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L’arte del costruire nel Salento. Il cemento e il conglomerato cementizio
Continuiamo la serie dei saggi scritti dall’ingegnere Mario Colomba, che ha lasciato questo mondo oggi 6 agosto 2021. I suoi scritti, pietre miliari per la conoscenza dell’edilizia nel Salento, continueranno ad essere pubblicati su questo spazio, per tenere vivo il suo ricordo e il suo sapere
di Mario Colomba
L’uso del cemento come materiale da costruzione nelle sue varie applicazioni, dal cemento armato ai vari tipi di malta, rappresenta l’inizio di un cambiamento epocale nella pratica costruttiva, non solo dal punto di vista tecnologico ma anche e soprattutto per l’introduzione di una diversa mentalità. Si affermano nuove e diverse abilità personali che non riguardano più la corrispondenza con il manufatto, la capacità creativa o la ricerca della perfezione dei particolari. Prevale l’interesse della produzione e dell’economia di scala in cui l’individuo non rappresenta più il riferimento principale. E’ l’affermazione di un nuovo ambiente di lavoro in cui tutto è già programmato, in cui non si tollerano più margini di tempo impiegato per inventare o soltanto per riflettere.
Ogni addetto si deve limitare a svolgere, nel minor tempo possibile e comunque non superiore a certi standards codificati, le operazioni che gli vengono affidate senza aggiungere nulla di suo.
Col passare del tempo, man mano che prendono piede le nuove pratiche costruttive, si perdono le conoscenze delle nozioni tradizionali trasmesse oralmente. Di conseguenza, viene meno il rispetto personale per i depositari della conoscenza delle tecniche e tecnologie ormai desuete. Si verifica così una profonda modificazione dell’ambiente di lavoro. La divulgazione di elaborati progettuali (disegni e schede tecniche) esige un minimo di conoscenze che di fatto determina una discriminazione, emarginando chi, per difetto di istruzione o difficoltà di apprendimento, non è più in grado di aggiornarsi e di adeguarsi alle esigenze della produzione e della produttività.
In un sistema produttivo come quello delle costruzioni si verifica un cambiamento radicale che si manifesta prepotentemente, stimolato da una imponente domanda. Localmente però l’abbandono dei vecchi sistemi costruttivi presenta una certa viscosità. Vi è riluttanza, per esempio nella realizzazione di edifici a struttura intelaiata. ad abbandonare l’impiego della pietra di tufo per l’esecuzione di tramezzature o murature di tompagno o nell’adoperare materiali alternativi alle chianche di Cursi per le pavimentazioni solari. Si vanno conservando tuttora, anche per salvaguardare numerosi posti di lavoro, tecniche, materiali e tecnologie che mal si adattano alla coesistenza con strutture intelaiate elastiche.
Il progressivo contemporaneo sviluppo della meccanizzazione, provoca la nascita di specializzazioni del tutto nuove e fortemente settorializzate, in deciso contrasto con le eclettiche capacità degli addetti tradizionali di qualifica più elevata (cucchiare) che erano in grado non solo di realizzare murature ma anche di mettere in opera pavimentazioni o intonacare pareti.
Già negli anni ’30 si registrano da noi le prime applicazioni del cemento come nuovo materiale da costruzione. Però, è solo nel dopoguerra che si diffonde progressivamente l’uso del cemento portland , prodotto negli stabilimenti di Monopoli o Modugno dalla Italcementi.
L’uso più diffuso si riscontra, inizialmente, per la confezione della malta cementizia e della malta bastarda, che si utilizzano sia per la posa in opera che per la fabbricazione di pavimentazioni nelle diverse tipologie (pavimenti in cemento e graniglia levigati a mano, mattonelle in pastina di cemento per pavimenti decorati, marmette in cemento e scaglie di marmo, ecc.) con limitati impieghi nel conglomerato cementizio per strutture in c.a. semplici (architravi, cordoli, ecc.) fino all’impiego più esteso�� nella realizzazione delle coperture piane (“alla margherita”).
(continua)
Per le parti precedenti vedi qui:
Libri| L’arte del costruire a Nardò e dintorni – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)
L’arte del costruire nel Salento. Gli arnesi del mestiere – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)
Maestri e maestranze nel cantiere edile a Nardò e nel Salento. La produzione edilizia – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)
L’arte del costruire nel Salento. Strutture murarie di copertura: archi e volte – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)
Cantiere edile (fondazioneterradotranto.it)
Arte del costruire e riutilizzo presso il popolo salentino – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)
Reclutamento di manodopera e approvvigionamento di materiale edilizio nelle costruzioni del Salento – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)
L’arte del costruire nel Salento. I materiali da costruzione
L’arte del costruire nel Salento. I materiali da costruzione
#costruire nel Salento#Mario Colomba#tecniche costruttive salentine#Miscellanea#Spigolature Salentine#Tradizioni Popolari di Terra d’Otranto
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L’arte del costruire nel Salento. La squadratura dei conci di tufo
di Mario Colomba
Nel Medio Evo, era diffusa la convinzione che la capacità di lavorare la pietra da taglio fosse un dono divino. Per questo agli scalpellini era consentito uno speciale status socio-politico di particolare privilegio che, per esempio consentiva loro di spostarsi con notevole libertà anche nell’attraversamento di frontiere di stati diversi.
In effetti, specialmente agli occhi dei non addetti, aveva qualcosa di magico il risultato finale di un concio ben squadrato, realizzato partendo da quello abbastanza irregolare e quasi informe proveniente dalla cava.
La squadratura dei conci di tufo, insieme allo spegnimento della calce viva in zolle, costituiva l’operazione preliminare per l’avviamento del cantiere.
I conci di tufo provenienti dalle cave, venivano lavorati dagli squadratori (‘mmannare) che agivano solitamente in coppia. il numero minimo di due (in coppia affiatata che chiacchierando, anche di fatti personali, riuscivano a superare meglio la monotonia ripetitiva del lavoro) era necessario per l’aiuto reciproco che si prestavano nel caricare e scaricare i conci dal banco.
I conci lavorati da ciascun squadratore dovevano essere accatastati in un piliere separato; ciò, per due ordini di motivi:
perché il maestro potesse controllare la produttività del singolo;
perché le abitudini personali nel taglio dell’assetto del concio (lieve sottosquadro di alcuni mm.) dovevano essere note al muratore (la cucchiara ) che ne teneva conto nell’effettuarne la messa in opera.
Già nell’osservare l’esecuzione di questa operazione preliminare (predisposizione del banco) fatta dallo squadratore avventizio, l’occhio esperto del maestro riusciva a ricavare utili informazioni sulla capacità professionale del soggetto. Così come, il maestro difficilmente sbagliava nell’individuare l’abilità di una cucchiara o di una ‘mmannara osservando semplicemente il modo di impugnare i ferri del mestiere. La predisposizione del banco poteva già essere un’operazione discriminatoria nel senso che, uno squadratore che non era in grado di assicurare la necessaria stabilità del banco, che doveva essere ben fermo e non subire spostamenti sotto i colpi della mannaia, non era in grado di ottenere la precisione e la qualità del risultato richiesti. I conci, scaricati in cantiere dal tràino, venivano squadrati, scelti e selezionati in base alle caratteristiche della pietra ed alla tipologia di lavorazione (purpitagno, curescia, cantone, tuttuno, ecc.) e accatastati in pilieri separati, prima di essere utilizzati per la posa in opera. Per contenere al massimo la fatica e lo sforzo fisico, lo squadratore trasportava il concio grezzo, prelevandolo dalla massa scaricata dal traino proveniente dalla cava, facendolo rotolare in posizione quasi verticale, sugli spigoli della testa, per poi sollevarlo solo in prossimità del banco, sul quale veniva collocato per la lavorazione. da dove, quando era squadrato, veniva prelevato, col suo aiuto, dal manovale che lo portava sulla linea.
Preliminarmente, nel concio da cm. 20 di spessore disposto orizzontalmente sul banco, veniva regolarizzata, disponendola in posizione verticale, la migliore delle due superfici maggiori (minori, nei conci da cm. 30 di spessore) che diventava la faccia (la facce), cioè la superficie di riferimento. in questa operazione veniva usata con destrezza la parte lunga dello squadro metallico, impugnato con la mano sinistra, per definire l’entità e la posizione delle irregolarità da eliminare con l’uso della mannara. Successivamente, si disponeva la faccia in piano, rivolta verso l’alto e si procedeva, con l’uso dello squadro, a tagliare ad angolo retto, prima l’assetto e poi l’altra faccia parallela, detta taglia, con una staggia (tagghia) della dimensione di 25 cm. la faccia posteriore detta “dietro” (tretu) veniva tagliata per metà rivolgendo verso l’alto, prima l’assetto (assiettu) e poi, per l’altra metà, la taglia (tagghia), senza l’uso dello squadro; si aveva così il concio “perpedagno“ (purpitagno).
Nel caso di impiego nella costruzione di muraglie, cioè di muri a doppio paramento, i conci non venivano squadrati sulla faccia posteriore e venivano detti dialettalmente “curescie” (cioè cinture). Per queste si impiegavano i conci di spessore insufficiente per essere lavorati a “perpedagno”, mentre per il nucleo centrale di murature a notevole spessore, a più di due teste, si impiegavano i conci “cacciati a tagghia” cioè lavorati solo per definirne l’altezza (la taglia) poiché le facce non erano viste. La squadratura del concio avveniva con l’uso della mannaia, dello quadro metallico e della tagghia e con le seguenti modalità: Nei cantieri più importanti c’era un numero rilevante di squadratori che fornivano direttamente alla cucchiara i conci squadrati da murare o i pezzi speciali. Il concio da squadrare veniva disposto orizzontalmente in bilico sulla testa del concio di banco e parzialmente a sbalzo di qualche centimetro per consentirne il taglio con la mannaia fino al bordo inferiore. Il banco (in dialetto ancu – da cui ncaddhrare – scaddhrare cioè mettere o togliere dal banco) era costituito da un concio di tufo disposto in piedi, in posizione verticale e, quando il suolo lo permetteva, parzialmente infisso nel suolo per alcuni centimetri. Generalmente, se disponibile, era costituito da un “pizzotto”, affiancato alla base da un secondo concio più corto, disposto disteso (sul lato sinistro) per aumentare la stabilità del primo e su cui venivano saltuariamente appoggiati gli attrezzi che di volta in volta non venivano utilizzati nel corso della lavorazione (il metro, la tagghia, lo squadro metallico ).Prima di iniziare l’operazione della squadratura del concio, veniva posta particolare cura nella predisposizione del banco sul quale doveva essere appoggiato il concio da squadrare.
Altre tipologie particolari erano rappresentate da:- i “cantoni” cioè i conci angolari, scelti tra i più integri, nei quali, una delle teste veniva lavorata con l’uso dello squadro sia in verticale che in orizzontale.
– Le legature (tuttuni o legatore) di lunghezza pari allo spessore delle murature a doppio paramento, che venivano tagliate a misura e lavorate solo sulle teste e sugli assetti ma non sulle facce.
– i riattati o riatticati, perimetrali ai vani finestra, analoghi ai precedenti ma sagomati con mazzetta e battuta, con o senza sguincio e, a volte con risalto di
cornice sporgente.
La qualità della muratura era fortemente condizionata dalla precisione della squadratura dei conci. L’integrità degli spigoli condizionava la larghezza della stilatura e rasatura dei comenti che doveva essere quanto più stretta possibile, mentre il parallelismo degli assetti ne condizionava l’elegante linearità orizzontale senza ondeggiamenti.
Le pietre di lamia o di gliama tonde e quadre erano i conci utilizzati per la costruzione delle volte murarie. le p.d.l. tonde o quelle quadre erano, normalmente, ottenute segando per metà i pezzotti dello spessore di cm.30. Questa operazione si otteneva con l’uso del “sirracchiu” che veniva azionato da due persone disposte di fronte che generavano il movimento alternativo dell’attrezzo, partendo dalla testa del pezzotto disposto in posizione verticale.
Le p.d.l. tonde, che venivano impiegate nella realizzazione della calotta della volta, venivano lavorate sulla faccia asportando longitudinalmente un piccolo spessore di materiale crescente da zero, in corrispondenza del bordo della testa, fino a cm 1,5 al centro del concio, lasciando inalterato il profilo rettangolare delle teste.
Le p.d.l. quadre, che venivano utilizzate nella costruzione delle “formate” delle volte, venivano lavorate sulla faccia asportando trasversalmente un piccolo spessore di materiale crescente da zero fino a cm 1,5 al centro del concio, perciò lasciando inalterato il profilo degli assetti laterali.
Le appese, che venivano preparate da squadratori esperti che le montavano a secco, a piè d’opera, per verificarne preventivamente la perfetta stereotomia e gli incastri con gli incroci delle murature perimetrali dei vani da coprire.
Particolare abilità e qualificazione era richiesta poi dalle lavorazioni speciali per la realizzazione di conci scorniciati o addirittura scolpiti con tutte le difficoltà portate da una pietra – l’arenaria – non sempre omogenea come la pietra leccese e, talvolta, con la presenza di catene – strati di calcare duro e compatto all’interno del concio – che spesso ne provocavano la irreparabile rottura.
C’era comunque, alla base di tutto, un lavoro di squadra, una sinergia, che consentiva spesso senza l’uso del linguaggio la realizzazione di manufatti di pregio semplicemente ripetendo con cura e diligenza gesti e operazioni le cui modalità erano state tramandate da secoli praticamente senza alcuna variazione.
I pochi termini, generalmente dialettali, che venivano impiegati erano sufficienti per trasmettere le informazioni necessarie al conseguimento del risultato. Basta citare per questo, l’uso della mezza croce; sorta di falso squadro costituito da due vergelle di ferro (25X3) della lunghezza di circa 30-35 cm. incernierati ad una estremità, che veniva adoperata per segnare sulla faccia della p.d.l. rivolta verso l’alto, la traccia dell’inclinazione del taglio cioè serviva per determinare il verso del taglio delle teste sinistre o destre delle p.d.l. tonde; il comando era “a nnanzi” (avanti, davanti a sè) per le destre e “fore” (fuori, all’esterno) per le sinistre. Comando che veniva dato oralmente al manovale il quale, scendendo dall’impalcatura di servizio posta all’altezza delle appese, portava fisicamente la mezza croce, impostata dal muratore, allo squadratore che la riportava sul concio da sagomare, cioè per modellare la testa della p.d.l.. secondo il comando ricevuto.
L’attaccamento diretto al risultato finale era molto diffuso specialmente da parte dello squadratore che intravedeva nel concio che stava squadrando, unica fonte del suo reddito, le sue stesse personali possibilità di sopravvivenza ed anche per questo ci metteva, con la dovuta sollecitudine richiesta dalla produttività, tutta la cura e la precisione di cui era capace attirando l’attenzione del maestro che ne valutava la capacità e la produttività. La delicatezza, con cui il concio squadrato veniva accatastato nel piliere personale per evitare “sgrugnature” degli spigoli, rappresentava una sorta di affettuoso distacco, come il commiato da una propria creatura che viene considerata con spirito di compiacimento e come attestato della propria abilità.
Non era infrequente che venisse verificato da parte dei committenti più esigenti, perfino l’integrità interna del singolo concio squadrato che, se percosso con un sasso non emetteva un suono metallico ma un tonfo sordo, rivelava la presenza di fratture interne e quindi era da scartare.
Per le parti precedenti vedi qui:
L’arte del costruire nel Salento. I materiali da costruzione
#costruire nel Salento#Cucchiara#mannara#Mario Colomba#tecniche costruttive salentine#tufi#Ambiente#Artigianato di Terra d'Otranto#Miscellanea#Spigolature Salentine
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Reclutamento di manodopera e approvvigionamento di materiale edilizio nelle costruzioni del Salento
di Mario Colomba
L’approvvigionamento dei materiali
La piazza principale del paese era fisicamente suddivisa in due parti a livello differenziato. la presenza di un piano sopraelevato di un gradino che raccordava la “colonna” con il Sedile, sede storica del Circolo cittadino, limitava la parte semideserta che era di esclusiva pertinenza del Circolo per il passeggio dei soci.
La zona più estesa, ma a quota inferiore, compresa tra l’ex Pretura e l’imbocco di via Duomo, era gremita di persone. vi stazionavano i fattori, i caporali e i numerosi braccianti agricoli alla ricerca di un ingaggio e per ricevere le disposizioni necessarie allo svolgimento delle lavorazioni da eseguire il giorno successivo.
l’area più ristretta, nei pressi dell’imbocco di Corso V. Emanuele II, costituiva il luogo d’incontro degli operatori delle altre attività produttive, degli artigiani, dei trasportatori, ed in genere dei fornitori di materiali da costruzione (conci di tufo, tufina, calce in zolle, acqua, ecc. ) In quel luogo, in un arco di tempo limitato a poche ore, venivano assegnati da parte dei maestri, gli ordinativi della fornitura, presso i vari cantieri, dei materiali necessari. Operazioni che, in caso di pioggia, si svolgevano nel locale del vicino bar.
Il trasporto
I conci prodotti venivano trasportati dalla cava fino al luogo di impiego a mezzo di carri (traìno) a due ruote, senza sponde, trainati da uno o, raramente, due cavalli (valenzino).
I conci venivano disposti sul pianale di carico del carro (littera) con modalità costante; generalmente tutto il pianale veniva ricoperto con due strati sovrapposti di conci. Il carico, compreso il peso del conducente (trainieri), veniva equilibrato rispetto all’asse delle ruote per non gravare eccessivamente sulla schiena dell’animale.
L’unità di misura del carico era il viaggio, che corrispondeva a 6 conci da 20 cm o a 4 conci da 30 cm di spessore.
L’andatura dei cavalli era al passo e, per questo, il materiale prevalentemente usato proveniva da luoghi distanti non più di 3-6 km. (una o due ore) dal luogo di impiego. Le cave di tufi erano ubicate nella zona di Torremozza, Tagliate, Corillo, Mondonuovo, ecc.
Un materiale di particolare pregio era la Carparina di Nardò– pietra di colore paglierino e di modesto peso specifico unito a notevole resistenza meccanica; veniva cavata solo da alcuni strati del banco di cava e solo in determinate località.
Anche per il notevole costo del trasporto, l’uso della pietra leccese proveniente dalle cave di Cursi o del carparo delle cave di Gallipoli-Alezio, era limitato a circostanze particolari imposte da motivi statici o decorativi ed alle lastre usate per le pavimentazioni solari (chianche).
da piazzasalento.it
Economia della produzione
La caratteristica principale era il riciclaggio di tutti i materiali di scarto: non si buttava niente.
Nel corso del processo costruttivo c’era sempre la possibilità di impiegare i materiali provvisoriamente scartati, tanto che, alla chiusura di un cantiere, spesso, si doveva sgomberare solo l’attrezzatura.
Tutto ciò dipendeva molto dalla diffusa sensibilità al risparmio che coinvolgeva tutti gli addetti, convinti della maggiore incidenza del costo dei materiali nell’economia generale, rispetto a quello della mano d’opera, relativamente a più buon mercato.
Per dare poi un’idea della sinergia che doveva esistere tra il muratore che metteva in opera i conci e lo squadratore che li preparava, cito ad esempio un particolare:
Il muratore, nel mettere in opera i conci di un filare, stendeva preliminarmente con la cazzuola uno strato di malta; tale strato, di spessore longitudinalmente costante, aveva trasversalmente, (per la conformazione della cazzuola con cui inevitabilmente si esercitava una maggiore pressione con la punta che assottigliava di più la malta stesa) uno spessore maggiore sul lato interno rispetto alla posizione del muratore.
Per evitare il fuori piombo della faccia del concio determinato dalla disuniformità trasversale dello strato di malta, era opportuno che la superficie dell’assetto del concio venisse tagliata leggermente “sottosquadro” di qualche millimetro, corrispondente al maggiore spessore della malta che risultava stesa verso l’interno.
Questo accorgimento era importante perché evitava al muratore la produzione di sforzi supplementari necessari per risollevare il concio già “assettato” tutte le volte che era obbligato a ridurre lo spessore eccessivo della malta sul bordo interno dell’assetto, velocizzando contemporaneamente la posa in opera del concio e quindi migliorando la produttività. In effetti, tutte le “astuzie” che venivano adoperate tendevano ad un unico superiore scopo: realizzare manufatti il più possibile perfetti, anche perché la perfezione pagava. Per esempio, la regola di realizzare corsi di muratura senza ondeggiamenti tornava utile non solo perché denotava una migliore qualità, ma anche perché rendeva più facile la costruzione del corso successivo. Infatti, la presenza di una ingobbatura del profilo orizzontale del corso in corrispondenza del giunto verticale tra due conci, a causa del naturale sfalsamento, provocava instabilità del concio superiore che “ballava”, ruotando sul punto di contatto che o doveva essere spianato o produceva un eccesso di pressione con pericolo di frattura del concio.
L’eliminazione del difetto comportava uno sforzo fisico supplementare che, se ripetuto durante la giornata lavorativa provocava un affaticamento che comprometteva la quantità della produzione.
Qui le parti precedenti dello stesso Autore:
Libri| L’arte del costruire a Nardò e dintorni
L’arte del costruire nel Salento. Gli arnesi del mestiere
Maestri e maestranze nel cantiere edile a Nardò e nel Salento. La produzione edilizia
L’arte del costruire nel Salento. Strutture murarie di copertura: archi e volte
Maestri e maestranze nel cantiere edile a Nardò e nel Salento
L’arte del costruire. Il cantiere edile a Nardò e nel Salento
Arte del costruire e riutilizzo presso il popolo salentino
L’arte del costruire nel Salento. I materiali da costruzione
#carparo leccese#Mario Colomba#pietra Carparina di Nardò#pietra leccese#tecniche costruttive salentine#Miscellanea#Spigolature Salentine
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Arte del costruire e riutilizzo presso il popolo salentino
Venerdì 16 marzo, alle ore 18.30, presso la libreria “I Volatori” a Nardò, si presenterà il volume di Mario Colomba: Le pratiche dell’arte del costruire nel territorio di Nardò e dintorni. Appunti di viaggio nel mondo dei fabbricatori e degli artigiani nella metà del ’900, già sommariamente presentato
http://www.fondazioneterradotranto.it/2018/03/12/libri-larte-del-costruire-nardo-dintorni/
Per gentile concessione dell’Autore pubblichiamo uno dei capitoli del libro
L’ambiente di lavoro
di Mario Colomba
Sotto l’aspetto strettamente meccanico, in tutte le attività produttive, vi era un continuo confronto tra la forza di gravità e la forza fisica generata dall’uomo o dagli animali. L’unico aiuto tecnologico era rappresentato dall’uso delle sole macchine semplici conosciute da tempi immemorabili: la leva, la carrucola, il verricello ed il piano inclinato.
Nell’ambiente di lavoro, le varie attività erano regolate dall’esercizio della forza fisica dell’uomo, sapientemente sfruttata, senza superare i limiti delle facoltà fisiche individuali, in equilibrio con l’ambiente naturale e sociale, in una parola con il contesto.
Ma vediamo com’era questo ambiente di lavoro.
Operando una sorta di retrospettiva, il primo aspetto che viene spontaneo osservare è il perfetto equilibrio tra le varie attività umane e l’ambiente naturale.
Una prova di questo equilibrio era, per esempio, la pressoché assenza di rifiuti. Principalmente, si evitavano gli sprechi nell’impiego di tutte le risorse disponibili, come peraltro avveniva nell’ambiente familiare anche per le risorse alimentari. I consumi erano contenuti all’indispensabile. Tutto o quasi veniva riutilizzato: in agricoltura, gli scarti vegetali e i prodotti di risulta delle potature e della rimonda come combustibile, le deiezioni degli animali (e non solo), come concime; si utilizzavano come matite per i muratori gli elettrodi di grafite dell’arco voltaico consumati, che venivano scartati dalle cabine di proiezione dei cinematografi; nell’edilizia, i conci di tufo (cuzzetti) provenienti da demolizioni venivano recuperati, i detriti tufacei ed i conci frantumati venivano impiegati per i riempimenti e per i nuclei delle murature a due teste (muraglie); anche i fabbricati semidiroccati da eventi sismici, nella ricostruzione, non venivano rasi completamente al suolo (come si userebbe oggi con l’uso di mezzi meccanici) ma si conservavano anche i brandelli di murature ancora perfettamente integre, previa rimozione anche di capitelli o pezzi scorniciati se sgrugnati, che venivano sbrigativamente rottamati nella convinzione di essere in grado di riprodurli integralmente ex novo con le stesse ed anche migliori caratteristiche di qualità.
In una sorta di economia circolare ante litteram si tendeva al riuso di tutti i materiali. C’è stato un periodo negli anni ’50, all’inizio dello sviluppo del cemento armato, in cui si raddrizzavano i chiodi usati dai carpentieri per riutilizzarli. Naturalmente, ciò dipendeva anche dal basso costo della mano d’opera rispetto a quello dei materiali.
Spesso, in fase costruttiva, si decideva la dimensione di un vano- porta o vano-finestra in base a quella di un infisso recuperato.
Nel reimpiego di materiali e nella tendenza al risparmio dominava l’arte di arrangiarsi da cui era profondamente caratterizzata la vita quotidiana.
Un esempio particolarmente evidente del diverso rapporto con le risorse ambientali è costituito dalla gestione delle canne.
Prima che si affermassero i nuovi prodotti utilizzati in edilizia per strutture leggere di separazione o di coibentazione, il materiale più usato era l’incannicciato, sia per strutture leggere di contropareti o di divisione che per coibentazione, come nel caso dei tetti. In tal modo e con il loro impiego in agricoltura per la realizzazione di “cannizzi”, utilizzati per deporvi generi alimentari da essiccare al sole o per la fabbricazione delle scope, le canne, che crescevano naturalmente lungo i corsi d’acqua ed i canali di scolo dei campi, venivano periodicamente tagliate ed utilizzate. Ora, invece, bisogna procedere continuamente al taglio ed alla distruzione di queste piante, che vengono ritenute infestanti e che, in mancanza di interventi continui di rimozione, contribuiscono in maniera significativa a contrastare il naturale deflusso delle acque nei canali di scolo dei campi, esaltando quei fenomeni alluvionali ed inondazioni cui il nostro territorio è periodicamente soggetto.
Influiva nelle scelte dei materiali da costruzione anche un altro fattore: quello dei trasporti.
Il prevalente mezzo di trasporto per la movimentazione di merci e materiali era il carro a due ruote trainato da un cavallo o due (valenzino). La velocità di percorrenza del cavallo al passo, era di circa 5 km/h e perciò si utilizzavano normalmente materiali o merci provenienti da siti di riferimento raggiungibili in una o due ore (quelli che definiremmo oggi a km zero), salvo casi particolari. Per evitare perdite di tempo ed il costo del trasporto, a volte, si preferiva interrare sul posto materiali considerati di scarto.
A tal proposito mi piace ricordare un evento di cui sono stato testimone in occasione dei lavori di ristrutturazione del Seminario vescovile (quello antico, ubicato in piazza Pio XI , di fronte alla basilica cattedrale).
L’attuale atrio interno circondato dal quadriportico era un piazzale in terra battuta, caratterizzato dalla presenza di qualche albero di mandarino, dal quale si accedeva ai locali interni di piano terra (cappella, refettorio, ecc.) ed a quelli di primo piano attraverso una scala scoperta, a staffa di cavallo, costituita da due rampe curve convergenti al primo pianerottolo scoperto sul cui parapetto era eretta la statua di S. Filippo Neri.
Nel corso dei lavori di ristrutturazione, poiché la scala andava demolita e la statua andava rimossa, per evitare onerosi costi di trasporto, i gradini monolitici, in pietra di Trani o Apricena, finemente bocciardati, vennero riutilizzati sul posto per la costruzione del marciapiede esterno sulla facciata prospiciente piazza PIO XI e la statua di S. Filippo Neri venne letteralmente precipitata (nell’operazione si staccò la testa) e affossata in una buca capiente, scavata al piede del parapetto su cui era collocata in precedenza.
Prima dell’affermarsi dell’uso delle macchine termiche ed elettriche, ogni attività umana era orientata al superamento delle forze della natura (principalmente la forza di gravità) e così, nel corso dei secoli, non era mancato il ricorso a geniali innovazioni tecnologiche che, dall’invenzione della ruota, avevano caratterizzato l’impegno delle intelligenze a creare dispositivi ed utensili per contenere gli sforzi fisici e rendere possibile ciò che naturalmente non lo era.
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