#tropico del cancro
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Il mondo deve diventare carne [....]
Voglio piombarci sopra , e divorare
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Ma è anche una febbre, Tania; les voies urinaires, Café de la Liberté, place des Vosges, cravatte sgargianti sul boulevard Montparnasse, stanze da bagno buie, Porto sec, sigarette Abdullah, l'adagio della Patetica, amplificatori auricolari, seni color terradisiena bruciata, giarrettiere pesanti, che ore sono, fagiani dorati col ripieno di castagne, dita di seta, crepuscoli vaporosi che tendono all'elce, acromegalia, cancro e delirio, veli caldi, gettoni da poker, tappeti di sangue e cosce morbide.
Henry Miller, Tropico del Cancro, trad. di Luciano Bianciardi
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"Ho lei a letto con me, che mi respira addosso, i suoi capelli in bocca: un miracolo." (Henry Miller, Tropico del Cancro, 1934)
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Sono un uomo libero; ho bisogno della libertà, ho bisogno di star solo, ho bisogno di rimuginare tra me e me le mie vergogne e le mie tristezze, di godermi il sole e i sassi della strada senza compagnia e senza discorsi, colla sola musica del mio cuore. Cosa volete da me? Quel ch'io voglio dire lo stampo; quel che voglio dare lo do.
Henry Miller, Tropico del Cancro
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📺 Bad Sisters S02E06
📖 Tropico del Cancro, Henry Miller
#bookwatching#books#literature#reading people#books seen in tv series#tv series#bad sisters#bibi#henry miller#tropic of cancer
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La mia prima piacevole esperienza con la pornografia è stata nei libri. Mio padre aveva molti dei titoli sessualmente sperimentali come L'amante di Lady Chatterley, Lolita e persino L'Ulisse.
Il romanzo più apertamente pornografico in quel momento, e per me lo scrittore più divertente - e uno che amo ancora oggi - è di Henry Miller.
Il Tropico del Cancro e la grande trilogia di Miller Sexus, Plexus e Nexus mi hanno fornito il grande brivido della scrittura con intermezzi di pornografia su cui potevi masturbarti allegramente.
A scuola si chiamavano “una mano legge”; alcune pagine erano diventate appiccicose e gialle. Deve sembrare strano ora pensare che se volevi farti una sega avresti dovuto leggere un libro.
Hanif Kureishi
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"Stiamo lì seduti, per ore, senza dire una parola. Quella è la felicità."
(Henry Miller, Tropico del Cancro)
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Anaïs Nin
https://www.unadonnalgiorno.it/anais-nin/
Noi non vediamo le cose come sono, le vediamo come siamo.
Anaïs Nin è stata una delle esponenti più importanti e all’avanguardia nel panorama letterario del Novecento.
Autrice controversa, affascinante, cosmopolita e elegante, cresciuta tra l’Europa e New York, ha apportato un notevole contributo alla storia della letteratura erotica. I suoi racconti destarono scandalo in tutto il mondo.
La sua opera più conosciuta è il Diario, raccolta di scritti autobiografici iniziata nel 1931 e interrotta alla sua morte, pubblicata a partire dal 1966.
Nacque a Neuilly-sur-Seine, in Francia, il 21 febbraio del 1903, suo padre era un pianista cubano di origini spagnole e sua madre una cantante cubana di origini francesi e danesi.
Aveva iniziato a scrivere quando aveva undici anni quando, dopo che il padre aveva abbandonato la famiglia che si trasferì prima a Barcellona e poi a New York.
Da quel momento in poi non ha più smesso di raccontarsi. Il dolore provocato dall’assenza del padre è stato uno dei temi centrali della sua opera assieme alle riflessioni sulla condizione della donna, che aveva il dovere morale di affrancarsi dalla società maschilista del tempo per esprimersi liberamente.
A vent’anni, nel 1923 sposò, a L’Avana, Hugh Parker Guiler, ma il matrimonio, sebbene durato per tutta la sua vita, si rivelò un’amara prigione che la portò a rifugiarsi in numerose relazioni adulterine.
Nel 1929 si trasferì a Parigi, dove venne assorbita dal fervido clima intellettuale della città. Il suo primo libro è stato D.H. Lawrence. Uno studio non accademico, saggio pubblicato nel 1931.
Nella capitale francese conobbe Henry Miller, lo scrittore autore di Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno, di cui si innamorò perdutamente e poi ebbe una relazione anche con la moglie di lui, June Mansfield.
Affascinata dalla psicoanalisi a cui si approcciò da paziente di Otto Rank, allievo di Freud, con cui ebbe anche una relazione, per un breve periodo svolse ella stessa la professione a Parigi e poi a New York. Condusse alcuni studi su droghe pesanti come LSD e ne descrisse gli effetti che provoca sul sistema nervoso stimolando la creatività e la percezione del proprio subsconscio.
Nel 1953 ha partecipato al film Inauguration of the Plaeaure Dome del regista sperimentale Kenneth Anger.
Centrale e preponderante in Anaïs Nin è stato il tema erotico. Ha scoperto e sperimentato la libertà sessuale in letteratura quando è iniziata la collaborazione con Henry Miller, il suo libro Il delta di Venere è totalmente incentrato sul sesso dal punto di vista femminile, il raccontarsi senza remore l’ha resa unica nel suo genere, in quegli anni.
Nella sua vita ha avuto numerose relazioni, importanti anche per l’attività letteraria. Amori intensi, vissuti oltre ogni limite.
È stata anche bigama, dal 1955 al 1966, mentre era sposata con Hugh Parker Guiler si è unita in nozze anche con Rupert Pole. Chiese poi l’annullamento dal secondo matrimonio per evitare ai due coniugi guai a livello tributario.
Ha ricevuto una laurea ad honorem in lettere dal Philadelphia College of Art.
È morta di cancro a Los Angeles il 14 gennaio 1977, assistita da Rupert Pole che aveva nominato esecutore testamentario della sua produzione letteraria. È stato lui che ha fatto pubblicare, tra il 1985 e il 2006 una versione integrale dei suoi libri e diari.
Sulla travolgente storia d’amore con Henry Miller si basa il famoso film del 1990 Henry & June.
Nel 1995 è uscito il film Il delta di Venere, tratto dall’omonima raccolta di romanzi erotici.
Anaïs Nin è stata una donna incredibile, tra le scrittrici più originali e irrequiete del XX secolo. Ha affascinato uomini e donne di genio – Antonin Artaud, André Breton, Lawrence Durrell, Gore Vidal, Salvador Dalì, Pablo Picasso, Djuna Barnes – divenuti poi indimenticabili personaggi del suo imponente Diario.
Nessuna ha osato e saputo raccontare così bene, con tanta sincerità e dal punto di vista femminile, la sua controversa e affascinante attitudine alle passioni tutte.
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Non ho soldi, né risorse, né speranze. Sono l'uomo più felice del mondo. Henry Miller, Tropico del Cancro
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Question Time!!
Answer the questions and tag 9 people!
thank you for tagging me @bhxrdy
Colour: red
Last Song: «do I wanna know?» by arctic monkeys
Currently Reading: «il tropico del cancro» by henry miller/«love at first spite» by olivia dade (one I read in physical format/the other in ebook).
Currently Watching: fullmetal alchemist brotherhood
Currently Craving: anything with chocolate.
Coffee or Tea: tea.
I am tagging anybody who might like this!
have a lovely day!
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L'eclissi più lunga di sempre: come gli scienziati hanno guidato il jet supersonico Concorde per vedere una totalità di 74 minuti L’eclissi solare totale più lunga mai registrata Un evento straordinario è quello dell’eclissi solare totale più lunga mai registrata, avvenuto il 30 giugno 1973, quando il Concorde 001 ha volato nell’ombra della luna per ben 74 minuti, estendendo il periodo di totalità da 7 minuti a terra. Il volo epico del Concorde Decollato da Las Palmas, Gran Canaria, il Concorde ha intrapreso un volo epico lungo il Tropico del Cancro durante un’eclissi solare totale, mantenendosi in volo a 55.000 piedi per restare nella zona di totalità il più a lungo possibile, sfiorando la velocità del suono. Gli osservatori a bordo
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Tropico del cancro
Quando fu aperto davanti all’isola di Djerba, nel 1972, il polo chimico Gct fu accolto come una grande promessa di ricchezza. Cinquant’anni dopo continua a sfornare concimi e mangimi che nessuna legge europea consente più di produrre. Inquinando un territorio dove l’industria ha… source
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#aggiornamenti da Italia e Mondo#Mmondo#Mmondo tutte le notizie#mmondo tutte le notizie sempre aggiornate#mondo tutte le notizie
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Appunti di lettura per
«Il rifiuto»
(Musicaos, Balbec, 1)
di Davide Morgagni.
Dieci anni fa, nel 2014, venne pubblicato «I pornomadi» di Davide Morgagni, nella collana «Smartlit» di Musicaos Editore. Il primo manoscritto del primo romanzo di quello che oggi è «Il rifiuto» si intitolava «Canti di un pornomade». Nei vari ragionamenti attorno alla pubblicazione mi ricordo che quella parola, «Canti», oltre a essere molto evocativa (Leopardi, Lautréamont, Dante, etc.), poteva essere associata a un’altra opera, i «Canti dei caos» (2001, 2003, 2009²) di Antonio Moresco e così, per evitare cortocircuiti allusivi, trattandosi di un esordio, suggerii l’opportunità di togliere il libro dal repentaglio di intitolarsi «Canti di…» essendo il terzo titolo di un editore che aveva -caos come suffisso del suo nome, per sfuggire ogni tipo di ammiccamento. Cercammo così un riparo a distanza cautelativa dal capolavoro di Moresco, che a sua volta negli anni seguenti sarebbe divenuto parte di un lavoro ancora più grande. Una cautela che a posteriori, come spesso capita con le cautele letterarie di persone troppo devote alla letteratura, incorse nell’esagerazione di presupporre l’esistenza di lettori più che ideali, sublimi, invece che delle cimici di Majakovskij.
Dal punto di vista linguistico-narrativo ciò che avviene ne «I pornomadi» è la genesi di un mondo e allo stesso tempo del «modo di esprimerlo». In una città infuocata un autore si scaracolla in balìa di mete imprecisate, tra un’estate e un inverno, con l’unico movente di esistere. L’idea di proporre un romanzo che contenesse un mondo senza somigliare a un romanzo-mondo era connaturata anche alla modalità in cui il volume si presentava nella sua prima edizione, con le opere d’arte fotografica di Lorenzo Papadia a costituire una narrazione visiva, e un’impaginazione “estesa”, che supportava l’idea di voler porre il lettore dinanzi a qualcosa di inedito, sotto più aspetti possibili. Questa realizzazione era alternativa alle aspettative e faceva parte dello stesso esordio, si trattava di un «io esiste».
Ricapitolando, una scrittura endogenetica, per un mondo che si costruisce dalla propria stessa lingua, raccogliendo testo, immagine, suono, urlo. Strumenti per narrare presi in prestito, oggettivamente, dalla poesia. Per usare un geniale e formidabile «metro» Eggersiano, in una scala dal 0 a 10 dove 0 è Poesia e 10 è Narrativa, «I pornomadi» si situa, oscillando, tra un 5 e un 7. Si tratta di una riflessione che troverà compimento nei romanzi successivi confluiti ne «Il rifiuto». Che impressione poteva fare sui suoi primi lettori «Il tropico del Cancro» di Henry Miller, pubblicato a Parigi nel 1934? Solo una ventina di anni prima la letteratura tradizionale (Gide che nel 1912 «rifiuta» “Dalla parte di Swann”) faceva i conti con l’«incomprensione» della prima parte della Recherche di Proust. Non c’è adito di paragone se non nel sottolineare che sempre, in tempi, luoghi e circoli differenti, la letteratura per emergere si pone complicemente come rottura con ciò che la precede nell’immediato, salvo poi essere ripresa – se riuscita – come continuità con lo stesso.
«I pornomadi», col suo stile «delirio» assume una modalità narrativa di derivazione céliniana, un «tenere bordone» costantemente «in levare» che dà movimento col suo stesso porsi, una scrittura che proviene da Miller, Deleuze, Guattari, Joyce, Beckett, Bataille, Céline, Bukowski; mi è sempre sembrato un «ponte» tra la concretezza sperimentativa e i suoi «misteri pedagogici», uno studio che devia dalla lezione originaria per creare qualcosa di originale e totalmente appartenente alla nostra lingua. Un romanzo “Il rifiuto” sul fatto che si possa scrivere un romanzo, fare scrittura, essere scrittura, tenuto conto di ciò che è stato prodotto in filosofia, teatro, poesia, negli ultimi cinquanta anni, tanti all’incirca ne sono trascorsi dalla pubblicazione dell’Anti-Edipo, dalla letteratura di avanguardia degli anni Settanta, dagli sperimentalismi più oltraggiosi, sia quelli riusciti che quelli mancati, quelli che hanno conservato una certa forza e quelli dileguati.
Perdere tutto per affermare l’esistenza di sé stessi, questo sembra urlare il protagonista de «I pornomadi».
«Strade negre» pone altre due urgenze sotto la lente focale della scrittura. Il «delirio» religioso – la prima metà si svolge a Roma, con il protagonista che segue un corso per diventare conservatore/divulgatore dei beni religiosi della Città Eterna – e il «delirio» da anti-potenza del «genere» del milieu culturale occidentale al suo tramonto.
«La nebbia del secolo», uscito nel 2019 con Leucotea Edizioni, è il terzo romanzo, riveduto, de «Il rifiuto». Romanzo più breve e altrettanto folgorante, è ambientato a Parigi nel periodo storico recente, dove il fantasma del terrorismo ha costituito la paranoia globale per eccellenza, concretizzandosi in attentati ancora oggi temibili, prima dello scoppio della pandemia e al margine di ogni guerra.
Dopo aver delirato i continenti, le religioni, i popoli, parlando di virus, guerre, conflitti, giunge la Pandemia. Il romanzo, fino a oggi inedito, «Finché c’è rabbia», racconta gli ultimi anni vissuti, quelli del Covid, nel racconto del protagonista. Le sue vicende non sono centrali di una storia che è più grande, che ci ha investito. Uno dei protagonisti è il Capitalismo, cui viene sferrata una critica viscerale, programmatica, che sottende tutta la narrazione.
«Il rifiuto» così si compone di quattro romanzi, quattro romanzi differenti per stile nei quali si produce un movimento stilistico dal caos iniziale, in cui la lingua poetica fa accadere il mondo, gettando sul piatto quelli che saranno i temi caratterizzanti del Romanzo: con il contrasto particolare (Capitalismo, Espressione, Spersonalizzazione), la Religione Universale e le religioni particolari, la religione dell’Arte, la religione del Maestro, la religione della Devozione Domestica, la religione della Famiglia, la religione allo Stato, la religione dello Studio, eccetera; e ancora lo Spettro della Storia Universale, attraversato a sua volta dagli spettri del terrorismo e della paranoia internazionale, con tutto ciò che compone il Secolo.
«Il rifiuto» è in tal senso rifiuto post-moderno, costruito sulle macerie del post-modernismo. Il post-moderno sanciva la fine della pretesa delle “Grandi Narrazioni”, dagli anni Settanta a oggi sembrava che si dovessero avverare tutte le promesse non solo stilistiche e narrative, ma anche di vita, di uno sviluppo consapevole, rispettoso delle coscienze e del sentire ecologico planetario. Una molecolarizzazione delle esperienze che si sarebbe accompagnata a un grado di umanità più apprezzabile. Tutto ciò ovviamente non ebbe luogo, se non teorico. Solo l’ipotesi di vivere su un pianeta insieme a cinque miliardi di persone, un giorno, poteva atterrire. Mentre scrivo siamo ottomiliardi settantasettemilioni quattrocentosessantasettemila e novecentonovantanove. Impossibile a credersi oggi, per chi vive in un’epoca che è somma di tante epoche che possono coesistere. Dagli anni Settanta a oggi è trascorso mezzo secolo, immaginare di riportare alcuni riferimenti culturali all’oggi senza storicizzarli sarebbe paradossale come interpretare il 1950 con le categorie del 1900.
Per prescindere dall’empasse cui potrebbe condurci la storia ci si attiene alla creazione poietica, ai testi, alle influenze, in tal senso Gilgamesh è nostro contemporaneo. Nel miscuglio babelico dei linguaggi si è aperta con la Rete una Babele ancora più grande, districabile per chi ha in amore la complessità, la Società del Controllo è divenuta realtà, e oggi che ognuno di noi è misurato, controllato, enumerato, accountizzato, di quale bisogno si scopre desiderante la comunità dei clienti (lettori, ascoltatori, videoutenti) dell’infotainment? Narrazioni. Grandi. Innumerevoli. Ovunque. Grandi narrazioni. Chiusura del cerchio (canto del cigno o requiem) del post-modernismo, “Il cerchio si chiude”, come termina Stephen King il suo capolavoro virologico “L’ombra dello scorpione”.
«Il rifiuto» affronta questi temi con la densità leggera di un volo, pagina dopo pagina, mettendo a nudo i meccanismi psicologici, sociali, antropologici, mentali, narrativi, che ci vengono presentati dai metadiscorsi che viviamo. C’è un elemento comico che ritorna, come ce ne sono tanti, ilari, più o meno forti e incisivi, ma questo di cui parlo è – se vogliamo – metacomico: il protagonista, che si trova a dialogare con i suoi amici, conoscenti, spesso si sente rivolte frasi di questo tenore «sai, penso che quello che sto vivendo è importante, penso che lo racconterò in un libro», oppure «penso che scriverò un libro». In un mondo creato da un protagonista ossessionato dalla descrizione di un mondo traducibile e decifrabile per lui soltanto, gli altri, che subiscono il mondo senza comprenderlo, si sentono più atti di lui a raccontare la realtà.
La scrittura filosofica è un genere poco letto, non mi riferisco ovviamente alla scrittura di romanzi a metà tra saggio e narrativa, o romanzi scritti da filosofi. Tutto ciò che c’è di politico e filosofico ne «Il rifiuto» traduce permanentemente un’urgenza stilistica, permettendo a questa scrittura la distanza tra autore, da una parte, e artista dall’altra. Se gli strumenti che Davide Morgagni utilizza attingono a un bagaglio simile, gli ambiti sono totalmente differenti. «Il rifiuto» intende porsi in un dialogo con le persone, i critici, i lettori, in generale, pensanti, a questi, da controcanto (di un pornomade) indico ad esempio la lettura dei romanzi di Aldo G. Gargani.
«Il rifiuto» è un romanzo lontano da Dio, fuori dalla sua grazia, se il protagonista può sembrare un asceta, questa sua ascesi si compie tra le mura, in un appartamento leccese, o romano, o parigino, senza wc, dove non c’è grazia del signore; c’è vicinanza a tutte le creature, compresi gli innumerevoli animali del creato, a dimostrazione di un anelito ecologista/ambientale di fondo (pulci api foche mucche blatte vermi formiche microbi granchi lombrichi gatti pidocchi tonni pesci-spada galline polli sirene ragni topi cavalli gechi ramarri cani passeriformi molluschi bruchi testuggini merluzzi cicale grilli farfalle iene rondini fringuelli mosche tacchini ricci platesse polpi zanzare tigri cinghiali rondini piccioni scimmie pinguini giraffe bufali conigli rane mosconi manzi gazze capre agnelli struzzi tartarughe pipistrelli civette lucertole salmoni lumache porcospini moscerini calamari gamberoni ostriche colombe vipere ippopotami scorfani anguille orche foche seppie totani pappagalli cigni scoiattoli bisce avvoltoi scimmie anatre pecore pulcini millepiedi vitelli delfini pipistrelli pescecani gorilla babbuini rospi sanguisughe pesci palla leoni lupi asini ghepardi balene fagiani).
Molte creature ma, all’orizzonte, nessun Dio. Eppure non si tratta di un pensiero laico, quello che viene sfrondato da queste pagine, perché quella del protagonista non è un’ascesi raggiunta in mezzo alle persone buone e cordiali, al contrario, è una segregazione spesso ricercata per salvarsi e per difendersi dai barbari. Per non parlare delle volte in cui il protagonista, semplicemente, parla la lingua della verità in mezzo ai sordi, recando letteralmente la saggezza al mercato, come lo Zarathustra di Nietzsche, che compie l’oltraggio peggiore, quello di «bruciare» la news della sua scoperta «oltreuomo» con la condivisione.
Ciò che succede nei vari piani che situa il romanzo fa anzitutto in modo che ciò che risulta in esso romanzato (l’amore, le relazioni, le amicizie, i quartieri, le città, le metropolitane) trascorre in secondo piano rispetto alla società, ai conflitti generali di interesse economico, all’attrito tra classi sociali. «Il rifiuto» diviene così un dispositivo artistico rivolto all’esterno. Ricapitolando, una storia che abbraccia le vicende del protagonista nell’arco di quindici anni, con luci a più punti focali mirate a illuminare l’agire dell’individuo come reagente in una società paranoica-ossessiva-delirante. Il protagonista/Narratore, pure con diverse «facies», è sempre lo stesso, così i comprimari.
C’è un termine che si affaccia ed è: profezia. Quando la scrittura letteraria, poetica o narrativa, compone un quadro realistico di tutte le tensioni in gioco nel momento descritto, spostandosi in avanti fino a prevedere possibilità, la scrittura diviene profetica; un termine religioso – come ascesi – che ritorna in un ambito dal quale l’orizzonte di un qualsivoglia Dio è compromesso.
«Il rifiuto» è preludio a una narrativa dell’avvenire (non inteso come futuro, “ciò che avverrà”), di ciò che avviene nel suo farsi, che si compone passo dopo passo, della creazione di un contesto e dell’internamento di un protagonista nell’agire stesso che è stato contestualizzato a parole. La ricezione di una scrittura simile, è assimilabile a quella di una scrittura poetica, per quanto riguarda il suo abbrivio, che evolve in un percorso narrativo che porta al lettore stralci dal sapore joyciano, milleriano, beckettiano.
I luoghi in cui accade questo «avvenimento» (sempre da “avvenire”) narrativo sono tre, in tempi differenti e che si rincorrono, principalmente Lecce, Roma, Parigi. Il protagonista occupa sempre un altrove in ognuno di essi, ciò che percepisce il lettore è una velocità estrema, istantanea, centrifuga. Del centro, pur essendone affascinato, il Narratore coglie tutte le contraddizioni, la mancanza di umanità nei rapporti, la spersonalizzazione, l’egoismo. Non c’è un obiettivo, c’è una vita di margine vissuta al limite, nell’«underground». Torna qui, anche nel rapportarsi ai luoghi, la dimensione ascetica di una purezza etica, né santa né laica.
L’aggettivo «negro», come gli altri, è un simbolo. La negrezza/negritudine cui fa riferimento il Narratore è la risposta etica al disfacimento dell’Occidente. In particolare nell’ultimo romanzo, l’inedito «Finché c’è rabbia», dove lo sfondo delle vicende è lo Spettro Pandemico, si pone come fatto compiuto uno scollamento senza ritorno di tutti gli attori sociali. Non hanno più niente di esotico gli uomini del sud che ciondolano fuori dai bar per arrivare alla fine di un’altra giornata. Sono zombie, batterie senza carica positiva, salvati dal pasto quotidiano della Caritas e da un giaciglio di fortuna. Il racconto dell’umanità vissuta a contatto stretto, questo è il sud, un certo meridionalismo narrato da Davide Morgagni ne «Il rifiuto». Viene raccontata la povertà, l’indigenza, la vita degli ultimi. È uno dei temi che vengono messi di più in risalto nel quarto romanzo che compone «Il rifiuto», «Finché c’è rabbia».
Non potevano che volerci dieci anni per misurare un certo tipo di ampiezze. Termino con una breve considerazione sulla forma finale in cui è presentato «Il rifiuto». Perché quattro romanzi, al di là dell’Opera, in un volume? L’idea dell’autore, nel presentare «Finché c’è rabbia», era che questo romanzo chiudesse un ciclo di storie, tutte vissute e raccontate dallo stesso Narratore, e che questa conclusione avesse un titolo ideale che racchiudesse queste storie, per l’appunto, «Il rifiuto». Abbiamo creduto, di comune accordo con l’autore, che valesse la pena presentare questi quattro romanzi insieme, perché erano trascorsi dall’inizio de «I pornomadi» dieci anni, durante i quali avevamo il presentimento che fossero accadute molte cose.
A ciò si aggiunge il fatto, oggettivo, che sarebbe stato difficoltoso e magari affaticante, per il lettore odierno, ricomporre un puzzle narrativo i cui frammenti, seppure facilmente reperibili, andavano rinvenuti richiedendo quattro atti di volontà separati. Ciò per evitare, parafrasando l’Amleto/CB, quelle “spiegazioni che ci ammazzano”, nell’avere a che fare con un romanzo che richiamava inevitabilmente la prosecuzione all’inverso degli altri tre. Lo stesso senso è anche quello di questo intervento, che cerca di sollevare alcuni temi presenti nei quattro romanzi che fanno «Il rifiuto», che oltre a essere un romanzo da leggere, sia ad alta voce che interiormente, è un romanzo politico, nel senso più schietto e originario che si può dare oggi a questo termina.
E adesso dimentichiamoci di tutto per leggere «Il rifiuto».
Buona lettura.
«Il peggio passa e se ne fa una sintassi», «Io scrivo per le pulci di periferia», «Vedi ragazzo – quando perdi cerca di perdere tutto – e quando muori assicurati di essere morto», «Il demonio ha in serbo grandi fichi sbucciati per le nostre bocche ragazzo e quando ogni cosa va in frantumi è perché e eterna», «La Storia è un riciclaggio di antichità e remote invarianti ed è per sempre immondizia puzzolente di morte e morti e gambe e occhi paralizzati», «Poi ha compreso che soffrire non serve, ma ciò non serve a smettere di soffrire», «Nella disperazione non si vede nulla, ma la disperazione vede tutto».
«Il rifiuto» di Davide Morgagni è la prima uscita della collana «Balbec», di Musicaos Editore, nella quale sono in programmazione le uscite dei nuovi libri di Giuseppe Goisis, Raffaele Gorgoni, Francesco Lanzo.
Luciano Pagano
«IL RIFIUTO» (Musicaos, Balbec, 1) - Davide Morgagni
in distribuzione dal gennaio 2024
ANTEPRIMA a LECCE - VENERDÌ 22 DICEMBRE alle ORE 19
presso ASTRAGALI TEATRO (Via G. Candido, 23)
interveranno:
Fabio Tolledi [direttore artistico e regista di Astràgali Teatro]
Simone Giorgino [Docente di Letteratura Italiana Contemporanea / UniSalento]
Luciano Pagano [Editore]
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Preparo una lezione sui ruggenti anni ‘20 e la crisi del ‘29; oh la Generazione perduta! Fitzgerald, Hemingway, Steinbeck, Miller! Non ho letto quasi nulla di vostro, forse non è tempo e mi accontento solo di suggestioni che a mia volta cerco di tramettere: il grande romanzo americano annacquato dal punto di vista di una zitella di provincia dedita all’alcol e alle sigarette sottili.
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33. Tropico del Cancro
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Sono un uomo libero; ho bisogno della libertà, ho bisogno di star solo, ho bisogno di rimuginare tra me e me le mie vergogne e le mie tristezze, di godermi il sole e i sassi della strada senza compagnia e senza discorsi, colla sola musica del mio cuore. Cosa volete da me? Quel ch'io voglio dire lo stampo; quel che voglio dare lo do. Henry Miller - Tropico del cancro
📷 Ph Rasa Razaniene
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