#terremoto del 20 febbraio 1743
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🌴 20 Febbraio 2023 Festa del Patrocinio della Madonna del Carmine e il GRANDE TERREMOTO DEL 20 FEBBRAIO DEL 1743. Perché ogni anno Mesagne festeggia il 20 febbraio? Cronache storiche, riportano alcuni TERREMOTI importanti che hanno colpito il sud della Puglia, primo tra tutti, quello del 20 febbraio 1743, che provocò gravissimi danni e morti in molte nostre città, Mesagne inclusa. Il terremoto avvenne alle 23.30 “orario all’italiana”, ossia alle 16.30 GMT (Greenwich Mean Time). A Brindisi si verificò addirittura un vero e proprio TSUNAMI. “… è stato così spaventoso che, ritiratosi il mare, faceansi vedere aperture della terra, et il molo di porta Reale diviso in tre parti” (Cagnes e Scalese 1743). Il terremoto provocó crolli di case, palazzi e molte chiese nelle province di Brindisi e Lecce. Le città maggiormente colpite furono Nardò, Francavilla Fontana e Brindisi. Quest'ultima è stata valutata con un'intensità di I=IX, sulla base dei pesanti danni subiti, come riportato nella cronaca dei sindaci della città, dal sacerdote e il testimone oculare Nicola Scalese in "Cagnes e Scalese 1743". È stato attribuito, un valore di VIII MCS ai comuni di Leverano, Manduria, MESAGNE, Oria, Racale, Salve e Tuturano e VII MCS a Calimera, Castrignano del Capo, Copertino, Lecce, Ostuni e Seclí. Mentre, l'isola maltese con Malta e Gozo, sono state classificate con un'intensità MCS I = VIII a causa dei gravi danni (De Soldanis, 1746). Nella città di Napoli (I = V MCS), distante dal Salento più di 300 km, secondo il Duca di Salas, Segretario di Stato nel Regno di Napoli, il sisma è stato significativo, ma senza danni. Continua a leggere nei commenti 👇 #lamadonnadifebbraio • • • #visitmesagne #visitmesagnecuordisalento #visiting #mesagne #cuordisalento #cosafareamesagne #mesagnetop #lacittadellamore #lacittadelcuore #welcometomesagne #momentisenzafiltri #madeinmesagne #mesagneinlove #mesangeles #portiamomesagnenelmondo #mesagnedavedere #viveremesagne #mesagnemylove #mesagneview #mesagnemoremio #a2passinelmondo #mesagnea2passidalmare #tradizionepopolare #tradizionemesagnese #folklore #cultura (presso Mesagne) https://www.instagram.com/p/Co1x6Itsss2/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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Il terremoto del 20 febbraio 1743 nell'interpretazione popolare e religiosa, e in un antico canto dialettale savese
di Gianfranco Mele
Come noto, il 20 febbraio del 1743 vi fu un violento sisma[1] che danneggiò la città di Nardò in particolare, ma anche altri numerosi altri centri: si ebbero danni consistenti in Francavilla Fontana, Leverano, Brindisi, e numerose altre città e paesi di Terra d’Otranto. Nel territorio di Sava si verificarono danni al Santuario di Pasano, e mi soffermerò sulla storia degli effetti del terremoto in questa cittadina per raccontare di come la devozione popolare abbia attribuito alla Madonna una intercessione divina nei confronti della catastrofe, immortalando tale accadimento anche in una composizione dialettale in versi.
Un po’ dappertutto, persino nei luoghi dove vi furono morti, si volle credere che Madonne e Santi protettori avessero scongiurato un disastro ancora più grave. Così, finanche i danni subìti da edifici religiosi furono interpretati come effetto della protezione divina che aveva preferito attirare su di sé, sui luoghi di culto, gli effetti del terremoto, anziché danneggiare più di tanto il popolo.[2]
In Sava, si attribuì alla Madonna di Pasano il potere di aver scongiurato una tragedia annunciata: per tradizione, la Vergine (che aveva luogo di culto nel casale omonimo già da epoca bizantina)[3] era ritenuta specialista sia in miracoli concernenti malattie,[4] che nell’evitamento di catastrofi e calamità naturali:
“Le apoplasie, le asme, le febbri, gli spasimi, le cecità, le stroppiature, e tutta quella serie di mali, che per il peccato del nostro progenitore inonda il gran mondo; i terremoti, le inondazioni, la mancanza d’acqua, l’insetti divoratori, i rettili velenosi, i fulmini, le saette, l’archibuggiate, o al tatto di qualcun de’ suoi voti, che pendono dalle sacre pareti alla gran Donna dedicati, o all’unzioni degl’ ogli delle sue lampade, o al religioso esercizio, o per l’usanza di mandare alla sua Cappella tredici verginelle, o alla sola interna invocazione del suo Sacro Santo Nome, retrocedono, e fuggono, e spariscono”[5]
La chiesa di Pasano viene riedificata, ultimata e inaugurata nel 1712 (ce ne danno notizia un vecchio manoscritto attribuito (parzialmente) all’ Arciprete Luigi Spagnolo[6] e l’opera “Cenni storici di Sava” di Primaldo Coco)[7], e viene costruita a ridosso di una cappella più antica. Il terremoto del 1743 la danneggia notevolmente, per cui dieci anni dopo, nel 1753 la chiesa viene parzialmente ricostruita e fortificata con l’aggiunta di contrafforti laterali e con modifiche e restauri al dossale dell’altare.[8]
Santuario Madonna di Pasano: i contrafforti laterali furono eretti in conseguenza del terremoto del 1743
Dei lavori di restauro effettuati nel 1753 a effetto del terremoto sono testimonianza due iscrizioni murate vicino all’altare maggiore, come documenta il Coco, poi riassunte e sostituite in una unica lapide.
Le iscrizioni più antiche recitavano:
Singularis fidelium pietas erga efficiem hanc
Virgini Pasanensis hoc altare primam ex licentia
lapide fecit A.D. MDCCXXXII
Terremotu postea dirutum magam partem
iterum riedificavit pietas ipsa ac tandem
postridie Kalendas Iunius A Virg. Partu
MDCCLIII inaugurare complevit.
Nei primi del Novecento queste iscrizioni furono sostituite con la seguente:
D.O.M.
Aram principem Virgini deiparae de Pasano
Quam pietas fidelium primum erexit a. MDCCXXXII
Et denuo terremotu pene dirutam a. MDCCLIII refecit
expolivit picturisque exornavit an. Maximi Iubilei
MCM
In appendice al manoscritto redatto dal non meglio identificato nipote di Luigi Spagnolo (forse Giovanni Spagnolo, anche lui Arciprete in Sava, dal 1884 al 1901), si narra di un turbine avvenuto il 2 maggio 1871 che danneggiò terreni facendo cadere numerosi alberi in agro di Sava, e diroccò due edifici del paese. All’invocazione da parte dei savesi della Vergine di Pasano (e del posizionamento a mò di sfida della sua statua), il turbine deviò percorso, secondo il racconto dello Spagnolo. A seguire nel manoscritto, lo Spagnolo racconta della guarigione da parte della Vergine di Pasano di un sacerdote leccese “stroppio di mani”, e di un miracolo riguardante il terremoto del 20 febbraio. Qui, però, si indica un anno nel quale non risultano terremoti in Terra d’Otranto: il 1790. Trattasi evidentemente di un errore da parte dello scrittore, che voleva indicare appunto il terremoto del 1743. Devo aggiungere che ho potuto consultare il testo originale (in una riproduzione digitalizzata a cura di Internet Culturale)[9] ma era monco proprio di questa parte (un foglio), che ho ripreso dalla trascrizione di Giuseppe Lomartire, inserita nel suo libro “Sava nella storia”.[10] E’ lo stesso Lomartire in ogni caso, in articolo successivo, a chiedersi se non vi sia stato un errore nella datazione (il giorno e il mese coincidono, ma non l’anno).[11] Ecco i passi dello Spagnolo trascritti dal Lomartire:
“Nel 1790 a 20 febbraio quasi tutti i luoghi di questa provincia, e forse l’Europa tutta ebbero danni dal flagello del terremoto, che fu alle ore 23 e mezza circa del su detto giorno, e solo in Sava non vi fu danno alcuno, ma soltanto cadde il capo altare della Cappella di Pasano, sicchè la beatissima Vergine par che indusse il suo Figlio a scaricar l’ira sua sopra di sé in detta cappella, ed esimere Sava da detto flagello.”
In un ciclostilato senza data a cura del Gruppo Culturale Salentino di Sava (le “Note” del G. C. S., distribuite ad associati, amici e simpatizzanti, furono concepite e diffuse tra il 1977 e il 1979) il Lomartire ritorna sull’argomento e riporta i versi popolari che ricordano il terremoto del 20 febbraio 1943, raccolti dalla voce di una anziana donna savese:
“Fuei la Matonna nostra ti Pasanu
ca ti na cranni sbintura ni sarvòu
la menzanotti ti lu vinti ti febbraru
quannu totta la terra trimulòu.
La Matonna an cielu sta priàva
lu fiju sua onniputenti
surtantu la Cappella cu sgarràva
e di Sava cu ni lìbbira la genti.
E difatti Sava fuei sarvàta,
ma la Cappella rumàsi rruinàta! “
Così come, dunque, a Sava fu considerata la Vergine di Pasano protettrice della popolazione rispetto alla calamità, a Nardò si credette che fu San Gregorio a intercedere per evitare danni ancor più gravi, a Lecce si pensò all’intervento provvidenziale di S. Oronzo, a Mesagne si ringraziò la Beata Vergine del Carmelo, a Francavilla Fontana la Madonna della Fontana, a Latiano Santa Margherita, a Oria San Barsanofio.[12]
I versi popolari raccolti in Sava hanno un corrispettivo nei più noti versi leccesi dedicati a S. Oronzo per il medesimo avvenimento:
“Foi Santu Ronzu ci ne leberau
de lu gran terramotu ci faciu
a binti de febraru tremulau
la cetate, e no cadiu.
Iddu, iddu de cieli la guardau
e nuddu de la gente nde patiu.
È rande Santu! Ma de li santuni
fece razie. E meraculi a’ migliuni.”
Santuario di Pasano, interno (altare e dossale)
[1] Per approfondimenti, una serie di articoli sul terremoto in questione è pubblicata su Fondazione Terra d’Otranto: http://www.fondazioneterradotranto.it/tag/terremoto-1743/
[2] Daniele Perrone, Il terremoto del 1943 che scosse il Salento, novembre 2014, Bistrò Charbonnier http://bistrocharbonnier.altervista.org/il-terremoto-del-1743-che-scosse-il-salento/
[3] Gianfranco Mele, Sava (Taranto). L’antica chiesa di Pasano, settembre 2016, Fondazione Terra d’Otranto https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/09/14/sava-taranto-lantica-chiesa-di-pasano/
[4] Gianfranco Mele, L’antica tradizione degli ex voto a Pasano, La Voce di Maruggio, gennaio 2020, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/l-antica-tradizione-degli-ex-voto-a-pasano.html
[5] Dal manoscritto “Orazione Panegirica in lode della Prodigiosissima Vergine Maria sotto il Titolo di Pasano, Primaria e Speciale Protettrice della Terra di Sava”, s.d.. Il documento contiene in calce al frontespizio la scritta aggiunta “”Recitata da mio zio arciprete don Luigi Spagnolo di anni 18 essendo accolito nel seminario di Oria“, e in allegato 3 fogli contenenti la storia di Pasano e dei “miracoli” attribuiti alla Madonna, con citazioni e trascrizioni di passi di Domenico Antonio Spagnolo (Arciprete in Sava dal 1686 al 1722), Alessandro Maria Calefati (Vescovo della Diocesi di Oria dal 1781 al 1793, anno della sua morte), Luigi Spagnolo (Arciprete in Sava dal 1800 al 1828), Pasquale Cantoro Melle (che, da una annotazione dell’autore – nipote del Luigi Spagnolo, sappiamo morto nel 1790). Il manoscritto è conservato ad Oria nella Biblioteca De Leo ed è là censito con “data stimata: 1801-1900”.
[6] Manoscritto “Orazione Panegirica in lode della Prodigiosissima Vergine Maria sotto il Titolo di Pasano, Primaria e Speciale Protettrice della Terra di Sava”, op. cit.
[7] Primaldo Coco, Cenni Storici di Sava, Stab. Tipografico Giurdignano, Lecce, 1915, pp. 282-284
[8] Cfr. Primaldo Coco, op. cit.; vedi anche Antonio Cavallo, Santuario di Santa Maria di Pasano, C.S.P. Centro Studi Pubblicitari, Tipografia Centrale, Manduria, senza data, pag. 8
[9] Internet Culturale, cataloghi e collezioni digitali delle biblioteche italiane http://www.internetculturale.it/
[10] Giuseppe Lomartire, Sava nella storia, Grafiche Cressati, Taranto, 1975, pp. 87-93
[11] Giuseppe Lomartire, Pasano ieri e oggi – vicende varie del Casale e del Santuario, in: Note del Gruppo Culturale Salentino di Sava, ciclostilato in pr., s.d.
[12] Cfr. Daniele Perrone, cit.
#Gianfranco Mele#Madonna di Pasano#Sava#terremoto del 20 febbraio 1743#Pagine della nostra Storia#Spigolature Salentine#Tradizioni Popolari di Terra d’Otranto
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A Botrugno il Patrocinio di Sant'ORONZO con le Città Oronzionane
A Botrugno il Patrocinio di Sant’ORONZO con le Città Oronzionane
La Comunità di Botrugno, sabato 20 febbraio p. v., ricorda la solennità del Patrocinio di Sant’Oronzo, patrono della Città, venerato per lo scampato pericolo del terremoto che avvolse tutta la Terra d’Otranto il 20 febbaio 1743. In questo tempo di pandemia, l’Amministrazione Comunale di #Botrugno guidata dal sindaco Silvano Macculi e in sintonia con la Parrocchia Spirito Santo guidata dal parroco…
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L’oro del Salento: tra Santi e specialità gastronomiche
L’educational è l’occasione che mancava al Comune di Botrugno, per far riscoprire quelle che erano le antiche culture del territorio, legate perlopiù alle credenze e ai riti religiosi.
Erroneamente si pensa che le festività religiose siano cadute quasi in disuso, che le nuove generazioni non apprezzino quanto di bello ed emozionante queste festività possano offrire.
Questo tour è stata un’occasione per far scoprire a chi non ne fosse ancora a conoscenza, la maestosità e genialità di piccoli eventi che valorizzano il territorio.
I riti religiosi e civili in onore di un determinato Santo rappresentano veramente la tradizione e la cultura del nostro popolo ed è per questo che ho voluto valorizzarli al massimo tramite questo articolo affinchè diventino un vero e proprio volano di sviluppo turistico.
L’adozione del Santo Protettore, risposta alla necessità ancestrale dell’uomo di affidarsi a qualcuno che preservasse fisicamente e materialmente, obbedisce ad impulsi di varia natura: è, prevalentemente, la registrazione di un miracolo o l’acquisizione di una reliquia o la beatificazione di un personaggio speciale originario del luogo o, anche, una manifestazione di gratitudine di un autorevole esponente del potere locale per essere stato liberato da un pericolo o guarito da una malattia.
La Festa del Patrono Sant'Oronzo è anche detta Festa piccinna di Sant’Oronzo o Santu Ronzu piccinnu, o La capu te Santu Ronzu si festeggia il 20 febbraio, con la ricorrenza si rievoca il miracolo del santo compiuto in occasione del devastante terremoto verificatosi proprio in quella data dell'anno 1743.
La festa religiosa viene spesso definita La Capu te Santu Ronzu, il motivo per cui è stata adottata un'espressione così insolita per riferirsi ad una festa devozionale è dovuto al fatto che in Processione, per le vie della città, non viene condotta la statua intera del Santo, ma la raffigurazione in cartapesta della sola testa, in ricordo del suo martirio. In occasione della festa invernale per Sant'Oronzo i Botrugnesi sono soliti ripetere un singolare rito, per l'intera giornata viene esibita in piazza la cosiddetta macinula te Santu Ronzu, si tratta di un arcolaio, ossia uno strumento semplice, utilizzato in casa per districare le bobine di cotone, fatto di legno e dalla forma cilindrica o conica.
La Macinula di Botrugno tuttavia non è esattamente un arcolaio ma una variante di esso, ha la medesima funzione, è costituita da un albero con una sorta di piccola impalcatura girevole, fatta di stecche di legno e dal diametro regolabile.
Ebbene, i Botrugnesi usano appendere alle stecche della Macinula di Santu Ronzu ogni ben di Dio: pomodori gialli e rossi legati assieme da un filo, melograni, meloni gialli, peperoni, vino, olio, sugo di pomodori, arance, formaggi e verdure fresche di stagione; il tesoro viene cumulato grazie ad una questua eseguita dal Comitato promotore, che si muove di porta in porta per le case del paese.
La macinula, tanto più ricca quanto più son generosi i cittadini, viene esibita per diversi giorni, fino a quando, giunto il fatidico 20 febbraio, il Simulacro del Santo ritorna in chiesa e allora si procede ad un'estrazione a sorte per assegnare il premio della macinula al devoto più fortunato.
Oltre alla scoperta degli antichi riti religiosi della Puglia, è importante tenere in considerazione i prodotti gastronomici che fanno parte del patrimonio culturale del territorio.
In tutta la penisola salentina, Botrugno è forse l’unico comune ad aver aderito alla De.Co.
Con il buonissimo tortino di melanzane, il gallo ripieno e la scapece, Botrugno vanta tra i migliori e tipici piatti di tutto il Salento. Essi sono stati individuati per valorizzare le attività agroalimentari tradizionali.
L’olio è considerato l’oro del Salento perché è dall’amore per questa terra dolce e fiera che nasce un olio che tutto il mondo ci invidia. Il salento è una terra dalle tradizioni ancora vive e noi vogliamo conservarle, trasmetterle e farle conoscere agli esterni. Ci sono aziende che si fondano sulla cura con amore di uliveti secolari, ne raccolgono i frutti migliori e producono un olio extravergine veramente di qualità, quali Tenuta Tresca.
La degustazione dell’olio extravergine d’oliva può creare questa magia, può condurti in luoghi che credevi di aver dimenticato o che forse non conosci. Ma andiamo al punto. Come si fa a degustare l’olio di oliva 100% italiano?
L'Azienda Agricola TENUTA TRESCA, giunta alla quinta generazione, produce olio extravergine di oliva dal 1820. L'attuale titolare e' il Dott. Domenico Cito, discendente dell'antica casata campana Cito, gia' presente con certezza, a Salerno, nel XIII secolo. Il Re Carlo di Borbone decoro', nella persona di Baldassare, la famiglia del titolo di Marchese. Attraverso un percorso ancora non noto, dalla terra di origine, alcuni suoi componenti passarono prima in Terra di Bari (Bitonto) e, successivamente, in Terra d'Otranto, stabilendosi a San Cassiano, nel Salento. L'azienda, dedicandosi con passione infinita a quello che da sempre e' il pregiato «olio dai mille usi: per i sacramenti che accompagnano, dalla nascita fino alla morte, la fede della gente; condimento irrinunciabile per pietanze povere; rimedio per i piu' disparati malanni; per millenni, fonte insostituibile di luce» (A. Giaccari, Le strade dell'olio, in "Le terre d'Arneo", Consorzio Intercomunale "Terre d'Arneo", Lecce, 2001, p. 1099), ha fatto della coltivazione dell'olivo la sua specialita' e la qualita' del proprio olio extravergine di oliva e' da sempre il fine della propria missione. Ancora oggi, gli olivi vengono curati con dedizione e passione dal Dott. Domenico Cito per produrre oli che con le loro caratteristiche organolettiche entusiasmano chi li consuma.
Nella denominazione evocano la Tenuta in cui gli olivi vivono e si esprimono. Le olive, raccolte direttamente dalla chioma, al giusto grado di maturazione, vengono lavorate in frantoio "a freddo", cioe' a temperatura inferiore a 27 °C, entro, e non oltre, le 6 ore. L'olio non viene filtrato, ma secondo le piu' antiche tradizioni, viene lasciato lentamente decantare al fine di non disperdere i delicati profumi ed aromi delle olive e di mantenere integre le virtu' nutrizionali. L'azienda, da tempo, e' assoggettata alle severe regole dell'Agricoltura Biologica (Reg. CE 834/07) e osserva il disciplinare della Denominazione di Origine Protetta "Terra d'Otranto" a garanzia della provenienza. Entrambe, certificazioni sotto la supervisione del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali.
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L’antichissima e nobile famiglia Imperiale, da Genova in Terra d’Otranto (quarta parte)
di Mirko Belfiore
Andrea, figlio di Michele III Senior, fu mandato a Roma per studiare e formarsi nell’atmosfera ecclesiastica, accanto alla figura dell’illustre prozio Giuseppe Renato. Il carattere del giovinetto non fu mai affine alle vicende romane, quest’ultime intrise di frivolezze e pomposità, caratteristiche che si scontravano pienamente con l’atteggiamento chiuso e sensibile del principino, dedito più che altro alla meditazione e al ripiegamento interiore. Dovette comunque accettare le nozze imposte dal padre con Anna Caracciolo figlia di Giuseppe dei principi della Torella, nipote del signore di Avellino, il 30 giugno del 1717. L’unione portò alla nascita dell’erede Michelino Juniore, nato il 7 luglio del 1719 a Francavilla, evento gioioso che non migliorò, in nessun modo, i rapporti fra padre e figlio, divisi profondamente da due temperamenti agli antipodi. Mentre in Michele era forte il richiamo ai valori feudali e alla tutela del prestigio del Casato, per Andrea tutti questi obblighi erano superflui e inutili.
Importante fu, la politica di promozione economica e di ristrutturazione urbanistica che questo Michele III attuò e sostenne nel feudo di Francavilla. Segni indelebili del suo interesse, sono rimaste le imponenti opere urbane realizzate a Francavilla; la citta si sviluppò intorno ai tre grandi assi viari che vennero tracciati simultaneamente: “la strata longa” o via Michele Imperiali, via Simeana, chiamata così in onore della principessa Irene, sua moglie, e via del Carmine, oggi denominata via Roma. Numerosi inoltre furono gli interventi al Castello, nel cui ampliamento profuse grandi somme di denaro. La dimora subì un imponente ristrutturazione, tanto importante da trasformarla in una residenza aristocratica che non aveva nulla da invidiare alle corti del Regno di Napoli. Una volta succeduto all’avo, anche il giovane Michele IV (1719-1782), si profuse in opere di munificenza e di sviluppo, della città e della sua cittadinanza.
ritratto di Michele IV Imperiale Juniore – (Anonimo, XVIII secolo, olio su tela, trafugato).
Dopo la battaglia di Bitonto del 1734 e la conseguente liberazione del Regno di Napoli dagli austriaci, nel Meridione si venne a insediare una nuova dinastia, con Carlo III di Borbone, figlio del re di Spagna Filippo V.
La situazione economica disastrosa e la persistenza del baronaggio aristocratico, ormai a discapito anche delle classi più dinamiche come la borghesia mercantile straniera adeguatesi alla mentalità tipicamente meridionale, non fermarono la politica illuminata del nuovo reggente. Questa nuova linea fu favorita dalla presenza di un uomo forte e intelligente, il ministro delle Finanze Bernardo Tanucci, il quale con un’azione decisa, compì una serie di riforme strutturali radicali: riduzione dell’immunità ecclesiastica, creazione di un catasto e di un censimento, tassazione uguale per tutte le proprietà, politica di promozione economica delle industrie e tentativo di eliminazione del muro di monopoli e appalti, vero e proprio potere occulto della baronia locale. Il Tanucci, prima di essere rimosso dal suo incarico nel 1777, a causa delle divergenze con Carolina d’Asburgo, moglie dell’erede Ferdinando IV di Borbone, succeduto al padre Carlo III a sua volta nuovo Re sul trono di Spagna, architettò una vera e propria “trappola” ai danni dei feudatari locali per poter eliminare, nel Regno, quel fenomeno parassitario che era il feudalesimo.
Stabilì che lo Stato potesse disporre dei propri beni per la pubblica utilità, dichiarò nulla qualsiasi bolla papale non approvata precedentemente dal re e con estrema furbizia riempì di onori e titoli questa aristocrazia passiva con l’intento di allontanarla dai loro possedimenti e con la speranza che questi ne perdessero l’interesse.
In questo tranello cadde Michele IV Juniore, il quale attirato dalle cariche conferitegli: Maggiordomo Maggiore di Sua Maestà Siciliana, Gentiluomo di Camera e Gran Camerario, insieme alla vita mondana della capitale, dimorò spesso e volentieri fuori dai suoi feudi prendendo residenza a Napoli.
Nel 1740, convolò a nozze con Eleonora Borghese figlia di Camillo, principe di Sulmona. Secondo le fonti, la Principessa ebbe subito modo per farsi amare dai suoi sudditi e l’occasione arrivò, funesta, durante il terremoto del 20 febbraio 1743, evento sismico che sconvolse buona parte della Puglia meridionale. La principessa Borghese dimostrò grande solidarietà umana, non disdegnando di partecipare in prima persona all’opera di soccorso, portando il conforto della sua presenza e sostituendo in modo egregio il marito che si trovava a Napoli.
Ritratto di Michele III Imperiali Seniore (Anonimo, XVIII secolo, olio su tela, Francavilla Fontana, Castello-residenza).
Grazie alla munificenza del Principe, inoltre, fu possibile ricostruire gli edifici compromessi dal sisma: fra tutti ricordiamo la Chiesa Matrice, il convento di Santa Chiara e quello dei Frati Cappuccini. Michele IV contribuì, inoltre, al compimento dei lavori del Castello, completati nel 1739.
Con il passare del tempo però le soste degli Imperiale a Francavilla divennero sempre più rare. Nel 1755 Michele IV prese in affitto una sontuosa dimora per milleseicento ducati l’anno, che fece decorare a proprie spese, per poter ospitare degnamente la nobiltà della capitale e lo stesso re Carlo III. Il Principe morì a Napoli il 10 febbraio 1782 . Non avendo avuto figli, dichiarò suo erede universale il marchese di Latiano Vincenzo Imperiale figlio di Giovanni Luca, suo cugino; ma questi non essendo l’erede naturale, fu contrastato dal Regio Fisco, il quale forte di un diritto di prelazione sui feudi, iniziò il processo di devoluzione annotando e sequestrando tutti i beni e i possedimenti.
Latiano, chiesa del SS. Crocifisso, muro perimetrale, particolare dello stemma lapideo (ph Domenico Ble)
Il Marchese però, fece opposizione. Si aprì un processo che durò a lungo e nel 1785 si stabilì che tutti i beni immobili degli Imperiale, sarebbero passati al Fisco. La disputa quindi si risolse con un accordo e l’erede venne liquidato con la somma di trecentosettantacinque mila ducati, tutti i beni mobili presenti nelle residenze, come gioielli, argenti, librerie, attrezzatura del teatro e i titoli di Marchese di Oria e di Principe di Francavilla. Lo Stato procedette alla vendita dei singoli beni del feudo ai migliori offerenti, decretandone così lo smembramento.
Per la prima parte:
L’antichissima e nobile famiglia Imperiale, da Genova in Terra d’Otranto (prima parte)
Per la seconda parte:
L’antichissima e nobile famiglia Imperiale, da Genova in Terra d’Otranto (seconda parte)
#Andrea Imperiali#Anna Caracciolo#Cardinale Lorenzo Imperiale#Eleonora Borghese#famiglia Imperiale#Giuseppe Renato Imperiale#marchese di Latiano#marchese di Oria#Michele Imperiale#Mirko Belfiore#priincipe di Francavilla#terremoto del 20 febbraio 1743#Vincenzo Imperiale#Pagine della nostra Storia#Spigolature Salentine
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La Madonna di Pasano (Sava) e le sue miracolose guarigioni
Pasano, icona della Madonna prima del restauro degli anni ’90
La leggenda del “preti stroppiu” e altre storie di guarigioni di infermi nella tradizione della devozione alla Madonna di Pasano (Sava)
di Gianfranco Mele
“Ecco quel preti stroppiu:crazia ca li dumanda,
sanu ca lu rimanda e allecru, alla sua città!”
Questi, i versi recitati intorno al 1978 dalla anziana Giovanna Marino di Sava, all’epoca 91enne. Furono raccolti in occasione di una intervista condotta dagli associati al Gruppo Culturale Salentino di Sava, che si occupava di raccogliere informazioni intorno a tradizioni e storia del territorio, e apparvero in una pubblicazione ciclostilata.[1] Le “Note” del Gruppo Culturale Salentino, che venivano redatte e stampate a cadenza irregolare, venivano distribuite ad associati, amici e simpatizzanti. Questi ciclostilati erano composti di 25-30 pagine l’uno, e furono concepiti e distribuiti tra il 1977 e il 1979: non avevano numerazione e data.
Il frontespizio dei ciclostilati del Gruppo Culturale Salentino di Sava
I versi di cui sopra, tramandati oralmente di generazione in generazione, si riferiscono ad un “miracolo” operato dalla Madonna di Pasano nei confronti di un sacerdote del leccese; altri particolari di questa leggenda, li racconta Gaetano Pichierri in un articolo intitolato “La devozione alla Vergine di Pasano attraverso la lettura di due documenti del secolo scorso”. La storia è ripresa, nel caso del Pichierri, da una pubblicazione di anonimo del 1897, intitolata “I miracoli di Maria SS. Di Pasano”, stampata dalla tipografia D’Errico di Manduria.[2]
Non è chiara la datazione del presunto miracolo, ma secondo le ricostruzioni di Gaetano Pichierri è riferito al 1660 circa.[3]
Questa, la leggenda così come il Pichierri la riporta traendola direttamente dall’anonimo ottocentesco:
“Un sacerdote leccese, da gran tempo infermo e pieno di piaghe, menava amaramente i suoi giorni di vita. Quando in vision gli comparve adorna di folgoranti stelle una Nobile Signora che era appunto Maria Vergine di Pasano: lo sveglia, lo anima, lo incoraggia a farsi condurre al suo Tempio. Egli, pieno di gioia, si dispone con rassegnato spirito alla tanto desiata partenza. Lo adagiano su un legno, e giunti alla Cappella di Pasano, si prostra al privilegiato altare ove riacquista la salute. Rendendo infine grazie, mosso dal Divino Spirito Santo ne offrì due messe, facendo lieto ritorno alla patria sua, di cui restarono ammirati dal miracolo ottenuto”.[4]
In altro manoscritto ottocentesco, attribuito in parte all’ Arciprete Luigi Spagnolo, si legge:
“In uno dei paesi di là da Lecce si trovava da più anni in letto un sacerdote stroppio di mani, e di piedi, a cui comparendo la Beatissima Vergine di Pasano disse, che venisse a visitare la sua cappella di Pasano, che guarirebbe. Fattosi condurre il sacerdote ed inginocchiato avanti la sua Immagine, dopo aver pianto dirottamente ebbe la grazia, e celebrò messa nel suo altare, che tanto non avea potuto vedere” [5]
Di questa leggenda esisteva una rappresentazione pittorica, oggi purtroppo non più visibile.[6] Difatti, nel libello anonimo del 1897 vi è la descrizione di un grande quadro che si trovava “sul sommo della porta di entrata” della chiesa di Pasano, e che, a detta dell’autore dello scritto
“rappresenta due miracoli della Vergine di Pasano, l’uno, a destra di chi guarda, è quello di un uomo gettato in un pozzo; l’altro a sinistra, di un sacerdote del Capo”.[7]
La Madonna di Pasano come protettrice e guaritrice degli infermi ha una lunga tradizione miracolistica, documentata, tra l’altro, dai numerosi ex voto che sino alla fine dell’ Ottocento venivano posti ai lati dell’ altare maggiore, e consistevano nella riproduzione di particolari anatomici.[8] Di questa caratteristica, ci offre un quadro ancora il Pichierri, traendola dall’autore ottocentesco:
“La devozione a quella sacra immagine non era sentita solamente da parte degli abitanti del nostro paese, ma anche dei paesi circonvicini e di altri pure più lontani. Cosicchè le pareti del Santuario erano piene di ex voto per grazie ricevute. Ecco, a proposito, quanto si legge nell’elenco dell’autore anonimo: “A destra e a sinistra dell’ Altare Maggiore, una gran quantità di mani, di busti, teste, piedi di votivi tutti di cera vi sono appesi.”[9]
Degli ex voto anatomici di Pasano è scomparsa traccia, ma in alcuni testi di storia locale è fotografato e descritto un dipinto ex-voto dedicato alla Madonna di Pasano nella seconda metà dell’ Ottocento,[10] che rappresenta una savese, Maria Pesare “Romita” (= eremita, nella accezione di custode e abitante dell’eremo di Pasano) guarita dalla Madonna. Nell’ iscrizione si legge:
“Miracolo […] fatto a Maria Pesare Romita di questa Cappella, soffriva una spina ventosa a l’intero braccio per lo spazio di anni 24 …”.
Dipinto ex voto (seconda metà dell’Ottocento) dedicato alla Madonna di Pasano
Nel manoscritto dello Spagnolo si raccontano diversi “miracoli” operati dalla Vergine di Pasano, tra cui quello, più noto, dello “schiavo”[11], quello di un uomo scampato a una lapidazione per intercessione della Madonna,[12] e quello di un giovane che, in punto di morte, fu portato dal suo genitore in Pasano e là miracolato:
“ … un divotissimo padre, vedendo boccheggiante il suo amatissimo figlio, tutto vivezza di fiducia verso la Vergine prende in braccio il moribondo suo pegno, parte improvviso, lo conduce in Pasano, su dell’altare lo sdraia; e dove col morto suo figliuol tutti si aspettavano vederlo ritornare, è ammirato con istupore di tutti, venire il suo fanciullo appiè seguito, ed accompagnato”.[13]
La Madonna di Pasano è ritenuta specialista nel guarire molti malanni e infermità, e anche nell’intervenire prodigiosamente nei confronti di calamità naturali[14]:
“Le apoplasie, le asme, le febbri, gli spasimi, le cecità, le stroppiature, e tutta quella serie di mali, che per il peccato del nostro progenitore inonda il gran mondo; i terremoti, le inondazioni, la mancanza d’acqua, l’insetti divoratori, i rettili velenosi, i fulmini, le saette, l’archibuggiate, o al tatto di qualcun de’ suoi voti, che pendono dalle sacre pareti alla gran Donna dedicati, o all’unzioni degl’ ogli delle sue lampade, o al religioso esercizio, o per l’usanza di mandare alla sua Cappella tredici verginelle, o alla sola interna invocazione del suo Sacro Santo Nome, retrocedono, e fuggono, e spariscono”.[15]
Frontespizio del manoscritto dello Spagnolo
Note
[1] Giuseppe Lomartire, Pasano ieri e oggi – vicende varie del Casale e del Santuario, in: Note del Gruppo Culturale Salentino di Sava, ciclostilato in pr., s.d.
[2] Anonimo, Dei miracoli e dei prodigi operati dalla Vergine SS. Di Pasano (opuscolo dedicato a Monsignor M.T. Gargiulo Vescovo di Oria), Manduria, 1897, pag. 13. Ho ripreso questa citazione di seconda mano, dal testo di Gaetano Pichierri, La devozione alla Vergine di Pasano attraverso la lettura di due documenti del secolo scorso, in: Vincenza Musardo Talò (a cura di), Gaetano Pichierri, Omaggio a Sava, Del Grifo Ed., Lecce, 1994, pp. 206-209 (trattasi di raccolta postuma di articoli e saggi di G. Pichierri)
[3] Gaetano Pichierri, La devozione alla Vergine di Pasano, op. cit., pag. 206
[4] Ibidem
[5] Luigi Spagnolo, Manoscritto “Orazione Panegirica in lode della Prodigiosissima Vergine Maria sotto il Titolo di Pasano, Primaria e Speciale Protettrice della Terra di Sava”, s.d.. Il documento contiene in calce al frontespizio la scritta aggiunta “”Recitata da mio zio arciprete don Luigi Spagnolo di anni 18 essendo accolito nel seminario di Oria“, e in allegato 3 fogli contenenti la storia di Pasano e dei “miracoli” attribuiti alla Madonna, con citazioni e trascrizioni di passi di Domenico Antonio Spagnolo (Arciprete in Sava dal 1686 al 1722), Alessandro Maria Calefati (Vescovo della Diocesi di Oria dal 1781 al 1793, anno della sua morte), Luigi Spagnolo (Arciprete in Sava dal 1800 al 1828), Pasquale Cantoro Melle (che, da una annotazione dell’autore – nipote del Luigi Spagnolo, sappiamo morto nel 1790). Il manoscritto è conservato ad Oria nella Biblioteca De Leo ed è là censito con “data stimata: 1801-1900”.
[6] v. anche Gianfranco Mele, Tra storia e leggenda: l’uomo gettato nel pozzo e lapidato nei pressi di Pasano (Sava), in La Voce di Maruggio, sito web, 23 febbraio 2020 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/tra-storia-e-leggenda-luomo-gettato-nel-pozzo-e-lapidato-nei-pressi-di-pasano-sava.html
[7] Tratto da Gaetano Pichierri, op. cit., pag. 206
[8] Gianfranco Mele, L’antica tradizione degli ex voto a Pasano, in La Voce di Maruggio, sito web, 23 gennaio 2020 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/l-antica-tradizione-degli-ex-voto-a-pasano.html#:~:text=Molte%20volte%20gli%20ex%20voto,(votum%20feci%20gratiam%20accepi).
[9] Gaetano Pichierri, op. cit., pag. 206
[10] Mario Annoscia, Il Santuario della Madonna di Pasano presso Sava, Del Grifo Ed., Lecce, 1996, pag. 56
[11] Gianfranco Mele, La vera e triste storia dello schiavo di Pasano, in La Voce di Maruggio, sito web, 6 agosto 2019 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/la-vera-e-triste-storia-dello-schiavo-di-pasano-nessun-miracolo-ma-un-accadimento-di-ordinaria-amministrazione-edulcorato-dalla-diplomazia-ecclesiastica.html
[12] Gianfranco Mele, Tra storia e leggenda: l’uomo gettato nel pozzo e lapidato nei pressi di Pasano (Sava), op. cit.
[13] Luigi Spagnolo, op. cit.
[14] Gianfranco Mele, Il terremoto del 20 febbraio 1743 nell’interpretazione popolare e religiosa, e in un antico canto dialettale savese, Fondazione Terra d’Otranto, sito web, 20 febbraio 2020 https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/20/il-terremoto-del-20-febbraio-1743-nellinterpretazione-popolare-e-religiosa-e-in-un-antico-canto-dialettale-savese/
[15] Luigi Spagnolo, op. cit.
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🌴 La Madonna di Febbraio Con questo evento si ricorda il miracolo del 20 febbraio del 1743 giorno in cui tre terribili scosse di terremoto colpirono l’intero Salento e l’antica Messapia. Quel giorno a Mesagne non vi furono vittime e i mesagnesi attribuirono la loro salvezza alla Vergine del Carmelo. Il 21 febbraio, come racconta la tradizione, i fedeli si riunirono nel Santuario del Carmine, luogo in cui era custodito il simulacro della Vergine, per ringraziarla. Successivamente prelevarono la statua della Santissima e la condussero in processione nel centro storico, alla Chiesa Madre. [fonte @mesagnesera] • • • #visitmesagnecuordisalento #visitmesagne #visiting #cuordisalento #madonnadiluglio #iscoming #madonnadelcarmine #febbraio #mesagnedaybyday #mesagne #traveldesignme #designme #minuzzerie #mesagnecentrostorico #destinazionesalento #luminarie #a2passidamesagne #instasalento #salentista #borghipiubelliditalia #pugliadavedere #weareinpuglia @piu_puglia @destinazionesalento @mypugliae @pugliadavedere #lavitainunoscatto #pugliatiamo #piupuglia (presso Mesagne) https://www.instagram.com/p/B8Z6IW-KDs0/?igshid=1mrwvi508rd18
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Tra Napoli e Nardò. La guglia dell'Immacolata
Napoli chiama, Nardò risponde![1]
di Giovanni De Cupertinis
Napoli – La guglia dell’Immacolata, che domina la piazza del Gesù Nuovo, è uno dei più affascinanti e intriganti monumenti della città. Quella dell’Immacolata è l’ultima delle guglie di Napoli ad esser stata innalzata, la più ardita da un punto di vista architettonico. Si pone fra l’effimera architettura delle macchine di festa di legno e stucco, che il popolo innalzava ed incendiava con i fuochi d’artificio nelle piazze, e l’arredo urbano, inteso come elemento architettonico-scultoreo, per ornare gli spazi urbani, e deve la sua realizzazione all’impegno di un gesuita, padre Francesco Pepe.
Il tutto ebbe inizio quando il re Carlo III di Borbone propose al padre Francesco Pepe, che sovente riceveva le confessioni, di realizzare un’edicola nella piazza antistante,affinché i passanti potessero venerare la Vergine Immacolata, a cui era molto devoto, anche dall’esterno del tempio[2].
Il gesuita prendendo spunto dal desiderio del sovrano propose allo stesso di realizzare al centro della piazza una magnifica guglia con alla sommità un’immagine dell’Immacolata, sul tipo di quelle che qualche tempo prima erano state già realizzate in onore di San Domenico e di di San Gennaro.
Napoli, Piazza del Gesù
Per la progettazione della guglia fu organizzato un vero e proprio concorso pubblico ed i modelli dei vari progetti furono esposti nel Palazzo Reale, affinchè il sovrano potesse sceglierne uno. Alla chiamata di padre Pepe parteciparono in tanti: dall’ Astarita al Gioffredo, da di Fiore al de Rossi. Fu preferito il disegno dell’architetto Giuseppe Genoino o Genovino[3], il quale concepì una “macchina” molto più ricca, fortemente ispirata ai carri del Battaglino, senza trascurare la collocazione alla base della stessa delle statue della famiglia reale. Infatti il progetto originario prevedeva la realizzazione, alla base della guglia, delle statue del Re Carlo e della Regina Amalia, che non si riuscì mai a completare[4].
Da subito il Pepe avviò una raccolta di offerte per erigere la monumentale guglia dell’Immacolata, nella piazza antistante la chiesa. Il re voleva offrire i 100.000 ducati necessari per la realizzazione dell’opera, ma padre Pepe riuscì a convincere il sovrano a limitare la sua offerta alla sola esenzione delle tributi relativi al materiale occorrente la sua costruzione, preferendo che la guglia fosse realizzata con le sole offerte del popolo[5].
La prima pietra fu posta dal marchese di Arienzo Lelio Carafa l’8 febbraio del 1746[6]; la direzione dei lavori venne affidata a Giuseppe di Fiore, coadiuvato dal gesuita Filippo D’Amato persona di fiducia del Pepe[7]. L’obelisco fu eretto da di Fiore in un tempo brevissimo, ma non per questo l’opera si rivelò semplice. Il cantiere incontrò più volte degli ostacoli, prima durante gli scavi, dove si era dovuto provvedere alla deviazione di un corso d’acqua sotterraneo, dopo per le proteste del duca Diego Pignatelli di Monteleone, il quale, temeva che l’alta guglia potesse crollare sul suo palazzo in caso di terremoti[8].
Comunque tutto si risolse nel migliore dei modi ed i lavori proseguirono speditamente. Già nel febbraio del 1748 la struttura era conclusa e si iniziò a mettere mano all’apparato scultoreo, dapprima realizzato a stucco e successivamente in marmo, fatta eccezione per la statua della Vergine Immacolata, da realizzare in rame dorato.
A svolgere il lavoro furono chiamati due grandi artisti come Matteo Bottigliero e Francesco Pagano, che realizzeranno nel primo ordine, proprio sopra il basamento, le statue di sant’Ignazio di Loyola, san Francesco Saverio, san Francesco Borgia e san Francesco Regis. Nei quattro bassorilievi posti più in alto sono raffigurati i quattro episodi fondamentali della vita della Vergine Maria: la Natività, l’Annunciazione, la Purificazione e la Coronazione della Vergine. Poco più in alto due medaglioni raffiguranti S. Luigi Gonzaga e S. Stanislao Kostka.
L’apparato scultoreo in marmo fu completato sul finire del 1753 e un anno più tardi, a conclusione di tutti i lavori, fu posizionata sulla sommità della guglia la statua dell’Immacolata, in rame dorato.
La guglia fu inaugurata nel dicembre del 1754, con festeggiamenti che durarono tre giorni, dal 6 all’8 con lo sparo di fuochi d’artificio, musica e un continuo suono di campane e con tanti lumi accesi per tre sere sui balconi e finestre della città[9].
Ogni anno la città di Napoli rende omaggio alla Vergine Maria con l’offerta di un fascio di rose alla statua posta sulla sommità della guglia di piazza del Gesù. E’ un rituale consolidato che si ripete ogni 8 dicembre, giorno in cui la Chiesa celebra appunto l’Immacolata Concezione.
Nardò – Collocata in posizione baricentrica nella centralissima piazza Salandra, la guglia dell’Immacolata fu eretta nel 1749[10], con il concorso del popolo neritino, come testimonianza di fede e ringraziamento per Io scampato pericolo dal terribile terremoto del 1743, che causò gravissimi danni all’abitato di Nardò[11].
L’opera è realizzata interamente in carparo, fatta eccezione per le quattro statue in pietra leccese collocate all’altezza del primo ordine, raffiguranti S. Anna, S. Gioacchino, S. Giuseppe con bambino e S. Giovanni Battista[12].
Nardo – la Guglia dell’Immacolata
In cima svetta la splendida statua della Vergine Immacolata, realizzata in marmo bianco poggiante su un globo in bardiglio, opera dallo scultore napoletano Matteo Bottigliero che negli stessi anni lavorava insieme a Francesco Pagano alla decorazione marmorea della guglia dell’Immacolata di Napoli[13].
Che il disegno della guglia dell’Immacolata non sia opera di un semplice scalpellino o del lavoro scrupoloso di un mastro muratore qualunque lo si deduce da una attenta analisi stilistica e da un’accurata lettura dell’impianto planimetrico. Quel che stupisce è soprattutto la sapiente concatenazione di forme ed elementi posizionati ad intervalli regolari, che scandiscono l’armoniosamente i cinque ordini della guglia.
Ad oggi non conosciamo il nome dell’architetto, ma senza dubbio la guglia neritina ha i suoi riferimenti nell’obelisco di san Gennaro eretto nel 1660 da Cosimo Fanzago, nel largo antistante la porta laterale del duomo di Napoli, e soprattutto in quello dell’Immacolata che si stava realizzando negli stessi anni (1746-1754) a Piazza del Gesù Nuovo. La storia della guglia neritina mostra forti analogie ed in qualche modo collegata a quella napoletana.
Fu anch’essa realizzata con le oblazioni del popolo su iniziativa dell’abate Francesco Antonio Giulio che ne commissionò l’opera. Ma a differenza di quella napoletana, la documentazione archivistica riguardo la sua costruzione manca totalmente. Anche le poche notizie in nostro possesso pongono molti dubbi circa la loro attendibilità. Partiamo proprio dalla data del monumento che fino a qualche anno fa era ritenuto, dalla maggior parte degli studiosi, anche sulla scorta di un resoconto scritto del vescovo Luigi Vetta riguardante i festeggiamenti celebrati a Nardò l’8 dicembre 1854[14], di epoca successiva alla guglia napoletana.
Ad allontanare ogni possibilità di individuare una data certa per il monumento fu Francesco Castrignano, che nel 1930 nella sua storia di Nardò̀, senza citare alcuna fonte, scrisse che la guglia era stata eretta nel 1769 sotto il vescovato di Marco Aurelio Petruccelli, su iniziativa dell’abate Francesco Antonio Giulio, come ringraziamento per lo scampato pericolo dal terremoto del 1743[15].
Da quel momento il 1769 sarà indicato erroneamente come anno di costruzione della guglia da tutti gli studiosi che si interesseranno dell’argomento[16]. Come accennato prima, l’autore della guglia è ancora ignoto. Tutte le attribuzioni fatte dai vari studiosi non sono supportate da alcuna analisi o prova documentale.
Partiamo proprio da quella che vuole realizzata dal Giovan Bernardino Genoino, architetto gallipolino, autore della cattedrale di S. Agata, la cui morte però è attestata tra il 1653-55, e quindi subito da scartare visto che per ovvie ragioni anagrafiche non poteva essere l’autore della nostra[17]. Quello che colpisce un questa attribuzione è che a nessun studioso sia venuto in mente di evidenziare la singolare omonimia tra architetto gallipolino e Giuseppe Genoino, autore della guglia napoletana. In assenza di documenti, vista la contemporaneità delle due opere alla luce della nuova datazione, sarebbe stato più credibile immaginarlo anche autore della guglia neritina.
Altro elemento poco chiaro nella vicenda della guglia neritina è proprio l’identità del committente, che a quanto ci riferisce il Castrignanò fu l’abate Francesco Antonio Giulio[18]. Cercando nella storia della diocesi neritina scritta dal Mazzarella dell’ abate Francesco Antonio Giulio non v’è alcuna traccia, di contro ritroviamo l’omonimo l’abate Pasquale Giulio, assai più noto, che fu vicario capitolare del vescovo A. Sanfelice ( 1708-1736) e di quello successivo F. Carafa (1736-1754)[19].
Alla luce di ciò, non è difficile immaginare che quello di datazione non sia stato l’unico errore commesso dal Castrignanò, e che fu l’abate Pasquale Giulio ad occuparsi di raccogliere le oblazioni dei fedeli e commissionare l’opera.
La retrodatazione di circa vent’anni della guglia neritina rispetto all’anno 1769, ci riporta inoltre a considerare con maggiore insistenza che l’idea di realizzare una guglia dedicata all’Immacolata, collocata nella piazza principale della città, risale agli anni del vescovo Sanfelice.
La riprova può essere data dalla presenza nel Corpus sanfeliciano, conservato presso il Museo di Capodimonte, di un disegno preliminare per la guglia dedicata all’Immacolata[20]. Non è da escludere quindi, che già prima del terremoto del 1743 sia maturata nell’animo del vescovo l’idea di realizzare nel cuore della città un’opera analoga a quella eretta nel 1731 a Bitonto, come ringraziamento per lo scampato pericolo del terremoto[21]. È quindi probabile che il vescovo diede incarico al fratello architetto per realizzare una guglia da elevarsi nella piazza principale della città, dopo aver completato la piazza su cui ancora oggi affacciano il duomo, l’episcopio e il seminario[22].
Il disegno di Capodimonte evidenzia una struttura con sviluppo verticale che presenta nella parte alta elementi architettonici riconducibili alla guglia di S. Domenico del Fanzago, ma a differenza di quest’ultima è sorretta da un alto basamento di forma ottagonale, recante un evidente stemma vescovile, ai cui lati si distinguono due statue non riconoscibili.
In cima una statua della Vergine poggiata su una sfera di marmo, sorretta a da un grande capitello corinzio, raccordato al resto della guglia tramite quattro eleganti volute tipicamente sanfeliciane. Il progetto immaginato dal Sanfelice non fu realizzato, presumibilmente per la sopraggiunta morte del vescovo nel gennaio 1736, ma il disegno appena descritto, anche se espressione di un primo momento progettuale, contiene tutti gli elementi di quella che da li a qualche anno più tardi fu eretta e inaugurata da un altro vescovo napoletano, monsignor Francesco Carafa. Ultimati i lavori della guglia, nel settembre del 1749 giunse da Napoli la statua di marmo dell’Immacolata da collocare in cima all’obelisco realizzata da Matteo Bottigliero.
Fu ricevuta dal vescovo davanti ad una delle porte della città, benedetta e condotta “in trionfo” per le principali strade cittadine, presenti anche tutte le autorità civili e religiose. Giunti nella pubblica piazza completamente illuminata a festa la statua fu posta vicino alla guglia ed intonato il Te Deum in rendimento di grazie. La festa durò fino a notte fonda allietata da musiche con continuo sparo di mortaretti e fuochi d’artificio[23]. Non conosciamo il momento in cui la statua fu effettivamente collocata in cima alla “colonna”, ma possiamo immaginare che avvenne nei giorni seguenti.
Ed è così che il popolo neritino, che da sempre ha creduto che la sua guglia dell’Immacolata collocata al centro della piazza principale fosse di molto posteriore a quella napoletana, si ritrova, come una piacevole sorpresa, completata ben cinque anni prima.
Anche la città di Nardò, ogni 8 dicembre, rende omaggio alla Vergine Immacolata ponendo ai piedi della statua posta sulla sommità della guglia un omaggio floreale.
Napoli chiama, Nardò risponde! J
Note
[1] Il titolo è un libero adattamento della celebre frase di Luigi Necco giornalista sportivo napoletano.
[2] Il re Carlo III e la regina Amalia Walburga di Sassonia si recarono nella chiesa del Gesù per ammirare la statua d’argento dell’Immacolata fatta realizzare da padre Pepe. In quell’occasione il re avvicinatosi al gesuita gli disse: «Padre Pepe, Maria Santissima Immacolata non deve solamente stare a vista dei fedeli, chiusa in chiesa, ma [deve stare] ancor all’aperto e al pubblico», cit. M. Volpe, I Gesuiti nel Napoletano, Napoli 1915, p. 28.
[3] “…subito diede a farne i disegni, che furono fatti da molti Architetti, cioè da D. Mario Gioffredo da D. Giuseppe Astarita, da D. Giustino Lombardo da D. Ignazio de Blasio da D. Giuseppe Genuino da D. Giuseppe di Fiore Napoletani, e da D. Domenico de Rossi Fiorentino. Se ne fecero ancora dei modelli in piccolo, uno dal Rossi, un altro dal Fiore, ed il terzo dal Fumo, e tutti si presentarono al Re acciocchè scegliesse Egli quello, che più gli piacea e su in fatti scelto per l’appunto quello che presentemente sì vede disegno di D. Giuseppe Genuino; di cui si ha pure una stampa incisa dal Gaultier in due fogli di carta reale”, cfr. P. D’Onofri, Elogio estemporaneo per la gloriosa memoria di Carlo III Monarca delle Spagne e delle Indie. Nella stamperia di Pietro Perger Napoli, 1791 p. 225-226;
Carlo Celano, Delle notizie del bello, dell’ antico, e del curioso della città di Napoli. Quarta Edizione, Giornata Terza, Napoli 1792, p. 35.
[4] L’incisione della guglia dell’Immacolata con le statue dei regnanti, è presente nel volume di Carlo Celano, Delle notizie del bello, dell’ antico, e del curioso della città di Napoli. Quarta Edizione, Giornata Terza, Napoli 1792, p. 35.
[5] Alta 130 palmi, la guglia costò 80 mila ducati, mentre la statua, con il suo ricco piedistallo di marmi, costò 20 mila ducati. Per entrambe ci furono spontanee oblazioni. Al re Carlo III, che voleva dare il suo contributo, il gesuita disse che avrebbe fatto un torto alla Madonna; comunque, accettò la franchigia del ferro, della calce e dei marmi e 600 ducati per la cancellata. M. Volpe, I Gesuiti nel Napoletano, Napoli 1914, vol. 2., p. 36; P. Degli Onofri, Elogio estemporaneo, cit. p. 229.
[6] “Già nel 1976 Teodoro Fittipaldi traeva dal numero 10 di Avvisi dell’8 febbraio 1746 il giorno in cui veniva posta la prima pietra della guglia dell’immacolata, costruita di fronte alla chiesa del Gesù Nuovo di Napoli su iniziativa di padre Francesco Pepe, i cui lavori vennero solennemente iniziati il 1 febbraio di quell’anno; l’interessante documento correggeva così la data erronea del 7 dicembre 1747 dovuta ad un refuso di Pietro degli Onofri che aveva, fino ad allora, rappresentato l’unica fonte per la datazione dell’avvenimento” Cit. U. di Furia, Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò, “Il Delfino e la mezza luna, Studi della Fondazione Terra d’Otranto”, maggio 2013 p. 90.
[7] Per padre Pepe era fondamentale che un controllo quotidiano sul cantiere gli venisse garantito da persona di sua provata fiducia sia sul piano professionale che personale: e la figura di fra Filippo d’Amato rispondeva perfettamente a queste esigenze. Fu infatti il gesuita marmoraro che organizzò il cantiere, «approntò tutto, scelse gli operai…» e ogni settimana si presentava al padre Pepe per avere il denaro per pagare le spese. Sta in Gaia Salvatori, Corrado Menzione, Le guglie di Napoli: storia e restauro, Napoli 1985, p. 82.
[8] P. D’Onofri, Elogio estemporaneo, cit. p. 226.
[9] U. di Furia, La statua dell’Immacolata sulla guglia e nella chiesa del Gesù Nuovo in “Napoli Nobilissima”, sesta serie, vol. II, ff. V–VI, settembre–dicembre 2011, p. 234.
[10] L’interessantissimo documento ritrovato dal di Furia corregge definitivamente la datazione della guglia di Nardò, che passa dal 1769 al 1749, anticipando di venti anni la sua costruzione. Cfr. U. di Furia, Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò, in Il delfino e la mezzaluna, anno II, n. 1, 2013, p. 89-96.
[11] G. De Cupertinis, Architetti e maestranze del XVIII sec.: il caso di Nardò e di altri centri minori del Salento, in L’arte di fabbricare e i fabbricatori – Donato Giancarlo De Pascalis, 2001, pp. 59-63.
[12] Una delle statue presenti sulla guglia è sempre stata erroneamente attribuita a S. Domenico (F. Castrignanò 1930), ma è evidente che si tratta di S. Gioacchino, marito di S. Anna e padre di Maria.
[13] U. di Furia, Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò, cit. p. 91.
[14] Il Vetta affermava che in quei giorni “Nella piazza principale faceva vaghissima mostra la guglia, che, innalzata molti anni prima, ad imitazione di quella eretta nel largo della trinità maggiore di Napoli, appariva con un bel disegno illuminata, per gran numero di lumi che splendevano in vetri colorati”, cit. E. Mazzarella, Le sede vescovile di Nardò, Galatina 1972, p. 306.
[15] F. Castrignanò, La storia di Nardò esposta succintamente, Galatina 1930, p. 118.
[16]L’errore può essere dovuto ad un refuso da parte di Francesco Castrignano, che indicò come anno di costruzione il 1769 invece di 1749.
[17] Nel saggio l’autore scrive: “Mi è stato detto in Nardò̀ che esso è opera dell’architetto Giovan Bernardino Genoino di Gallipoli, autore dell’insigne cattedrale di sant’Agata in Gallipoli stessa; ma non ho trovato in documenti scritti una conferma a questa notizia”. Cfr. G. Palumbo, Guglie di stile barocco nella penisola salentina, in Arte Cristiana, vol. XL, n. 1, gennaio 1953, pp. 18–21.
[18] F. Castrignanò, cit., p. 118.
[19] Ab. Pasquale Giulio, dottore nelle due leggi, licenziato in s. Teologia, nacque a Nardò da famiglia patrizia è compì gli studi nel seminario vescovile. Nel 1722 ricevette dal vescovo Sanfelice alcuni benefici ecclesiastici, e nel 1726 fu nominato canonico della Cattedrale. Resasi vacante la sede vescovile il 1° gennaio del 1736, nonostante fosse tra i più giovani canonici, fu eletto vicario capitolare. Il vescovo successivo Carafa, verso la fine del 1747, lo nomino arcidiacono della cattedrale. Dopo la morte del vescovo fu rieletto per la seconda volta vicario capitolare e nel 1754 indisse la sua prima visita pastorale. Sta in E. Mazzarella, cit., pp. 275-276, 269.
[20] Nel Corpus dei disegni sanfeliciani presso Capodimonte è presente il disegno per una guglia tradizionalmente attribuita come guglia di S. Gennaro, ma è evidente che si tratta di una guglia dedicata all’Immacolata; cfr. G. De Cupertinis, Ferdinando Sanfelice architetto a Nardò, in Antonio e Ferdinando Sanfelice: il vescovo e l’architetto a Nardò nel primo Settecento, a cura di M. Gaballo, B. Lacerenza, F. Rizzo, Lecce 2003, pp. 61–76.
[21] Epigrafe nel monumento dell’Immacolata a Bitonto in memoria del terremoto del 20 marzo 1731, in G. Pasculli, “La storia di Bitonto”, vol.1, pp.308-309; S. Milillo, La Chiesa e le chiese di Bitonto: chiese di Puglia, Ed. Centro ricerche di storia e arte, 2001, p. 6. Il terremoto del 20 marzo del 1731 interessò la Capitanata e il suo centro amministrativo principale, Foggia, che nella realtà del Regno di Napoli rappresentavano un polo di grande importanza per gli equilibri finanziari, economici e politici dello Stato.
[22] G. De Cupertinis, Il rapporto progetto-cantiere negli edifici neritini di Ferdinando Sanfelice, Atti del convegno “Un vescovo, una città” Antonio Sanfelice e Nardò (1708-1736), Feb 2012, pp. 102-122; G. De Cupertinis, Ferdinando Sanfelice e il restauro della Cattedrale di Nardò, in Sancta Maria de Nerito. Arte e devozione nella Cattedrale di Nardò, a cura di Daniela De Lorenzis, Marcello Gaballo, Paolo Giuri, Galatina, 2014, pp 165-166; G. De Cupertinis, Ferdinando Sanfelice architetto a Nardò, cit. pp. 68-75.
[23] L’intera vicenda è tratta da Avvisi, n°42, Napoli 16 settembre 1749, pubblicata integralmente da U. di Furia in Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò, cit. p. 91-92, e che qui riproponiamo: “…Dalla città di Nardò siamo ragguagliati, qualmente erettosi nella Piazza principale di quella un nobile, e magnifico obelisco, in onore della ss. Vergine Immacolata di pure limosine spontaneamente offerte, e non richieste; giunse ivi ultimamente da questa capitale una statua di marmo finissimo di palmi nove della stessa gran Vergine Immacolata, di eccellente scoltura, da mettersi nella cima di detto obelisco. Ricevuta processionalmente in una delle porte della città da Mons. Vescovo D. Francesco Carafa, e da lui Pontificalmente vestito ancor benedetta fu condotta in trionfo per le principali strade riccamente adobbate, seguita dal capitolo, Mansionarj, e clero; coll’intervento ancora degli ordini regolari, di tutto il Magistrato, Nobiltà, e Popolo innumerevole tra le pubbliche acclamazioni, e continovi viva di giubilo, tra le armoniche melodie di ben concertati istrumenti, e tra un continuo sparo di mortaretti, e fuochi artificiali; e giunti nella pubblica Piazza fu depositata la statua vicino all’obelisco, ed intonato il Te Deum in rendimento di grazie si proseguirono le Feste di sparo, ed illuminazioni fino alle molte ore della Notte. Detta statua è stata scolpita da D. Matteo Bottigliero scultore Napolitano”.
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