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erule · 6 years
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METAMORO JEALOUSY! AU PART 2
Fabrizio era praticamente scomparso dalla circolazione. Probabilmente aveva trovato la slovena e chissà adesso dov'era finito. Ermal scosse la testa: non voleva pensarci. Così, si ritrovò alle due di notte passate a fumare la sua sigaretta con le braccia mollemente posate sul davanzale della finestra, respirando l'aria di Lisbona.
E dannazione, se avrebbe voluto uccidere Fabrizio.
Ma davvero non riusciva a capire? Davvero non aveva notato il modo in cui lo guardava o come fingesse di battere le mani per non coprire la sua parte durante "Non mi avete fatto niente" o che si era ingelosito quando aveva pronunciato quelle parole - squallide - rivolte alla slovena? Non era una persona che rendeva lampanti i propri sentimenti, ma non gli era sembrato nemmeno di essere troppo riservato in quel campo.
Press un'ultima boccata di fumo, dopodiché fece per voltarsi ed andare a fare una doccia, ma si ritrovò a fermarsi nel bel mezzo della stanza, perché Fabrizio aveva appena aperto la porta e lo stava fissando con uno sguardo davvero molto strano.
"Fabri?"
"Me l'ha dovuto dire quel giornalista... sai, quello inglese che è sempre felice di vederci. Ho dovuto saperlo da lui".
Ermal corrucciò la fronte, confuso.
"Ma di cosa stai parlando? Non eri andato a cercare la slovena?"
"Sono andato sullo skyline per bere una birra, non ho trovato la slovena, ma quel tipo. Mi ha detto qualcosa come: 'Non sapevo che tu ed il tuo compare steste insieme'. Ovviamente mi sono fatto tradurre tutto da un'italiana che stava là. Mi ha detto: 'Gli sguardi che ti lancia... si vede che è innamorato di te'. Allora io sono andato in paranoia, perché insomma, tu non potevi mi a provare qualcosa per me, giusto? Ma poi ho pensato a quanto ti abbia dato fastidio la battuta sulla slovena ed il tuo sguardo quando sono andato via per cercarla e ho collegato", spiegò Fabrizio ed Ermal, che era rimasto senza fiato, avvertì il suo cuore battere distintamente nel petto alla velocità della luce. L'aveva scoperto, aveva davvero capito tutto, ma ora non era sicuro di volere che lui sapesse. Fabrizio compì un passo verso di lui, la porta adesso chiusa alle sue spalle. "Di' qualcosa, Ermal. Dimmi che mi sto sbagliando. Dimmi che non provi niente per me se non profonda amicizia. Dimmelo".
Ermal buttò fuori l'aria, le labbra cucite, gli occhi umidi che rifuggivano lo sguardo di Fabrizio.
"Fabrì, io..."
"Non costringermi a cercare la slovena, Ermal. Non farmelo fare. Ti prego".
Ed in quelle parole, che risuonarono nella testa di Ermal come una supplica, lui sentì anche il significato che celavano: "Non farmi andare via, perché non voglio lei, ma te. Voglio te".
"Ero geloso", fu tutto quello che riuscì a farsi sfuggire dalla bocca, un sospiro fra le labbra, ma a Fabrizio bastò.
Accorciò la distanza che li separava per baciarlo, le mani sulle guance bollenti di Ermal, il sapore di nicotina sulla punta della lingua e quella sensazione di caduta nel vuoto nello stomaco.
Si staccò un attimo per guardarlo e lo vide sorridere. Ermal era bello quando sorrideva, perché sembrava felice, felice come non lo appariva mai.
"Spero che i vicini non si lamentino, stanotte", disse Fabrizio, ridacchiando.
"Non ti preoccupare", rispose Ermal, "c'abbiamo sotto la slovena".
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levysoft · 5 years
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4 novembre 1869. Nel Regno Unito s’inizia a pubblicare un settimanale: Nature, si chiama. Farà parecchia strada. Fino a diventare oggi, insieme alla concorrente Science, una delle riviste scientifiche più importanti e prestigiose al mondo. Di cui Elena Cattaneo parla come “marchio di garanzia della ricerca, contributo prezioso a dibattiti sociali importanti come quelli sui vaccini, terreno che mette a disposizione dei ricercatori di tutto il mondo dati su cui far crescere la scienza”. Qualche numero e dato: nei suoi 150 anni di storia, Nature ha pubblicato un totale di oltre 400mila contenuti; la proporzione delle autrici donne è aumentata nel tempo (si attesta oggi intorno al 30% sul totale); si è allargata anche la provenienza geografica degli autori così come il numero medio di autori per articolo. All’inizio della storia del giornale, le parole chiave che si trovavano più frequentemente nei titoli e negli abstract degli articoli erano aurora, Sole, meteore, acqua e Terra. Rimpiazzate oggi da cellula, quanto, dna, proteina e recettore. Elogi sperticati (e auguri sinceri) a parte, va ricordato che anche riviste blasonate come Nature e Science non sono immuni da critiche: impossibile non citare l’infuocato j’accuse di Randy Shekman, Nobel per la medicina 2013, che le attaccò sostenendo che “rovinano la scienza mercificandone i contenuti e spingendo i ricercatori ad aggiustare i risultati”, un tema che qui su Wired abbiamo trattato estensivamente. Lasciando da parte le controversie, vi proponiamo i dieci articoli più importanti della storia di Nature, quelli che per un motivo o per un altro hanno segnato profondamente la scienza e il modo di fare ricerca.
C’era una volta il kaone
Siamo nel 1947. Due fisici delle particelle, George Rochester e Clifford Butler, che stanno studiando le interazioni tra raggi cosmici e una piastra di piombodel loro rivelatore. E si accorgono di una traccia strana, a forma di V, che nasconde qualcosa di ancora più strano: un piccolo gap tra il vertice della traccia e la piastra di piombo. Il segnale, arguiscono i due, della produzione di una particella invisibile e neutra, circa mille volte più pesante di un elettrone, poi immediatamente decaduta in due particelle neutre. Si trattava del cosiddetto kaone neutro, la cui identificazione darà la stura, a cascata, alla scoperta di molte altre particelle che andranno a comporre il complicato puzzle del Modello standard così come lo conosciamo oggi.
Ecco a voi gli anticorpi monoclonali
1975. Nature pubblica un articolo a firma di due immunologi, Georges Köhlerand César Milstein, in cui si descrive come sia possibile realizzare linee cellulari in grado di produrre anticorpi con una specificità predeterminata. Quelli che passeranno alla storia come anticorpi monoclonali. Ossia anticorpi prodotti da cellule ibride e capaci di riprodursi in vitro all’infinito, in copie identiche o cloni (donde il nome monoclonali): le cellule ibride, o ibridomi, sono a loro volta ottenute dalla fusione tra i linfociti B, un particolare tipo di anticorpi, con cellule di mieloma di topo. Fu proprio questa l’intuizione geniale di Köhler e colleghi – che nove anni più tardi si aggiudicheranno il premio Nobel per la Medicina –: normalmente, infatti, i linfociti B coltivati in laboratorio hanno vita brevissima e quindi non possono essere usati per la produzione di altri anticorpi. L’idea di fonderli con cellule mielomatose, che hanno una sopravvivenza maggiore, rese possibile la produzione di grandi quantità di anticorpi identici e in grado di riprodursi all’infinito. Cambiando così radicalmente la medicina, e in particolar modo l’immunologia e l’oncologia.
Una nuova specie: l’australopiteco
Torniamo indietro al 1925 e cambiamo completamente campo di ricerca, passando alla paleontologia. Raymond Dart, a capo del dipartimento di anatomia della University of Witwatersrand di Johannesburg, in Sudafrica, servendosi dei ferri da maglia di sua moglie estrasse da un pezzo di roccia un fossile piuttosto bizzarro. “Dalla roccia”, racconterà più tardi, “è emersa la faccia di un bambino, con una serie completa di denti da latte. Ero molto orgoglioso del mio bambino di Taungs [Taungs è il luogo di provenienza del fossile, nda]”. Analizzando il reperto, lo scienziato si accorgerà di qualcosa di molto strano. Il fossile ha caratteristiche ibride, simili in parte a quelle di una scimmia e in parte a quelle di un essere umano. Qualcosa di completamente sconosciuto in quel momento. Come racconta su Nature, Dart ipotizzò che il bambino fosse una sorta di anello mancante tra scimmie ed esseri umani e gli assegnò il nome scientifico di Australopithecus africanus. Anche in questo caso, una scoperta del tutto rivoluzionaria.
Dal carbonio al grafene
Si chiama C60, ed è una molecola di carbonio scoperta nel 1985 che appartiene alla stessa famiglia dei più celebri nanotubi di carbonio e del grafene: sono strutture nanoscopiche di atomi di carbonio disposti in un reticolo cristallino. La storia del C60 comincia nel 1970, nei laboratori della Rice University di Houston, in Texas, dove Eiji Osawa, un chimico teorico giapponese, predisse l’esistenza di una molecola stabile di carbonio composta da 60 atomi. La sua intuizione, però, non riscosse particolare interesse dalla comunità scientifica; le cose cambiarono quindici anni dopo, quando il chimico inglese Harry Kroto, esperto in spettroscopia molecolare, si appassionò alla questione e riuscì a identificare con precisione la struttura del C60, esattamente uguale a quella che si vede sulla superficie dei palloni da calcio – una sequenza di pentagoni ed esagoni. È proprio a partire da questa scoperta, premiata con il Nobel per la chimica nel 1996, che si arriverà due decenni più tardi alla scoperta del grafene. E a un altro Nobel, stavolta per la fisica.
C’è un buco nell’ozono
Restiamo nel 1985 e spostiamoci dai laboratori di chimica alla stratosfera sopra i ghiacci dell’Antartide. I dati analizzati da tra scienziati, Joe Farman, Brian Gardiner e Jonathan Shanklin, mostrano senza ombra di dubbio una diminuzione drastica della concentrazione di molecole di ozono sopra due stazioni antartiche, Halley e Faraday. Stando al lavoro dei tre, i livelli di ozono – sostanza indispensabile per schermare il pianeta dalle radiazioni solari – erano cominciati a calare alla fine degli anni settanta, per ridursi di circa un terzo entro il 1984. Un fenomeno che passerà alla storia come buco nell’ozono. E che pare oggi, grazie all’applicazione di protocolli stringenti che hanno vietato la produzione e l’uso di prodotti chimici che si legano all’ozono, essersi fortunatamente ridotto.
Patch-clamp, una rivoluzione per le neuroscienze
Si chiama patch-clamp technique, che forse suona meglio dell’italiano blocco di area, ed è una tecnica sviluppata nel 1976 da Erwin Neher e Bert Sakmann. Una di quelle scoperte che gli anglofoni chiamano breakthrough, rivoluzionaria. E lo è davvero: la patch-clamp technique, con cui si misurano le correnti di ioni che scorrono attraverso i canali posti sulle membrane cellulari, ha consentito ai neuroscienziati di studiare i segnali elettrici con precisione e scala mai raggiungibili prima di quel momento, sia a livello molecolare che di reti di neuroni.
Buchi, buchi, nanobuchi
Trent’anni fa nasce una nuova classe di nanomateriali. Tutto grazie alla formulazione di un principio chimico tutto sommato molto semplice, pubblicato (ovviamente) su Nature: dei template multimolecolari che consentivano l’assemblaggio ordinato di materiali con pori di diametro compreso tra 2 e 50 nanometri. I cosiddetti materiali mesoporosi, che nei decenni successivi, fino ad arrivare ai giorni nostri, hanno trovato larghissimo impiego e applicazioni, specie nel campo del trasporto dei farmaci e della separazione molecolare.
Le cellule diventano riprogrammabili
In principio siamo una sola cellula. Da cui, poi, si originano tutte le altre, che diventano man mano più specializzate e adatte a compiere una particolare attività. È la cosiddetta differenziazione cellulare, un processo che fino agli anni cinquanta si credeva essere sostanzialmente irreversibile. Il lavoro pubblicato nel 1958 da John Gurdon e colleghi cambiò tutto, suggerendo che forse effettivamente poteva esserci un modo per riprogrammare le cellule: una scoperta di importanza epocale per la biologia, da cui deriveranno, in tempi più recenti, i lavori di Takahashi e Yamanaka, che sono riusciti nel 2006 a resettarecellule di topo differenziate e riportarle allo stato pluripotente, quello da cui può originarsi qualsiasi cellula del corpo.
Due eliche, un dna
È probabilmente il paper più famoso della lista, senza voler far torto agli altri. Una paginetta pubblicata il 25 aprile 1953 a firma James Watson e Francis Crick, dal titolo “Molecular structure of nucleic acids: a structure for deoxyrobose nucleic acid”. Tradotto per i non addetti ai lavori: i due scienziati (con la collaborazione di Rosalind Franklin, i cui meriti non sono stati riconosciuti fino ai tempi recenti: ma questa è un’altra – brutta – storia) erano venuti a capo di un mistero rimasto irrisolto per 84 anni. Ossia la struttura dell’acido desossiribonucleico, conosciuto meglio come dna, sede del patrimonio genetico di ogni essere vivente: una doppia elica. E doppio Nobel per la medicina.
Il primo esopianeta attorno a un simil-Sole
Questa è storia più recente, appena tornata agli onori delle cronache. Siamo nel campo dell’astrofisica, e più precisamente nell’ambito della ricerca degli esopianeti, corpi esterni al nostro Sistema solare qualcuno dei quali – si spera – possa avere caratteristiche abbastanza simili alla Terra al punto tale da farci sperare che possa essere la dimora di altre forme di vita. E a questo proposito nella top ten di Nature non poteva mancare il lavoro di Michel Mayor e Didier Queloz, scopritori di un esopianeta orbitante attorno a una stella molto simile al nostro Sole. Il primo del suo genere, distante 50 anni luce dalla Terra, poi battezzato 51 Pegasi b, dal momento che la sua stella si chiama 51 Pegasi.  La loro scoperta ha rappresentato una grande rivoluzione nel campo: da allora, le osservazioni terrestri e quelle effettuate dai telescopi in orbita hanno permesso di scoprire migliaia di nuovi mondi, differenti per forma, dimensione, orbita, tipo di stella madre, ampliando significativamente la nostra conoscenza in materia di formazione planetaria. E aiutandoci a capire dove guardare per cercare altre forme di vita.
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Xiaomi Mi 9: top o medio di gamma?
Xiaomi Mi 9 è il nuovo smartphone top di gamma del produttore cinese, con processore Snapdragon 855, display AMOLED da 6,39” e tripla fotocamera da 48MP.
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Xiaomi Mi 9: specifiche, prezzo e recensione
A circa un anno dal suo sbarco ufficiale in Italia e forte di un buon livello di vendite già raggiunto nel nostro paese, la cinese Xiaomi ha lanciato Xiaomi Mi 9, il suo nuovo smartphone flagship, mostrato durante il Mobile World Congress di Barcellona. Caratterizzato da specifiche al top e da un prezzo pari quasi alla metà di quello di flagship concorrenti, il Mi 9 è davvero uno smartphone da non perdere? Vediamolo nella nostra recensione.
Design
Scheda tecnica
Prezzo
Recensione
Design (↑)
Come di consueto partiamo dal contenuto della confezione di vendita. Oltre al telefono e alla manualistica, troviamo un caricabatteria da 18 Watt, un cavo USB Type-C, un adattatore Type-C per cuffie jack da 3,5mm, lo strumento estrattore della SIM e una cover morbida in silicone. Sono assenti le cuffiette stereo.
Con dimensioni di 157,5×74,7×7,6mm (senza contare la sporgenza di circa 2mm del modulo fotografico posteriore) e un peso di 173 grammi, questo smartphone Xiaomi è compatto e confortevole da tenere in mano. La struttura è in metallo serie 7000 ricoperta di vetro sia dietro (Gorilla Glass 5) che davanti (Gorilla Glass 6), mentre il modulo fotografico è protetto dal resistentissimo vetro zaffiro che lo dovrebbe proteggere da graffi e urti.
La parte anteriore è occupata quasi completamente dal display AMOLED da 6,39” con risoluzione FHD+, rapporto 19,5:9 e notch a goccia che contiene la fotocamera frontale; subito sopra il notch trova posto lo speaker, mentre il sensore d’impronte è posizionato sotto al display.
Sul retro c’è la tripla fotocamera frontale, con il sensore superiore contornato da un anello in grado di assumere colori cangianti con la luce, e il flash a doppio LED. Ai bordi del dispositivo troviamo il tasto di accensione, e il bilanciere del volume a destra, un microfono per la cancellazione dei rumori e la porta a infrarossi in alto, un tasto dedicato per lanciare l’assistente Google e lo slot per la dual SIM a sinistra, la porta USB Type-C 2.0 e la griglia con altoparlante e microfono principale in basso.
Da notare che lo slot delle SIM non è di tipo ibrido, quindi non è possibile espandere la memoria con microSD.​​​​​​​
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Scheda tecnica (↑)
Il motore dello Xiaomi Mi 9 è l’ultimo chipset flagship Qualcomm Snapdragon 855, octa-core fino a 2,4GHz con architettura a 7nm e intelligenza artificiale, corredato di unità grafica Adreno 640, 6GB di RAM e memoria di archiviazione da 64GB o 128GB non espandibile.
Passando al modulo fotografico, esso è composto da un sensore principale da 48MP Sony IMX586 con apertura f/1.75, pixel da 0,8μm e focale wide da 27mm. Accanto a questo ci sono un sensore ultra-wide Sony IMX481 da 16MP con apertura f/2.2, pixel da 1μm e focale da 13mm, e un sensore tele Samsung S5K3M5 da 12MP con apertura f/2.2, pixel da 1μm e focale da 54mm. Il flash è di tipo laser/PDAF, mentre è assente la stabilizzazione ottica. Si possono registrare video fino a 4K@60fps e in super slow-motion a 960fps. La fotocamera frontale da 20MP ha apertura f/2.0, pixel da 0,9μm, ed è in grado di catturare video fino a 1080p@30fps.
Passando ai sensori, Xiaomi Mi 9 li comprende praticamente tutti: luminosità, prossimità, accelerometro, giroscopio e magnetometro. Non mancano il Bluetooth 5.0 con supporto all’audio aptX HD, NFC, WiFi 802.11 a/b/g/n/ac dual band 2,4/5GHz. Presenti i sistemi di ‘localizzazione a doppia frequenza per migliorare la precisione e ridurre il consumo energetico, i quali supportano GPS con A-GPS, Glonass, Galileo, BeiDou, e naturalmente le connettività a tutte le bande di frequenza europee 4G LTE Cat.21 con supporto a 4G+ e VoLTE HD.
La batteria è una unità ai polimeri di litio da 3300mAh con supporto alla ricarica veloce Quick Charge 4+ da 27 Watt e ricarica wireless da 20 Watt. Il sistema operativo è MIUI 10, basato su Android 9 Pie, caratterizzato dall’assenza del drawer delle apps e corredato da diverse gesture utili per velocizzare le azioni, e con modalità Game Turbo per ottimizzare le prestazioni anche durante videogame.
Prezzo Xiaomi Mi 9 (↑)
Xiaomi Mi 9 è disponibile nelle tre colorazioni Piano Black, Ocean Blue e Lavender Violet al prezzo consigliato di €449,90 per la versione 6GB+64GB e di €529,90 per la versione 6GB+128GB. Spesso è possibile trovare in offerta Xiaomi Mi 9 su Amazon o su altri eCommerce.
Recensione Xiaomi Mi 9 (↑)
Dopo una decina di giorni di utilizzo dello Xiaomi Mi 9 possiamo dire che lo smartphone Xiaomi, nonostante alcune ombre, è un ottimo prodotto. Il processore fa sicuramente il suo lavoro, e rende il sistema sempre fluido e le app veloci ad aprirsi. Anche il multitasking scorre senza alcun rallentamento, e la RAM occupata è sempre intorno a 3GB, a dimostrazione che la MIUI 10 non va a consumarne troppa come accade con altre interfacce grafiche proprietarie.
Schermo
Decisamente bello il display, un SuperAMOLED prodotto da Samsung, in grado di riprodurre neri molto profondi e colori vivi e nitidi senza esagerare in saturazione. Il lettore d’impronte digitali posizionato sotto di esso fa bene il suo lavoro e sblocca il dispositivo rapidamente; tenendolo premuto per un ulteriore secondo dopo lo sblocco compaiono tre icone per avviare velocemente la ricerca su browser, lo scanner per QR Code e il calendario (peccato però che queste shortcut non siano personalizzabili con le applicazioni più utilizzate).
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Audio
Abbiamo apprezzato anche l’audio, sebbene arrivi da una singola cassa mono: il suono è pulito e sufficientemente amplificato. Buono anche l’audio in chiamata, come quello in cuffia utilizzando auricolari Bluetooth o l’adattatore per la porta Type-C (ricordiamo che manca il jack audio e, qualora si volessero usare cuffie con cavo, è necessario avere l’adattatore).
Connessioni
Da notare che la porta USB Type-C è solo 2.0, quindi il trasferimento dati via cavo o in modalità OTG è più lento rispetto a modelli con porta 3.1, e inoltre non è supportata l’uscita video per proiettare lo schermo su un TV o monitor esterno tramite cavo HDMI. Buona la durata di batteria, che ci ha sempre consentito di arrivare a sera con carica sufficiente, e buona anche la ricarica sia con cavo che in modalità wireless: il caricabatteria wireless Xiaomi da 20 Watt è in grado di ricaricare completamente la batteria in circa un’ora, ma abbiamo notato che scalda un po’ troppo lo smartphone.
Sistema operativo
Parlando del sistema operativo, non entriamo nel merito delle scelte grafiche di Xiaomi: sappiamo bene che la MIUI non ha il drawer per le applicazioni ma, al pari di altri produttori cinesi, mostra tutte le applicazioni sulle varie schermate della homepage; molti utenti apprezzano questa scelta ma molti altri non la gradiscono, quindi ci asteniamo dal dare un giudizio essendo questo puramente soggettivo. Non possiamo però non notare la totale inconsistenza nelle icone delle app, che si presentano in forme circolari, quadrate, o addirittura irregolari senza seguire una logica di design uniforme. Abbiamo notato anche l’assenza delle scorciatoie ottenibile tenendo premute le icone, funzione che ormai ci accompagna da qualche anno e che per chissà quale motivo Xiaomi non ha incluso nel suo launcher.
Molto utili invece le gesture che permettono di sostituire i tre tasti di Android e velocizzare le interazioni con il sistema ampliando anche l’area a disposizione delle app. Sempre in tema software sono tante le app preinstallate sul sistema: spiccano ben tre browser fra cui il Mi Browser, che rimane impostato come quello predefinito e torna tale anche quando si imposta Chrome. Assente poi l’opzione per disattivare le app indesiderate (che siano app Google o Mi) che fa parte di Android da diversi anni e le nasconde evitando anche di scaricare gli aggiornamenti. Quindi chi acquisterà il Mi 9 dovrà farsene una ragione e conservate app come Play Film e l’inutile antivirus di Xiaomi.
Anche il cosiddetto bug delle notifiche, come chiamato da molti recensori (ma che non sappiamo se sia realmente un bug o una scelta di Xiaomi), risulta particolarmente fastidioso: sebbene il display abbia molto spazio ai lati della goccia, all’arrivo di una notifica l’indicatore resta visibile per una frazione di secondo e anche sbloccando lo schermo si resta col dubbio di non aver ricevuto niente a meno che non si tiri giù la tendina per vedere le notifiche.
Fotocamera Xiaomi Mi 9
Passiamo a esaminare il comparto fotografico, aspetto su cui anche in presentazione l’azienda ha speso molto tempo esaltandone la qualità e i risultati ottenuti dai test DxOMark: purtroppo, dobbiamo dire che ci pare molto al di sotto delle aspettative, sebbene la qualità degli scatti sia comunque buona, soprattutto in modalità 48MP. Il sensore principale riesce infatti a catturare un buon dettaglio e colori nitidi in condizioni di buona illuminazione, ma la qualità scende notevolmente al calare della luce.
Anche la modalità notte non riesce a migliorare molto la situazione, mentre sia le foto in ultra-wide che in 2X risultano troppo scure. Sempre in buone condizioni di luce sono molto buone le foto grandangolari mentre abbiamo qualche dubbio sul funzionamento della fotocamera tele: coprendo l’obiettivo superiore e andando in modalità zoom 2X l’immagine viene scattata comunque, il che ci fa interrogare sulla reale attivazione del tele ottico.
Anche sui video vale lo stesso discorso fatto per le foto: non appena il livello di luminosità scende, scende anche (e molto) la qualità delle immagini. Inoltre non è possibile usare lo zoom (nemmeno digitale) in modalità 48MP, che i video hanno solo zoom digitale da fotocamera principale, e che non è possibile registrare time-lapse o slow-motion in modalità ultra-wide. Poco entusiasmante la front-camera, con risultati nella media.
Conclusioni
In conclusione possiamo dire che il Mi 9 è probabilmente il miglior smartphone Xiaomi. Le prestazioni generali sono molto buone, sebbene in alcuni casi ci saremmo aspettati qualcosa di più, pertanto non ci sentiamo di metterlo a pari livello con i top di gamma di aziende concorrenti. Tuttavia, il prezzo di vendita pari a circa la metà di questi ultimi lo rende comunque un ottimo acquisto.
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saggiosguardo · 5 years
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Amazon aggiorna ed espande la gamma Echo
Al di là della sua vocazione originaria nello shopping, Amazon è diventata una vera e propria potenza in quel che concerne la domotica e l'assistenza virtuale, competendo con Google ad armi pari (nonché con Apple, sebbene quest'ultima sia ancora un po' indietro). Durante l'evento tenutosi oggi, il colosso di Jeff Bezos ha presentato la nuova serie di dispositivi Echo, per tutti i gusti, tasche ed usi.
Si inizia dal vero e proprio Echo, il capostipite di tutta la gamma. La nuova generazione si avvicina per resa sonora all'Echo Plus, precedentemente l'opzione più "pompata" nell'ambito, prendendone il woofer da 7,6 cm. Anche il design è stato rivisto, includendo pure un migliorato rivestimento in tessuto. Il rinnovato Echo, in preordine da oggi, mantiene il prezzo del predecessore, 99,99€, ed è disponibile nelle tonalità blu-grigio, antracite, grigio chiaro e melange.
Nella fascia bassa della gamma, debutta invece Echo Flex. È una versione su scala ridotta del dispositivo, da collegare direttamente alla presa di corrente. Prevede altoparlante e microfono per l'interazione con Alexa, nonché una presa USB per la ricarica di altri device o l'aggiunta di altri accessori come luci notturne. Anche Flex è in preordine da oggi, al prezzo di soli 29,99€.
Risalendo un po' nella gamma, troviamo invece la terza generazione di Echo Dot. Il piccolo smart speaker di casa Amazon ora integra pure uno schermo LED, con sensore di luminosità ambientale, che mostra l'orario, altri dati come la temperatura, nonché eventuali sveglie e timer impostati. La parte superiore prevede un pannello touch, utilizzabile ad esempio per spegnere o ritardare la sveglia. Il nuovo Echo Dot è preordinabile da oggi al prezzo di 69,99€.
Eccoci arrivati al nuovo top di gamma, Echo Studio. Va a prendere il ruolo "audiofilo" prima di competenza di Echo Plus (che rimane comunque in commercio, come opzione intermedia), con caratteristiche ancor più spinte. Il dispositivo integra 5 altoparlanti direzionali: un woofer da 13,3 cm, un tweeter da 2,5 cm e tre mid-range da 5 cm, coprendo adeguatamente tutte le frequenze. Per migliorare ulteriormente la resa dei bassi, è presente nell'area inferiore un'apertura. La potenza complessiva del sistema è di 330 W e dispone di un DAC a 24-bit, amplificatore con 100 kHz di banda e supporto sia a Dolby Atmos sia a Sony 360 Reality Audio. Si può abbinare un Echo Studio o una coppia ad una Fire TV in modalità wireless, per veicolarvi automaticamente l'audio proveniente da essa. Un sistema di rilevamento ambientale consente di ottimizzare automaticamente la riproduzione sonora. Infine, proprio come Echo Plus, anche Studio integra un hub Zigbee per la domotica. Può essere preordinato da oggi al prezzo di 199,99€.
La gamma con display non cambia per ora dalle nostre parti, continuando a prevedere Echo Spot e i due Echo Show da 5 e 10 pollici. Negli USA è stata introdotta oggi anche un'opzione intermedia, Echo Show 8. Come suggerisce il nome stesso, prevede uno schermo da 8", mantenendo le caratteristiche delle altre due versioni. Verrà venduto al prezzo di $129,99.
Sarebbe stato davvero interessante vederli da noi, ma al momento non sembrano essere previsti. Gli Echo Buds sono i primi auricolari wireless a marchio Amazon, in collaborazione con Bose che ha fornito la tecnologia per la cancellazione attiva del rumore ambientale, attivabile con un doppio tap sulle capsule. Presentano una struttura a doppio driver con armatura bilanciata, che enfatizza la resa sonora, mentre per il riconoscimento vocale sono previsti due microfoni sulla parte esterna delle capsule ed uno interno. In aggiunta ad Alexa, i Buds possono essere tranquillamente utilizzati anche con Siri e Google Assistant. Sono certificati IPX4, consentendone l'uso anche durante l'attività fisica o in caso di pioggia leggera, e prevedono tre gommini di differenti misure per adattarsi ai condotti uditivi dei singoli utenti. Per quel che concerne l'autonomia, Amazon dichiara 5 ore di ascolto musicale e 4 di chiamate; tali valori possono essere portati sino a 15 e 12 attraverso il case con batteria integrata. Il prezzo americano è di $129,99.
L'aggiornata gamma Echo di Oltreoceano si completa con due dispositivi particolari, che potremmo definire dei concept commercializzati. Non a caso, sono prodotti che rientrano nel programma Day 1 Edition, su invito e dalle scorte limitate. Il primo, anzi, i primi sono gli Echo Frames. Nessun visore per la realtà aumentata o virtuale: si tratta di occhiali tradizionali cui è stato integrato un set di altoparlanti e microfoni per l'utilizzo di Alexa o Google Assistant. La montatura è perfettamente adattabile a lenti graduate per la mitigazione dei principali disturbi visivi. Il prezzo base è di $179,99 e possono essere utilizzati almeno nella prima fase solo con dispositivi Android.
Il secondo, nonché in generale ultimo dispositivo Echo di cui parliamo, è Loop. Si tratta di un anello smart, da indossare al dito, con due microfoni ed un piccolo altoparlante. Può essere utilizzato con Alexa, ma anche con Google Assistant e, contrariamente agli occhiali, Siri. Potrà essere acquistato dagli invitati a Day 1 al prezzo di $129,99, con 4 misure (S, M, L, XL) per adattarsi a dita di qualsiasi dimensione.
Parlando più specificatamente di Alexa, si segnalano novità anche per l'assistente virtuale. In base alle preferenze degli utenti, si potrà impostare una riproduzione vocale più veloce o più lenta e scandita, con 7 livelli di regolazione. La modalità sussurro permetterà ad Alexa di capire le richieste anche a bassa voce. Sul fronte privacy, si potrà chiedere ad Alexa di ripetere cosa ha sentito durante la richiesta, il perché di una determinata risposta fornita e la cancellazione dell'ultima query effettuata così come di quelle dell'intera giornata o dei mesi precedenti, con la possibilità di impostare anche una routine di eliminazione automatica. Tutte le funzionalità aggiuntive verranno rese disponibili entro l'anno.
Segnaliamo in conclusione l'arrivo in Italia a partire dal 7 novembre degli eero, i router Wi-Fi Mesh prodotti dall'omonima azienda acquisita nei mesi scorsi da Amazon. Promettono una copertura veloce e capillare in tutta la casa ed una configurazione semplice che può poi essere ulteriormente affinata in base alle proprie esigenze. Oltre alle funzionalità di crittografia e sicurezza tipiche di questi dispositivi, eero offre un supporto software costanti con aggiornamenti tempestivi qualora venissero rilevate delle vulnerabilità. La versione base di eero potrà essere acquistata a 109€ (279€ nella confezione da tre), mentre eero Pro dispone di un comparto radio più potente e costerà 199€ (499€ nella confezione da tre).
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from Amazon aggiorna ed espande la gamma Echo
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sportpeople · 7 years
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Premessa: quella che segue non è una cronaca e non è nemmeno un racconto. Se proprio dobbiamo dare un nome a queste quattro righe, esse sono semplicemente la narrazione di quanto ho avuto modo di osservare nei miei giorni di vacanza trascorsi a Spalato, in Croazia. Non aspettatevi quindi Hemingway, sono solo le parole di un modesto viaggiatore con la passione per il calcio.
Spalato è la città del palazzo di Diocleziano, del centro storico medievale, delle case alla veneziana e del mare cristallino di Marjan, ma è anche la città dell’Hajduk e della sua Torcida. È un legame, quello esistente tra gli spalatini e la squadra, che non sfugge nemmeno a chi non è molto avvezzo alle cose di calcio.
Basta, infatti, uscire dall’aeroporto, fare pochi chilometri in direzione della città e già lungo la strada si scorgono dei murales della Torcida, il gruppo organizzato più vecchio d’Europa. Scherzandoci su, le indicazioni stradali paiono quasi superflue: sai che ti stai avvicinando a Spalato dalle dimensioni sempre maggiori dei disegni fatti dagli ultras.
Girando per la città è davvero difficile non notare le scritte, gli stemmi e gli incitamenti in rosso e blu su sfondo bianco che compaiono un po’ ovunque, dai vicoli del centro ai viali alberati dei quartieri bene, arrivando fino alle strade a più corsie che costeggiano i palazzoni della periferia.
Murales sono presenti addirittura sui moli e sulle spiagge cittadine, spiagge dove sovente ci si imbatte in gente con maglie della Torcida.
Durante la nostra permanenza è in programma il ritorno dei play-off di Europa League tra l’Hajduk e l’Everton. Il primo dei due confronti, giocatosi a Goodison Park, è stato segnato da diverse intemperanze dei tifosi ospiti, con sfondamento del cordone di steward all’interno dello stadio che si è guadagnato le prime pagine dei tabloid inglesi e ha regalato la patente di partita ad alto rischio alla gara di ritorno. Si gioca giovedì 24 agosto ma già il giorno precedente assistiamo ad un tentativo di assalto ad un trio di “scouser” in uno dei bar della spiaggia. Tavolini e sedie volano per aria ma conseguenze più serie vengono evitate dal deciso intervento del simpatico gestore del posto. I locali vanno via e i tre inglesi ritornano a bere come se nulla fosse accaduto.
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La mattina del 24, poliziotti in tenuta antisommossa presidiano direttamente la spiaggia: presenza bizzarra in mezzo a turisti in bermuda e bellezze locali in bikini. La maggioranza dei tifosi inglesi, però, è tenuta lontana, nella fan-zone allestita nei pressi della Riva, il lungomare cittadino. Nonostante ciò, qualche ragazzo di Liverpool si avventura lo stesso dalle parti del bagnasciuga e nel centro città, pagandone le conseguenze. Problemi si registreranno anche alla fine della partita, con un buon numero di Everton che decidono di tornare a piedi ai loro alberghi.
La tentazione di assistere a questo match dal vivo è forte ma si arena di fronte ad uno stadio Poljud esaurito in ogni ordine di posto. Mi accontento di vederla alla TV in un locale cittadino, lontano dalla zona turistica. Durante l’ora e mezza del match (sfortunato per l’Hajduk) la città sembra fermarsi: davanti al locale non passa praticamente nessuno.
Sfumata l’occasione di vedere Hajduk-Everton, la sorte mi dà la possibilità di rifarmi subito. Il campionato croato è già iniziato da un pezzo e domenica 27 è in programma Hajduk Spalato – Istra 1961. Nel fanshop più vicino al nostro alloggio prendo i biglietti per il settore Est, corrispondente ad un italico settore Distinti. La scelta è strategica perché così avrò la possibilità di vedere sia la curva di casa che il settore ospiti, ricavato nel tratto finale della tribuna.
Il Poljud dista dal centro cittadino un paio di chilometri e, così come consigliatoci da persone del posto, decidiamo di percorrerli a piedi. La strada che dai vicoli medievali conduce all’impianto (situato invece in una zona caratterizzata da ampi viali e da palazzoni popolari), passa anche vicino allo Stari Plac, il suggestivo vecchio stadio cittadino, posto appena fuori le mura antiche della città, oggi utilizzato dalla squadra di rugby. L’altra squadra di calcio cittadina, il Radnički Split, squadra fondata dai lavoratori dei cantieri navali e famosa per aver fornito volontari antifranchisti e partigiani a Tito, gioca al Park Mladeži e ha un seguito davvero esiguo.
Più ci si avvicina al Poljud più aumentano i gruppetti di tifosi che affrettano il passo nella direzione dell’impianto. Quel che colpisce è la giovane età di molti di coloro che indossano materiale della Torcida. Essendo materiale acquistabile da tutti, anche io approfitto della cosa e mi fermo al loro negozio in una piazza lungo il percorso.
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Giungiamo nello stadio con un po’ di anticipo, cosa che ci consente di osservare meglio la struttura. Voluto dall’allora governo jugoslavo per i Giochi del Mediterraneo de 1979, Il Poljud è di forma ellittica, con un unico anello e con la tribuna Ovest e la tribuna Est più alte rispetto alle due curve. La copertura è riservata solo ai primi due settori e corre sopra l’anello dello stadio, ricordando vagamente quello che fu l’Olimpiastadion di Monaco di Baviera.
La curva Sud di fatto non esiste, essendo quel settore occupato dal tabellone luminoso e da uno spazio riservato ai disabili. La curva Nord, ovviamente, è il cuore del tifo spalatino e a poco più di un’ora dalla partita già sono presenti i principali striscioni, tra cui il famoso “Torcida” su sfondo a righe rosse e blu. Così come accade in alcuni stadi italiani, tipo Catanzaro e Cava de’ Tirreni, gli ultras non si posizionano propriamente al centro della curva ma sono spostati verso i distinti, cioè la locale tribuna Est. Di fatto, me li ritroverò alla mia destra (e questa cosa influirà sulla qualità delle foto).
Una cosa che mi colpisce è la quasi totale assenza di murales o di scritte sui muri esterni dello stadio, nemmeno nelle vicinanze degli ingressi della curva Nord. Un ambiente stranamente “pulito” per gli standard balcanici: ricordo ancora le pareti esterne del Toumba di Salonicco trasformate in un tazebao di inni alle amicizie e alle rivalità. In una città (anzi, in una regione) dove ogni angolo di strada ti ribadisce la propria fedeltà all’Hajduk, ai miei occhi questa cosa sembra quasi un paradosso.
Prima di entrare ci fermiamo allo stand gastronomico allestito nello spiazzo sotto la tribuna Est. Servono ćevapčići con cipolle tritate, ajvar e kajmak nel pane caldo. Associati ad una Karlovačko fredda, formano un connubio perfetto, per il piacere nostro e per quello di altre centinaia di tifosi che si assiepano sulle panche dello stand. Tra essi, altri italiani in vacanza con cui scambiamo due chiacchiere in attesa di entrare.
Le perquisizioni all’ingresso sono attente ma discrete e sono svolte da un’agenzia di security. La tribuna Est si riempie velocemente. Settore per famiglie, non vi è bambino senza un gadget della propria squadra del cuore. La curva Nord rimane semivuota quasi fino al fischio d’inizio, quando dagli ingressi in alto entrano coloro che vanno ad occupare i posti più in basso. Molti di loro indossano una t-shirt dal colore scuro ed il colpo d’occhio è notevole. Nel momento in cui giungono nella loro postazione, vengono anche sistemate sulle transenne le pezze delle sezioni, tra cui quelle di Trogir, di Brac e quella famosa di Zagabria.
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Lo stadio non presenta il colpo d’occhio del giovedì precedente, quello cioè delle grandi occasioni, ma tutto sommato la presenza è discreta, con la Nord piena per quasi due terzi della propria capienza. Il tifo, invece, è su ottimi livelli.
La partita inizia alle 21 e da quel momento in poi i ragazzi della Torcida non smettono più di cantare, rimanendo al loro posto anche oltre il triplice fischio finale. I cori sono accompagnati da un tamburo, con largo utilizzo di battimani. Alcuni di essi sono seguiti anche dal resto dello stadio. Nel secondo tempo sventolano diverse bandiere e danno vita ad un’intensa torciata. Durante l’arco della gara espongono un paio di striscioni alla lettura dei quali il resto dello stadio si alza in piedi ad applaudire.
Gli ospiti dell’Istra sono una decina e prendono posizione nella parte alta del settore. Espongono un paio di pezze (che portano con loro durante l’intervallo) e non fanno cori. Considerando che si tratta di un derby istiano-dalmata, francamente mi aspettavo qualcosa di più. I padroni di casa sembrano quasi ignorarli. Pur non capendo il senso di quel che viene cantato, non mi pare di cogliere quel tono di astio nei cori da stadio che non ha bisogno di alcuna traduzione.
Così come sugli spalti, anche sul campo non c’è storia tra le due compagini. L’Hajduk vince due a zero e nel finale va più volte vicino al terzo gol. Ogni pericolosa azione degli spalatini è accompagnata dal clamore dei tifosi di casa, con disappunto non celato ad ogni occasione sprecata.
Finita la gara, usciamo e ci mettiamo in cammino con altre migliaia di tifosi che scendono verso il centro, un fiume umano che si esaurisce man mano che si arriva al tratto finale, quello che porta ai negozi alla moda e poi al mare. Alla spicciolata tutti vanno verso le proprie case, noi andiamo verso il nostro alloggio consapevoli di aver vissuto un’esperienza molto più interessante di quella che stanno vivendo le frotte di turisti che incontriamo lungo la via del ritorno, assiepati davanti a dei locali sulle cui insegne campeggiano pizze che non augurerei nemmeno al mio peggior nemico.
Giuseppe Di Monaco.
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Hajduk – Istra 1961, 1. HNL Croazia: perdere l’Europa rifarsi in campionato Premessa: quella che segue non è una cronaca e non è nemmeno un racconto. Se proprio dobbiamo dare un nome a queste quattro righe, esse sono semplicemente la narrazione di quanto ho avuto modo di osservare nei miei giorni di vacanza trascorsi a Spalato, in Croazia.
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viaggiatori · 8 years
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La Polinesia Francese è sempre stata al centro dei miei sogni da viaggiatore. Avete presente quella meta lontana, esotica e bellissima in cui vi vedete distesi su un lettino in riva al mare, alle vostre spalle una foresta verde di palme da cocco?
Se la vostra fantasia si muove in direzione di quelle palafitte in legno da cui già vi vedete affacciati sulle acque più turchesi che la vostra mente possa immaginare, allora siete sulla mia stessa lunghezza d’onda e potete capire bene il mio entusiasmo quando ho ricevuto un invito per un viaggio in Polinesia.
Tutti hanno una qualche lista dei viaggi da sogno da fare, nella mia top five c’erano proprio le isole di Gauguin, e in fondo è facile capire perché incarnano l’ideale di meta irraggiungibile, vuoi per la distanza tra l’Italia e quelle isole quasi invisibili sul mappamondo, vuoi per i costi da sostenere. Eppure a volte, i sogni si avverano.
Il viaggio in Polinesia è un bel viaggio da sostenere: 24 ore di volo che ti proiettano letteralmente dall’altra parte del globo, 2 scali internazionali (anzi, intercontinentali visto che uno è stato a Parigi e uno a Los Angeles). Da Parigi ho preso anche per la prima volta un volo con Air Tahiti Nui ed è stata una piacevole sorpresa: personale gentile, sedile comodo, pasti di buona qualità e birra locale di Tahiti, niente male.
Ed è stato davvero un bene fare un viaggio aereo comodo, visto che dopo solo poche ore dal mio arrivo a Papeete, ho iniziato ad esplorare l’isola di Tahiti.
5 cose che più mi hanno colpito di Tahiti
1. Il sorriso e il calore della gente del posto.
Appena arrivati in aeroporto si è subito proiettati in una dimensione colorata, tropicale, grazie allo speciale rituale di benvenuto con collane di fiori e musica polinesiana – a qualsiasi ora, anche alle 5 di mattina. Ed è stato davvero bello percepire questa atmosfera e la sua sincerità, un vero ritmo di vita che batte secondo un sistema di vita diverso e rilassato. Ma è il sorriso vero delle persone che si incontrano la chiave secondo cui si deve leggere il tutto. Anche negli hotel si viene sempre accolti con un sorriso, un drink di benvenuto e fiori, gesti si turistici ma genuini.
Qua la gente parla spesso di Mana, e prima di arrivare non capivo fino in fondo di cosa si trattasse. Ora l’ho capito, anche grazie a questa sensazione di autenticità di chi ho incontrato. Il Mana è la forza vitale, lo spirito che circonda l’uomo. Io l’ho trovato in ogni angolo di Tahiti, l’ho visto, sentito, persino mangiato: una forza vitale che è molto più che una situazione rilassante, è qualcosa di rigenerante.
2. L’isola di Moorea.
A poco più di 30 minuti di traghetto da Tahiti, c’è l’isola sorella con la montagna fatata ed il mare tutto intorno che richiama a sé: un’isola vibrante di vita, dove non mancano cose da fare e posti da scoprire. Spesso ci si perde a fare foto su foto alle sterminate spiagge con palme, o ai banchetti di ambulanti che vendono pesce e frutti – che non vedono l’ora di farti assaggiare con orgoglio i loro prodotti. Obbligo di visita alla baia di Cook, famoso lido a cui approdò l’esploratore inglese con la sua nave e dove la storia ricorda l’ammutinamento del Bounty – e in fondo guardando questi splendidi posti ho anche capito il perchè avvenne.
Un’esperienza entusiasmante da non perdere è salire sulla Magic Mountain, da dove si può godere di una vista mozzafiato sulla costa. Bellissimo il percorso da fare a piedi, che richiede però tempo e molta energia, molto entusiasmante anche il tour di quad bike, che offre l’occasione di scoprire l’entroterra di Moore divertendosi con i quad e scoprendo angoli nascosti e non turistici dell’isola, come la piantagione di ananas per esempio. 
3. L’atollo di Rangiroa.
Prima di partire avevo letto qualcosa su Rangiroa perchè non mi piace arrivare impreparato a destinazione. Bene, la realtà supera le aspettative, e di molto. L’atollo di Rangiroa è un posto che ti entra nell’anima: un gigantesco anello di sabbia tra sabbia, mare e palme che si estende per 80 Km senza niente in mezzo.
Una dimensione a sé a partire dal nome che significa “Cielo senza fine”– il cielo che diventa una cosa sola con il mare nell’atollo più grande del mondo, così esteso da contenere l’intera Tahiti.
Ha una laguna letteralmente infinita, quasi non se ne scorge la riva opposta. Il mare aperto è connesso alla laguna interna in due pass, Tiputa e Avatoru, qui gli appassionati di snorkeling saranno in paradiso grazie alla straordinaria fauna ittica di pesci pelagico, squali grigi, delfini, carangidi, razze e mante.
Noi abbiamo voluto regalarci qualcosa di speciale, nell’ottica di siamo qua, viviamocela fino in fondo. Qual è questo regalo? Un paio di notti al Resort Kia, il luogo dei desideri di tutti, con ville dotate di ogni confort e piscina privata.
Non mancano a Rangiroa sistemazioni più piccole e accoglienti, come il grazioso Family Hotel Josephine che unisce cordialità del personale a un’eccellente proposta enogastronomica, camere comode, pulite e decorate con stile.
Consiglio anche una visita alla pearl farm, una delle più grandi fattorie di coltivazione delle perle nere: durante il tour dell’azienda è inoltre possibile uscire in barca e fare snorkeling per vedere in prima persona il punto in cui vengono coltivate le perle. 
Rangiroa è raggiungibile con un volo interno di circa un’ora che parte giornalmente da Tahiti.
4. Tahiti e la sua natura selvaggia.
La più grande tra le Isole del Vento, è anche un portale per il paradiso della natura più selvaggia. Non dimenticherò mai i colori e la vita dei giardini Paofai, un’area pubblica con percorsi naturali, giochi per bambini e fontane. Bello anche il Giardino botanico Harrison W. Smith, il cui nome omaggia il fisico americano che lo creò con centinaia di piante e fiori da ogni dove.
La meraviglia della natura tahitiana l’ho vissuta anche ai giardini di Vaipahi, sempre a Tahiti: qui ci sono 6 km di sentieri tra vegetazione tropicale e cascate maestose, ottima escursione anche per le famiglie con bambini, che possono fermarsi un po’ nell’area picnic in riva al mare e a cui rimarranno impressi i siti archeologici disseminati lungo il percorso.
Se poi si vuole partire all’avventura e immergersi nella Tahiti più selvaggia e poco conosciuta, allora c’è il Teahupoo Tahiti Surfari per scoprire davvero i luoghi più remoti dell’isola, tra flora e fauna. Un’avventura che mi ha portato tra valli, montagne e spiagge incontaminate accessibili solo in barca grazie a cui sono riuscito a leggere il significato più profondo di un’isola estremamente viva.
Bellissime le grotte di Vaipoiri, luoghi pieni di storia, magia e leggenda dove il fascino della natura e l’adrenalina si fondono nel brivido di un salto in un lago cristallino. In questo tour c’è la possibilità di pranzare nella casa di una famiglia del posto, in riva al mare circondati dal verde della vegetazione tropicale. Un pranzo a base di prodotti locali, cucinati seguendo ricette e tradizioni tahitiane. 
5. La cucina di Tahiti mi resterà sempre nel cuore.
Pesce fresco, tanta frutta esotica e verdura – il tutto condito con aromi agrodolci, piccanti e così lontani dalla nostra cucina che sono la degna cornice ad un viaggio dall’altra parte del mondo. Sono palpabili le influenze orientali e quel tocco di autentica classe francese, ma il risultato è unico: il consiglio è di lasciarsi andare ai nuovi sapori e scoprirne il più possibile – un consiglio particolare? Provare il pesce crudo (una sorta di sushi in chiave del Sud Pacifico) e i condimenti al latte di cocco che per me sono stati una sorpresa molto piacevole!
Dove dormire
A Tahiti presso l’hotel Le Meridien: la struttura è enorme, in una zona tranquilla dell’isola non lontano dal centro città. Stanze capienti e con internet wi-fi gratuito. Alcune stanze hanno anche la macchina del caffe Nespresso con cialde gratuite.
A Rangiroa presso il Kia Ora Resort: posizione strategica in uno dei punti dell’isola più belli per fare snorkeling. Le ville con piscina sono davvero una chicca, con letti enormi, comodi e arredate con gusto. Anche qui wi-fi gratuito.
A Moorea presso il Sofitel: i bungalow sulla spiaggia sono spaziosi e comodi, con verande da dove ammirare il tramonto. Ottima la colazione, variegata e con vista mare.
Il video che abbiamo girato in Polinesia
Tahiti e la Polinesia Francese: le 5 cose che più mi hanno colpito La Polinesia Francese è sempre stata al centro dei miei sogni da viaggiatore. Avete presente quella meta lontana, esotica e bellissima in cui vi vedete distesi su un lettino in riva al mare, alle vostre spalle una foresta verde di palme da cocco?
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