#venti shapiro
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i saw a vision and that vision is benti shapiro
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Di Maio ha fatto arrabbiare anche i turchi
Il ministro degli esteri italiano Luigi Di Maio sull’escalation in Siria della Turchia ha detto: “Mi auguro che l'Unione europea, possa assumere delle misure. L'Italia chiederà di far rispettare il diritto internazionale, di non mettere a rischio la vita dei civili e il cessare ogni azione militare”. Di Maio ha anche lasciato intendere di voler appoggiare la linea francese di imporre sanzioni all Turchia. Di Maio con le sue dichiarazioni ha irritato e non poco Ankara che con il suo ambasciatore a Roma, Murat Salim Esenli, ha detto: "Che cosa succederebbe se il Trentino Alto Adige fosse bersagliato dai colpi di mortaio, o se il Piemonte fosse attaccato dalla Francia?”. L'ambasciatore ha ripetuto quanto già aveva fatto presente alla viceministra agli Esteri Marina Sereni: “Trattiamo allo stesso modo tutte le organizzazioni terroristiche, anche Daesh (Isis), che è pericolosa quanto Ypg/Pyd”, Loro, secondo Ankara, sono il braccio armato dell'organizzazione terroristica del Pkk. Il desiderio dei turchi è che i siriani possano tornare nelle loro case. In riferimento ai jihadisti dell'Isis: “Saranno trattati come meritano, ma non ci fidiamo dell’Ypg”. I turchi sono nella Nato e sono presenti in Libia a difesa del governo di al Serraj. Andare contro la Turchia vuol dire mettere in discussione l’alleanza strategica con il paese guidato da Erdogan che secondo le parole del segretario generale della Nato Stoltenberg possiede il secondo esercito più grande nell'alleanza atlantica, e che sarebbe controproducente avvicinare la Turchia alla Russia. L’Italia proprio in virtù degli ottimi rapporti commerciali con la Turchia, 7,5 miliardi di interscambio fino a maggio 2019, dovrebbe “pesare” le dichiarazioni. Più attenta la Germania dove il governo federale ha respinto con decisione i toni ricattatori usati da Erdogan sulla possibilità di rimandare i migranti in Europa, ma gli unici a sollevare la minaccia di sanzioni sono stati i Verdi e la Sinistra. Il ministro degli Esten Maas ha chiesto lo stop all'offensiva, ma non è un segreto che a costituire la spina dorsale dei corazzati turchi siano i carri armati Leopard di produzione tedesca. Lunedì a Lussemburgo ci sarà il consiglio dei ministri degli Affari Esteri, dove il capo della diplomazia italiana, secondo fonti della Farnesina, dovrebbe usare toni più morbidi nei confronti della Turchia, condannando con fermezza l’uccisione di innocenti civili.
Molto interessante l’intervista rilasciata, su cybernaua.it, dal generale Pasquale Preziosa, già capo dell’Aeronautica Militare fino al 2016. Dal punto di vista militare, quali misure si potrebbero prendere contro la decisione di Erdogan? “Nessuna. L’Italia non ha gli strumenti di politica estera per poter entrare nella vicenda dell’invasione di un pezzo della Siria abitato dai curdi. La cartina al tornasole dell’Italia e della sua capacità di operare in politica estera ci è stata già fornita anche nell’ultima querelle a febbraio 2018, quando la Marina Militare turca ha fermato la piattaforma dell’ENI, che si stava dirigendo verso Cipro per iniziare le trivellazioni su licenza del governo di Nicosia. L’Italia si limitò a protestare contro i soprusi turchi. L’Italia seguirà adesso lo stesso protocollo, ormai collaudato da tempo. In eguale episodio che interessò invece la Francia, le navi da guerra francesi levarono le ancore per proteggere i loro legittimi interessi: la mossa fu di successo. In politica estera “chi pecora si fa lupo lo mangia”. Sotto il profilo geopolitico, l’instabilità politica permanente del nostro Paese che ha avuto quasi 100 governi in 158 anni di storia, invece dei presumibili 31 è l’indicatore principale della nostra inifluenza in politica estera”. La posizione della Turchia nell’Alleanza Atlantica, dopo la decisione di invadere la Siria, come potrebbe cambiare? “La posizione della Turchia in seno alla NATO non va esaminata per l’invasione di una parte della Siria, quanto per i nuovi profili politici che la Turchia ha assunto dopo il fallito golpe del 2016, la caduta dei sostenitori del golpe in Turchia e la richiesta agli USA di estradare l’esule Fethullah Gülen, ritenuto da Erdogan l’organizzatore politico del golpe. Il rapporto di fiducia tra i due paesi si è lesionato e questo ha comportato, in caduta, la decisione turca di acquisire i missili S400 dalla Russia : questa decisione ha spostato l’asse strategico turco verso la Russia. La ritorsione americana non si è fatta attendere: la vendita ai turchi degli F 35 americani è stata annullata Nella vicenda kurda si è anche inserito il Segretario della NATO Stoltenberg che ha dichiarato: ”Turchia e altri attori agiscano con moderazione e fermino l’operazione”, seguito dal Presidente del Parlamento europeo che ha dichiarato “Ankara fermi subito i Raid”, il nostro presidente del consiglio ha sottolineato “L’iniziativa militare turca deve cessare immediatamente e l’UE e tutta la comunità internazionale dovrà parlare con una sola voce.”. L’Onu resta a guardare e Erdogan minaccia di far partire i rifugiati. Con la ritirata USA dalla zone e il tradimento delle aspettative da parte dei curdi di esser riconosciuti come gli eroi anti ISIS: purtroppo, non vi è alcun interlocutore di livello che abbia voglia politica di cercare una soluzione alla diatriba turca con i curdi: credo che le cose andranno avanti come pianificato dalla Turchia. La NATO nel mentre, dovrà esaminare le prospettive future dell’Alleanza, alla luce del disaccordo strategico tra gli USA e la Turchia. Quale possibile conseguenza l’ISIS che aveva perso terreno oggi potrà avere più possibilità di risorgere nella zona e comunque c’è da aspettarsi l’aumento del terrorismo politico in quell’area”. Cosa serve all’Europa per mettere insieme una Difesa Comune capace anche di prendere posizioni verso situazioni che possano provocare instabilità? “L’Unione europea non ha completato la sua struttura, si affida ancora oggi alla NATO per la sua sicurezza e difesa e deve essere continuamente sollecitata dagli USA a provvedere in autonomia per la propria Difesa. Non tutti i paesi europei della NATO hanno la volontà di rispettare l’impegno preso di raggiungere il 2% del PIL per la difesa. I paesi europei stentano a capire che il mondo sta cambiando in peggio e che bisogna passare dalla concorrenza alla cooperazione tra stati. Le iniziative francesi di formare un esercito europeo sono state contrastate sia dagli USA sia dalla Germania. Tutte le volte che affiora in Europa una iniziativa robusta, i venti del conservatorismo si fanno sentire. Le precedenti iniziative europee nel campo della difesa che partirono dalla disponibilità di 60.000 uomini, giunsero poi a concretare i Battle Group da 1500 unità mai impiegati nei 14 anni di vita, chiaro segno della inutilità della scelta e spreco di risorse. L’Europa è sguarnita di pilastri importanti della militarità e manca ancora di una leadership condivisa. La NATO costituisce l’unico baluardo di sicurezza per l’Europa. L’Europa potrà crescere, sotto il profilo militare, all’ombra della NATO, ripercorrendo la via degli Stati Uniti verso il federalismo. I singoli paesi europei potranno mantenere la loro partecipazione all’Alleanza NATO, iniziando a costituire capacità militari europee in cooperazione strutturata permanente da mettere a disposizione della NATO come piccolo pilastro UE. I piccoli passi sono quelli che meglio si attagliano alla nostra cultura basata sui sospetti, purtroppo legittimi ,a causa dei quasi 200 milioni di morti provocati dagli europei nel mondo dagli ultimi due conflitti mondiali (10 % della popolazione mondiale dell’epoca)”. Potrebbero sorgere problemi per i contingenti italiani dislocati in teatri internazionali sensibili? "Non credo che l’azione turca che ha fini di sicurezza nazionale, abbia come obiettivo la destabilizzazione del quadro internazionale. I rapporti tra i Curdi siriani e la Turchia erano molto tesi sin dal passato. Nel 2014 gli USA hanno fatto in modo di evitare lo scontro tra le due entità, operando come mediatori per combattere l’Isis, purtroppo la mediazione ora è terminata con la brutale uscita degli USA dal conflitto siriano (Jacob Shapiro ha affermato: “US President Donald Trump betrayed the Syrian Kurds). I Curdi oggi sono soli con se stessi e la mappa del Medio Oriente subirà le conseguenti modifiche”. 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Il compleanno a Milano. (La sfida)
Matteo, Sandra e tutti gli altri invitati erano già arrivati da un pezzo al locale, mancavano solo loro due. Proprio quella sera la Renault di sua mamma aveva deciso di fare i capricci. Era una Clio RT 1.4 del 1992 a carburatori; andava come un missile, beveva come Sue Ellen di Dallas e frenava come la Diligenza Postale del San Gottardo. Aveva sempre fatto il suo dovere però. Fino a quella sera; quando per un motivo a lui ignoto aveva incominciato a tossire sonoramente e a procedere con una lentezza imbarazzante proprio nel centro della città. Mancavano solo cinque o sei chilometri per arrivare, ma a quella velocità ci sarebbe voluta tutta la sera. Lui si era messo la camicia azzurra che non metteva mai e un paio di levi's appena comprati. Lei, di fianco, si stava caricando di rimmel le ciglia già smisuratamente lunghe. Era infilata in un tubino nero che sembrava cucito addosso, collant 15 denari e un paio di sandali di vernice più illegali di un chilo di cocaina sotto il sedile della macchina. Il bar era uno dei tanti schierati sulla sponda sinistra del Naviglio Grande. Tentare di arrivare al parcheggio della Darsena a quell'ora sarebbe stato un suicidio, così da via Valenza svoltò a destra su via Casale e dopo una cinquantina di metri, per intercessione divina, vide un buco sulla destra. Accelerò bruscamente per lasciare il vuoto dietro di sè, freccia, freno, frizione, retromarcia e con una manovra da maestro, esclusivamente frutto del culo, la infilò dentro in meno di sei secondi. Scesero dall'auto che nel locale stavano già portando i primi aperitivi, cominciarono a correre ma dopo venti metri lei gli urlò che avrebbe perso i tacchi entro pochi passi. Rallentò, la aspettò avvicinarsi, la prese in braccio e continuò a correre fino all'ingresso del bar. La rimise delicatamente in piedi, si sistemarono gli abiti ed entrarono. Sua sorella Sandra fu la prima ad andarle incontro chiedendo cosa avesse causato tutto quel ritardo, lei rispose che c'erano stati dei problemi col parcheggio. Matteo arrivò subito dopo stringendo la mano di lui così forte da lasciargli quel consueto indolenzimento che normalmente durava per più di un quarto d'ora. Lui odiava Matteo, era un narcisista saccente talmente devoto a Bertinotti da mimarne persino le movenze. Sandra no, Sandra era gentile con lui, certe volte lo cazziava pesantemente, ma sempre con un pizzico di tenerezza. Non aveva mai capito che cosa ci trovasse in quell'uomo borioso e tronfio che si era scelta come fidanzato, ma era il suo compleanno, e così si tolse quella faccia pensierosa che aveva e le fece un gran sorriso dimenticandosi addirittura del suo imbarazzante diastema. C'era molta gente quella sera, così loro due si sistemarono su un divanetto vicino alla finestra; lui stava finalmente per baciarla dopo tutto quel trambusto quando arrivò puntuale Matteo con i drink in mano. Diede un Americano a lei e un Negroni a lui, poi gli disse: "Oh Lenticchia; Sandra mi ha detto che sei uno che beve. Bevi!" lui lo guardò con aria di disprezzo, poi diede uno sguardo al cocktail e lo bevve in tre sorsi. Gli porse il bicchiere e disse: "Buono, bravo." Matteo se ne andò e lui poté finalmente baciarla mentre risplendeva in quella mise irresistibile. Non passò nemmeno un quarto d'ora che Matteo ritornò con un secondo Negroni in mano accompagnato dalla sua solita faccia da professore fallito. Gli porse di nuovo il drink e gli disse: "Dai, visto che sei uno che beve, fattene un altro." Lui sbuffò, glielo tolse dalle mani e lo finì in quattro sorsi secchi. Gli diede indietro il vuoto e non gli rispose neanche. Era chiaro che stava cercando di farlo ubriacare; questa cosa da un lato lo offendeva terribilmente e dall'altro lo spingeva alla sfida. Non dovette attendere molto perché lo stronzo arrivò col terzo, lei lo guardò come per dire di non farlo ma lui allungò la mano e prese il bicchiere. Lo buttò giù in due colpi, uno lunghissimo e il secondo breve; come per dimostrare che avrebbe potuto farcela col primo. Matteo lo guardò e lui capì dal suo sguardo di essere ubriaco. Passarono circa venticinque minuti quando cominciò a sentire lo stomaco tramare contro di lui. Passò in rassegna tre possibilità. La prima, andarsene dalla festa con lei. La seconda, uscire con una scusa a prendere una boccata d'aria; col rischio che qualcuno lo seguisse. La terza, andare al cesso. Scelse l'ultima. La guardò e le disse: "vado a pisciare" ma gli uscì con un accento a metà tra Shel Shapiro e Brian di Brian & Garrison in versione alcolizzato. Si alzò e si fece largo fra gli invitati cercando di mantenere un aspetto e un'andatura che non tradisse la sua condizione reale. Trovò la porta della toilette, la aprì, passò davanti allo specchio evitando di guardarci dentro; diede una spinta alla porta di sinistra e se la richiuse dietro, la luce si accese all'istante illuminando la tazza candida e scintillante davanti a lui. Si inginocchiò e ci vomitò dentro un litro di benzina arancione in quattro getti precisi. Uscì, si sciacquò la bocca e controllò la camicia allo specchio, riempì di acqua gelata il lavabo e ci infilò la faccia. Alzò la testa, si guardò. A posto. Uscì come nuovo, colorito ripreso e stomaco leggero; al mal di testa ci avrebbe pensato il mattino seguente. Attraversò il locale dirigendosi verso di lei. Mancavano solo tre metri quando da destra arrivò Matteo che gli mise in mano il quarto. Lui lo guardò come si guarda chi si odia e, sfoderando il suo miglior sorriso, gli disse: "Grazie, avevo proprio sete!" poi gli mimò un bacio di sfida. Si voltò e tornò da lei.
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2 AGO 2019 19:07
VITA, SUCCESSI E DEPRESSIONI DI SHEL SHAPIRO – “I BEATLES GIRAVANO CON LA ROLLS ROYCE. IO GIRAVO CON LA ROLLS ROYCE: CI DAVO DENTRO CON IL BERE, FUMAVO MARIJUANA E SCOPAVO SUL SEDILE POSTERIORE DELLA ROLLS. VOLEVAMO LA RIVOLUZIONE SENZA RINUNCIARE AI PRIVILEGI. È LA CONTRADDIZIONE DELLA STAR’’ – ‘’MIA MARTINI UN GIORNO MI DISSE: ‘’SHEL TU NON SAI COSA PROVO OGNI VOLTA CHE ENTRO IN UNA SALA E VEDO CON LA CODA DELL'OCCHIO LA GENTE CHE SI TOCCA E FA GLI SCONGIURI’’
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Antonio Gnoli per “Robinson - la Repubblica”
‘’Un artista si muove come dentro un palazzo di venti piani. Quando arriva in cima ha la sensazione di vedere l' intero mondo attorno a sé. E pensa ce l' ho fatta. Ma per quanto? «Più in alto sei e più cresce la possibilità di perdersi. Non è vero che il successo sia una medicina. Più spesso è una droga».
Mentre guardo la faccia da pirata di Shel Shapiro, immagino che i molti piani della sua vita se li è fatti tutti, ma proprio tutti: con rapidità, tenacia, a volte arrancando, in gruppo e da solo: «Sono ancora lì, mi piace esserci, senza la frenesia di una volta.
Anche adesso che sono in tour con Maurizio Vandelli, un tempo rivali oggi insieme, ho la sensazione che l' età sia solo un fatto anagrafico e non di testa».
Sei nato durante la guerra.
«Sotto le bombe di Paddington, in una Londra allo stremo. Però mai nessuna città ha saputo rivelare lo stesso grande orgoglio che contraddistinse Londra in quel periodo».
Il tuo nome Shapiro che origini ha?
«Le radici sono ebree sefardite. Il nome è portoghese, penisola iberica. Mi hanno raccontato di pogrom che l' Inquisizione spagnola allestì contro gli ebrei. Molti fuggirono verso l' Europa centrale. La mia famiglia finì tra l' Ucraina e la Georgia».
Come arrivò in Inghilterra?
«Mio nonno suonava il corno nella banda dello Zar Nicola II. E aveva un parente in Inghilterra. Era quasi impossibile emigrare. Ma la zarina in persona firmò il lasciapassare provvisorio. Partirono tutti e non fecero mai più ritorno».
Sei un inglese anomalo.
«Vivo da più di mezzo secolo in Italia, con dei lunghi intervalli durante i quali ho soggiornato negli Stati Uniti e in Messico».
La tua cultura musicale si è formata in Inghilterra.
«A sei anni presi le prime lezioni di piano. Lo strumento era in casa. Poi un giorno mio padre si presentò con una chitarra che era costata, mi disse, cinque sterline. Allora erano molti soldi. Cominciai a strimpellarla. Erano i primi anni Cinquanta. Il mondo musicale stava conoscendo una delle più radicali trasformazioni».
Ti riferisci al rock?
«In larga parte sì. Le voci di Elvis Presley, di Bill Haley e Jerry Lee Lewis ma anche quelle di Chuck Berry e Ray Charles si diffusero in Inghilterra. Ne imitavo lo stile davanti allo specchio e capivo che la loro forza era tutta semplicità e immediatezza».
Poi è arrivato Bob Dylan?
«Rispetto al rock, Dylan ha rappresentato un altro tipo di ascolto, più attento al messaggio. Cambiò i testi della musica servendosi dei poeti della beat generation. All' inizio non mi emozionò. Non capii l' impatto che avrebbe avuto su tutta la musica successiva».
Te ne sei pentito?
«No, ogni cosa deve avere i tempi della maturazione personale. Per me in quegli anni c' erano i Beach Boys, e l' esperienza conturbante dei Beatles e dei Rolling Stones».
Chi preferivi?
«I Beatles sono stati la storia, i Rolling furono la fuga nel domani. I Beatles cambiarono il mondo nelle regole; i Rolling lo trasformarono contro le regole: "Baby", diceva una loro canzone, "lo so quello che vuoi ed è la stessa cosa che voglio io"».
Su questo inquieto sfondo musicale tu che fai?
«Mi organizzo. Metto su un gruppo musicale. A tredici anni avevo già una piccola band fatta con gli amici della sinagoga. Suonavamo nei vari bar mitzvah e alle feste studentesche. Era ancora il periodo dei crooners. Le musiche di Bing Crosby e Perry Como accompagnavano il taglio delle torte nuziali. Cominciammo a sparare il rock' n'roll. A raffica. Fu l' esordio. Indimenticabile».
E dopo?
«Cominciò un vago professionismo. Allestii un gruppo che chiamammo "Shel Carson Combo" e ci invitarono a suonare ad Amburgo. Avevo 17 anni. Era il 1960. Pochi mesi prima in quella tristissima città si erano esibiti i Beatles. Suonarono in un localino poco distante dal quartiere a luci rosse. Nessuno poteva allora immaginare che sarebbero diventati leggenda».
Quali pensieri ti induce?
«Ogni riflessione su questo non può che essere successiva. Di quell' esperienza ricordo il freddo, la nebbia, una cazzo di umidità che si infilava nei nostri indumenti leggeri. La città era terribile. La Germania ancora non decollava e noi suonavamo per pochi marchi. Tornammo altre volte. Poi nel 1963 ricevemmo una proposta per un tour in Italia.
Dovevamo accompagnare un certo Colin Hicks. Arrivammo a Milano. Rispetto a Londra, era davvero un altro mondo. Sembravamo esotici. Capelli lunghi. Sguardo perso e abiti attillati. Eravamo la sola cosa colorata in una città fondamentalmente grigia. Fu la nostra fortuna. Stava arrivando il nostro momento».
L' Italia come terra di conquista?
«Come terra da esplorare. Cambiammo nome e decidemmo di stabilirci a Roma. Diventammo "The Rokes". Riempivamo le sale e i discografici cominciavano a guardarci con occhi diversi. Il successo vero arrivò con l' apertura del Piper nel 1964. Era un enorme seminterrato al quartiere Trieste. La scenografia dietro il palco fu allestita con opere di Warhol, Schifano, Rotella. Mi ricordo perfino di un Rauschenberg. Le luci erano all' avanguardia. Tutto l' ambiente straripante. Ci spartimmo il successo con l' Equipe 84».
Il vostro successo, quanto durò?
«Fino al 1970. Eravamo costantemente nelle hit parade, in televisione, perfino al festival di Sanremo. Canzoni come Ma che colpa abbiamo noi, La pioggia che va o Bisogna saper perdere erano ascoltate dai nostri fan come messaggi per capire il mondo che stava cambiando».
Tu ci credevi?
«Pensavo che fosse il vento giusto. Non importa se erano canzonette. Le parole erano semplici, dicevano: non ci piace questa società».
Però vi ci trovavate bene.
«È la contraddizione della star. I Beatles giravano con la Rolls Royce. Io giravo con la Rolls Royce: ci davo dentro con il bere, fumavo marijuana e scopavo sul sedile posteriore della Rolls. Volevamo la rivoluzione senza rinunciare ai privilegi. Diciamo la verità: non poteva durare».
Poi nel 1970 che cosa accade?
«Sciolsi il gruppo. Mi tolsi i panni della rockstar e ricominciai da capo. Ho scritto canzoni e fatto il produttore per artisti come Mina, Cocciante, Patty Pravo e soprattutto Mia Martini, la più grande voce femminile che l' Italia abbia mai avuto».
Tu perché avevi deciso di smettere di cantare?
«Non c' è mai una sola ragione. Pensavo che sarebbe stata dura conservare il successo di quegli anni e poi non è gradevole pensare che qualcuno ti volta le spalle. Meglio precederli. Mi ero, oltretutto, sposato. Aspiravo a una vita più quieta».
Come hai vissuto la morte di Mia Martini?
«Come un torto, una grande ingiustizia. Un giorno mi disse: Shel tu non sai cosa provo ogni volta che entro in una sala e vedo con la coda dell' occhio la gente che si tocca e fa gli scongiuri. Seppi solo molti giorni dopo della sua morte. Ero in Francia, irrintracciabile. La stupidità e la cattiveria purtroppo non hanno limiti».
Di ferite tu ne hai avute anche personali.
«Se alludi a mia moglie e al fatto che si sia tolta la vita, sì. Per me è stato come essere investito da un treno».
Ti sei dato una spiegazione?
«Tutte le spiegazioni del mondo non sono sufficienti per comprendere un gesto così estremo. Era dentro un dolore più grande di lei. Così invasivo da divorarla giorno per giorno. Era come se gli anni della felicità, di una donna bella e intelligente, fossero spariti.
Lasciandola sola e inerme».
Può aver influito la vostra separazione?
«Migliaia di coppie si separano, non per questo la gente si suicida. No. Penso che qualcosa di maledettamente profondo abbia agito su quella decisione. Ne parlai a lungo con nostra figlia Malindi, allora quattordicenne. Elaborai con lei la tragedia, sapendo che sarebbe stato un peso che avrebbe cambiato la mia vita».
Che cosa ti ha dato e cosa ti ha tolto?
«Per un lungo periodo ho vissuto con il bisogno impellente di vomitare tutto quello che avevo dentro. È stato il modo per purificarmi. Forse di crescere. Lontano dai mitici anni Sessanta».
Quegli anni tu li hai per così dire rielaborati in una collaborazione con Edmondo Berselli che, tra le altre cose, fu anche firma importante di "Repubblica".
«A Eddy piaceva occuparsi non solo di politica ma anche di musica e amava farlo in modo originale. Penso sia stato uno degli uomini più intelligenti che abbia conosciuto. Era un intellettuale raffinato che non faceva pesare minimamente il suo ruolo. Poteva stare un paio di miglia davanti a te e farti credere che tu gli eri accanto. Questo è stato Eddy. E la nostra amicizia, nata per caso, fu per me una benedizione».
Perché?
«Mise la sua intelligenza a mia disposizione. Mi convinse a disseppellire gli anni Sessanta. Non volevo saperne. Colse la bontà del progetto e realizzammo Sarà una bella società. Niente di nostalgico, ma un attraversamento culturale di un periodo che effettivamente ha cambiato l' Occidente».
Che anno era?
«Era già il 2007. Mi fu proposto da Mario Corvino come una memoria sul Sessantotto. La prima reazione fu: cazzo, ancora con 'sti anni Sessanta! Non se ne può più. Poi ne parlai a Eddy e lui, a sorpresa, disse che a certe condizioni si poteva fare. Aveva ragione. Venne fuori una specie di commedia musicale. Girammo l' Italia con lo spettacolo. Per me fu una rinascita».
Dov'eri morto?
«In tante situazioni. Dopo gli anni Ottanta passati tra la Spagna, il Messico e Miami arrivarono i duri anni Novanta. Dopo la scomparsa di Mariolina, dopo la fine del rapporto con Cristina, da cui avevo avuto altri due figli, mi sentivo nella classica situazione del che ci faccio io qui? Nel 1998 arrivò la depressione. Passavo intere giornate a non far niente, a piangere o seduto davanti a uno schermo spento».
Come l' hai superata?
«C' è una componente vittimistica nella depressione. Pensi che il mondo ti sia crollato addosso e invece è lì che se ne frega di te. Reagisci facendo cose. Ho cantato, ho prodotto, ho scritto, ho perfino recitato. Mi sono aggrappato a ogni forma d' arte, sapendo che non sarebbe stato più come la prima volta».
Che cosa intendi?
«La macchina dello spettacolo prevede pochi posti in cima. Un giorno sei su poi scendi. A volte risali, ma è più difficile. Ti interroghi. Ti chiedi dove hai sbagliato. Non hai sbagliato un cazzo. Sei solo passato di moda. E non c' entra la legge dei numeri. C' entra che sei tagliato fuori, più o meno da tutto. Improvvisamente ti rendi conto di non essere più sul libro paga della fortuna. Se lo metti in conto ti puoi ancora salvare».
Non ho capito se in tutto questo ti accetti.
«Mi chiamo Norman David, ma tutti mi chiamano Shel. E l' ho accettato. Per amore della musica e di un mestiere che continua a piacermi. A volte però vengo preso dal dubbio di non aver realizzato molto nella vita. Da giovane volevo diventare medico. Forse sarei stato un dottore migliore di quanto sia stato un musicista. Ma questa continua a essere la mia vita. Amo la musica, amo i miei figli e la mia compagna. Non mi sento vecchio. Ma non faccio niente per togliermi gli anni che ho. Cerco un equilibrio che non scada nel patetico. Certe volte mi dico: non sei mai stato una leggenda. Ma quasi una leggenda».
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