispettabile. Solo amore dà fastidio alla lunga. Sembrava di averne avuto come il presentimento di un possibile incontro, quasi come predestinato: sulla strada noto che era veramente difficile entrarvi, quasi impossibile, e allora dovetti provare a passare tra tutti quei signori e quelle signore (possibili trans, di lesbiche in quel locale ne ho viste veramente poche), beccandomi in un momento solo diverse occhiate da lontano e qualche tocco leggero al fondo schiena da vicino. Una birra leggera, e intanto la luce al neon e i faretti da discoteca mi colpivano gli occhi con colpi intermittenti, facendomi desiderare l’aria aperta dei fumi di sigaretta. Fuori, un giro di ragazzi, tutti dello stesso stampo. Mi faccio per allontanarmi, per puntare verso il locale più vicino, una specie di pub metal più originale di quel settore da griffe, con il fucsia, il viola e il neon bianco a determinare l’ambientazione. Non riesco a capire perché debbano costruire bar con queste colorazioni, quando vicino c’è un delizioso ristorante dai colori sereni e gioviali decisamente più solare di quella tana per potenziali pederasti. Un pub, semplice, come quelli irlandesi, oppure anche moderni, dove si fa l’apericena, senza statuette a forma di pene per risaltare la predominanza del genere clientelare. Abituato da anni a locali con certi colori e un tipo di arredamento, queste scenografie kitsch non facilmente le accetto, quando infatti vado con Michele qui, usciamo e rientriamo in continuazione, dato che l’ambiente ci dà fastidio per principio. Poi, credo che in posti del genere non si possa trovare un ragazzo discreto, sincero ed amabile. Con la mania sessuale in giro, di cui non mi sento di non appartenere totalmente, un punto di ritrovo come quello può portare alla volta incontri difficili. La paura di beccare lo stalker, che arriva ad inseguirti sotto casa è veramente rara, ma non impossibile. Meno raro è chi si offre a te e poi scopri che cercava solo ed un unico piacere. E poi, addio! Molti a quest’età non cercano delle storie d’amore: casi rari, da animi leggeri e al tempo stesso tormentati dalla mancanza di questo amore che non riescono a trovare. Si è tranquilli, con le proprie compagnie femminili, protetti dalla mano materna delle ragazze, possibili fidanzatine di facciata, immancabili nei ragazzi non dichiarati. Se ci si pensa molti ragazzi, se trovano il bel ragazzo che gli garba, non vogliono altro che il sesso; sano sesso assurdo, eccessivo nella richiesta delle dimensioni ottimali dei genitali. Per il romantico è una morte nel cuore se incontra personalità del genere, terrificanti dalla sfrontatezza delle richieste e dalla freddezza del loro distacco indifferente.
38.
BARTO’: “Che cosa ho fatto? Beh, è difficile dirlo...tutta la giornata è stata alquanto strana, quasi sorretta dalla fantasia di un luogo...” SERAFINO: “Di che parli?” BARTO’: “Parlo di un mercato: c’era qualcosa, forse...un qualcosa di strano...” SERAFINO: “Parli di quel mercato, là, vicino alla mensa? Non è male, anche se molto improvvisato...c’era anche un odore strano...” BARTO’: “Molti ragazzi avevano comuni agricole, molte sparse nei dintorni del capoluogo.” SERAFINO: “Poveretti, forse la fortuna non è dalla loro parte...molti non vanno avanti con quei prodotti e chiudono facilmente...” BARTO’: “Almeno ci provano. Ci vuole coraggio oggigiorno, altrimenti è tutto grasso che cola...devo smetterla di usare tutti questi detti popolari, che non c’entrano nulla stasera...” SERAFINO: “Comunque, Serafino...te, invece?” BARTO’: “Mi conosci, siamo stati a mangiare in mensa...” SERAFINO: “Si, t’ho visto che prendevi la pizza. Comunque, che tu ci creda o no, sapevo che eri gay...” BARTO’: “Come? Davvero? E dire che pensavo di essere del tutto irriconoscibile dai modi e dalla voce che c’ho. Nessuno m’ha mai beccato fino ad ora...” SERAFINO: “Non è vero. lo sai da cosa l’ho scoperto?” BARTO’: “Da cosa? Dalla parlata, per caso? Dalla camminata?” SERAFINO: “L’hai detto tu stesso che non hai questi atteggiamenti. No, è un’altra cosa, che Si vede benissimo e che tu non ci puoi far nulla...” BARTO’: “E sarebbe? I capelli da donna? La passatina da donna?” SERAFINO: “No, piantala! Sono i tuoi occhi. Si vede dalle iridi che hai un luccichio da omosessuale.” BARTO’: “Dagli occhi? Si può riconoscere un gay dagli occhi?” SERAFINO: “A volte sì. Dipende dalle personalità che si ha di fronte. Non sempre si ha questa fortuna.” BARTO’: “Perché parli di fortuna?” SERAFINO: “A volte si finisce a beccare il patetico erotomane in cerca di verghe...lì non funziona, perché è come se gli occhi fossero spenti, inesistenti...” BARTO’: “L’occhi è inesistente?” SERAFINO: “Un filosofo una volta disse che gli occhi sono lo specchio dell’anima. Ci vide bene, perché è così, sempre.” BARTO’: “Come fai a capire, come è successo a me, che c’è questo occhio: l’occhio che esiste?” SERAFINO: “Dall’animo delle persone. Esce una voce, che può essere semplice o meno, ma come vuole la psicologia, devi guardare sempre uno negli occhi per capire se la voce inganna o dice il vero. Gli occhi, e tutti i colori al suo interno. Guarda me, non ho il solo colore nero: ci sono diverse tonalità, diversi aspetti, tutti diversi. A seconda di come mi esprimo, gli occhi diventano simbolo di quell’emozione. Se non, parli con un fantasma.” BARTO’: “Un senza vita. Un vero e proprio senza vita...” SERAFINO: “Tu conta che in giro alla tua età molti preferiscono la morte, questa morte, alla vita. Si soffre di meno, e si gode di più.” BARTO’: “Ho sentito molti discorsi sulla vita e la morte. Non è che si esagera?” SERAFINO: “Vero! Ma almeno si ha un punto fermo...non so perché inizi a parlare di queste cose con te, che ti conosco da qualche minuto. Mi avrai ispirato qualcosa...” BARTO’: “O forse è la notte. Ispira sempre la notte.” SERAFINO: “Te sei troppo negativo. Smettila di parlare di queste cose...” BARTO’: “Hai iniziato te, con la storia degli occhi...” SERAFINO: “Ok, finiamola qui con questi argomenti tristi...” BARTO’: “Allora sono io a fare tutto questo casino!” SERAFINO: “O quello stramaledetto cocktail che ho trangugiato...dovevo prendere la birra come hai fatto te. Non hai ancora risposto alla mia domanda iniziale, caro...” Ottavo episodio Il mercato
39.
Correre! Correre! C’era la maratona, e noi dovevamo dirigerci al supermercato per ritirare l’acqua. Tutti a trotterellare per le strade della città, senza mai fermarsi: vecchi, donne, bambini, giovani e aitanti; una sfilza di gente prodiga a far saltare le coronarie agli spettatori, molti di questi incapaci di simili resistenze. Il grigio della giornata non sembrava smettere. Eppure notavo come in fondo ci fosse nell’aria qualche tempesta diversa; una distorsione dell’occhio...
Un mercato etnico si trovava, stava esistendo nella sua forma sotto gli occhi e sotto le orecchie abbassate dal rumore della città di chi studia le piccole cose e non impara quello che vive, di chi legge le astrusità più lievi e non sente quello per cui vive, di chi ascolta le note più disparate ma non udisce quello su cui vive.
Mangiare! Mangiare! Ed ero alla mensa, non notando che dentro il chiostro c’era una piccola sorpresa ad aspettarmi. Cominciavano a volare per l’aria delle bolle, che non sapevo da dove provenissero, ed ero lì. A mangiare. La gente continuava a correre, imperterrita, senza constatare il freddo e la noia della lunga corsa. Il passo errante risuonava fino ai miei pavimenti, e con la testa mi allungavo dalle vie del mio quartiere alla stradina del chiostro, gremita di produttori e coltivatori. Doveva esserci Frank...doveva, perché ora vedevo il mondo fuori dalla conca dell’Arno.
40.
Si aprì. Aperto, a finestra spalancata (un vento si imperversava) libero per poco tempo, al passare del rintocco delle campane, così; non sai, non saprai quando finirà il segreto prossimo, quando tutto il tuo vedere scomparirà nel suo oblio materno e ti lascerà a suo ricordo e immagine ove il cuor si spaura la melanconia della perdita, la greve dolcezza nell’animo.
Scendere! Scendere! Fuori, dopo pranzo, con le bolle nello stomaco, il rimuginare della polenta che saliva e scendeva. Da lontano i corridori giravano per le strade, saltellavano imperterriti alla ricerca dell’arrivo. “Devo arrivare, devo vincere!” Probabilmente si ripeteva nella sua scatola cranica il corridore, mentre passava sotto casa mia: provai a filmare tutto quanto, appostato debolmente dalla finestra, al vuoto di due piani. I vigili obbligavano tutti a lasciar passare i corridori, scattanti e smagriti poco a poco, quando intanto in cucina si preparava la colazione. I croissant al burro del compagno si sentivano fino a qui, e gli occhi si diressero al cuore dello stomaco.
41.
Un cielo, come in uno squarcio nel tempo umano fisso all’occhio, nel bigio colore del nuvolo, ecco; un passo alla volta e sei lì, prodigo ed evaso, in un non so che di estro fertile e passionale; un tuo io.
Entro nel chiostro, e la prima cosa è nei funghi. Uno stabile dove si decantava le proprietà dei funghi da fondo di caffè, nati in questi preparati fertili per la gioia del consumatore. Uno, due, tre, dieci pacchetti dovevano vendere, e mi parlavano della bontà del prodotto, e di come a cercare i funghi ora, con i propri nonni, non sia possibile. Mia nonna...come una bimba si tendeva verso un fosso, scoprendo in un roveto dei piccoli champignon nascosti; io a tenerla mentre il timore del suo male pesava sulle mie mani. Incapace, timoroso di punture, serpi e rami perforanti; una bimba in mezzo al bosco, con i fratelli defunti che le ricordano quali fossero i tipi commestibili da mangiare e quali da evitare. Il porcino è l’amanita, il tubero il parassita. Così si confondono nelle mie idee scene diverse, e non seguo più nulla di quello che mi raccontavano. Penzolano e profumano, ma io non li comprai. Scappai dalle spore e intanto ricordavo mia nonna che cercava nei suoi posticini, nelle sue zone risapute. Ora non trovava più nulla, nemmeno suo nipote.
42.
Scoccavano al suono delle campane urbane e collinari e al volteggiare delle bolle: tutti presenti! Io ci sono! Tutti, via, a portare ciò che erano lì, a voi! A tutti quanti! È il circo della gente più diversa che esista tra i viventi.
Un giovane mi guardava, una lieve presenza. Mi sorrideva e mi diceva che veniva dalla Comune degli Appennini, e che i suoi prodotti biologici erano sicuri al cento per cento. Dondolavo con le mie scarpe rialzate, e non sentivo. Vedevo solo che qualcuno stava emettendo delle bolle. Gli odori delle tisane... “Sto un po’ male, mamma, dove sono i filtri delle tisane?”, non sapevo che fosse il tiglio, il finocchio e il radicchio il preparato delle dissenterie scongiurate. “Com’era questo mercato?” Ancora aspettavo la domanda. Non era ancora finito nulla, perché ero ancora lì, che guardavo i prezzi, le erbe, i cartellini, le tendine, e i capelli dei ragazzi vicini. Una presenza sentivo di averla vicina. Un incontro? Un’amicizia? Un amore? O forse la stanchezza di chi cerca e non trova. La fame mi ritornava e non pensavo più a nulla. Un blackout. Dovrebbero esistere più mercati in queste zone, più zone vive. La lamentela non finirà tanto facilmente.
43.
Venga... (la voce era sconosciuta) ...un pane salato? Una pasta dolce? Lei saprà il sapore del pane altrui? Un libro (per l'anima, non più per lo stomaco vuoto) Un vestito (per la sua gabbia), oppure una foto digitale, un breve ricordo di tutto. Sa dove si va? Dove si torna?
I fritti! Eccoli! E io che ora non avevo più fame se non per quelli. Girare a destra! Sono nelle vesti: ero una dama, un vecchio, un hipster e un vagabondo. Ero tutte quelle vesti che toccavo e riguardavo nei bottoni, nei lustrini e nei fondi. La prima foto, in alto, da egocentrico quale sono, in cima al rialzo del chiostro; un click e le luci si accesero. Il cielo era ancora bigio, ancora un lamento alle bolle che risalivano...qualcuno lo notavo, tra i loro capelli raccolti e le loro sigarette alla bocca. Qualcuno suonava la chitarra. Io non c’ero in quel loro mondo. Ero sempre lì, ma non con loro.
44.
È un chiostro, sai già dove finirà tutto questo! Il vento intanto muoveva le bandiere e gli striscioni e i giubbotti e le camicie e le giacche dei civili e le carte e le borsette e i capelli e le tende e i cappelli degli incivili e i fili d'erba e i fogli e i volantini e le banconote e le barbe e i bambini e gli oggetti e le persone e gli animali, e le bolle e le bolle...
C’erano i funghi ad aspettarmi, e io li riguardavo senza interessarmene molto. Arriva la notizia di uno dei corridori che giace al suolo e muore; io ero qui, e lo seppi tardi che la morte ha seguito tutta la storia. Io e Frank camminavamo verso il supermercato, e quando toccò di pagare lui mi diede i soldi e io pagai con la carta: non ne volevo, non eravamo fidanzati. Ma tra di noi ci si comportava come tali. Camminavamo ed eravamo sempre intorno a quei vecchietti che forse sapevano della morte ma non volevano metterla alla luce. Il primo che li abbatte, dicevo, il primo che li abbatte...
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BARTO’: “Guardali! Guardali! Vogliono morire?” FRANK: “What? Cosa dici?” BARTO’: “Come le anatre nei giochi al luna park. Dobbiamo sparargli!” FRANK: “Sei andato?” BARTO’: “Usiamo l’acqua e lanciamo gliela contro, come se dovessimo essere al luna park!” FRANK: “Va bene, ok...” BARTO’: “Ecco. Lancio! Un vecchietto! Dieci punti!” FRANK: “Ma perché…” BARTO’: “Ecco che cade un altro, una stele di domino!” FRANK: “Quanti punti un bambino?” BARTO’: “Forse venti. Provaci! Abbiam ancora tre bottiglie!” FRANK: “Merdre! Un colpo a vuoto!” BARTO’: “No no! Eccone, una inciampa sulla tua bottiglia. Gli è partita la dentiera!” FRANK: “Trenta punti! Ho beccato una palla di cannone vivente!” BARTO’: “Aspetta, l’ultimo tiro! Toh! Aitante pallone gonfiato!” FRANK: “Quanto?” BARTO’: “Cinquanta punti!” FRANK: “Così tanto?” BARTO’: “Perché ora si rialza e ce li dà a noi cinquanta punti, in testa!” FRANK: “Allora è meglio scappare.” BARTO’: “Perché? E tutta una nostra immaginazione...” FRANK: “Ah, già. Hai ragione...”
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La corsa stava finendo. Ero ancora in giro per il chiostro e non volevo comprare nulla, solo filmare quello che accadeva. Ero un po’ stanco della girata e delle fermate in ogni bancone, mentre i produttori di quel miracolo biologico dei funghi cercavano di vendere qualcosa della loro merce.
"I funghi, sa, sono fatti dai fondi della terra... dal loro celarsi...". Nascono ovunque e non si sa cosa siano, perché, dove? Vede la pianta? È nata, e lei lo sa. Lo ha sempre saputo.
Le selve fuori dalla città, il viaggio fuori dalla mia mente, i viaggi fuori dalla città degli uomini. Dove abito c’è casino, ogni giorno. Mi pareva di impazzire ogni volta che passava una ronda di poliziotti, un clamore dei carabinieri e il rumore delle macchine che stavano sventrando le strade per rimetterle in sesto (chirurghi di strada, di corpi lasciati a decomporsi). Tutto il tempo a lamentarmi dei gay, tutti questi giorni a pensare chi erano i pederasti, gli altri...gli altri! Immaginare chi fosse chi, cosa fosse cosa. Forse di me so veramente poco. Vorrei perdermi nei boschi.
Perdermi. Dire di esistere solo per me, io, io sempre io, per nessuno, e vivere con gli altri, loro, medesimi ed essi, le piante del segreto mio giardino... sconosciuto a me solo... Il loro sussurro è diverso dal clamore degli abitanti.
47.
Sì, bel ragazzo della Comune, rapiscimi! Porta via un topo di città e coprimi della tua conoscenza, del tuo vivere lontano, quieto e sereno. C’è una rocca al passo delle mura crollate: è lì, appoggiata al crostone, con tutti gli abitanti superiori alle vicende degli abitanti della piana. È solo un sogno, una mia immaginazione. Che accada! Sarò più tranquillo, se mai dovesse compiersi il mio piacere più segreto. Mi sento come se il tempo mi fosse nemico; guardo più volte l’orologio e non capisco se sono ancora nella mia realtà oppure se sto perdendo per strada qualcosa di importante, e che sarà decisivo al proseguo delle mie vicende. La colazione era pronta quando il gruppo che aspettavo dei corridori arrivò sotto casa e non mi diede la possibilità di fargli la foto, o il video che speravo. So solo che erano buoni i dolciumi della mattinata.
Ma cosa sappiamo se gli occhi ci nascondono quello che vorremmo?... ...chissà se un odore ci confonderà la vista e ci allontanerà dalla realtà in cui non possiamo non vivere... Alle porte vi erano pochi volti presi a declamarsi e a raccontarsi: ognuno portatore di una narrazione, di un momento, di un'esperienza. Il film? Tutto è un film, tutto è un sogno in una bolla di sapone (e i bimbi che le vogliono toccare, per non credere che dentro di loro ci sia un mondo che esista; vero!) Lei vorrebbe...un ascolto? Berlino (ya!) e le sue strade ricordano quando nell'Est si credeva esistesse la speranza di un mondo diverso. Cantate! Abbiate il cuore di voler raccontare che nulla si perda! Una bolla volava, e si sentiva la sua sparizione. Io mi cambio in tutte le vesti che c'erano, tutte (uno, due tre, cinque, dieci, cento!) che ricordano i personaggi di un uomo, le sue figure e i suoi caratteri. Chi c'è se non chi è? Ed era un torpore di genti, le persone che sentivano, attaccate ai loro balconi a vendere, a sostenere e a sopravvivere. Forse è meglio sopravvivere che vivere.... Quelle cose che avevano valore forse lo avranno ancora... ...come i pensieri, quei barlumi di luce provenienti dal cielo, ove le nubi non fanno muraglia, e i miracoli... "La ruota la rimettiamo in sesto! Noi siamo ovunque a rimettere a posto le bici, i vostri mezzi!" per strade; azioni che risplendevano e volevano essere, un seguirsi di valzer e canti berlinesi, di fritti leggeri da portar via e di biciclette per tutti. "Venga, per le librerie. Le liberiamo..." e la firma della presenza, dell'attivismo. I libri hanno bisogno di una casa e di chi li accolga. Una commedia continua nel mercato: "Un sorriso, bimbo!", e sembra combattere il grigiore della giornata. E sembra un poco vincerla. "Le mostro la nostra iniziativa, tutti giovani, tutti contro tutto, tutti...tutti..."; e vedevo già un microfono e una poesia in mano. "Posso soffiare sulle bolle?" ed esse volarono. Nono episodio Una strana notte
48.
- “Solo così, nel buio degli occhi chiusi, un qualcosa si imponeva forte. Dove esiste la terra nella sua gravità inflessibile e definitiva e dove, lassù, dove lei non può più toccare alcun'anima non si formano che le nubi leggiadre al vento e allo spazio...” Città! Tu sai dove finisci? Tu sai dove inizi? No, nessuno sa dove finisci! Nessuno sa dove inizi! Inizi e concludi al centro, nel punto focale del tuo girare, della tua cerchia muraria storica ed eterna...” La campana della cattedrale, il suo din don nella notte, nella buia e serena quiete senza Sole, rintoccò ventitré rintocchi, uno, due, tre, dieci, venti e più...alternando ad essa l'eco...
Sai mai se hai un cuore che io amai?
...delle colline, dei monticelli lievi nell'orizzonte dello sguardo. Il silenzio dei boschi oltre le piante, che non sanno cosa sia il sogno, e il sussurro dei flutti scivolanti nello scuro dello scevro scoprire d'uno scompiglio, scorrono dai monti fino alla città.
49.
Era una bella cena, una bella scorpacciata di corpo che si fa poche volte nella vita quando si è contenti e felici, magari uniti ai liquidi alcolici che fanno salire ben oltre la linea di confine dello stomaco, sopra la punta iniziale, con un retrogusto dolce, che ricorda il bacio, la tenerezza dell'amico e il calore di una famiglia. Qualcosa non c'era... La Luna non c'era agli occhi di chi aspettava il suo volto di perla
Dov'eri mentre ti cercava il tuo amato? Eri nascosta? Da chi ti nascondevi, amore delle stelle, figlia della solitudine?
Le nubi di piombo pressato volano al di sopra delle cimase di uomini stanchi e soli al mondo caduto nel silenzio urlante delle feste e dei baleni di gioia euforica e di dramma depressivo che li vogliono stritolati al loro banco da lavoro, soli. La nascondevano e la rendevano desiderata.
Tu vivrai oltre loro, nel cielo che ti aspetta, fuori dai rombi, dai boati infernali della notte...
50.
Erano passate troppe albe e troppe lune dall'apparsa dei boati. Mi svegliai di notte a vedere la pace che venne sconfitta, al disperarsi dei botti, della sconfessabile devastazione. Era una notte che pareva serena. Noi due, giovani... PASSANTE: “O erano di più? Chi erano? Sono forse un castano ed un moro, oppure due castani, due mori, uno biondo o rosso o canuto? Tutti simili, forse nel volto avevano qualcosa che li rendeva due soli, Soli.” ...decidemmo di passeggiare: una camminata lenta ci attendeva fuori dal bar, che era un pub ed era un ristorante e pizzeria; un passo nei pavimenti rialzati, spaccati dalle bombe e dalla storia della città, con le lunghe viuzze nel terreno pronte all'inciampo dei maldestri e degli ubriachi. Uno scocco. Due scocchi. Quattro, che diventavano otto, sedici, ed infiniti nella sera, mentre il silenzio si apriva all'esplosione improvvisa nell'aere. In compagnia degli abitanti noi eravamo quieti alla ritrovata pace, dopo la tempesta che imperversava nella città. Eravamo prima sotto la cattedrale, ma dopo pochi passi nella chiesa, nella sinagoga dei ceri simmetrici con la kippa e il cibo kosher della macelleria sotto la via fuori dalle piazze delle osterie e dalle enoteche, prima del ponte nel fiume piatto e bucato dalle bombe e dalle luci. Le note jazz volavano fino alla cupola di fumo. Nel cielo, ovunque, tra le vie e perfino nel fiume che passa la città, dei boati, delle luci infernali distoglievano lo sguardo... PASSANTE: “L'occhio vede le anime, non le persone...” ...e l'attenzione dei passanti, portandoli dai loro discorsi, pensieri evasivi alla realtà. COMPAGNO: “Mi sa che questa notte non passerà...un cielo così sembra un'apocalisse lugubre...non sai cosa mi manca per sentire di essere in casa mia...il vino non m'ha reso ubriaco...vorrei vivere lontano da tutti, da tutto, da loro...si rimarrà uniti al continuo dei bombardamenti? Io non so cosa ci sia tra la terra e il cielo...io non so se noi, se tutti, se forse tutto questo...tutti a camminare per le strade, e nessuno che invece rimane fermo e si chiede perché...sono solo, eppure insieme ad altri...la casa vicina a me è scomparsa; toccherà a me?...Tutte queste luci...il fiume non ha mai avuto così disgrazie come noi che viviamo sopra di lui...”
51.
Una realtà di fuoco, di rovine, di crolli e di morti. Fuoco, che si diffonde per le stanze, per i corridoi con i mobili, i quadri antichi, le suppellettili degli avi e dei ricordi, le scrivanie, i tavoli e le sedie, le poltrone, le ricchezze, i cappelli e gli abiti, le stoviglie, la frutta decorativa, gli orologi nel loro incessare del tempo. Rovina, delle sue porte, finestre, rialzi, balconi, terrazzi, tettoie, graticole e banderuole con camini e decorazioni floreali, lampade al muro, serre interne, persiane e solari in soffitte sfondate. Erano crollati nella pietra, nel calcestruzzo, senza fondamenta, nel cemento sparpagliati nella tenebra, nei mattoni che non esistono più, tra i fuochi. La città era prossima ad essere una landa desolata da quando ininterrottamente vibravano nell'aria le esplosioni causate da questi spari che appaiono e scompaiono in pochi secondi, lasciando a tutti coloro che vi assistono l'angoscia di un'impotenza incurabile. Era una notte, dove l'orchestra suonava il jazz nella speranza di colmare i boati impossibili, lasciando solo sfogo alle trombettiste, le quali univano al loro suonare una piccola disperazione. Assistere ad uno dei crolli era forse il desiderio più sadico che uno possa mai solo pensare di poter avere. Era come mettere alla prova del fuoco un disgraziato incurante dell'impossibilità di sopravvivere ad una crudeltà del genere: un palazzo, antico, che precipita al suolo dopo che una tempesta di polveri la tramortisce e la fa crollare sotto il suo peso, portandosi appresso tutto il suo contenuto. Se uno riesce ad intravvedere una persona, un animale che scompare nei resti del palazzo, anche lui, come per empatia, decide di scomparire, nei meandri della sua mente, in una inconsolabile pazzia. Un godimento lussurioso che sa di Pandemonio. COMPAGNO: “Continueranno ancora questi boati incessanti? Da troppo tempo stanno portando rovina! Ho paura di sì. La città è destinata a perire se tutto ciò non si placa. Tutto in polvere. Anche questa notte sarà insonne? Non so più dormire come una volta. Forse sognare. Anche oltre la notte...temo che nessuno in questa città sogni, perché almeno spereremo. E nessuno sa come fermarli? Nessuno che si imponga a questo disastro? Se ancora non c'è soluzione, è perché si preferisce la desolazione. Questa città...”
52.
Erano passate troppe albe e troppe lune dall'apparsa dei boati. Una ripetizione, come le bombe che ritornano ogni giorno, ogni notte, ogni giorno, ogni notte, in pazzia completa, senza finire, in follia totale, senza fermarsi. Mai. Quell'uccello non sembrava di volare, tra le sponde del fiume, oltre i ponticelli, mentre vedeva tra le finestre senza accorgersi di camminare, di stare. Ero accanto al ragazzo, ero con lui, vicino. Mi fermai con lui, e vedeva ancora la notte. Era una notte che pareva serena: il sereno si vede dalla quiete che ti infonde nel cuore, in quella breccia di calma che non ti fa pensare al male, all'inquietudine e al breve lasso di malessere. PASSANTE: “Come poteva essere...sereno? Il cielo, non lo era...Non si dava sereno nella città, non c'era quella quiete tra chi viveva col terrore di essere l'ennesima vittima delle bombe e chi l'ennesimo sopravvissuto e spettatore della morte altrui. Pensano ad altro loro? Lui lo sa se l'altro pensa a lui, se gli altri pensano ad altro, oppure se le bombe sono il trionfo di questa paranoia che sembra non finire mai?”
53.
I due giovani. Chi li conosce non c'ha mai visti prima, chi c'ha visti sa che prima non c'eravamo: noi eravamo nei boschi, nella nostra stanza insieme, con un boccone in bocca all'altro, nella torre alta a seguire il corso degli eventi, e poi nel letto, a cercare di sognare, ancora, nonostante ogni volta fossimo insieme, uniti, prima che un botto ci svegliasse...eravamo lì, a pensare come si potesse evitare quel disastro, ma eravamo troppo piccoli per impedire alle bombe di cadere, di non precipitare nei baratri che sarebbero nati con loro, un vuoto infame. Decidemmo di passeggiare in compagnia degli abitanti, quieti alla ritrovata pace dopo la tempesta che imperversava nella città. Tutti volevano sorridere, tendendo il loro riso quasi a clown, in totale disagio, pur di celare, nascondere quello che sanno tutti. Come finirà? Perché a loro? Dove hanno sbagliato? Perché è successo? Come è iniziata? Nessuno sa come sia iniziata, il principio di ogni cosa e di ogni disastro, di ogni casa bruciata, di ogni viale sfondato, e da quale assurda follia una città debba ritrovarsi del tutto disarmata a tale violenza imperante. C'erano urla nella notte, c'era tutto il necessario per non far più vivere gli abitanti, mentre la città poteva tranquillamente affondare sul suo nulla. Sul suo morire. Nessuno sa come si possa andare avanti, dato che nulla sembra possa placare i continui gridi e le urla di questo disastro incessante. Nessuno sa come finirà, se mai finirà. PASSANTE: “Questa città non può finire così! Ha superato il Tempo, la Storia...non può...Cosa si può fare per evitare il disastro? Nessuno lo sa. È troppo che si soffre! È troppo che la gente non riesce più a sopportare… Non si capisce chi sia, cosa, dove: appaiono ad un tratto e si portano via tutto. Perché? Perché la città? Cosa può aver portato ad una simile decisione? Il perché non lo puoi sapere, se proviene dalla violenza. Ascolta. Un boato. Eccolo...”
54.
Nel cielo. Ovunque. Erano lì. Continuava la disperazione: un palazzo era esploso, frantumato di tutto ciò che conteneva e teneva in sé, e la famiglia al suo interno si spezzò in polveri leggere, un tempo un padre, una madre, i figli e i nonni, dispersi nella cenere. L'orrore continuava, e nessuno voleva vedere. Il tempo passava mentre noi con passo lento si dirigevamo nella piazza del quartiere posto dall'altra sponda del fiume: ora c'era silenzio per le vie, e silenti erano gli abitanti della città, figure minute alla ferocia della distruzione. I ponti erano bloccati alla circolazione delle auto, anch'esse possibili armi di morte e di dolore, e solo a piedi si poteva andare al di fuori del centro urbano. Chi vedeva dall'altra parte non poteva non vedere il fumo provenire dai tetti, dalle strade e dalle torri, che copriva tutto ciò che lo circondava. Il ronzio lo sentivamo nelle orecchie, ancora risuonava chi era nei paraggi. Nessuno l'aveva vista, nessuno l'aveva notata, eppure un fischio aveva presagito la sua esplosione, quelle finestre che si coloravano di fuoco fino a spingere lontano tutti quanti: solo prigionieri interni, nessuno al di fuori. C'è un nemico! È qui, nei colli, là, a sperare nella nostra morte, a chiedere in cambio di tutto questo la nostra servitù, il nostro vivere liberi, e per questo fa della città un campo minato e una zona di guerra. Ancora ci cerca, ci vuole suoi, e perfora le case, i templi, i palazzi e le torri, fino a che non ci avrà suoi. Non c'è nessuno, solo il silenzio dei colli indifferente alle nostre storie e alle nostre disavventure. Dov'è? È con noi? Il nemico tra gli amici? Sa dove siamo più deboli, sa dove ci può colpire, sa come farci più male di quanto uno potrebbe. La nostra città, la loro città...tutti in preda al nemico che non veniva, alla notte che non si faceva così serena, se le bombe non cessano di esistere. Si intravvedeva una città antica, di origine medievale, antichità nata per proteggersi dai nemici, dai malvagi, da ogni elemento che potesse infrangere le sue mura. Non c'erano più: al suo posto nuovi palazzi, con aria condizionata e luci accese tutta la notte con gli spazzini e i metronotte che li circondano e ne fanno casa notturna per la loro noia e il loro lavoro, mentre ordinano il caos che li circonda, e donano nuova vita alle nuove case, con il loro calore e le piccole crepe da riparare dopo le bollette e la pulizia di casa da sistemare con i libri in terra e la spesa da rifare per l'ennesima volta curando il giardino per dare via al verde che c'era intorno a loro e ai nuovi alberi. E nessuna difesa. Una realtà. L'incanto di una notte, sospesa tra la realtà ossessiva e la notte dei sogni. La loro musica. La città era prossima ad essere una landa desolata da questi spari che apparivano e scomparivano in pochi secondi, lasciando a tutti coloro che vi assistevano l'angoscia di un'impotenza incurabile. Le note continuavano, e sembrava una lacrima di gioia... COMPAGNO: “Loro suonano. Ancora. Ma suonano. Non sanno cosa fare in questa notte...ma nessuno ascolta: tutto sono impietriti dalle continue esplosioni, anche adesso. Non stonano. È impressionante come riescano ad andare a tempo se ogni volta…vorrebbero stonare: se stonassero uscirebbero una buona volta dalla loro realtà. Realtà? Stanno cercando di far allontanare le persone dalla disperazione della realtà…se volessero scappare da ciò, non starebbero qui ad assecondare la loro musica.”
55.
Era una notte, dove l'orchestra suonava il jazz... COMPAGNO: “La musica, il risveglio dell'anima, e lo strombazzare che seguitava la notte depressa...” ...nella speranza di colmare i boati, i ruggiti della notte, impossibili, lasciando solo sfogo alle trombettiste; si fermavano negli assoli e stavano come statue a decantare figure illustri nella loro posa incantata, effigi, suggerendo qualcosa che nessuno capì in fondo, eppure univano al loro suonare... PASSANTE: “Il do saltellava al mi e al fa, ballando col re, a fare sì, col suo sol...” ...una piccola disperazione. Ballavano. Volevano ballare. Volevano ballare. I boati aumentavano e la gente non stava più ferma. Si velocizzavano, si agitavano nei movimenti. Il fuoco era la loro luce, e i fumi il loro luogo di ballo ideale. E seguitavano gli altri intorno a danzare, mentre nulla aveva più senso. Troppo breve era questo momento. La città è ancora in preda al crollo che sembra imminente. Si mettevano a ballare, con le loro scarpe, che si misero prima di scendere, uno ad uno, in una mano la scarpa della parte opposta, la sinistra alla destra e viceversa, non togliendosi lo sguardo addosso, e guardandosi, mirandosi senza pensieri. Gli spettatori cercavano di evadere con le note, quasi aggrappandosi ad esse, per allontanarsi, fuggire e salvarsi dal male che deturpa le vite della comunità locale. I bombardamenti seguivano altri bombardamenti, il caos diventava generale, le colline ora sentivano tutto. Sembrava che nulla la fermasse, perché più si sente un progressivo allontanamento dal dolore, più si fa risentire, più ritorna, nel suo boato micidiale, che spazza animali, cose e persone. La salvezza forse era nelle piccole parole: in uno sguardo, in una carezza, in qualcosa che possa chiudere il cerchio di fuoco attorno a noi, a quella gente, a quel paese immerso nelle colline. La campana della cattedrale non rintoccò.
56.
COMPAGNO: “Ecco l'ultimo colpo...Le lacrime, non Ci rimangono...Un altro boato. Un altro ancora. Non riesco a capire come si possa ancora...Nessuno regge. Nessuno. Facciamo finta, ma nessuno ce la fa più...si deve...si deve...Come, si deve? Nessuno riesce ad andare oltre...E sia. Andiamo oltre! Non è possibile morire in questo dolore senza un finale. Che si può, vivere ancora in questo strazio? Nessuno sa come finire questo strazio? Nessuno! È la fine della città? È la fine, e il suo inizio. Tutti sappiamo come finire questo disastro, questo male...Lo so anch'io, ed è semplice. Bisogna che da questo ci si svegli...Svegliamoci allora...”
57.
La notte si accese. La musica smise. Il fiume si calmò. Le colline fiorirono. Le torri erano aperte. I palazzi erano silenziosi. La cattedrale suonava. La città era di nuovo viva. Le rovine non esistevano più. All'alba non esistevano più rovine. Le bottiglie non c'erano, l'alcol non c'era, i mattoni, le pietre, i vetri, le ceneri, le note, i ponti, i mobili bruciati, le sedie, le persone, i sorrisi, i balli, i fuochi e le nubi, non ci sono. C'erano loro due, e gli altri, a dormire, a stringersi le mani col volto accanto all'altro. Non si udivano più le bombe, non si udivano più le disperazioni, i dolori, le disgrazie di un tempo immortale. Era passata la tempesta: non c'era un singolo pezzo fuori ordine, non c'era il frantumarsi dei palazzi. Era passato il peggio. Era passato, perché ora è realtà. Dove sta la realtà? Non esisteva la realtà. Il sogno...tutto un sogno, un ingannevole sogno che sembrava librarsi...ma dov'è il sogno se ancora esisteva quei ragazzi, quelle persone e quelle arie che svolazzavano sopra i cieli della città? Allora, c'era qualcosa. E solo il Sole, passata la Luna, avrebbe portato via le ombre della tenebra e rischiarato le menti. La sveglia di chi voleva ancora sognare di essere una città, un colle, una qualsiasi cosa che viveva assieme a loro nel pulsare dell'esistenza. Intanto un sorriso si palesa nei dormienti... Decimo episodio Tanto per finire
58.
Avviso da parte della segreteria degli studenti dell’ateneo: Il seguente foglio deve essere recapitato entro un’ora presso l’ufficio della DSU, con tanto di bollettino e carta d’identità. Ai fini del contributo affitto, dal valore nominale di diverse centinaia di euro, è conveniente autentificare la registrazione entro e non oltre questa giornata, prima che la scadenza sia superata, la quale garantisce la non accettazione di future carte di richiesta, prontamente cestinate. È doveroso ricordare la necessità del rilascio lucroso per chi è fuori sede e non dispone di un lavoro part-time esaustivo alle richieste monetarie da affrontare (affitto, vitto, uscite serali, spese extra). L’ufficio rimane aperto fino alla chiusura per pranzo, quando ogni cattedra non sarà disponibile fino alla successiva settimana, forse troppo tardi per ottenere il bonus universitario. Ogni eventuale elemento non presente renderà tutto lo svolgersi delle azioni un insieme inutile, senza via di soluzione immediata ed esaustiva. Lo studente, già borsista, è pregato di non richiedere fogli stampabili alle segreterie e ai dipendenti degli uffici regionali, quindi di auto munirsi e di andare nelle copisterie più vicine alla città per una stampa fattibile e chiara. Non verranno tollerati pietismi o scene di richiesta tendenti all’ossessione nei confronti dei pubblici dipendenti della Regione. Le biblioteche locali sono a vostra disposizione per stampe a poco prezzo e di buona qualità; non garantiamo file certe e computer non funzionanti per la stampa. Né stampe accessibili ai terminal dei lavoratori dello Stato Sociale. Riteniamo che nei tempi richiamati debba convenire al suddetto soggetto una certa responsabilità del mancato riconoscimento: da oltre un mese pubblicato, è perentorio presentarsi all’ufficio pur di non cadere nel timore di perdere il bonus a cui può accedere per via dell’impossibilità di acquisizione di posti letto ormai completi. Si augura però nel futuro di poter ottenere al posto del contributo affitto il posto letto, gratuito e perciò non di pregevole qualità (il controllo delle abitazioni ricade sui presenti, non sull’ente custode). Nel seguente foglio sono presenti le seguenti datazioni ed elementi archiviati sotto il nome del proprietario della matrice algoritmica e del codice di riconoscimento: Codice del contratto d’affitto e delle firme del locatore e dei conduttori Carta d’identità nazionale, con annesso codice di registrazione municipale Iscrizione compiuta alla lista dei vincitori della borsa regionale Carta della richiesta de...
Manca! No! No! No! Dannazione! Tra tutti i fogli che ho da giorni, dopo tutte quelle stramaledette richieste che ho fatto, per cui ho sofferto pesantemente a causa delle mie paranoie possibili...Ho solo un’ora prima che No, non ci siamo…ritentiamo…
59.
Ecco, allora… … … … … … … … … … … … … … … …ritentiamo…
60.
Basta. Mi sono rotto! E che cacchio! Essere stanchi non è un fatto biologico: lo spirito o è stanco o è vivo; già si parte male ad essere fiacchi in un mondo frenetico, e se aggiungi che molti sono bestie, è fatta. Mangiato! Divorato senza nemmeno le ossa! Eh, ci si trova ad affrontare gli imbecilli, gli stupidi e i folli psicopatici in una vita; evitiamo di finire in mano loro. Uno tranquillo passa ad altro, non mirarli, e pensa altrove. Ma l'ignoranza è una funzione a breve termine se hai gli occhi per intendere e per comprendere il mondo attorno: se si è particolarmente sensibili allora risulta difficile accettare tutto questo. Chiudere la bocca è peggio; nemmeno la compiacenza di criticarli, di dire No! Si sta algidi ad essere impotenti. I consigli servono a poco in questo mondo, eppure c'è chi li dà ancora, forse per auto-gratificarsi. O forse per valere qualcosa, perché si sente nulla, nullità del cosmo in cui è affiorato a vivere. Sii stanco quando non devi essere attivo, attivo quando non devi essere stanco. La mia età mi dice, chiaro e tondo, semplice: "Divertiti!" Bene...come? Perché il senso del ludo cambia, non può essere lo stesso. Proselitismo di piaceri? Certo! E perché non un'integrazione di gusti, di mobilità e di respiro? Eugenetica del vivere, e così perdiamo l'ultimo residuo di vitalità, di identità. Ognuno pensi al proprio modo, e se cerca un sosia perfetto, saprà di fallire quando sarà troppo tardi. A questo mondo si è soli nella propria identità, ma compagni nelle proprie avventure, e nei propri caratteri. Le belle statuine non sono nemmeno più le donne, oggi giorno (o per lo meno quelle vere, tralasciando quelle meschine senza arte né parte. Davanti, bello lì, e parla. Giudica se uno vuole, annuisci e scappa (tanto non è il paese a garantircelo, ma la nostra libertà!), fai lo gnorri. Ma è lì, punto! Così uno capisce con chi ha a che fare.
Basta, questa storia può anche finire così. Non ho altro da dire.
FINE Postfazione Bartò frantumato, o le gioie confuse
Bartò è il diminutivo di Bartolomeo: questo dettaglio non verrà rivelato se non nel seguito del romanzo, “Una questione civile”. A primo avviso può sembrare un elemento inutile, ma non è così: è indice che il primo romanzo d’esordio dell’autore si mostra come una storia semplice, esile, anzi, un racconto dalla trama inesistente, superficiale. E forse è il pregio del romanzo questo. Ma forse sbaglio, a cominciare dal chiamarlo “romanzo”. Con questo autore la catalogazione non funziona (quasi) mai.
GIOCHI DI NARRAZIONE…
Scritto di getto in pochi mesi (sembra che le uniche date a noi pervenuteci siano 13 novembre e 7 dicembre 2014, ed è lo stesso periodo in cui ha scritto anche il pamphlet “Oltre il Varco”), questa storia nasce nell’indifferenza dello stesso autore: partendo dalla tecnica del diario, come ha fatto in un altro suo scritto giovanile, dal titolo “Le esperienze giovanili di Fosco Cerbo”, ha eliminato ogni riferimento cronologico, aderendo più alla storia, agli episodi di cui si compone. Il risultato è un’opera che ricorda da vicino il trattamento che facevano quasi cent’anni fa gli scrittori modernisti (Joyce, Wolff, Faulkner, Pirandello…) sulle dinamiche della fabula e dell’intreccio: elimina ogni riferimento, mettendo in scena l’atto in sé, dilatando le percezioni, le cause, le descrizioni; il tutto a danno della narrazione, della diegesi. Non è però completamente il caso di “Barto frantumato”, anche se potrebbe rientrare benissimo nella categoria del “romanzo di racconti”. Bartò, a differenza degli altri personaggi (e degli altri libri), è una creatura teatrale. Il libro inizia con un suo monologo, spezzettato da scenette comiche, richiami, flashback, digressioni; nei successivi capitoli/episodi lo script rimane lo stesso, se non reso ancora più estremo con racconti sempre più complessi, legati alla vicenda per fattori tematici; cambia stili di continuo, passando dal monologo alla novella, alla digressione al dialogo, fino al testo teatrale e al poema in versi sciolti. Poi si ferma, decide di smetterla. In scena c’è lui, non un narratore, anzi l’Autore in scena è l’alter-ego del protagonista, e quasi ci litiga in diretta con la narrazione. Le principali leggi della narrazione e dello svolgimento della storia sono tranquillamente soppiantate a favore di un auto-fiction narcissica e iperframmentata, frantumata, come vuole il titolo. Lo stesso obiettivo, la ricerca dell’Oggetto, come vuole la tradizione della narrativa, non è chiaro: sembrerebbe l’amore, ma verso la fine sembra sia vicino (o no?), oppure si ferma lì perché non lo trova. La storia è caotica anche nell’esplicazione della quète, è un ginepraio puro, fatto di (pochi) personaggi, presentati originalmente, a volte con umorismo delirante e diabolico, e di episodi limitati negli accadimenti, e dunque gonfiati da invenzioni degne di una comica cabarettista.
…E DI LINGUA
Il vantaggio di questa storia è nel suo cercare l’effervescenza, saltando nella lingua (intesa linguisticamente), giocando con virtuosismi assurdi, al limite del barocco. Non essendoci una trama, è ovvio che dovesse riporsi nel gioco del linguaggio. E forse è questa una sua grande virtù, oggi poco presente nella letteratura contemporanea, ma molto attiva nei decenni passati: il lavoro della lingua. Aderisce al momento, all’episodio, fin dall’inizio del libro, con un tipo particolare di linguaggio, purtroppo non sempre perfettamente calibrato (ma è a senso: l’opera non è matura, ed è difficile che un autore a malapena ventiduenne lo possa essere): è un teatro a più palchi, a più scene, quasi richiamando l’entrelacement ariostesco, o le rappresentazioni medievali dei Misteri e dei Drammi profani. Bartò diventa una tromba di linguaggi disperati, senza freno, iperattivi, camaleontici e caleidoscopici. L’unico che cerca di dare un certo contegno all’opera è l’Autore, identificabile nella figura dell’eteronimo a cui è intestata l’opera, Ernesto Sparvieri, lo stesso autore di “Giorni Tranquilli” e “Gli Assurdi”, racconti simili nello stile ma più compatti, meno instabili della prima opera. Anche qui ci sarà lo zampino dell’autobiografia, mischiata alla finzione pessoana?
STORIE FIORENTINE
Una storia forse c’è alla base del libro: Bartò si presenta, parla dell’ultima sua scappatella mancata, rientra a Firenze richiamando alla memoria gli ultimi fatti/persone, conosce l’ambiente omosessuale locale, cerca di adattarsi alla meglio, scopre le meraviglie della vita urbana, e smette di lamentarsi. Questa sembra la sinossi di un potenziale romanzo di formazione, e forse lo è, ma più che un romanzo di formazione si tratterrebbe di un romanzo di iniziazione sessuale: si parla di omosessualità praticamente ovunque, fin dall’inizio e verso la fine dell’ultimo episodio. Rari nella nostra letteratura, uno dei casi più azzeccati di questo genere è nel romanzo breve, nonché opera postuma, Ernesto, di Umberto Saba, libro che curiosamente ha il nome dell’eteronimo. Ma se il romanzo del grande poeta triestino è votato alla tenerezza e alla dolcezza, con toni straordinariamente limpidi e chiari, qui è tutt’altra maniera. È l’accettazione alla propria sessualità, qui però raccontata con i toni della satira e della parodia, a molte scemando nel faceto e nell’oscenità, ma sempre con grande esplicitezza, senza fermarsi mai nel descrivere anche le più piccole nefandezze feticiste. Non sarà un libro molto apprezzato dagli ambienti più dediti alla promozione dei diritti e della dignità degli omosessuali: in pratica li stronca senza mezzi termini, a volte con crudeltà disarmante, mettendo in scena anche personaggi omosessuali peggiori di quanto Genet, Proust e Busi potessero aver fatto nel loro. Ma la sessualità è qualcosa da accettare in toto, nel romanticismo e nell’erotismo più becero. E può essere fonte di una grande gioia, una delle poche nell’immensità breve di questi episodi, che si aprono e chiudono ora velocemente ora con grande lentezza: è il senso a doppia velocità proprio del tempo, in termini bergsoniani. È il tempo con cui ha lottato anche l’autore per far mettere in scena in un centinaio di pagine il suo Bartò, giocando con la sua autobiografia (e per questo ispiratosi a Perec) e con l’umorismo pirambolico dell’assurdità della vita (e qui scatta Pennac). Anche qui torna la lotta, non per la libertà, ma per amore, un amore che non avrà rima con “fiore”, bensì con “furore”, quello che sprigiona questo personaggio fumino e potentissimo, quasi impossibile da seguire per la sua velocità. e anche con questa storia i lettori troveranno difficoltà. Alla fine questo autore è tutto meno che aperto ai fruitori; li vuole pazienti e troppo attenti, pur non garantendo sempre una qualità costante nelle scene. Qualcosa di buono c’è nel libro, e non è poco. Se fosse più godibile e meno complesso, forse avrebbe anche successo.
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E nella notte - lettura on-line serie vampiresca
0 E nella notte nera il sangue le scivolava copioso su tutto il corpo. La vena sul collo pulsava sotto la morsa dei canini di quell'uomo appena incontrato, appena adorato ed appena abbandonato.Caduta sull'asfalto del vicolo e con gli occhi vacui si lasciò andare alla resistenza e non vide più nulla se non la fievole ombra sfocata della sagoma di un uomo illuminata dal chiaro di luna.Immaginò il giorno del suo matrimonio, speranze del futuro e ipotetiche idee sull'uomo ideale. Tutto vano, tutto finito. Al suo risveglio non era più la stessa. La fame le divorava lo stomaco, non una voglia di cibo qualsiasi ma di rosso. Rosso come il sangue. Si era ritrovata sdraiata in quel vicolo circondato dai secchi rametti delle piante rampicanti che cingevano il muro circoscrivente. Pochi attimi per pensare, toccarsi il collo sulla giugolare ormai guarita. Era tutto un sogno? Un incubo? La fame era così devastante che non poteva, ahimè, pensare a cosa le era accaduto. Quell'uomo, quegli occhi e quella voce così ingannevole, spontanea solo in apparenza. Era stata imbrogliata a quel ballo e tradita nella fiducia riposta. Pochi frammenti, ricordi spezzati tra balli e movenze sotto le luci stroboscopiche. Il frammento della presa salda di quella mano maschile, corpulenta e forte, dal tatto delicato. " Vuoi ballare con me?" nella sua domanda l'incanto. Nel frammento seguente lei lo guardava negli occhi grigi. I flashback scomparivano e riapparivano nella sua testa veloci, confusionari. I frammenti si frantumarono come polvere di diamanti quando lui le fece fare la giravolta durante quel ballo lento, affiancandosi poi dietro di lei, annusandole il collo e sospirando, sussurrandole che lei era la più bella del creato, la più incantevole donna che avesse mai incontrato. E tutte le paure e insicurezze in lei si erano dissolte, già in piena balia dell'inganno. La sua fame l'aveva portata ad assalire una povera mendicante, non aveva avuto neanche la forza di gridare la poveretta, rimasta esangue nel ciglio della stradina dispersa. Nella notte la ragazza era diventata la vittima, in quell'alba grigia un'assassina.In un flebile frammento rammentò le labbra di lui e il loro dischiudersi sulle sue. Il freddo che provò pari a quello artico in contrasto con il fuoco che le ardeva dentro. "Come ti chiami?" le aveva chiesto. Rebecca. Il suo nome fu l'ultima cosa che pronunciò prima di svanire. Rebecca non c'era più ma al suo posto un essere che indossava vendetta e ira, dalle labbra sporche di scarlatto. 1 Al suo risveglio le dolevano tutti i muscoli, confusa, si alzò in preda al mal di testa e alla fame di sangue. Si guardò attorno in quel vicolo illuminato dalla flebile luce dell'alba. Si toccò il collo per sentire se perdeva ancora sangue. Niente. Al posto delle ferite aperte solo cicatrici percettibili con le dita. Cicatrici di canini. Fu in quel momento che Rebecca si rese conto che ciò che accadde la notte prima non era stato un incubo. Ebbe voglia di gridare ma non lo fece, no, cercò di trattenersi e camminare. Così fece andando lontano, lontano per le strade della cittadina vuota. La fame, la confusione, i frammenti dei ricordi la stavano divorando con i loro famelici morsi astratti. "Quegli occhi grigi..." pensò, rimembrando "Desmond!". Un nome, una voce, un ricordo: Desmond, l'uomo che l'aveva ingannata. "Ahi!" lo stomaco le dolse con forti strette per la fame, e poi le accadde qualcosa che mai aveva provato: un istinto di caccia. Le sue narici captarono odore misto di sporco e sangue. I suoi piedi non ascoltarono più ragioni per fermarsi. E fu proprio in quel momento che la portarono dalla mendicante, appena svegliata, in ginocchio per un vicolo ancora deserto. "Carità, carità per favore" la implorò, desolata nella sua miseria. "Carità, qualche spicciolo per mangiare." quella fu l'ultima frase della sua vita. Poco dopo Rebecca squarciò la sua giugolare succhiando più sangue che poteva. La fame vorace si cibò di tutto il sangue di quel corpo prima di spegnersi e di ridare spazio alla ragione. Rebecca si alzò di scatto una volta ripresa coscienza, con i vestiti e la bocca sporca di rosso guardò quella signora morta sul ciglio della strada. Scappò via di corsa nascondendosi in vicoli stretti e bui mentre la luce del sole stava giungendo in città. Che stava accadendo? Non le era mai capitato di aver paura del sole, ora puramente creatura dell'istinto agiva solo con lo scopo di sopravvivere. Una volta rientrata nella sua casa chiuse tutte le finestre e rimase nel buio totale. L'ombra era una sorta di nuova assuefazione. Si sciacquò tutto il sangue che aveva addosso facendosi una bella doccia calda. Ma più l'acqua diventava bollente, più si rendeva conto che il suo corpo era freddo come un cadavere. Era morta, sì, ma era un vampiro e lo sapeva bene. Ne aveva sentite di leggende su quegli esseri prima di diventarne uno. E di chi era la colpa? Di quell'uomo alto che durante il ballo la invitò corteggiandola e usando il suo charme. L'ultima cosa che fece Rebecca prima di rifugiarsi in un profondo sonno fu quello di guardarsi allo specchio e vedere i suoi occhi una volta azzurri, avere ora sfumature cangianti di cobalto e grigio. "Io sono Desmond- il ricordo si ripresentò alacre nella sua testa, così' vivido che le parve riviverlo - ti ho vista appena sei entrata." "Ah, mi ha vista? Lei è molto gentile." "Ah non mi dare del lei così mi fai sentire vecchio," "Ah è impossibile che uno come lei possa sentirsi in difetto sull'età, è così..." "Così?" "Niente." "Signorina, mi concedi questo ballo?" "Dovrei?" "A lei il rischio e la scelta?" "Quale rischio, quale scelta?" "Il rischio di innamorarsi di me, la scelta di non rischiare." "Presuntuoso e compiaciuto." "Allora? Scegli il rischio?" Le tese la mano grande, rivolta con il palmo verso l'alto. Rebecca esitò e lo guardò... negli occhi grigi. 2 Luci stroboscopiche illuminavano una sala piena di persone. Coppie affiatate e tenere ballavano nella dolce melodia di una musica lenta e leggiadra. Rebecca strinse la mano di quello sconosciuto e si fece trascinare nella perdizione. Cadde in quell'oblio di piacevolezza che la condusse a lasciare la sua amica da sola nell'edificio per inoltrarsi in un vicolo appartato con quell'uomo. Fu allora che i loro sorrisi si trasformarono in silenzi, cadendo tuttavia in timidezza accennata con baci casti, fino all'esplosione della passione e della dannazione lussuriosa.Allora lui la baciò sul collo, mordicchiandolo. Allora le chiese il suo nome e lei glielo disse. Allora lui sorrise. "E nella notte Rebecca sparì."Queste furono le sue parole prima di ucciderla. Rebecca aprì gli occhi dopo un sussulto. Qualcuno stava bussando alla porta tanto forte da averla svegliata. Andò ad aprire con tutta calma, la luce la investì. Prima ancora di vedere di chi si trattasse, trascinò quella persona in casa, chiudendosi nella penombra. La osservò."Che diavolo di fine avevi fatto ieri sera?" Era Penelope la sua migliore amica. "Mi sono preoccupata, ti ho cercata qui e dappertutto! Mi spieghi dove sei stata per tutto questo tempo?"Penelope era una ragazza molto carina con i capelli ramati, lunghi che le cadevano sotto le spalle. La bocca era sottile, la sua carnagione candida e i suoi occhi cangiavano dal verde al grigio.Rebecca la osservò, ne sentii l'odore estasiante, percepiva il sangue fluire nelle vene. "Ho avuto da fare, scusami, devi andartene ora!" la intimò. L'amica la guardò in cagnesco, confusa. "Che ti è successo? Cosa ti ha fatto?""Niente!" ribatté Rebecca, sforzandosi di placare l'istinto di una vorace fame, di sfuggire dallo sguardo indagante di Penelope."Reb sei... diversa." le si avvicinò per vederla meglio. "Sembri bellissima - notò le sfumature violacee-cobalto delle sue iridi - che diavolo ti è capitato?"Rebecca la guardò dritto negli occhi, era la sua migliore amica e doveva fidarsi. Non avrebbe potuto farcela da sola. "Reb - la implorò Penelope - parlami ti prego. Ce la caveremo in qualche modo come abbiamo sempre fatto. Ricordi? A scuola contro i bulli e le stronze? Noi due sempre insieme, sempre amiche." Un languore pervase gli occhi tristi e sconfitti di Rebecca. "Rebecca ti voglio bene e sei come una sorella, se quel bastardo ti ha fatto qualcosa troveremo il modo per fargliela pagare." Venticinque minuti dopo schizzi di sangue scendevano a rigagnoli sulla carta da parati greenery damascata. Le ginocchia piantate a terra e mani alla bocca su un volto devastato appartenevano ad una fotografia macabra che mostrava la disperazione di colei che solo un giorno prima era una semplice ragazza di ventiquattro anni, lavoratrice part-time in un fast food, amica di Penelope Mattius che era una vivace compagnia nei giorni bui. Il luttuoso silenzio dipingeva nel suo quadro di tenebra, con tempere insanguinate, il ritratto di Penelope giacente sul pavimento bianco ed immersa in una pozza di sangue, con gli occhi vacui che stavano per spegnersi del tutto. Ma prima di esalare l'ultimo respiro ecco che una piccola frase, più simile a un gemito, sussurrata, ruppe il tacere del suono."Ti voglio bene Reb." 3 LEGGI QUI TUTTA LE SERIE! CLICCAMI ♁♘⛁ Sensi di colpa? Quali erano i sensi di colpa? Ormai non esistevano più nel cuore di Rebecca. Ella era una vampira in tutti i sensi, fuggitiva dalle colpe. Sapeva che ormai era diventata come un animale carnivoro costretto a cibarsi dei vivi per sopravvivere. Sopravvivenza ed istinto in una città che si era fatta troppo tetra e preoccupata per poterla accogliere. Il suo animo non era più umano, c'era poco da fare. Dopo l'omicidio della sua migliore amica fin dai tempi delle elementari ogni traccia della Rebecca passata era svanita, sfumata come la stampa blu sotto il sole. Vanità era il suo nuovo dio, bellezza il suo dono, insensibilità il suo bisogno e voracità il suo unico appiglio vitale. L'ultimo pianto fu donato a Penelope, la sua cara vecchia amica di cui il sangue le era piaciuto in maniera così ardita da leccare gli schizzi sul pavimento. Poi, dopo quella frustrazione più niente, solo euforia e benessere. Sì, perché lontanamente a ciò che si possa pensare, era proprio l'essere vampiri che dava una sensazione di magnifica serenità interiore e la sicurezza, oh, la sicurezza... quella era la cosa migliore poiché si sentivano invincibili e lo erano davvero.Dopo l'omicidio in casa sua Rebecca fu costretta a fuggire, le autorità stavano indagando sull'accaduto temendola per dispersa quando in realtà era lei stessa la carnefice. Così divenne una specie di nomade, sempre a cambiare casa e a presentare documenti falsi fatti da un ragazzino nerd bisognoso di sbarcare il lunario. Usciva solo la notte, il giorno le era proibito. Sapeva che sarebbe morta, che il sole era come una fonte pericolosa a cui era allergica. Lei, come morte viva sulla Terra camminava nel luogo a lei concerne: l'ombra. Dopo Penelope altre 20 vittime nell'arco di sei mesi. Rebecca poteva resistere a cibarsi il meno possibile ma ovviamente faticava tanto ad avere un freno inibitorio nell'azzannare la gente. Tuttavia un solo pensiero, un tarlo, tuonava nella sua testa come un fulmine nello spazio nero: Desmond.Sebbene non avesse sensi di colpa, sebbene si sentisse bene ogni giorno; la sua vita le mancava. E ciò sembrava alquanto stupido dal momento che non faceva che friggere patatine in quello stupido mc dalla mattina alla sera trattata come una perdente mentre in realtà ora era una dea. Possibile che le mancasse davvero così tanto essere una persona comune? Che la semplicità di un individuo possa essere nei luoghi reali un posto più sicuro? Questo non sapeva spiegarselo ancora, quello che capiva era sopravvivere a tutto questo; alla fame, al fuggire, al non avere più amici. Lei dapprima cerva nel branco ridotta a maestoso lupo solitario. La luna era piena, grande, e nella città pareva esserci quasi una luce pari al sole se non per i colori freddi. Rebecca si allietava di quella vista in piedi sul tetto di un'alta palazzina, quando qualcuno la raggiunse, standole dietro, camminando con passi lenti e sicuri. Rebecca fiutò l'odore della persona ignota. Odorava di vampiro! Si voltò sorridendo ed incrociò occhi grigi che conosceva molto bene. "Hai lasciato una scia di sangue troppo grande dietro di te, signorina." le parlò l'uomo.Rebecca si limitò ad assottigliare lo sguardo, compiacente, poteva finalmente scambiare due parole con il suo vecchio aguzzino."Finalmente ci incontriamo... Desmond" E nella notte su di un muro del distretto di polizia nella sezione crimine vennero appese fotografie di persone uccise brutalmente da un morso sul collo con i corpi rimasti privi di sangue. Macabre rappresentazioni che vennero infilzate da puntine color ottone con dei fili di cotone rossi, che si intrecciarono, sì, collegati l'uno all'altro fino ad incontrarsi ad un unico punto: la sola persona in vita ma scomparsa di tutta quella ragnatela scarlatta. Sotto luci fredde dei neon al centro di quella stanza di fronte a quel muro prima tre, poi due, poi una sola persona restò a fissare la ragnatela con le braccia conserte. Ryan Actington aveva una nuova sfida investigativa. PASSATO L'odore delle patatine fritte invadeva le cucine del Mc dove Rebecca lavorava, stanca, sudata, con i capelli raccolti in una coda e coperti da un cappellino rosso e giallo come la sua divisa. Per un attimo, mentre si destreggiava nel poggiare gli hamburger nei vassoi dei menù, intravide la sua immagine sfocata sul freddo acciaio dei mobili. Si bloccò di colpo, notandosi, guardando quel riflesso di una ragazza profondamente infelice, inadatta al ruolo che la vita le aveva imposto. Una perdente con la faccia gonfia, piena di brufoli e di aspetto non poi così tanto piacevole. PRESENTE "Eri un diamante grezzo" le disse Desmond. "Che significa?" gli chiese Rebecca. "Che è il motivo per il quale ti ho trasformata..." PASSATO. "Vorrei essere carina" pensò "vorrei essere come le ragazze normali e con una vita fantastica, dimenticandomi di essere una semplice cameriera di un fastfood". L'amaro in bocca e il groppo alla gola non tardarono ad arrivare. finì di consegnare quei tre vassoi a gente grassa e ancora più nerd di lei. La cosa, strana a dirsi la rincuorava. Il fatto che a volte ci si lamenta ma che in giro c'è chi sta peggio può essere a volte confortante in effetti. Una voce squillante trillò nelle sue orecchie facendola sobbalzare di colpo come ai suoi colleghi. Ed eccola più sfavillante che mai, gioiosa e bella: Penelope. La sua migliore amica che ha sempre visto in lei il buono, mentre Rebecca: "vorrei essere come lei" ecco, pensava ciò. "Ciao tesoro bello!" la salutò Penelope sporgendosi dal bancone e baciandola sulle guance con affetto esagerato. "Come va il lavoro?" "Fa schifo come sempre." rispose amara Reb. "Suvvia non essere così triste, ho una novità per te, anzi noi!". Rebecca storse il naso. "Andremo ad un ballo!" proruppe gioiosa Pen. "Quale ballo?" "Mio padre ha organizzato un gala dove saremo vestiti eleganti e mi ha chiesto se voglio andarci e che posso portare qualcuno... che saresti tu!" Penelope come di consueto, decideva sempre per sé e per gli altri senza chiedere pareri, consensi ma solo, beh, obbligando. "Non mi va di venirci... mi ci vedi a me ad un ballo?" PRESENTE "Nel momento in cui ti ho vista mi sei sembrata una creatura gracile. Occhi bellissimi erano contornati ed ingabbiati da un volto più rude e deturpato dall'umanità. L'odore del tuo sangue era forte e lo sentivo bene mentre scorreva in te, mentre il tuo cuore batteva all'impazzata nel vedermi, nel sfiorarmi. Nel baciarmi." Le parole pronunciate da Desmond erano finalmente la verità sul come e il perché loro si trovassero lassù, su quel palazzo di notte, illuminati da una maestosa e grande luna. "Mi hai trasformata in un mostro!" inveì lei. "Io sono un' assassina." "No - la interruppe bruscamente il vampiro - tu sei una dea. Solo gli dei possono decidere della vita e la morte, avendone pieno controllo ed essendone immune. Tu, io, altri, noi siamo divinità, noi siamo vampiri." "Un tempo io provavo qualcosa, adesso... sono solo feroce, e insensibile. Uccido e non provo rimorso... mi sono cibata del sangue della mia migliore amica!" PASSATO Tante chiacchere per convincerla quando in realtà non aveva scelta. Reb era stata intrappolata da Penelope e sarebbe andata a quel fottuto ballo. dove ovviamente, neanche a dirlo, si poteva essere sentita a disagio per il suo aspetto, per essere l'eterna impacciata. Il pensiero della proposta barra obbligazione di Pen le frullò in testa per altri trenta o quaranta minuti finchè un errore non la riportò alla realtà. "Scusami, hai sbagliato panino". La voce di un un ragazzo la svegliò. Cavoli, aveva gli occhi verdi e i capelli neri e corti. Il viso pulito e un bel sorriso, adesso un pò imbarazzato perchè le stava facendo notare l'errore cercando però di mantenere la calma, la gentilezza. "Oh mi scusi!" balbettò un pò Reb, rimediò subito all'errore. "Non fa niente. Capita di sbagliarsi." E se ne andò dopo che lei lo ringraziò a bassa voce, sfuggendo dal suo sguardo per l'acuta timidezza. Questo ricordo aleggiò nella testa di quel ragazzo mentre se ne stava adesso, nel presente, dentro una stanza fredda illuminata da candidi neon, a osservare la sua foto su un muro, raggiunta da tanti fili rossi che la collegavano ad altre persone sue vittime. "Dove sei Rebecca?" pensò, promettendosi che l'avrebbe ritrovata. E NELLA NOTTE 5 In mezzo al corridoio bianco dove la luce attraversava grandi vetrate, quella mattina, osservando il cielo, Ryan Actington sorseggiava il suo caffè miscelato con la cioccolata. Tanti pensieri gli sfioravano ricordi, stati d'animo, preoccupazioni. Un solo sentimento però gli faceva più male: la nostalgia. Pochi passi e un uomo si avvicinò a lui, e da sotto i suoi baffi poche parole ruppero quel piacevole silenzio.“Ho saputo che hai accettato il caso di Rebecca”. Ryan annuì rispondendo così a quella constatazione, poi guardò l'uomo.“Dovevo farlo.” Gli disse.“Credi veramente che sia dispersa? E se invece lei fosse l'assassina di quelle venti persone?”“No – scosse la testa – io l'ho conosciuta. Ho visto molti assassini, lei non potrebbe mai esserlo, fidati.”“Perciò sei deciso a ritrovarla?”“Sì. È quello che farò.”Ryan non poteva sapere su quanto si sbagliava in realtà. La nostalgia per quella ragazzina che serviva ai fastfood era troppo forte, come nebbia gli offuscava la vista e la ragione. Ricordò la loro prima conversazione.“Tu sei quella che l'altra volta sbagliò la mia ordinazione, ricordi?” erano passate due settimane da quell'incontro. Tornato in quel fastfood non potè fare a meno di notare quanto Rebecca gli facesse tenerezza.“Sì – rispoose lei imbarazzata - mi scusi ancora.”“No, non era un rimprovero – sorrise lui – era solo per attaccare bottone”. Fu proprio lì che vide l'espressione della ragazza distendersi nello stupore.“A..attaccare bottone?”“Sì. Vedo che non c'è molto lavoro per te oggi, io ho voglia di conversare, ho passato ore in ufficio senza parlare con anima viva.”“Ah e.. di che si occupa?”“Sono un investigatore.”“Oh quindi lei capisce da uno sguardo come sono fatte le persone?”“Sì e no. A volte son così brave a fingere che mi fregano. Comunque io sono Ryan, piacere, e tu sei?”“Rebecca.”“Tu sei una di quelle che definirei diamante allo stato grezzo.”“Come scusa?”“Da come ti vedo e ti ho vista lavorare, sei una in gamba. Aspetti il momento per emergere ma allo stesso tempo ne hai paura. Pensi che gli altri non possano provare attrazione o curiosità nei tuoi confronti, così fai la nerd. Scommetto che sei un'appassionata di Netflix.”“Beh sì e tutto giusto ma... così mi metti in imbarazzo.”“Oh non devi...”“Ma...”“Non devi pensare che nessuno può avere curiosità nel conoscerti. Io sono qui. E ho voglia di farlo. Mi piacerebbe uscire una sera e magari potrai farmi vedere che in realtà sei quello splendido diamante che credo tu sia.” La mano di Ryan si appoggiò al freddo vetro del corridoio bianco. Il volto stravolto in un piglio desolato e un solo pensiero:“ti ritroverò, Rebecca, a tutti i costi.” E NELLA NOTTE 6 Quella mattina Reb si svegliò e si ritrovò distesa su un letto dalle lenzuola di flanella candide ed era... nuda? Si alzò di soprassalto e constatò di non essere sola. Incredibilmente al suo fianco aveva dormito Desmond.SEI ORE PRIMA.“Noi siamo come divinità?” chiese incredula Rebecca sotto il chiaro di luna. Odori pesanti di città e dei gas di scarico appestavano l'ossigeno in un racconto tutt'altro che roseo.“Non è forse così? - controbattè Desmond – guardati, guardami. Noi siamo bellezza. Noi siamo perfezione. Sono contento di non essermi sbagliato su di te. Quello che l'umanità ti toglieva io te l'ho dato.”Rebecca scrollò la testa. “A che prezzo?”.“Di che prezzo parli? Della solitudine? Oh capirai presto che siamo una comunità chiusa ma vasta di cui ne farai parte se mi seguirai.”“Per tutto questo tempo il mio intento non era quello di unirmi alla tua setta.”“Ah no?” Desmond era davvero provocante, con la sua aria spavalda si avvicinò a lei talmente tanto che poteva sentirne il respiro freddo. “E qual era allora?”.“Ucciderti. Vendicarmi.”“Queste parole equivalgono all'amore sai?”“Mai.”Il fievole vento le smosse i capelli, Desmond con l'indice liberò il suo volto da una ciocca e fu allora che gli occhi grigio chiaro di lui e quelli violacei di lei si clissarono, gli uni persi negli altri. E fu come se una scossa percorse Reb, fino a raggiungerle il corpo, le mani, il ventre. La sua bocca si asciugò. Doveva resistere a tutto ciò, ma come poteva? Le sue mani erano già arrivate a toccare quei capelli argentati del vampiro. No doveva fermarsi. Fece uno sforzo impressionante per non cadere in tentazione, riuscì tuttavia ad allontanarsi e a girarsi dall'altra parte.“Io non volevo questa vita.” gli disse.“Ma ora ce l'hai.” asserì Desmond tranquillo.“E sarà per sempre?”“Sì. Ma capirai che il per sempre è più veloce di una qualsiasi vita umana. Il tempo scorre alacre per noi.”“Da.. da quanto tempo sei un vampiro?”“94 anni. Io ho l'età di 124 anni. E se ti devo dire che questo secolo è stato lento, beh devo dirti di no.”Reb ebbe paura. Poi lo guardò e capì che cosa intendeva egli dicendole che erano come divinità. 124 anni e rimanere per sempre giovane e bello. Ne era troppo attratta, così come a quel ballo.Oh che cazzo! Non poteva più farcela, basta resistere! Così si gettò tra le sue braccia sentendo su di sé tutto il suo corpo muscoloso, duro come la roccia, e così lui potè sentire il nuovo corpo di lei. E si baciarono, sentirono il glaciale tepore dei loro corpi e cominciarono a toccarsi, accarezzarsi, spingersi l'uno contro l'altra, fino a giungere nel momento di quella mattina in cui Rebecca si era svegliata, ferma ad osservare lui baeatamente addormentato nel buio della stanza.Si toccò le labbra ed esclamò:“merda!”. 7 Quanti errori si fanno in preda alla voglia di qualcosa. Specie quella sessuale. E Reb, eh già, ne aveva appena fatto uno. “Svegliati!” gridò al bell'addormentato nel letto del suo appartamento. Desmond si destò di scatto, con gli occhi socchiusi. “Ah uffa ma perchè mi hai svegliato, dormivo così bene!” si lamentò.“Che cosa mi hai fatto stanotte?”Desmond la osservò sorpreso. “Che?”“Di sicuro mi hai fatto qualcosa, per questo è successo... beh – agitò la mano verso la sua direzione- questo.”“Sesso Reb, abbiamo fatto sesso e non è stata colpa mia.”“Sì invece, io volevo e voglio farti fuori!”“A quanto pare no! Tra vampiri non possiamo usare la persuasione, è solo un istinto di caccia.”“Menti.”“No.”Rebecca scosse la testa. Si affrettò a vestirsi lamentandosi dell'errore. “Mai più. È stata la prima ed ultima volta, noi non siamo amici, né amanti, né saremo mai altro.” Si apprestò ad aprire la porta quando un fievole fascio di luce la colpì e la spinse a rinchiudersi dentro. Il volto colpito le bruciò lievemente. Dopo aver chiuso gli occhi per il timore, li riaprì notando Desmond divertito.“A quanto pare sei costretta a restare con me tutto il giorno.” le disse, distendendosi ed aprendo le gambe mostrando tutta la sua muscolatura e anche qualcos'altro. Reb appoggiò la testa contro la porta. “Cazzo!” esclamò. Poi gli saltò nuovamente addosso. Ryan stava seguendo tutte le mosse dell'assassino trascritte nel volume che stava leggendo. 20 persone uccise da un morso e completamente dissanguate. Era una bestia? O un serial killer decisamente portato ad uccisioni contorte. Beh non era la prima volta che accadeva. Ryan doveva cercare una risposta a tutto ciò. Perché Rebecca era l'unica assente nonostante la sua migliore amica Penelope fosse rinvenuta nel suo appartamento? Le ipotesi erano poche, di certo o era scappata, o era morta o era lei stessa la serial killer. Ryan scartò senza pensarci l'ultima ipotesi, benchè quella che gli facesse più male fosse la seconda. Avrebbe dovuto ritorvarla sì, ma viva.“Sono una fanatica della serie Orange is the new black.” la voce di Rebecca riaffiorò nel suo pensiero, così come il ricordo di quel primo appuntamento dove poté conoscerla meglio.“Orange is the new black? Avrei detto Strange Things!” constatò lui. Seduti nel ristorante giapponese entrambi erano alle prese con il sushi e l'uso maldestro delle bacchette.“Beh certo, anche quello è un capolavoro! Come Sense8.”“Bello quello... ha delle scene un po' hot non trovi?”Lei arrossì e si imbarazzò nell'udire quelle parole, pronunciate con facilità.“Oh scusami non volevo metterti in imbarazzo.”“No ma quale imbarazzo!” disse lei. “ è solo che di solito parlo di cose hot solo con la mia migliore amica, non sono mai uscita con un ragazzo.”“Scherzi?”“No.. cioè, mi hai vista?” gli chiese Reb, imbarazzata ma anche curiosa del perchè fossero là e se magari fosse uno scherzo.“Certo che ti ho vista.” la spiazzò lui, con tono deciso, delicato, apprensivo.“E allora... siamo qui come amici vero?”Ryan si rinchiuse nel silenzio per qualche istante. Poi lei rispose da sola.“Tranquillo, non c'è nessun problema. A me piace parlare con te, perciò non sentirti in difetto nel dirmi che non può mai esserci altro.”“Sei una ragazza così buona Rebecca, forse ci vorrà del tempo.”“Io ho tutto il tempo del mondo.”Ryan le sorrise, Reb contraccambiò, anche se in realtà stava morendo dentro. 8 Alzò il bicchiere: “alla salute” e lo scontrò con quello di Reb. “Non posso crederci che siamo arrivati a questo punto.” asserì lei.“Quale punto?”“Quello in cui noi due beviamo tequila come fossimo buoni amici.” Lo guardò, Desmond era troppo divertito per i suoi gusti.“Amici o amanti?”“Ahimè credo che siamo entrambi.” Ahi faceva male ammetterlo. L'aveva odiato così tanto, eppure la sua compagnia ora le piaceva. Che cosa vedeva in lui di cambiato? Forse il suo sorriso e la sua aria sempre serena e sicura di sé. Si era incantata un istante nel fissarlo, ciò le fece pensare di essere in pericolo, non vitale ma sentimentale. Era come sul ciglio di un precipizio e pensava di volersi buttare giù e perdersi in un folle sentimento. Rebecca stava iniziando a provare qualcosa per un altro individuo e la cosa era strana dal momento che aveva smesso di farlo da quando era diventata una vampira. Ad un certo punto sentì il suo stomaco brontolare per la fame. Desmond se ne accorse. “Devi imparare a sopportare di più, magari provare anche il sangue animale.” “Ci ho già provato ma per ora mi fa venire il voltastomaco. Non riesco a frenare la sete. Come devo fare?”.“Te lo insegnerò. Adesso però devi cibarti prima di fare cazzate e aggredire qualcuno di fronte a tutti. Poi penseremo a tutto il resto e al tuo inserimento nella comunità dei vampiri.”“Ah già. Quanti vampiri siamo?”“Più di quanti pensi.” “Me lo hai già detto questo. E come funziona?”“Dovrai essere esaminata. Ma ora devi pensare a cibarti prima di fare discorsi. Non mi piace come guardi il barista.” Era vero, non se ne era accorta ma stava fissando il barista grassottello come se fosse stato un porco allo spiedo. Desmond attirò nuovamente la sua attenzione e le fece cenno di notare una donna entrata nel bar. Era bellissima ed elegante e il suo sangue aveva davvero un buon profumo. “Lei.” gli disse Desmond.“Perchè proprio quella signora?”“Perchè la vedi dall'espressione che è venuta qui per gettarsi nell'alcol e nella disperazione. Se sparisse non sarebbe una cosa che desterebbe troppa sorpresa no?”.Rebecca sorrise e si alzò. Camminò con eleganza fino ad arrivare al tavolino dov'era seduta quella signora di circa cinquanta anni, con i capelli tinti di castano scuro, tagliati a caschetto con una frangia che le copriva la fronte. I suoi occhi erano scuri e circondati da rughe di vecchiaia accentuate dalla stanchezza. Reb stava usando il suo istinto di caccia usando quello che veniva chiamato il canto della sIrena, ovvero una sorta di charme persuasivo che sorpassa il limite dell'ipnosi. Le porse il bicchiere di tequila.“Bevi – le ordinò – hai l'aria di chi strova nei guai.”La donna portò il bicchiere alla sua bocca e bevve qualche sorso senza mai distogliere gli occhi da quelli bellissimi di Rebecca. Poi una volta distaccate le labbra le rispose. “Sono sola. Mio marito mi ha appena chiesto il divorzio dopo trent'anni di matrimonio. Credevo di essere felice, sa il mio non era un matrimonio di quelli tristi, dove ognuno conduceva una vita separata senza saperlo. Noi ervamo un tutt'uno. Finchè è arrivata lei...”Reb si sedette con fare seducente.“Lei?” “Un giorno pensi di avere tutto e poi un altro sei senza più niente a causadi una troia di venticinque anni che non si fa scrupoli ad andare con chi ne ha almeno trenta più di lei. Così la vecchia ferraglia viene gettata via.” gli occhi della signora vibrarono sotto i colpi della delusione e del dolore, facendosi languidi, socchiusi. Reb la esaminò con attenzione assottigliando lo sguardo.“Come ti chiami?” le chiese.“Sandra”. “Ebbene Sandra, tu non sei una vecchia ferraglia.” si alzò e le tese la mano, la signora in balia del suo incantesimo l'afferrò e la seguìi. Uscirono insieme e si inoltrarono in un vicolo cieco, dove l'oscurità copriva tutto lasciando spazio alla sola luce lunare. Rebecca fece appoggiare Sandra contro i mattoncini del vicolo.“Ma... è mai possibile che a quest'età cominci ad avere attrazione per una donna?” chiese ella in un flebile momento di lucidità. Rebecca la baciò avidamente e le accarezzò la guancia. L'incantesimo si stava compiendo, la preda era in piena balia dell'inganno. Reb spalancò la sua bocca e i canini si allungarono, gli occhi le vibrarono diventando fluorescenti dentro l'oscurità. La fame era forte, finalmente poteva essere attenuata.Luce.“Fermati!”Un raggio di luce ed una intimidazione bloccarono la caccia.Dietro ad una torcia una voce maschile e una pistola si stavano avvicinando. “Allontati da quella donna!”. Rebecca lo fece lentamente e l'incanto di caccia si frantumò e Sandra come effetto collaterale svenì accasciandosi al suolo.“Mani in alto. Finalmente ti ho trovata. Assassina.”Ovviamente Rebecca non eseguì il suo ordine, ma era curiosa. La torcia si abbassò di poco e lei poté vedere la fisionomia del disturbatore. Viso dai lineamenti dolci e rasato... “Mani in alto ! Ahg!!” strozzato dalla presa di Desmond corso in aiuto di Reb, l'uomo si dimenò cercando di liberarsi per respirare, così caddero la pistola e la torcia, quest'ultima rotolando lontana e lasciando i tre nell'ombra. “La... lasciami..” implorò. Reb ebbe la brutta sensazione di conoscere quella persona.“Tesoro è tutto tuo, sarà lui la tua cena stasera.” Desmond lo lasciò andare. Rebecca lo afferrò per il collo alzandolo. Fu allora che entrambi poterono vedersi da vicino. Fu allora che lo sguardo dell'uomo si abituò al buio della notte vedendo i lineamenti del viso della vampira. E sotto la sorpesa la sua voce uscì alacre. “Rebecca?” esclamò atterrito. Lei sussultò. Lo lasciò cadere e fece cenno a Desmond di fuggire. Così si trasformarono in pipisrelli lasciando in quel vicolo nero l'uomo mentre si reggeva sulle braccia tossendo, cercando di riprendersi dall'accaduto. Non poteva crederci, aveva visto e riconosciuto il volto dell'assassina delle venti vittime. La sua ricerca era finita. Approdati sul tetto di un'alta palazzina Desmond e Rebecca ripresero le loro sembianze da vampiri.“Che diavolo ti è preso Rebecca?” cercò di capire lui.Lei si fece agitata, mettendosi una mano sulla fronte, preoccupata. “Non potevo ucciderlo.”“E perchè?”“Lui è Ryan Actington.” E nella notte un incontro improvviso si rivelò essenziale nel gioco degli scacchi del fato. Ryan era ancora disteso per terra quando gli stivali di un uomo lo raggiunsero.“Principiante.” gli disse con tono di scherno.Ryan lo notò sotto il chiaro di luna. Era alto e indossava degli abiti simili a quelli di un cacciatore antico. “E tu chi diavolo sei?” gli chiese. “Io sono un cacciatore di vampiri e tu pivello con la tua sventatezza me ne hai appena fatto perdere uno.” Scacco matto. FINE PRIMA SERIE
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”Our man jack is King of the Pumpkin patch. Everyone hail to the Pumpkin King.This is Halloween, this is Halloween Halloween! Halloween! Halloween! Halloween!” The Nightmare Before Christmas (1993) dir. Henry Selick
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Empyrean, 2017. By Jessica Andersdotter. Click here for more of my art.
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😭😍😱 1 - SNOW GIRL | SECRETs OF A RESPECTABLE TOWN | ORIGINAL YOUBOOKY|
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😋ITALIAN COOKING: 5 | how to do black spaghetti - Como hacer espaguetis nigro
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