#sensualità estiva adolescenziale
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La sensualità estiva adolescenziale (PCSEIT #1)
Parole Che Spero Esistano In Tedesco, Parte 1.
Parte 1 non perché io dia per scontato che ce ne saranno altre (ricordiamo com’è andata l’ultima volta?) ma perché voglio lasciare la porta aperta al fatto che magari, forse, un giorno ce ne saranno altre.
Intendiamoci, io non capisco una parola di tedesco. Anzi, una la capisco, me l’ha insegnata un amico: Tintenkiller, che vuol dire cancellino, bianchetto. Beh, è un bel composto, non c’è che dire. Poi capisco le parole che per qualche motivo mi sono capitate davanti quando andavo al liceo, tipo Sturm und Drang o Sehnsucht, le solite cose. E poi c’è la terza categoria: quelle che becco ora, all’università, nel bel mezzo dell’introduzione all’autore latino di turno o al commento a questa o quell’opera.
Se davvero nella vita mi occuperò di lettere antiche dovrò seriamente imparare il tedesco come una persona seria. Fino ad allora, la mia reazione davanti a quella parola è, nell’ordine: sbuffare, prendere il cellulare, digitare su google la parola seguita da “significato”, leggere il significato, giurare a me stessa che me lo ricorderò, ritrovare la stessa parola due pagine dopo, darmi una manata sulla fronte perché non mi ricordo cosa voglia dire, ripetere il procedimento fino a esaurimento testi e/o voglia di fare.
Però questo procedimento non rende giustizia a un momento. Quel momento. Il momento in cui leggo il significato e penso: Acciderbolina. (Non penso davvero acciderbolina, chi mi conosce dal vivo sa che sono una persona abbastanza sboccata, però qua facciamo finta che io pensi acciderbolina). Poffarbacco. Hanno proprio una parola per tutto. Io neanche sapevo di pensarla, questa cosa, e loro c’hanno la parola.
Sarà che hanno il composto facile, sarà la filosofia, resta il fatto che ormai ho la convinzione irrazionale che i parlanti nativi tedeschi possano per miracolo planare in mio soccorso dall’alto ogni volta che ho una sensazione che non so definire.
Magari non succederà stavolta. Io spero di sì. Sono cose che non puoi cercare sul vocabolario, perché in italiano sono interi sintagmi. In attesa del germanofono salvatore, io provo a definire una cosa per cui mi è manca la parola.
Perché le parole sono importanti.
(Mi è appena casualmente venuto in mente il romanzo “Volo nella notte” di Frances Hardinge. Lo cito perché è un’enorme dichiarazione d’amore alle parole, e anche perché non se lo fila nessuno anche se è un bel romanzo).
Ti accorgi che ti manca una parola non mentre speculi in astratto, ma mentre stai parlando. (Scrivendo, in questo caso, ma scrivere per messaggio è quasi parlare, o almeno è una via di mezzo).
Si parlava di Call me by your name, il film di Luca Guadagnino – wow, che originalità! – e, nello specifico, un’amica mi aveva appena chiesto un parere. Io l’avevo visto poche ore prima, lei non l’aveva visto e voleva chiedermi se ne valeva la pena. Io le ho scritto (detto?) circa: «È bello. Però è sopravvalutato. Però è bello. Però non è un film indispensabile, capisci? Diciamo che ad alcuni lo consiglierei tanto e ad altri no, dipende tanto dai gusti. A me sono piaciute due cose in particolare, se ti interessa almeno una di quelle guardalo».
Spiegare la prima cosa che mi è piaciuta in particolare non è stato difficile: la concezione dell’amore del quale è impregnato sin dal titolo. Se si è interessati a un film romantico che non si limiti a mostrare l’amore ma ci rifletta anche sopra, Call me by your name è un’ottima scelta. (Potrei aggiungere due osservazioni: uno, la concezione dell’amore descritta nel film è molto molto simile alla mia e mi sono sentita meno sola al mondo; due, purtroppo nel film c’è una discreta forbice fra quel che viene detto e quel che viene mostrato, e questo è il difetto principale del film, ma per discuterlo a fondo servirebbe un articolo a parte).
La seconda cosa che mi è piaciuta è stata più complicata da spiegare. All’inizio l’ho chiamata “sensualità estiva”, ma mi rendevo conto che era un’etichetta insufficiente. Fin quando questo concetto era nella mia testa (da ben prima del 2017) quelle due paroline funzionavano benissimo, ma ora che si parlava di trasmettere il concetto a un’altra persona, una che non aveva neanche visto il film, ecco, il meccanismo si inceppava.
Ho preso una scorciatoia, allora. Ho cambiato medium. Per tutto il tempo della visione del film mi era risuonata in testa una canzone che catturava lo stesso esatto genere di sensualità: le ho mandato quella.
La canzone è Le vacanze dell’83 dei Baustelle e, a rifletterci, la coincidenza è impressionante (anche Call me by your name è ambientato nelle vacanze del 1983, e certi versi della canzone sono davvero molto adeguati anche alla trama del film, a patto di essere un po’ flessibili con le desinenze, ma io non vi dico altro, andatevela ad ascoltare).
La mia amica ha ascoltato e ha detto di aver capito bene quello che volevo dire. Io naturalmente non ero sicura che lei avesse capito quello che volevo dire. Classico pensiero che ti porta rapidamente al solipsismo se ti lasci prendere. Il punto è che di solito abbiamo le parole a rassicurarci, e se io dico giallo o triste o sorprendete tutto sommato mi aspetto che l’altra persona provi lo stesso che provo io, anche se in fondo in fondo non saprò mai se davvero è così.
Illudersi quel tanto che serve per comunicare è più difficile se non sei tedesca e non hai le parole
Io ho continuato a parlare della sensualità estiva, però. Non ho provato neanche allora a descriverla (sarebbe stato più coraggioso, forse) ma ho cercato di ricordarmi quando mi era venuta in mente per la prima volta.
Se non la prima, una delle prime volte era stata – così ho detto alla mia amica – mentre leggevo un libro di Carlos Ruiz Zafòn. Ci tengo a sottolineare che, a mia memoria, io e quest’amica non abbiamo mai parlato di Zafòn, nessuna di noi l’ha proprio mai menzionato all’altra, lei non sapeva che avessi letto suoi libri, né io sapevo che ne avesse letti lei.
La mia amica ha risposto: «Il principe della nebbia».
Allora ho capito che aveva capito.
Okay, io ho un problema con Zafòn. Non è che non mi piaccia (oddio, non prendo in mano un suo libro da almeno tre anni, ma non vuol dire nulla). Il problema è che ho letto credo tre dei suoi libri e non so cosa sia successo in quale. Fra le trame intricate e l’atmosfera monocorde non solo all’interno del singolo romanzo, ma anche fra un romanzo e l’altro, le scene, i personaggi eccetera nella mia testa sono diventati pappetta, un unico impasto.
Del Principe della nebbia, poi, sommando tutti i miei flash ricordo più che altro delle statue in cortile che mi avevano fatto una leggerissima paura, e che poi avrei ritrovato non tanto cambiate nei capolavori topiari di Shining di Stephen King. (Ho appena scoperto che tagliare i cespugli per farli sembrare animali si dice arte topiaria. Che bello avere le parole per dire le cose!).
Poi, un pagliaccio da qualche parte, un qualche galeone. Nebbia, parecchia, ma forse mi faccio influenzare dal titolo. Molti racconti nel racconto, ma forse quelli erano in Marina. Boh.
Però c’è una cosa che mi ricordo molto bene: la spiaggia, il protagonista che, nascosto dietro qualcosa, spia un ragazzo e una ragazza, che sono i suoi migliori amici o qualcosa del genere, che si stanno baciando o poco più. È una scena che mi è rimasta impressa, proprio perché catturava esattamente quell’idea che si potrebbe chiamare sensualità estiva adolescenziale, oppure sensualità estiva puberale, se avessi più coraggio nel dare i nomi ai post.
L’elemento adolescenziale è fondamentale, perché questo genere di sensualità è esattamente quello ingenuo, quello teso alla scoperta del corpo più che al suo semplice uso. E poi c’è l’estate, che molto difficilmente è un’estate in campagna o passata a fare alpinismo; di solito richiede sabbia e mare, ma in Call me by your name se la sono cavata benissimo coi laghetti lombardi. Direi che è fondamentale l’acqua, comunque, e poi il sole.
Ma non starò qui a spiegare il concetto, io sto semplicemente aspettando la parola tedesca.
Fino ad allora guardate il film, leggete il libro e, cosa più immediata, ascoltate la canzone.
Poi calcolate l’m.c.d. e riflettete su quanto è bello avere le parole per dire le cose.
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