#simona musco
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popolodipekino · 6 years ago
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comma 21 e mezzo
“Corto circuito” sul gratuito patrocinio «Troppo povero per essere difeso gratis», di Simona Musco
Accedere al patrocinio a spese  dello Stato diventa sempre  più complicato. E paradossalmente accade soprattutto se sei talmente povero da avere reddito zero. A denunciarlo è l’avvocato Corrado  Limentani, penalista del Foro di Milano, che con un post su Facebook,  diventato virale e rilanciato dall’agenzia di stampa Agi, ha messo  sotto i riflettori la questione. «Si moltiplicano, è successo anche oggi  - scriveva il 3 aprile scorso - le decisioni  dei giudici che negano il beneficio». Ma a sorprendere il legale  sono soprattutto le motivazioni alla base del diniego: secondo il giudice, «vista l'oggettiva impossibilità  di sopravvivenza da parte del richiedente e del proprio nucleo  familiare alla luce di un reddito così esiguo, si presume che l'istante  sia percettore di reddito non dichiarato ai fini fiscali in quanto provento di attività lavorativa   svolta in nero o beneficiario di regalie o elargizioni di congiunti il cui ammontare consente il sostentamento,  di modo che il tenore della   dichiarazione ( di nullatenenza) non consente di effettuare alcuna concreta valutazione in ordine alla  sussistenza delle condizioni di reddito che consentono l’ammissione  al patrocinio». Da qui la protesta di Limantini: «Come affossare un istituto di grande civiltà giuridica  e negare cinicamente a un povero il diritto alla difesa. Per fortuna,  in realtà, l’avvocato di norma  lo difende ugualmente, gratis: tutto sommato siamo una categoria  che ha ancora un briciolo di umanità». Secondo la sentenza citata da Limentani,  la totale povertà sarebbe incompatibile con il gratuito patrocinio,  perché è impossibile immaginare  che qualcuno sopravviva con reddito zero. Ed è quindi molto più probabile - anche se non dimostrato  - che il nullatenente stia mentendo, nascondendo redditi percepiti in nero. Senza controlli, senza prove a supporto del sospetto  del giudice. Un controsenso, considerando la ratio alla base dell’istituto, che consente agli indigenti  di potersi difendere efficacemente  anche in situazioni di particolare   disagio economico. Ma un controsenso, soprattutto, considerati  i poteri di accertamento assegnai  al giudice, poteri il cui esercizio è imposto ai fini della giustificazione  del rigetto. Di sicuro, come   denunciato dagli Ordini di tutta  Italia, c’è un problema di fondi: le somme stanziate non sono sufficienti  a soddisfare tutte le domande   legittime. Ma la storia raccontata  da Limentani contrasta con una sentenza della Cassazione di fine 2017, secondo cui l’effettività del criterio solidaristico alla base dell’istituto «verrebbe meno laddove   si negasse il diritto a coloro i quali dichiarino di non possedere alcun reddito sulla base della presunzione  dell’inverosimiglianza della dichiarazione medesima». Insomma, «la semplice affermazione   dell’assenza totale di reddito  non è affatto di per sé un ' potenziale inganno' - continua la Suprema  Corte - trattandosi invece di una situazione, seppure non comune,  certamente possibile. Ed anzi,  della più grave delle situazioni tutelate dalla normativa che assicura  la difesa dei non abbienti». Il giudice non può dunque entrare nel merito dell’autocertificazione presentata da chi richiede il gratuito   patrocinio per valutarne l'attendibilità,  «dovendosi limitare alla verifica dei redditi esposti e concedere  in base ad essi il beneficio, il quale potrà essere revocato solo a seguito dell'analisi negativa effettuata  dall'ufficio finanziario, cui il giudice deve trasmettere copia dell'istanza con l'autocertificazione  e la documentazione allegata». da Il Dubbio di oggi 23 aprile 2019
“Comma 21.5 - Può richiedere il gratuito patrocinio solo chi non ha soldi, ma se dichiari di non avere soldi non è possibile che tu sia senza soldi”
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corallorosso · 4 years ago
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Quando i media giustificano il carnefice che massacra moglie e figli Forse basterebbe capire da che parte stare. O almeno provare a raccontare evitando la trappola del pregiudizio pesantissimo, dello stereotipo reiterato, della violenza continua, costante. Che i media parlino di stupro, violenza, femminicidio e perfino stragi familiari c'è spesso uno squilibrio sconcertante, perfino volgare tra vittima e carnefice. L'ultimo carnefice, in ordine di tempo, si chiamava Alberto Accastello. A Carignano, in Piemonte, all'alba dell'8 novembre, armato di pistola, ha ucciso la moglie Barbara, il figlioletto di due anni Alessandro e perfino il cane. Ha fatto fuoco anche contro l'altra bimba della coppia, Aurora, che è in condizioni disperate. Poi si è tolto la vita. Nel raccontarci questa tragedia il Corriere della Sera riporta la testimonianza dei vicini, immancabili nella narrazione del dramma. Leggiamo per scoprire che Accastello "era un gran lavoratore, viveva per la famiglia. La moglie Barbara voleva separarsi, ma il marito non accettava la sua decisione. Ultimamente le liti tra loro sarebbero state frequenti. Lui «lavorava anche al sabato e la domenica per finire la villetta che avevano costruito — continuano i vicini —. Alberto era una persona tranquilla. Sempre attento e gentile. Evidentemente la prospettiva della separazione lo ha sconvolto. Aveva chiesto a Barbara un’altra possibilità, ma lei diceva “quando dico di no è no”. L’abbiamo vista ieri sera era tranquilla, anzi euforica». Sintesi: Accastello, brav'uomo, diventa pazzo quando la moglie Barbara gli chiede la separazione. Lei è "euforica", "quando dice no e no" e tanto basta per far scattare la mattanza. Oltre alle testimonianze dei vicini non esiste contraddittorio in questo articolo pubblicato dal quotidiano più importante d'Italia. E' un'equazione miserabile che confonde i piani, i ruoli. Chi è vittima, chi è carnefice? La strage della "persona tranquilla" sconvolta dall'eventualità della fine del rapporto è, in pratica, giustificata. Accade quasi sempre così. Se ti stuprano te la sei cercata (il vestito troppo corto, sei uscita di notte, hai bevuto), se ti ammazzano anche. Nella sostanza, insomma, il tema dell'articolo non riguarda il terribile gesto in sé, ma la narrazione del fatto. Una narrazione tossica. Nessuna separazione provoca un delitto. Dice bene sul Dubbio Simona Musco: "Applicare ad un tale orrore una attenuante di fondo è solo la conferma che c’è un problema culturale. Quello che magari anche in maniera inconscia – ma molto più spesso assolutamente consapevole – accetta le logiche del patriarcato, del possesso, della riduzione della donna e dei bambini ad oggetti che esistono solo in relazione al loro rapporto col marito/padre e della famiglia come unità inscindibile, da salvaguardare ad ogni costo". E' già successo, stesso taglio, medesima interpretazione. 7 giugno 2020. Lecco. Un uomo, Mario Bressi, uccide strangolandoli i due figli gemelli di 12 anni. Poi si toglie la vita. Titoli: “L’uomo ha commesso l'omicidio perché non poteva sopportare l'idea della separazione" (Ansa) "Separazione difficile, uomo uccide i due figli e si toglie la vita" (Tg Com). “Il dramma dei papà separati”. (Il Mattino) Morale: di chi è la colpa? Di un assassino o della separazione, ergo della donna che l'ha chiesta? E' un crinale pericolosissimo quello che i media in Italia, anche i più autorevoli, attraversano con la leggerezza degli incoscienti, talvolta dei complici. Nel caso di Accastello la strage è totale, in quella compiuta a Lecco c'è perfino un elemento devastante in più. Mario Bressi non uccide la ex moglie Daniela Fumagalli ma di fatto la condanna all'eterna consunzione, al pubblico ludibrio, al giudizio infame. E' una condanna a morte in contumacia. Colpa, è colpa tua. Come si sopravvive alla colpa di essere la ragione di un gesto così devastante? Come si sopravvive alla morte dei figli provocata da un incidente, una malattia, figuriamoci da quella ideata e realizzata dall'uomo che avevi scelto per amore? Esistono gli orfani, le vedove, i vedovi. Come si chiama un genitore, una madre, che subisce la morte di un figlio? In molte lingue non c'è parola. In sanscrito si dice vilomah, significa "evento avverso all'ordine naturale". Potremmo citare altre decine di casi. La semantica della violenza ha sempre una base linguistica. Le parole fanno male. Malissimo a volte. I professionisti dell'informazione dovrebbero saperlo e invece non si sottraggono alla lapidazione, al pregiudizio, agli stereotipi. Parte di un Tribunale che ha già scelto da che parte stare, chi condannare. Il 3 settembre del 2017 Lucio Marzo, anni 17, ammazza a pugnalate Noemi Durini, anni 16, in un paese in provincia di Lecce. La seppellisce, agonizzante, sotto un cumulo di pietre in aperta campagna. Dieci giorni dopo confessa. Il 14 settembre il Corriere titola "Il fidanzatino sotto torchio confessa: l'ho uccisa io". Sommario del pezzo: "Chi poteva pensare a una violenza tale da togliere la vita al suo amore?". Di che amore parliamo, scusate? Ripeto: chi è la vittima, chi è il carnefice? Quando il femminicidio avviene tra le pareti domestiche (nel 2019 le vittime sono state 73. A settembre 2020 siamo già a 53, e mancano 3 mesi alla fine dell'anno) la titolazione è perfino più subdola, una sovrabbondanza di termini che di fatto giustificano il massacratore. Eccoli: raptus raptus di gelosia passione paura dell'abbandono aveva il terrore di perderla la donna della sua vita amore tormentato amore malato perdita di controllo Guardate, basta digitare su Google "uccisa per gelosia", 211mila risultati in 50 secondi. Il meccanismo è sempre lo stesso: rendere le vittime invisibili, portare le donne sul banco degli imputati, reiterare la colpa di chi colpe non ha nel chiedere una separazione. Sono codici linguistici pericolosissimi, tanto da indurre il lettore/la lettrice a ricercare particolari morbosi sulla vittima tali da spiegare la gelosia dell'uomo, e in fondo a motivare l'accaduto in virtù del terribile e ingestibile raptus. All'interno del Codice deontologico dei giornalisti esiste il Manifesto di Venezia, settembre 2017, fortissimamente voluto da Giulia, il collettivo di giornaliste nato nel 2011 con l’obiettivo di modificare lo squilibrio informativo sulle donne anche utilizzando un linguaggio privo di stereotipi e correttamente declinato al femminile. Tre anni dopo è cambiato poco, purtroppo. Quasi nulla. Daniela Amenta
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paoloxl · 3 years ago
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La storia di Angelo Massaro, in cella 21 anni da innocente - Osservatorio Repressione
Angelo Massaro è stato assolto dopo una condanna per omicidio e ha scontato da innocente 21 anni di carcere. Fu incastrato da una intercettazione in dialetto interpretata male
“Lo Stato italiano mi ha sequestrato 21 anni per un reato mai commesso“. Angelo Massaro non è mai stato troppo in silenzio. Nemmeno dietro le sbarre, dove per oltre quattro lustri ha continuato a gridare, forte, la propria innocenza. Lo hanno arrestato, processato e condannato per tre gradi di giudizio per un reato che non ha mai commesso: l’omicidio di un suo amico. A febbraio del 2017, dopo aver ottenuto la revisione del processo, i giudici di Catanzaro lo hanno riconosciuto innocente. Ma prima ha trascorso la metà degli anni che ha dietro le sbarre.
Oggi, a 54 anni, ha il resto della sua vita davanti. Ma la sua giovinezza l’ha passata a scontare una condanna per aver ammazzato Lorenzo Fersurella, ucciso il 22 ottobre 1995 in Puglia. Ne avrebbe dovuti scontare 24 di anni in cella, tre anni in più rispetto a quelli messi per riconoscere la propria innocenza. E tutti quegli anni in carcere li ha passati per una telefonata male interpretata dagli inquirenti. Per una consonante: gli investigatori che lo hanno intercettato hanno appuntato “muert“, che in pugliese vuol dire morto, al posto di “muers“, che significa, invece, oggetto ingombrante.
Una lettera sola ha stravolto la vita di un ragazzo che all’epoca aveva solo 29 anni e un bimbo nato da soli 45 giorni. “Sette giorni dopo la scomparsa del mio amico ho telefonato a mia moglie, dicendole di preparare il bambino per portarlo all’asilo. Ho detto questa frase: “Faccio tardi, sto portando u muers” – racconta. Portavo dietro alla mia auto una piccola pala meccanica per fare dei lavori edili per mio padre. Questa frase l’ho detta davanti ad un’altra persona che non è mai stata sentita dagli inquirenti”.
Gli investigatori, quel giorno, non verificano cosa effettivamente Angelo Massaro stia trasportando. E passano quattro mesi prima che qualcuno lo interroghi. “Mi chiesero se ero mai stato a San Marzano, senza dirmi perché melo domandavano”, dice. Le manette arrivano sette mesi dopo quella telefonata. “Era il 16 maggio 1996. Mi stavano arrestando per aver ammazzato l’uomo che aveva battezzato il mio figlio più grande, che avrebbe dovuto battezzare anche il piccolo, il mio compare d’anello – racconta. Sono stato privato dell’affetto dei miei figli. Ero incredulo ma avevo fiducia. Pensavo che ascoltando bene la telefonata avrebbero capito”. Invece prima che qualcuno capisca l’equivoco ci vuole molto tempo e la vicenda diventa sempre più ingarbugliata. “Come potevano pensare che qualcuno trasportasse un cadavere sette giorni dopo un omicidio alle 8.30 del mattino? Avrei potuto dimostrare tutta la verità subito”. Ma nessuno sa rispondere ad Angelo Massaro ora.
La sua fiducia rimane invariata anche nel corso del processo. Tanto che la difesa rinuncia a sentire testimoni, sapendo che non c’è prova alcuna della sua colpevolezza. “I testimoni dell’accusa non hanno dato elementi utili”, spiega infatti. All’improvviso, però, spunta un pentito. “Ci siamo opposti ma non è servito – racconta Massaro -. Il collaboratore ha soltanto detto che secondo lui avrei potuto ucciderlo io il mio amico, tutto qua. Può bastare questo? Non credo”.
Per tre gradi di giudizio, invece, questo basta e avanza. In appello i legali chiedono una nuova perizia sulla telefonata e l’audizione di altri testimoni, ma non viene concesso. E non serve nemmeno la testimonianza dei carabinieri di Roma, che hanno spiegato come il tono di voce, nella telefonata, fosse tranquillo e come quella parola incriminata – “muers” – possa avere diverse interpretazioni. Le motivazioni delle sentenze, nel merito, non hanno chiarito cosa sia accaduto quel lontano giorno di ottobre, quando Fersurella venne ucciso.
Il caso si è riaperto solo nel 2012, dopo una lunga battaglia da parte del suo legale, Salvatore Maggio. La Corte d’appello di Potenza aveva infatti negato la revisione del processo, poi concessa dalla Cassazione nel 2015. Il processo è quindi finito in Calabria, a Catanzaro, che ha ordinato l’apertura della cella dopo 21 anni trascorsi lì da innocente. “Lo stesso procuratore generale di Catanzaro ha criticato la sentenza, definendola piena zeppa di errori”, racconta ancora Massaro. Che stenta a credere di aver potuto passare metà della sua vita da recluso per un errore.
“Non ho mai accettato questa condanna, tremendamente ingiusta. Mi ha portato avanti la rabbia, la sete di giustizia e verità”, racconta ora. Quelli in carcere sono stati anni di abusi di potere e violazione dei diritti umani. “Il ministero della Giustizia mi ha sempre considerato pericoloso e fatto girare per molte carceri. Mi hanno ritenuto insofferente nei confronti delle regole penitenziarie”, spiega.
E per sette anni, dal 2008 al 2015, non ha potuto vedere i suoi figli, nonostante il tribunale avesse certificato il loro stato di depressione causato dalla lontananza del padre da casa. “Nonostante il magistrato di sorveglianza di Catanzaro abbia richiesto il trasferimento a Taranto, vicino ai miei figli – denuncia – il Dap si è completamente disinteressato”.
Le condizioni di vita dietro le sbarre sono state a volte intollerabili. In cella, ad esempio, mancava l’acqua “e mi lavavo con quella delle bottiglie, che ero io a comprare. E cosa è successo? Mi hanno punito con l’isolamento per lo spreco d’acqua. Questa è solo una parte delle cose subite. Ho visto gente perbene ma anche tanta violenza”.
Angelo oggi racconta la sua storia in giro per l’Italia. A Catanzaro, in carcere, ha iniziato a studiare giurisprudenza, arrivando a scriversi da solo l’istanza di revisione. L’ha inviata a molti avvocati, fino a quando non ha incontrato Maggio, che ha deciso di credere in lui. Così si è rimboccato le maniche, riascoltando tutti i testimoni in grado di smontare l’accusa.
Nelle sue mani prove importanti: Massaro il giorno dell’omicidio non si trovava a Fragagnano, luogo in cui Fersurella scomparve, bensì a Manduria, al Sert. A sostegno della tesi dell’innocenza anche alcune testimonianze e le intercettazioni di un altro processo, “Ceramiche”, nel quale l’uomo si professa più volte innocente. “Insomma, tutta una serie di elementi che non erano stati presi in considerazione”, aveva sottolineato il legale dopo l’assoluzione. Prove che vengono valutate soltanto negli ultimi due anni, quando ormai la pena è stata quasi totalmente scontata tra le carceri di Foggia, Carinola, Taranto, Melfi e Catanzaro. La libertà, ora, la vive da uomo spaesato, felice ma arrabbiato.
Perché la spiegazione di quanto accaduto non è ancora arrivata. “Chiedo solo che vengano fatti degli accertamenti, perché privare della libertà una persona a 29 anni è crudele e in uno stato di diritto è immorale”, dice. E invita a riflettere sullo stato della giustizia in Italia, dove molti processi sono stati rivisti e ribaltati. “Chi sbaglia è giusto che paghi ma un giudice prima di condannare una persona e privarla della vita e dei suoi affetti deve chiedersi se lo fa oltre ogni ragionevole dubbio – evidenzia -. Non provo rancore, voglio solo capire se questo errore poteva essere evitato”.
Massaro ha potuto riabbracciare sua moglie, all’epoca solo 22enne, e i suoi figli. Una felicità che cresce assieme alla frustrazione. “Perché ho fatto questi 21 anni di carcere?”, si chiede a cadenza regolare. Perché, ribadisce, non è il carcere ciò che non riesce ad accettare, “ma la condanna per un crimine così efferato – ha concluso. Non potevo sopportare che mi si accusasse della morte di un mio amico, non volevo che la mia famiglia venisse additata. Ho lottato, non mi sono mai arreso. Ma spesso mi chiedo: se fosse capitato a qualcuno meno forte di me e si fosse ammazzato, chi avrebbe lottato per dargli giustizia?”.
Simona Musco
da il dubbio
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goodbearblind · 6 years ago
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Posted @withrepost • @isentinellidimilano Oggi #mimmolucano ha riabbracciato il suo papà dopo 8 mesi di “confino” #riace (foto Simona Musco) https://www.instagram.com/p/Bx7idbNCFJo/?igshid=v13i14ga8oe3
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infosannio · 5 years ago
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‘ndrangheta, inchiesta “Rinascita- Scott”: 39mila euro di marca da bollo per tutti gli atti (Simona Musco - ildubbio.news) - Quasi 40mila euro per acquisire la gigantesca mole di atti dell’inchiesta “Rinascita- Scott”.
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popolodipekino · 6 years ago
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(scuola) stato di polizia
L’Associazione Dirigenti Pubblici: “No alla giustizia spettacolo” Con l’auto della scuola in Francia. Arresto al confine per la preside, di Simona Musco
L’arresto al confine come   se fosse una pericolosa  latitante, la custodia cautelare  in carcere, la foto sui giornali  e il nome scritto a caratteri cubitali.  Ma il reato commesso da Anna  Rita Zappulla, 62 anni, preside  dell'istituto tecnico professionale  Marconi di Imperia, è quello di aver usato la macchina in dotazione  alla sua scuola per una gita privata con il suo compagno. Peculato,  insomma, un gesto tanto grave da farla finire in prigione, in attesa della decisione del gip sulla richiesta del procuratore aggiunto  di Imperia Grazia Pradella di sostituire il carcere con i domiciliari.
«Se si proverà l’abuso, la giustizia  dovrà seguire il suo corso, ma la spettacolarizzazione di un arresto  non è mai auspicabile», si legge in una nota dell’Anp, associazione  nazionale dirigenti pubblici  e alte professionalità della scuola.  E che il provvedimento sia sproporzionato rispetto al reato commesso lo hanno pensato un po’ tutti. Ma è proprio il recente inasprimento delle pene per i reati  contro la pubblica amministrazione  che ha consentito agli inquirenti  di usare le manette. «Siamo di fronte ad una aggravante che giustifica l’arresto — ha spiegato a Repubblica il procuratore di Imperia,  Alberto Lari — Quell’auto era entrata nella piena e sola disponibilità  della preside, come un’appropriazione. Un conto è prendere un bene, usarlo e poi riconsegnarlo.  In quest’ultimo caso si tratta di semplice peculato d’uso».
A inguaiare la preside, che oggi verrà interrogata dal giudice Massimiliano  Raineri, è stata la denuncia  di qualche collega, che infastidito  dall’uso privato della Toyota Corolla di proprietà della scuola ha informato i carabinieri. E dopo circa un mese d’indagine, la donna è stata arrestata in flagranza  di reato, alle 18.30 di domenica, mentre rientrava insieme al compagno da Mentone, in Costa Azzurra, «dove si era recata, senza  alcuna motivazione riconducibile all’attività lavorativa svolta». Zappulla, si legge nella nota stampa diffusa dai carabinieri, faceva  «un uso improprio della vettura», utilizzandola «non solo nell’ambito della provincia imperiese,  ma recandosi anche fuori regione  e addirittura oltre confine».
La donna ha provato a giustificarsi,  senza però convincere i carabinieri,  che l’hanno così portata nel penitenziario di Pontedecimo, dove è stata schedata e chiusa in cella. Per i militari, che hanno scoperto  tutto piazzando un Gps dentro  l’auto, pedinandola e intercettando  le sue telefonate, quella della Zappulla era una condotta abituale.  «Dopo essere stati posti all’attenzione dei media e dell’opinione  pubblica per la giustificata   protesta contro la rilevazione biometrica delle presenze, i dirigenti   scolastici - prosegue la nota dell’Anp - rischiano di essere percepiti   dall’opinione pubblica in modo distorto. Anp, invece, vuole  ricordare la capacità di sacrificio,  la presenza quotidiana, l’enorme  carico di responsabilità e lo straordinario attaccamento al lavoro che accomunano la categoria.  Deve pagare solo chi sbaglia, non chi si distingue per abnegazione  e senso del dovere».
da Il Dubbio di oggi 16 aprile 2019
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popolodipekino · 6 years ago
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spazza
(puntata precedente qui)
Spazzacorrotti bocciata dal tribunale di Potenza, di Simona Musco Esecuzione della pena sospesa in attesa della Consulta
Un nuovo colpo alla   spazzacorrotti arriva, ancora una volta, dalle aule di un tribunale. In attesa della pronuncia della Corte costituzionale, il tribunale collegiale di Potenza, ribaltando la decisione del tribunale di Sorveglianza di Salerno, che aveva applicato la nuova norma, ha disposto l'inefficacia temporanea dell’ordine di carcerazione che aveva portato in carcere un avvocato 47enne, accusato di corruzione in atti giudiziari. Una storia singolare, ha spiegato il legale del professionista, Giovanni Vitale. L’entrata in vigore della norma, a fine gennaio, ha reso infatti inapplicabili le misure alternative al carcere, portando ad una revoca delle sospensioni degli ordini di carcerazione e, quindi, al carcere. Provvedimenti contro i quali molti sono stati i ricorsi, poi risultati vincenti. Ma nel caso in questione, la procura di Salerno, anziché sospendere l’ordine di carcerazione, emesso prima dell’entrata in vigore della legge, ha spedito il legale condannato davanti alla Sorveglianza, applicando, di fatto, la vecchia norma. Lì, però, i giudici hanno optato per la spazzacorrotti e l’uomo si è consegnato nel carcere di Matera, dov’è rimasto per tre mesi. Una decisione contro la quale Vitale ha presentato istanza di incidente d’esecuzione davanti al tribunale collegiale di Potenza, che ha stabilito, dunque, l’inefficacia temporanea dell’ordine di carcerazione, in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza. Dove, intanto, era stata fissata la camera di consiglio per la misura alternativa, di fatto riesumando la vecchia norma. «In pratica, il mio assistito è stato giudicato nel corso di 5 mesi con quattro norme diverse e questo non è legge, ma barbarie», spiega Vitale.
L’ordine d’esecuzione, ora, rimane congelato fino alla nuova decisione, che sia del tribunale di sorveglianza, a settembre, o della Corte costituzionale. Per Vitale, «non si tratta di vincere o perdere, ma di giustizia. È importante che il legislatore, nel fare le leggi, tenga presente che queste norme possono avere un impatto immediato nella vita dei cittadini, soprattutto quando si parla di esecuzione penale. Serve un indirizzo omogeneo su questa problematica e, ad oggi, tutti i tribunali si sono dimostrati cauti». Il suo non è un giudizio sulla norma: «Non ho interesse a farlo - dice - Ogni governo ha deciso di inasprire qualche reato, ma le carte in tavola non possono essere cambiate mentre stiamo giocando». Ma non solo: «Se la spazzacorrotti venisse applicata alla lettera, il mio cliente potrebbe accedere alle misure alternative solo collaborando. Ma come potrebbe per fatti commessi 11 anni fa e per i quali tutti gli altri imputati hanno finito di espiare la pena? - conclude - È inutile.
L’incostituzionalità di alcuni profili della legge è palese».
da Il Dubbio di sabato 25 maggio 2019
(va avanti qui)
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popolodipekino · 6 years ago
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(scuola) stato di polizia 2
(segue da qui)
Il gip Massimiliano Ranieri sottolinea “Lo strepito mediatico” «La preside non doveva andare in carcere», di Simona Musco
Non è chiaro il motivo per cui Anna Rita Zappulla,  la preside arrestata per aver usato «come fosse propria» l’auto della scuola, sia stata  portata in carcere. Dove è rimasta  due giorni, anche dopo aver avuto un’emorragia a causa  di alcuni problemi di salute e nonostante il pm abbia chiesto i domiciliari. E non è chiaro dal momento che «non vi è neppure  un elemento concreto» che potrebbe giustificarlo. È un caso  strano quello della preside dell'istituto tecnico professionale  Marconi di Imperia, arrestata  al confine con la Francia come una pericolosa latitante. Perché per il giudice che martedì  ha scarcerato la donna non ci sono elementi per parlare di peculato,  ma solo di peculato d’uso,  per il quale «l’arresto in flagranza  non è consentito». Anna Rita, invece, pedinata per settimane,  spiata col satellite che ha registrato ogni suo spostamento,  è stata bloccata al rientro da Mentone - dove era andata, dice,  per sbrigare una pratica scolastica  - e condotta in carcere con uno «strepito mediatico», appunta il gip, che renderebbe comunque improbabile qualsiasi  reiterazione.
«Anche se si fosse trattato di peculato,  l’arresto sarebbe stato facoltativo», spiega al Dubbio il legale  della donna, Andrea Rovere.  Che parla di una «spettacolarizzazione  fuori dal normale». Dopo essere stata arrestata, la preside ha trascorso parte della notte in pronto soccorso, per poi tornare in carcere, in attesa dell’interrogatorio di garanzia. «Come mai, dopo l’arresto, la stessa procura ha chiesto al gip gli arresti domiciliari? - si chiede  Rovere - È molto strano». La donna, spiega Rovere, ha usato l’auto della scuola dopo aver distrutto  in un incidente, avuto a febbraio scorso, la propria. «Ha usato così una Toyota regalata alla scuola per essere smontata e rimontata dagli studenti e sempre  per motivi assolutamente istituzionali - sottolinea - Le è capitato  di fermarsi a fare la spesa, ma pagava benzina e autostrada di tasca propria, senza mai chiedere  un rimborso, anche quando  la usava per motivi istituzionali,  proprio per via dell’uso promiscuo che ne faceva. Non c’è stato alcun danno erariale». Non c’è stata nessuna richiesta ufficiale per l’utilizzo dell’auto,  ma solo perché «avrebbe dovuto  farla a se stessa, essendo la preside - aggiunge - ma lo ha comunicato  comunque alla segreteria» . La donna, che ieri è tornata a scuola, «riuscendo a salvare quel finanziamento che, a causa dell’arresto, rischiava di andare perso», in caserma aveva provato  a giustificarsi. «L’autorità di gestione Pon richiedeva che alcuni   documenti fossero inseriti con una scadenza imminente», motivo per cui si sarebbe recata dalla sua segretaria, residente a Mentone. «Tutte le volte che l’auto viene monitorata all’estero  - ha aggiunto - è per lo stesso motivo, a spese mie». E l’auto «non era nel mio esclusivo utilizzo,  difatti qualora servisse ad altri colleghi per trasportare materiale  o per eventuali corsi di formazione veniva utilizzata dagli   stessi. Non ho mai negato l’utilizzo  dell’auto quando veniva richiesto». Nessuno, però, «mi ha mai chiesto l’utilizzo della Toyota - ha concluso - Era in mio uso continuativo, ma gli altri  la potevano utilizzare tranquillamente  per le esigenze di servizio».
Per il pm, che parla di «spregiudicatezza», Anna Rita Zappulla si sarebbe invece appropriata dell’auto, «parcheggiandola, anche in orari notturni, nel condominio  della propria abitazione  e distraendo quindi lo stesso veicolo dagli scopi istituzionali». E ciò giustificherebbe l’accusa  di peculato, alla quale la procura  è arrivata dopo la segnalazione  di un collega, secondo cui le giustificazioni della donna sarebbero  «una pantomima creata ad hoc» : nessuno oltre lei, ha protestato davanti al pm, avrebbe  potuto utilizzare quell’auto, tanto che in almeno due occasioni  i colleghi sarebbero stati costretti  a spostarsi con i propri mezzi per missioni ufficiali.
Per il gip Massimiliano Ranieri, però, «non risulta che vi sia stata   una sottrazione alla destinazione  pubblicistica originaria del mezzo che è rimasto a disposizione  dell’ente per eventuali impieghi istituzionali». Nulla più che peculato d’uso, per il quale l’arresto è impossibile. Ma anche se si fosse trattato di peculato, aggiunge, «si verserebbe  in ipotesi di arresto facoltativo», consentito solo in caso di fatti gravi, compiuti da soggetti  pericolosi e con modalità particolari.  «Condizioni che, nel caso  in esame, mancano» precisa il gip, essendo Zappulla «un’ultrasessantenne  plurilaureata e incensurata». E il pm «non le ha indicate, né ha chiarito le ragioni   per cui l’indagata, per la quale  ha richiesto gli arresti domiciliari, sia stata condotta in carcere».
da il Dubbio di oggi 18 aprile 2019
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paoloxl · 6 years ago
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La Corte di Cassazione ha stabilito che per negare l’asilo a un richiedente bisogna provare che tornando nel suo Paese non rischierebbe la vita.
I togati di piazza Cavour, accogliendo il ricorso di un ragazzo del Pakistan hanno dunque esortato i magistrati a evitare «formule stereotipate» e a «specificare sulla scorta di quali fonti» abbiano acquisito «informazioni aggiornate sul Paese di origine» dei richiedenti asilo. Nel caso specifico, la Commissione prefettizia di Lecce e poi il Tribunale avevano negato la permanenza in Italia.
La valutazione di una domanda di protezione internazionale non può prescindere da un serio e approfondito accertamento della «situazione reale del paese di provenienza» del migrante richiedente. A stabilirlo è stata la sesta sezione civile della Cassazione, che ieri ha accolto il ricorso di un cittadino pakistano mettendo in discussione le indicazioni del ministro dell’Interno Matteo Salvini, che punta ad una stretta sul riconoscimento dello status di rifugiato.
L’ordinanza della Cassazione, però, cambia le carte in tavola. Non basterà più, infatti, richiamarsi a generiche «fonti internazionali», senza motivare accuratamente nel merito. I magistrati dovranno dunque evitare «formule stereotipate» e sono chiamati a «specificare sulla scorta di quali fonti» abbiano acquisito «informazioni aggiornate sul Paese di origine» dei richiedenti asilo. Secondo i giudici della Suprema Corte, il giudice ha infatti il «potere- dovere» di accertare «se, e in quali limiti, nel Paese di origine dell’istante si registrino fenomeni di violenza indiscriminata, in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, che espongano i civili a minaccia grave o individuale alla vita o alla persona».
La vicenda riguarda un uomo pakistano, Alì S., che ha impugnato il decreto col quale il tribunale di Lecce aveva confermato il diniego al riconoscimento della protezione internazionale pronunciato dalla competente Commissione territoriale nel 2017. Secondo il migrante, assistito dall’avvocato Nicola Lonoce, la sua richiesta di asilo era stata valutata solo «in base a generiche informazioni sulla situazione interna del Pakistan, senza una considerazione completa delle prove disponibili e senza un corretto esercizio dei poteri officiosi». Punto di vista che ha convinto gli Ermellini, secondo cui il tribunale di Lecce «si è limitato ad apodittiche considerazioni» citando genericamente «fonti internazionali», mentre il «dovere di cooperazione gli impone di accertare la situazione reale del paese di provenienza mediante l’esercizio di poteri- doveri officiosi d’indagine e di acquisizione documentale», in modo che «ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate sul paese di origine del richiedente». Il tribunale di Lecce dovrà, ora, riesaminare il caso.
Simona Musco
da il dubbio
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paoloxl · 5 years ago
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Il Tribunale civile di Roma accoglie il ricorso presentato da 14 profughi eritrei
Il migrante respinto illegalmente ha diritto a rientrare in Italia e presentare richiesta di asilo. A stabilirlo è stato il Tribunale civile di Roma accogliendo il ricorso presentato da 14 cittadini eritrei che nel 2009 vennero bloccati in mare insieme ad altri profughi dalle autorità italiane e consegnati alle motovedette libiche.
Una sentenza «storica» per la sezione italiana di Amnesty international e Asgi, l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, che hanno assistito il gruppo di profughi nel ricorso, destinata probabilmente ad avere ripercussioni anche su quanto accade oggi: «Ci sono molte forme di respingimento illegale», spiega infatti l’avvocato Salvatore Fachile dell’Asgi, autore del ricorso con la collega Cristina Laura Cecchini. «Se arrivo a Lampedusa e non mi viene consentito di presentare domanda di protezione internazionale mi trovo di fronte a un respingimento illegittimo. Così come accade in alcuni casi negli aeroporti».
La vicenda ha inizio dieci anni fa quando ministro dell’Interno era il leghista Roberto Maroni e l’Italia aveva firmato il Trattato di amicizia con la Libia che prevedeva anche la possibilità di rimandare nel Paese nordafricano i migranti intercettati in mare. Cosa che accade nel giugno 2009 quando due barche con a bordo in tutto una novantina di persone – la maggior parte dei quali di origine eritrea – vengono intercettate, spiega Amnesty, «dalla Marina militare». «I profughi vengono fatti salire a bordo e rassicurati che sarebbero stati portati in Italia», ricostruisce Fachile. Invece la nave inverte la rotta e punta verso la Libia fino a incontrare le motovedette del Paese nordafricano. Quando i migranti capiscono quanto sta per accadere loro, mettono in atto un inutile quanto vano tentano di ribellione. «Con la forza vengono costretti a trasferirsi sulle motovedette libiche», prosegue Fachile secondo il quale violenze subite dai migranti sono documentate da una serie di fotografie scattate dalle forze dell’ordine e che l’Asgi è riuscita ad avere.
Una volta in Libia i migranti vengono rinchiusi in una prigione dalla quale alcuni riescono ad uscire dopo aver pagato un riscatto alle milizie. Una volta liberi alcuni riescono a imbarcarsi nuovamente e a raggiungere l’Europa. Altri, invece, falliti i tentativi di attraversare il Mediterraneo, si dirigono verso Israele dove ottengono un permesso di soggiorno rinnovabile ogni tre mesi. Ed è qui che Amnesty international li incontra e li mette in contatto con i legali dell’Asgi. «Siamo andati a Tel Aviv e abbiamo raccolto le procure per avviare una causa che all’inizio ci sembrava difficile da vincere», ammette Fachile.
L’Italia è già stata condannata per i respingimenti dalla Corte europea per i diritti dell’uomo con la cosiddetta sentenza Hirsi Jamaa, ma nell’accogliere il ricorso i giudici del Tribunale civile di Roma, spiega una nota di Amnesty, «si sono riferiti a quanto previsto dall’articolo 10 comma 3 della nostra Costituzione che riconosce allo straniero il diritto di asilo e che deve ritenersi applicabile anche quando questi di trovi fuori dal territorio dello Stato per cause a esso non imputabili». La sentenza, prosegue Amnesty, «è estremamente rilevante e innovativa perché laddove riconosce la necessità di ’espandere il campo di applicazione della protezione internazionale volta a tutelare la posizione di chi, in conseguenza di un fatto illecito commesso dall’autorità italiana si trovi nell’impossibilità di presentare la domanda di protezione internazionale in quanto non presente sul territorio dello Stato, avendo le autorità dello stesso Stato inibito l’ingresso, all’esito di un respingimento collettivo, in violazione dei principi costituzionali e della carta dei diritti dell’Unione europea». I giudici hanno quindi condannato l’Italia a consentire l’ingresso nel Paese dei 14 profughi che hanno presentato il ricorso in modo da permettere loro di fare richiesta di asilo, stabilendo inoltre un risarcimento di 15 mila euro per ciascuno di loro.
Che conseguenze può avere adesso la decisione dei giudici? Al di là degli allarmi leghisti (il senatore Roberto Calderoli ha già definito la sentenza «un precedente pericoloso e inquietante» che «rischia di essere l’apri pista per l’arrivo di decine di migliaia di immigrati») effetti si potrebbero avere sul Memorandum firmato con Tripoli dall’ex premier Paolo Gentiloni e confermato di recente dal governo giallo rosso. «In quel documento – conclude infatti Fachile – non sono previsti i respingimenti, ma l’Italia fornisce ai libici mezzi navali e apparecchiature radar, nonché li informa su dove si trovano le barche con i migranti. A noi non sembra molto diverso dal riconsegnarli alle autorità di Tripoli».
Leo Lancari
da il manifesto
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Illegali le espulsioni collettive
Il tribunale civile di Roma: Sì all’asilo e 15 mila euro il risarcimento.  La marina militare riportò indietro 89 eritrei violati i diritti dell’uomo. I migranti respinti furono torturati in Libia,
«Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate» ed è per questo che lo Stato dovrà risarcire con 15mila euro a testa e l’accoglimento della richiesta d’asilo un gruppo di migranti riportati con la forza in Libia dalla Marina militare italiana.
È una sentenza pesante quella pronunciata dal Tribunale civile di Roma, che accogliendo un ricorso dell’Asgi e di Amnesty international ha assestato un nuovo colpo alle politiche migratorie dell’Italia. Sancendo, soprattutto, il comportamento «antigiuridico» del nostro Paese, che conscio delle violazioni dei diritti umani in Libia ed Eritrea ha comunque mettendo in atto un illegittimo respingimento di massa.
Il fatto risale a giugno 2009, quando 89 persone sono partite fuggite dall’Eritrea sono salpate dalle coste della Libia con l’obiettivo di raggiungere l’Italia per chiedere il riconoscimento della protezione internazionale.
Raggiunti dopo tre giorni dalla Nave Orione, della Marina italiana, dopo esser stati perquisiti e identificati, ai migranti è stato garantito l’ingresso in Italia, dove avrebbero potuto richiedere la protezione internazionale. Un bluff, visto che la Marina ha invece riconsegnato i migranti ai libici, ignorando i rischi corsi dai migranti. E lì, infatti, sono stati detenuti per mesi, in condizioni inumane e degradanti. Il tutto in nome di una trattato di “Amicizia, partenariato e collaborazione” siglato nel 2008 con la Libia.
L’Italia, scrive il giudice, ha però violato «un principio fondamentale che non ammette riserve» : quello di non respingimento, che vieta agli Stati aderenti alla Convenzione di Ginevra di rispedire un rifugiato in luoghi dove la sua vita o la sua libertà vengono minacciate. Un principio strettamente legato, oltre che al divieto di tortura, anche al diritto d’asilo. L’Italia, dunque, non solo aveva l’obbligo di informarsi sui pericoli che i migranti avrebbero corso in Libia, ma i vari rapporti diffusi al momento del respingimento, afferma il giudice Monica Velletti, ben testimoniavano le «sistematiche violazioni dei diritti dell’uomo» e in particolare «torture, arresti arbitrari, condizioni detentive disumane, lavori forzati e gravi restrizioni alla libertà di movimento, di espressione e di culto» in Libia e Eritrea. E l’accordo allora in vigore tra Italia e Libia «non poteva esonerare l’Italia dal rispettare gli obblighi assunti per la ratifica di strumenti internazionali», di rango superiore, anche perché quell’accordo non disciplinava in alcun modo operazioni di respingimento. Insomma, la condotta dell’autorità italiana è stata «antigiuridica» e oltre al danno patrimoniale, lo Stato dovrà ora anche individuare «gli strumenti più idonei» ad accogliere la domanda di accesso al territorio italiano per poter richiedere la protezione internazionale.
«La sentenza – ha commentato  Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Asgi – è innovativa perché stabilisce che la violazione deve trovare un suo rimedio anche consentendo a quelle persone, anche dopo molto tempo, di accedere al territorio italiano per fare quello che è stato loro impedito, imponendo il rilascio di un visto d’ingresso per motivi umanitari. Altrimenti il diritto d’asilo, costituzionalmente garantito, sarebbe vanificato».
Simona Musco
da il dubbio
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paoloxl · 8 years ago
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L’80% degli italiani è convinta che ci sia un “emergenza sicurezza”, ma i dati dicono altro. Si è passati dagli oltre 1000 omicici del primo triennio degli anni novanta ai 468 dell’ultimo anno. Ma nessuno sembra accorgesene. Di certo non i media Lo stato d’animo degli italiani è chiaro: il Paese si sente poco sicuro. A raccontarlo è un sondaggio Ixè, presentato ad Agorà, secondo il quale il 79% degli intervistati percepisce un’emergenza sicurezza in Italia. Il 19%, invece, non ritiene ci sia nulla da temere. Il sondaggio è stato realizzato su un campione di 1.000 soggetti maggiorenni ( su 9.239 contatti complessivi), di età superiore ai 18 anni. Un campione che racconta un punto di vista degli italiani sulla situazione del paese, ritenuta a rischio terrorismo e stretta nella morsa della criminalità organizzata. Ma i dati diffusi dal Viminale raccontano un’altra storia. Ne- gli ultimi anni i delitti sono infatti crollati. Se poi consideriamo un passato più remoto e arriviamo agli anni ‘ 90, ci accorgiamo che gli omicidi sono passati dagli oltre 1000 del ‘ 91, ’ 92 e ‘ 93, ai 468 del 2016. E proprio nel 2016, secondo il ministero del’Interno, si è ridotto non solo il numero di omicidi, ma anche quello delle rapine, delle violenze sessuali, dei furti e delle estorsioni. Rispetto all’anno precedente i reati “generali” sono scesi del 16,2 per cento, passando da un milione e 347mila a un milione e 129mila. «Il nostro Paese può essere considerato sicuro», aveva evidenziato l’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano, analizzando i dati emersi dal Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica che si è tenuto stamani. «Gli investimenti per la sicurezza crescono, il contrasto alla criminalità organizzata ha ottenuto importanti risultati sia sul piano della cattura dei latitanti che del sequestro dei beni», aveva aggiunto. Sono stati ottantacinque gli estremisti per terrorismo islamico arrestati e 110 i foreign fighters monitorati. Secondo la relazione del Viminale pubblicata lo scorso 9 febbraio, «in Italia, nel corso degli ultimi anni ( 20082015), il totale generale dei delitti ha mostrato un trend altalenante, in quanto, alle flessioni del 2009 e 2010 ha fatto seguito un incremento nei tre anni successivi; il valore è nuovamente diminuito nel 2014 e nel 2015, anno, quest’ultimo, che ha fatto registrare un decremento del 4,47% rispetto a quello precedente». Gli omicidi volontari, che erano 249 nel primo semestre del 2015, nei primi sei mesi del 2016 sono scesi a 196 (21,3%), le violenze sessuali sono passate da 1982 a 1579. Oltre il 20 per cento in meno anche di rapine, passate da 1563 a 1200. Scese pure le estorsioni ( 4401 nel 2016 contro le 4937 del 2015), l’usura ( 167 contro 212), i furti ( 636mila contro 730mila). Netta diminuzione anche dei furti in abitazione ( da 109mila a 90mila). Ciò, però, non ha influito sulla percezione del rischio criminalità in Italia. I dati Istat diffusi a dicembre scorso, infatti, raccontano che il 38,9% delle famiglie italiane indica il rischio di criminalità come un problema presente nella zona in cui abitano ( 30,0% nel 2014). Nel Lazio una famiglia su due percepisce tale rischio ( 50,0% delle famiglie), seguono Veneto ( 45,7%), Emilia- Romagna ( 45,5%) e Lombardia ( 44,3%); quest’ultima occupava la prima posizione nel 2014 con il 37,2%. La Campania si trova in quinta posizione, come nel 2014, ma la quota di famiglie è ben superiore ( 43,5% contro 33,3%). Le ragioni? Nonostante il calo dei reati, sono aumentati quelli più percepiti dai cittadini, come furti in casa, borseggi, scippi e così via. Insomma, la microcriminalità è socialmente più avvertita della macrocriminalità. E anche i media ci mettono lo zampino: giornali e talk show, negli ultimi anni, hanno enfatizzato l’allarme sulla sicurezza, distorcendo la realtà e alimentando una percezione distorta dell’insicurezza, sia dal punto di vista quantitativo sia per le cause che la originano. Simona Musco da il dubbio
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paoloxl · 8 years ago
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Angelo Massaro, 52 anni, accusato per un omicidio mai commesso nel 1995, resta in carcere per 21 anni a causa di una intercettazione fraintesa Una parola fraintesa gli ha rovinato la vita. Ventuno anni dopo essere finito in cella, Angelo Massaro, 52enne di Fragnano, in provincia di Taranto, ha visto riconosciuta la propria innocenza: non ha ucciso lui il suo amico Lorenzo Fersurella, ammazzato il 22 ottobre 1995. Massaro ha dovuto però affrontare un processo di revisione a Catanzaro per sentirsi dire di non aver mai impugnato quell’arma. Quasi la metà della sua vita l’ha passata dietro le sbarre per una consonante: gli investigatori che lo hanno intercettato hanno interpretato male una parola in dialetto. “Muert”, che in pugliese vuol dire morto, al posto di “muers”, che significa, invece, oggetto in- gombrante. Una lettera sola ha stravolto la vita di un ragazzo che all’epoca aveva solo 29 anni e un bimbo nato da soli 45 giorni. «Finalmente è emersa una verità, che poi è sempre la verità processuale che vorremmo tutti coincidesse con quella vera – ha commentato Salvatore Maggio, difensore di Massaro -. Posso dire con amarezza che c’è una persona che non ha commesso il grave reato per il quale era stato condannato e che solo dopo 21 anni lascia le patrie galere. La giustizia è fatta da uomini e come tali possono sbagliare tutti». La Cassazione aveva decretato 24 anni di carcere per l’uomo, il cui caso si è riaperto cinque anni fa dopo una lunga battaglia da parte del suo legale. La Corte d’appello di Potenza aveva infatti negato la revisione del processo, poi concessa dalla Cassazione nel 2015. Il processo è quindi finito in Calabria, a Catanzaro, che ha ordinato l’apertura della cella dopo 21 anni trascorsi lì da innocente. Com’era capitato, prima di lui, a Giuseppe Gulotta, che ha passato 23 anni in cella per la strage di Alcamo, alla quale però non ha mai preso parte. Per lui lo stato ha sentenziato lo scorso anno un maxi risarcimento da 6 milioni e mezzo. Ora Massaro potrebbe chiedere un indennizzo per l’ingiusta detenzione. «È entrato in carcere che aveva 29 anni e si era appena sposato. Ora di anni ne ha 51 ed è ancora frastornato dalla notizia. Il suo stato d’animo è di gioia, ma anche amarezza per i tanti anni che ha perso dietro le sbarre», ha spiegato il legale. La sera del 17 ottobre del 1995 Massaro venne intercettato al telefono con la moglie. Era passata una settimana dalla scomparsa di Fersurella, suo amico. I due parlavano del più e del meno ma una frase attirò l’attenzione degli agenti. «Faccio tardi stasera, sto portando u muers», disse Massaro. «Stava trasportando un ingombrante slittino da neve attaccato alla sua auto – ha spiegato il legale -. C’erano anche testimoni che avrebbero potuto confermare l’alibi, ma i difensori di allora non li citarono convinti che l’impianto accusatorio fosse debole». Fersurella venne trovato crivellato di colpi in una cava alla periferia di San Giorgio Jonico. Fu un pentito a puntare il dito contro Massaro, che avrebbe ucciso il suo amico per contrasti nel mondo dello spaccio. Venne così condannato, pena diventata definitiva nel 1997. Cinque anni fa Maggio ha chiesto per la prima volta la riapertura del processo. Nelle sue mani prove importanti: Massaro il giorno dell’omicidio non si trovava a Fragagnano, luogo in cui Fersurella scomparve, bensì a Manduria, al Sert. A sostegno della tesi dell’innocenza anche alcune testimonianze e le intercettazioni di un altro processo, “Ceramiche”, nel quale l’uomo si professa più volte innocente. «Insomma, tutta una serie di elementi che non erano stati presi in considerazione – ha sottolineato il legale -. Sono contento per essere riuscito a dimostrare l’innocenza di una persona ed è una grande soddisfazione per lui, per la sua famiglia e per quello che è stato fatto». Prove che vengono valutate soltanto negli ultimi due anni, quando ormai la pena è stata quasi totalmente scontata tra le carceri di Foggia, Carinola, Taranto, Melfi e Catanzaro. Negli ultimi anni la sua battaglia è finita su un blog, “Urla del silenzio”, dal quale ha più volte raccontato storie e lanciato appelli al ministero al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, all’associazione “Antigone” e all’associazione “Bambini senza sbarre”. Simona Musco da il dubbio
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