#se potessero parlare
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🧵“Se i pannelli solari potessero parlare”.
Sono un pannello fotovoltaico al silicio monocristallino, sono grande 2.094x1.038x35mm e peso 24 kg. Fui costruito a Xi’An in Cina e oggi sono in un campo fotovoltaico vicino Avellino. Sono bello, vero? Seguitemi nel mio racconto!
Per la mia costruzione nella fabbrica di pannelli PV più grande del mondo, alacri operai cinesi misero insieme 1.128 grammi di preziosi wafer al silicio monocristallino collegandoli con 72 grammi di sottilissime interconnessioni in rame su un letto di 2.352 grammi di alluminio.
A ricoprire il tutto, 1.032 grammi di EVA protettivo e 19.416 grammi di vetro temperato purissimo. Per completare l’assemblaggio furono necessari ben 3.250 kWh di energia elettrica cinese, di cui il 67% da combustibili fossili che produssero 1.276 kg di emissioni di CO2.
Per andare da Xi’An a Shanghai via TIR insieme ad altri 349 pannelli come me, occorsero ben 1.000 litri di gasolio, circa 3 a testa. Poi, da lì, per raggiungere Amburgo (11 kNM), la nave cargo dovette bruciare ben 5.300.000 litri di “bunker oil”,
un gasolio molto grezzo e viscoso con alto contenuto di zolfo, che, divisi per 1.400.000 di noi (4.000 container x 350 moduli), furono circa 4 litri a testa. Infine, per il tragitto da Amburgo ad Avellino via TIR ci vollero ulteriori 1.000 litri di gasolio, 3 a testa.
Giunto ad Avellino, per la mia installazione ci volle un ulteriore litro di gasolio che portò il totale a 11, cioè 113 kWh di energia e 30 kg di CO2 emessa.
Lì, considerando l’insolazione annua di Avellino, il mio rendimento di conversione solare/elettrico e perdite del 6% circa per giunzioni e inverter, in 20 anni produrrò circa 8.200 kWh netti in rete.
Infine, quando esalerò l’ultimo respiro, per smantellarmi, smaltirmi e riciclare i miei componenti occorreranno, ahimè, ulteriori 900 kWh circa di energia elettrica italiana che daranno luogo a 222 kg di emissioni CO2.
Tirando le somme, a fronte di 4.263 kWh di energia spesa e 1.528 kg di CO2 emessa, avrò prodotto 8.200 kWh in 20 anni, cioè 3.937 kWh netti (197 kWh/anno) emettendo 1.528 kgCO2, 388 gCO2/kWh. Il mio EROEI sarà 8.200/4.263 = 1,92.
Vi domando: ne sarà valsa la pena per il globo?🤔
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Anche se sorpassato, seguito ad amare il mondo "analogico" d'un tempo. Lo trovo poetico. Quella poesia piena di riconoscenza, di euforie e ricordi andati. Confesso che provo tanta tenerezza per quei televisori a tubo catodico che vedo avviarsi, mesti mesti, verso la discarica o per quei giradischi che hanno finito la voce. Come ho provato un colpo al cuore quando ho visto la serranda chiusa di quel negozietto storico nel quartiere Prati. Avevano rimosso anche quell'insegna anonima che campeggiava sopra la serranda: Assistenza HI-FI. Per tanti come me era il negozio dove si riparavano gli “stereo”. Ma certo, chiamiamolo ancora una volta così, come quando ce lo regalavano al liceo. Quell’insieme di giradischi, amplificatore, piastra e casse acustiche, che collegato da cavetti, ci ha fatto sentire la musica che ci piaceva e che ha formato il nostro gusto, come mai più niente ci è riuscito. Li' dentro si riparavano oggetti meravigliosi di un’altra era tecnologica. Entravi e sentivi Mario che parlava, eppure era da solo. Parlava con i condensatori, i transistor, i circuiti integrati, le cinghie, i cursori, piegandoli alla sua volontà. Mi piaceva quel suo modo sempre carico di speranza: "Dai, lascialo li e vediamo che si puo' fare. Chiamami la prossima settimana!”. Riparare..Riparare..mi piace da matti questa parola. Riparare a un torto, a un errore, riparare oggetti che hanno molto da raccontare. Ah, se potessero parlare!! Racconterebbero di come, sconquassati da acne giovanili, mettevamo trepidi il braccetto su un disco dei Pink Floyd, sperando che in 5 minuti la biondina del “I A” ci notasse, o di quando il nostro Galactron da 100 watt per canale sparò tutta la sua potenza al massimo dalle ESB100 sulla nostra versione di Tacito, uccidendola, poveretta. Ebbene si! Ancora amo quel tempo! @ilpianistasultetto
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Tu ce l'hai qualcuno che si assicura che tu sia felice nelle piccole cose,tipo osservando i tuoi occhi come nessuno vuol fare mai, tipo chiedendoti sul serio com'è che stai, tipo ascoltando i tuoi silenzi come canzoni lente, come se potessero parlare soprattutto in mezzo alla gente?
Perché la verità è che possono, possono eccome.
Ce l'hai qualcuno che quando fai tardi ti aspetta senza incazzarsi, almeno non troppo, e che non odia i tuoi difetti perché sa che senza non saresti tu, perché sei più bella quando ti arrabbi per niente, quando vai nel panico, perché ogni cosa per te è importante quando vuoi avere ragione, se no scassi tutto, se no rompi le scatole per ore?
Ce l'hai qualcuno che quando pensa, pensa pure per te?
Intendo dire qualcuno che non pensa solo al suo bene, ma anche al tuo, come se la tua felicità e la sua corrispondessero - che forse è proprio questo volersi bene: farsi bene a vicenda laddove "farsi bene" vuol dire soprattutto restare insieme.
Tu ce l'hai qualcuno che nelle occasioni peggiori, nei giorni più tristi, è stato per te un faro, perché senza non vedevi niente, era tutto buio?
Ce l'hai qualcuno che, se lo chiami, viene a salvarti, basta che fai il numero?
E faresti bene a scrivertelo sulla mano perché qua non ti salva mai nessuno.
Ce l'hai qualcuno a cui riesci a credere senza doverti sforzarequando ti dice che ti vuole bene, perché lui c'è quando tutto va male, perché ti insegna come volare quando vorresti sparire, perché crede in te nonostante per te tu non sia abbastanza, perché, anche se poi resta senza, ti dà la sua felpa quando l'hai scordata a casa e il suo sorriso se l'hai dimenticato sulla porta proprio prima di uscire?
Tu ce l'hai qualcuno che il bene che ti vuole te lo fa sentire addosso, te lo dimostra?
Che ti guarda negli occhi come se tu fossi una cosa bella, troppo bella, introvabile, e non una cosa qualunque?
Ce l'hai qualcuno così?
Perché ti assicuro che è l'unica cosa che conta, e poi
l'unica che ti salva.
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Se i miei occhi potessero parlare, urlerebbero
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L'INCOMPRENSIONE RECIPROCA
G. I. Gurdjieff diceva: "Prima di discutere con qualcuno occorre realizzare fino a che punto quella persona può capire le nostre parole. Il parlare nonostante l'impossibilità di essere compresi dall'altro è sempre una perdita di tempo e di energia. Chi è consapevole, parla solo quando è certo che chi ascolta è in grado di comprendere."
La malcomprensione è la regola tra gli esseri umani. Dalla più piccola lite alla guerra in larga scala. Perché? perché ogni parola assume per ognuno di noi un significato diverso a seconda del proprio vissuto e sopratutto dal livello di coscienza soggettivo. Ecco perché non comprendersi, tra le persone, e' la norma.
Se credete che ogni essere umano debba comprendere le vostre parole o quelle dei Maestri, come arrivano a voi, vi illudete. L'illusione è un fenomeno mentale che ci allontana dalla realtà e dalla sua complessità. La vita segue una sua "logica" che va oltre il nostro concetto di "giusto" e "sbagliato". La vita non è morale e nemmeno immorale ma amorale.
Le nostre credenze sulla realtà non sono la realta' "oggettiva" ma una sua rappresentazione interna delle nostre credenze. Una credenza è un costrutto mentale inserito nella nostra mente dall'esterno. Noi entriamo in conflitto per le credenze che sono spesso più idee che esperienze.
Una persona che, per esempio, non ha mai vissuto l'esperienza dell'amore incondizionato o del perdono potrà parlarne sul piano analitico ma non può sapere di cosa parla se non è passato per quella esperienza. Lo stesso vale per la sessualità, la malattia e il lutto. Come può un prete parlare di sesso senza averlo provato? Come può un terapeuta curare un depresso senza aver mai esperito una depressione?
Esperire vuol dire morire a se stessi… passare attraverso l'esperienza… per andare oltre la logica razionale. Per crescere bisogna morire alle proprie credenze.
Non credete a nessuno, neanche alle parole dei cosiddetti "Maestri" o a quelle che, secondo voi, sono le autorità o si proclamano tali. Non credere neanche a te stesso ma credi solo all'esperienza… nessuno può dirti cosa è giusto o sbagliato e tu non puoi dire a nessuno cosa è giusto o sbagliato.
Decidi cosa è "giusto" o "sbagliato" per te attraverso l'esperienza e prenditi la responsabilità della tua vita ma ricorda che nessuno potrà comprenderti veramente perché siamo sempre soli nella nostra esperienza.
Le parole sono il mezzo con cui comunichiamo anche se ci scontriamo perché utilizziamo termini diversi, secondo noi oggettivi, per dire a volte la stessa cosa. Quello umano è un mondo intersoggettivo e la relazione si basa proprio sulla negoziazione del significato delle parole. E' nella relazione che si costruiscono i significati. Ma la relazione non è fatta solo di parole, anzi le parole spesso ci allontanano.
Le parole dette senza coscienza feriscono, uccidono.
Funzioniamo così: "io ho ragione, secondo i miei schemi mentali, mentre l'altro ha torto perché ha schemi mentali diversi dai miei". Questo fenomeno è amplificato sui social dove ci si irrita, si giudica, si offende l'altro per imporre la propria visione del mondo.
L'Arte, per esempio, nasce all'anima perché usa il linguaggio simbolico che è universale e arriva direttamente al cuore… quella che viene definito "Centro Emotivo Superiore" da Gurdjieff. Senza una comunicazione da cuore a cuore gli esseri umani sono impossibilitati a comunicare.
Dovremmo imparare il valore del silenzio, non per presunzione, ma perché è necessario capire se quello che voglio dire l'altro possa capirlo veramente oppure no.
Ho speso tanto tempo e fiato con persone che pensavo potessero e dovessero capirmi e ho compreso che a sbagliare ero io. Non puoi parlare a chi è sordo e non puoi mostrare il tuo mondo interiore a chi è cieco. Non puoi pretendere che l'altro ti capisca… perché l'altro non è te. L'altro è diverso da te. L'altro non è dentro di te.
Le donne vorrebbero che gli uomini le capissero… gli uomini che le donne li capissero… gli islamici che i cristiani li capissero… i cristiani che gli islamici li capissero… i buddhisti che gli islamici li capissero… è sempre stato così ma niente è mai cambiato.
Chi ha deciso di "svegliarsi" e compiere un lavoro su di sé è pronto per cogliere la verità a seconda dell'impegno che mette nel conoscersi. La Verità non si ottiene volendo avere ragione a tutti i costi e urlandola agi altri ma ascoltando più i silenzi che le parole. Nel silenzio in cui Dio stesso si esprime.
Tiziano Cerulli
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Mi manchi
ma non te lo faccio più sapere,
dirigo le mie nostalgie altrove adesso,
uso la musica come cerotto,
ho scoperto che le canzoni
sono in grado di bloccare un'emorragia
che la poesia funziona come garza
nasconde a tutti la ferita coprendola di bianco,
come ad insegnare che da lì in avanti
presto ci sarà spazio per scrivere sopra un'altra storia,
la poesia è una garza che fa' da scudo
ai colpi di chi vive una vita in prosa
mi manchi
ma non te lo faccio più sapere ora,
mi sono aperto al mondo invisibile
mi confido con il bosco, mi apro agli insetti,
le api ora non mi pungono più
conoscono le mie frequenze
e mi trattano come fossi un fiore,
un fiore con alle spalle
più autunni che pollini
uso il mare come disinfettante adesso,
ho scoperto che il mare d'inverno
ha una laurea in psicologia,
le onde sono specializzate in ascolto,
gli scogli sono l'attestato,
adesso il mio diario segreto è l'alta marea,
ah, se solo questi tramonti potessero parlare
e tu mi manchi
ma non te lo faccio più sapere,
che la tua assenza
non porti più via il mio presente.
Gio Evan
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Se i tuoi occhi potessero parlare, chissà quanto dolore tirerebbero fuori.
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Se gli animali potessero parlare ci direbbero che gli esseri umani dovrebbero essere semplicemente più semplici e meno complicati. ~ Jean-Paul Malfatti ~ ***************************** If animals could talk they would tell us that humans should simply be simpler and less complicated. ~ Jean-Paul Malfatti ~
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Ciao! Ho una (non proprio) piccola spiegazione per i tag di omarfor-orchestra (se ti interessa). In pratica lei si stava riferendo alla serie Un Professore (che va in onda sul rai1 da qualche anno).
Allora: alla fine della prima stagione i protagonisti, Simone e Manuel, finiscono per baciarsi e fare sesso. Questo è il culmine della tensione che c'è stata per tutta la stagione tra sti due, e dovrebbe portare ad un inizio di questioning per Manuel sulla sua sessualità, che lo porterebbe a realizzare che è bisessuale (come è successo, più o meno, nella serie spagnola da cui questa serie è tratta).
Ora, evidentemente agli sceneggiatori non fregava nulla del materiale originale o di questa trama interessante visto che in qualsiasi intervista della s2 hanno negato che Manuel potesse essere non etero in qualsiasi modo possibile.
Ma comunque quando è iniziata la stagione si pensava ancora che potessero FORSE continuare quello che avevano iniziato. Questo ovviamente non è successo, e anzi hanno completamente distrutto il personaggio di Manuel (per esempio: lui e Simone, che sono migliori amici da un anno, non si parlano affatto per tutta la stagione, neppure quando Manuel decide di scappare in Francia con la sua nuova fidanzata per ragioni idiote, cosa che invece aveva fatto in precedenza (o almeno qualcosa di simile))
Ultima cosa giuro ma la seconda stagione finisce con tutte le coppie etero felici e gli unici rimasti mentalmente distrutti dagli avvenimenti della stagione sono Simone e il suo nuovo fidanzato. Perché ovviamente i gay non sia mai che siano felici (soprattutto se la serie è su di loro)
Quindi. Queerbait di decimo livello proprio. Scusa per la spiegazione lunga, mi sono fatto prendere la mano 😅
MACCHÈ SCUSA anzi grazie per la spiegazione iperdettagliata. Lo ammetto, io di tv italiana praticamente non ne guardo (le eccezioni sono davvero poche), ma avevo già sentito parlare di questa serie, anche bene, e forse l'aveva iniziata a vedere mia madre. Non avevo IDEA di tutto questo drama dietro. Mamma mia la tv italiana è sempre, nel bene e nel male, in grado di stupire. Mi dispiace un po' nel leggere di questa cosa, perché davvero non c'è legge che impedisca ai nostri prodotti seriali televisivi di evolversi a livello di tematiche e trattamento di tale tematiche, ma allo stesso tempo sembra davvero uno sketch di Boris.
"La rete ci ha detto che Manuel omosessuale non si può fare. Il Dottor Cane ha addirittura minacciato la cancellazione della serie."
"E vabbè, che problema c'è? Risolviamo. Manuel Simone non lo vede più."
"Ma come non lo vede più? Ma lasciamo in sospeso la storyline cosí."
"Sticazzi della storyline, adesso per togliercelo dai coglioni lo mandiamo... *chiude gli occhi, muovendo il dito su una cartina dell'Europa prima di puntarlo su un posto a caso* Francia! È bella la Francia. Poi in Francia ci stanno un sacco di belle ragazze. Problema risolto."
"E Simone?"
"F4 basito alla partenza di Manuel. Siamo dei geni. GENI!"
#scusami questa roba è davvero immonda ma non resisto a cazzeggiare su Boris ogni volta che posso#comunque vabbè veramente imabrazzante da parte della rai#mi dispiace per tutte le persone che hanno seguito la serie e speravano genuinamente di vedersi rappresentate#in un prodotto italiano e che magari si rivedevano in Manuel o Simone#Io di solito è per questo che guardo poche serie italiane in particolare prodotti rai#temo che la maggior parte delle tematiche 'delicate' (e già parlare di omosessualità come tematica delicata è cosa che mi fa specie)#vengano trattate con l'obiettivo di non far sentire mio padre sessantenne a disagio#rip Simone. Spero tu viva felice con Manuel in qualche fanfiction su ao3.
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L'altro giorno ho visto "L'uomo in più" di Paolo Sorrentino. Non lo avevo ancora mai visto e ne ero curioso, tempo fa sentii un' opinione secondo la quale nella filmografia di Sorrentino si potessero distinguere due ere, delimitate da "Le conseguenze dell'amore" (che avevo già visto e già mi rendeva un po' sospetta - di essere 'na cazzata- tale opinione), in particolare per via dell' assenza di una trama nei film successivi, sempre secondo questa opinione, e che quindi non erano a livello di quelli prima. Dopo aver visto il film il sospetto è stato confermato, ma non volevo parlare di questo o del suo perché.
Volevo parlare di una scena del film, in particolare di una battuta: la scena non è estremamente rilevante (c'è uno sviluppo sicuramente significativo ma non cruciale), c'è una piccola discussione tra uno dei protagonisti e la sua compagna, che dice di volerlo lasciare, ma soprattutto, parlando dei motivi che la hanno portata a volerlo lasciare, dice che non può vivere così, dice
"Antonio io ho solo trentacinque anni"
questa battuta mi ha distaccato completamente dal film,almeno per uno o due attimi, e ha risuonato dentro di me per ore. Quella battuta, quella frase così insignificante ed estramamente comprensibile nel contesto e nell' epoca (il film è del 2001 e la scena è ambientata nel presente) ora sarebbe completamente assurda, desterebbe quasi scandalo. Quella frase vede i 35 anni di allora come noi vediamo i 25 anni adesso. Io ho 25 anni e temo, per quanto sappia che non è vero, di essere in ritardo per molte cose, e se solo immagino di essere nella stessa situazione a 35 anni mi agito. Quella frase mi ha fatto pensare che (come, ripeto, so già, ma non nel profondo) non dovrei agitarmi affatto. I motivi della sensazione di ritardo sono certamente sociali e culturali e sicuramente riconducibili all' influenza che il capitalismo e il consumismo hanno sulla sfera emotiva degli esseri umani. Ma per quanto ciò sia chiaro è comunque faticoso ricordarselo, è faticoso dirsi che la strada scelta è giusta, che i tempi imposti dall' esterno non contano, che va bene così. Quel personaggio aveva solo trentacinque anni e aveva tutta la vita davanti. Se lo ascoltassi penserei che io ne ho venticinque e quindi vale lo stesso anche per me.
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I principi azzurri non esistono; gli uomini belli non hanno mai avuto bisogno di parlare di "amore e valori" per conquistare una donna, perché sono abbastanza intelligenti da sapere che una donna intelligente non la freghi con queste sciocchezze per bambine inesperte; quando un uomo parla di "sesso migliore se con amore" ci troviamo davanti a un rospo che pretende una donna sciocca, priva di dignità, che faccia tutto ciò che lui vuole: una schiava a suo completo servizio, come la madre.
Sono una donna promiscua: faccio sesso con più persone diverse, senza coinvolgimento sentimentale; non mi sono mai permessa di farmi avvicinare o di avvicinare uomini che potessero in qualche modo andare oltre le questioni di letto; ma ci sono uomini MEDIOCRI che non hanno questa mia sensibilità e preferiscono donne che li amino, perché (parole testuali) "una donna innamorata è migliore a letto" - per poi lasciarle nella disperazione, una volta che hanno ottenuto tutto ciò che volevano.
La correttezza o meno di una persona dipende solo da una questione: o sei un soggetto che sa stare al mondo (e quindi non ferisce) o sei un soggetto inabile in tutto che ha bisogno di strappare agli altri qualcosa per avere qualcosa, invece di conquistarlo con l'intelligenza - e dalla tua risposta si capisce che fai parte del secondo gruppo: quello che strappa, perché non hai attitudini per meritare ciò che desideri - ergo: uomo con la cultura dello stupro, da cui stare ALLA LARGA.
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Sbloccato una nuova ossessione/se i soffitti potessero parlare
#qualcuno se l'è mai chiesto#fotografie#no reblog#c'è qualcosa di rilassante in quell'azione#chips#martedì
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La verità sul caso di Mr. Valdemar
(E. A. Poe)
Non presumo certo di essere meravigliato che il caso straordinario del signor Valdemar abbia suscitato discussioni. Sarebbe un miracolo se, date le circostanze, questo non fosse avvenuto.
Il desiderio di tutte le parti interessate a tener la cosa segreta, almeno per ora o in attesa di aver altre occasioni d’investigare, e i nostri sforzi per riuscirvi, hanno dato luogo a dicerie monche ed esagerate che, diffondendosi tra il pubblico, sono state causa di molte spiacevoli falsità e, naturalmente, di molto discredito.
Si rende ora necessario che io racconti i fatti, almeno come li capisco io. Eccoli, in succinto.
In questi ultimi tre anni, a varie riprese, mi sono sentito attirato dal soggetto del mesmerismo; e circa nove mesi fa a un tratto mi balenò l’idea che, nella serie degli esperimenti fatti sino a oggi, vi fosse una notevolissima e inesplicabile lacuna: finora nessuno era stato magnetizzato “in articulo mortis”.
Rimaneva da vedere prima di tutto se, in tale condizione, esistesse nel paziente alcuna suscettibilità al fluido magnetico; in secondo luogo se, nel caso affermativo, questa fosse scemata o accresciuta dalla circostanza; in terzo luogo sino a che punto e per quanto tempo l’opera della morte potesse essere arrestata dall’operazione. Vi erano anche altri punti da essere accertati, ma questi tre eccitavano più degli altri la mia curiosità, e in modo speciale l’ultimo, dato il carattere importantissimo delle sue conseguenze.
Cercando intorno a me un soggetto sul quale poter provare questi punti, fui portato a gettare gli occhi sul mio amico mister Ernest Valdemar, il ben conosciuto compilatore della Bibliotheca forensica e autore (con lo pseudonimo di Issachar Marx) delle traduzioni polacche del Wallenstein e del Gargantua. Il signor Valdemar, che dall’anno 1839 risiede generalmente a Harlem (New York), si distingue (o si distingueva) per l’eccessiva magrezza della sua persona, tanto che le sue gambe ricordavano quelle di John Randolph; e anche per la bianchezza dei suoi favoriti che contrastavano violentemente con la sua capigliatura nera, la quale perciò da molti era presa per una parrucca. Il suo temperamento oltremodo nervoso lo rendeva un buon soggetto per le esperienze magnetiche. In due o tre occasioni lo avevo addormentato con poca difficoltà, ma ero rimasto deluso negli altri risultati che la sua costituzione mi aveva naturalmente fatto sperare. La sua volontà non era mai positivamente, né del tutto soggetta al mio influsso, ed in fatto di chiaroveggenza non riuscii mai a ottenere da lui niente su cui fare assegnamento. Avevo sempre dato la colpa di tali insuccessi alla sua salute infermiccia. Qualche mese prima che ne facessi la conoscenza, i medici lo avevano definitivamente dichiarato tisico. Egli era solito parlare della sua prossima fine con molta calma, come di una cosa che non potesse né evitarsi né dispiacere.
Quando, per la prima volta, mi vennero le idee alle quali ho alluso poc’anzi, era naturale che pensassi a Valdemar; conoscevo troppo bene la sua salda filosofia, per temere scrupoli da parte sua; né egli aveva parenti in America che potessero ragionevolmente intervenire. Gli esposi in modo franco la cosa, e, con mia meraviglia, egli sembrò interessarvisi vivamente. Dico con meraviglia, perché, sebbene egli avesse prestato liberamente la sua persona ai miei esperimenti, pure non aveva mai manifestato alcun segno d’interesse in quello che facevo.
La sua malattia era di quelle che ammettono un calcolo preciso del tempo del loro termine; fu infine stabilito fra noi che mi avrebbe mandato a chiamare ventiquattro ore prima del tempo fissato dai medici per la sua morte.
Ed ecco, un giorno, più di sette mesi fa, ricevetti, dal signor Valdemar medesimo, questo biglietto:
“Mio caro P.,
Potete venire anche subito. D. e F. sono d’accordo nel dire che non passerò la mezzanotte di domani, e io credo che abbiano calcolato molto vicino al vero.
Valdemar”
Ricevetti questo biglietto mezz’ora dopo che era stato scritto e non impiegai più di quindici minuti per trovarmi nella camera del moribondo.
Non l’avevo visto da dieci giorni, e fui spaventato dalla terribile alterazione che si era prodotta in lui in quel breve intervallo.
Aveva il viso colore di piombo, gli occhi spenti, era dimagrito al punto che gli zigomi foravano la pelle. L’espettorazione era eccessiva, il polso appena sensibile. Ciò nondimeno serbava in modo straordinario le sue facoltà spirituali e una certa forza fisica. Parlava distintamente, prendeva senza bisogno di aiuto le sue medicine, e quando entrai nella stanza, era occupato a scrivere appunti su un libriccino. Stava seduto nel letto appoggiato ai guanciali. I dottori D. e F. gli prestavano le loro cure.
Dopo aver stretto la mano all’infermo, trassi quei signori in disparte ed ebbi notizie precise sulle condizioni. Il polmone sinistro era da diciotto mesi in uno stato semi-osseo o cartilaginoso e perciò inetto a qualunque funzione vitale. Il destro nella parte superiore era ugualmente ossificato, seppure non del tutto, mentre la parte inferiore non era più che un ammasso di tubercoli purulenti. Esistevano varie profonde caverne, e in un punto si notava anche una permanente aderenza alle costole. Questi fenomeni del lobo destro erano relativamente di data recente. L’ossificazione aveva progredito con rapidità straordinaria, un mese prima non se ne era osservato nessun indizio; l’aderenza non era stata scoperta che negli ultimi tre giorni.
Indipendentemente dalla tisi si sospettava un’aneurisma all’aorta; ma i sintomi d’ossificazione rendevano impossibile la diagnosi precisa su questo punto. Era opinione dei due medici che Valdemar sarebbe morto il giorno dopo, domenica, verso la mezzanotte. Erano le sette di sera del sabato.
I dottori D. e F., lasciando il letto del morente per discorrere con me, gli avevano dato un ultimo addio. Non era loro intenzione tornare, ma, alla mia preghiera, acconsentirono di venire a vedere il paziente verso le dieci della notte.
Partiti che furono, parlai liberamente con Valdemar della sua morte vicina e specie dell’esperimento che ci proponevamo. Egli si dimostrava ancora disposto e anzi desideroso di sottoporsi a tale prova e mi sollecitò ad incominciar subito. Due infermieri, un uomo e una donna, erano presenti, ma io non mi sentivo tranquillo nell’accingermi a un’operazione di quel carattere, senza testimonianze più serie di quelle che potevano dare costoro in caso di un’improvvisa disgrazia.
Rimandai dunque l’operazione sino a quando, verso le otto di sera, l’arrivo d’uno studente di medicina, che conoscevo (il signor Teodoro L.), mi levò d’imbarazzo. Era mia intenzione sul principio di aspettare i medici, ma fui poi persuaso a incominciare, prima dalle insistenti preghiere di Valdemar, poi perché ero convinto non esservi un momento da perdere, giacché appariva evidente che egli se ne andava rapidamente.
Il signor L. ebbe la bontà di arrendersi al mio desiderio di prendere nota scritta di tutto quanto stava per succedere; ed è dal suo memorandum che condenso o, in massima parte, copio parola per parola quello che ho da raccontare.
Erano circa le otto meno cinque, quando, presa la mano del paziente, lo pregai di confermare al signor L., e il più distintamente possibile, come egli fosse perfettamente disposto a permettere che io cercassi di magnetizzarlo in quelle condizioni.
Ed egli debolmente, ma distintamente rispose:
«Sì, desidero d’essere magnetizzato;» aggiungendo subito dopo «ma temo che abbiate differito troppo».
Nel mentre parlava, incominciai i passi che avevo già riconosciuto più efficaci per soggiogarlo. Evidentemente subiva l’influenza del primo movimento della mia mano attraverso alla sua fronte; ma sebbene io spiegassi tutto il mio potere non si manifestò alcun altro effetto sensibile sino a qualche minuto dopo le dieci, quando, secondo il fissato, tornarono i medici D. e F. Io spiegai loro in poche parole il mio disegno, e poiché essi non facevano alcuna obbiezione, dicendo che il paziente era già in agonia, continuai senza esitazioni, cambiando tuttavia i gesti laterali in verticali, e concentrando il mio sguardo nell’occhio destro del paziente.
A questo punto, il suo polso era divenuto impercettibile, e la sua respirazione segnava intervalli di mezzo minuto.
Questo stato durò quasi senza cambiamenti un quarto d’ora. Allo spirare di questo tempo però, un sospiro naturale, benché molto profondo, sfuggì dal petto del morente e la respirazione sonora cessò; cessò cioè la sua sonorità; gli intervalli però non erano diminuiti. Le estremità del paziente erano gelate.
Alle undici meno cinque percepii sintomi non equivoci dell’influenza magnetica. Il vacillamento vitreo dell’occhio si era cambiato in quell’espressione penosa dello sguardo, di esame interiore, che non si vede se non nei casi di sonnambulismo, e che è impossibile non riconoscere. Con alcuni gesti laterali feci battere le palpebre, come quando ci prende il sonno, e insistendo le chiusi interamente. Ma non ero ancora soddisfatto e continuai i miei atti con vigore e con la più intensa concentrazione di volontà fino a quando non ebbi irrigidito del tutto le membra del dormente, dopo averlo collocato in una posizione apparentemente comoda: le gambe lunghe distese, e così anche le braccia che posavano sul letto a poca distanza dai fianchi. La testa era leggermente sollevata.
Quando ebbi terminato tutto questo, era mezzanotte; pregai allora i presenti di esaminare le condizioni del signor Valdemar.
Dopo alcune constatazioni essi dichiararono che era in uno stato di catalessi singolarmente perfetta; la curiosità di ambedue i medici era grande. Il dottor D. risolse di passare tutta la notte presso l’infermo, mentre il dottor F. nel salutarci promise di tornare all’alba; il signor L. e gli infermieri restarono.
Lasciammo Valdemar assolutamente indisturbato sino alle tre del mattino, quando lo avvicinai e lo trovai esattamente nello stesso stato di quando se ne era andato il dottor F., e cioè nella medesima posizione, il polso impercettibile, la respirazione calma (sensibile soltanto accostandogli uno specchio alle labbra), gli occhi chiusi naturalmente e le membra rigide e fredde come marmo. Però il suo aspetto generale non era certamente quello della morte.
Nell’avvicinarmi a Valdemar feci un debole sforzo per decidere il suo braccio a seguire il mio nei lenti movimenti che descrivevo in su e in giù sulla sua persona. Quando altre volte avevo tentato tali esperimenti con questo paziente, non mi erano mai riusciti perfettamente né speravo di riuscir meglio ora; ma, con mia grande meraviglia, il suo braccio, docilmente seppure debolmente, si mise a seguire le direzioni che gli assegnavo col mio. Mi decisi allora ad azzardare qualche parola di convenienza.
«Signor Valdemar,» dissi « dormite?»
Non rispose, ma scorsi un tremito sulle sue labbra e fui così indotto a ripetere la domanda, e poi ancora, e poi ancora. Alla terza volta tutto il suo corpo fu mosso da un lieve tremore, le palpebre si alzarono sino a mostrare una linea bianca dell’orbita, le labbra si mossero pigramente, ed emisero, in un sospiro appena intelligibile, le parole seguenti:
«Sì, ora dormo. Non mi svegliate! Lasciatemi morire così!»
Tastai le membra e le trovai sempre rigide come prima. Il braccio destro obbediva sempre alla direzione della mia mano. Interrogai nuovamente il sonnambulo:
«Sentite sempre dolore al petto, signor Valdemar?»
La risposta, ora, fu immediata, ma anche più debole della prima.
«Nessun dolore, muoio.»
Non credetti conveniente disturbarlo altrimenti e nulla di nuovo fu detto o fatto sino all’arrivo del dottor F., che giunse un’ po’ prima dell’alba e manifestò grandissima meraviglia nel trovare il paziente ancora vivo. Dopo di avergli sentito il polso e applicato uno specchio alle labbra, mi pregò di parlargli ancora un’altra volta.
Ubbidii e gli domandai: «Signor Valdemar, siete ancora addormentato?»
Come prima trascorsero alcuni minuti durante i quali il moribondo parve riunire tutte le sue forze per parlare. Alla quarta ripetizione della mia domanda, rispose molto debolmente, quasi inintelligibilmente: «Sì, sempre addormentato, muoio.»
Fu allora opinione o meglio desiderio dei medici che il signor Valdemar venisse lasciato indisturbato, in quello stato di tranquillità apparente, sino a che non sopraggiungesse la morte; era opinione generale che questa dovesse avvenire fra qualche minuto. Tuttavia risolvetti di parlargli ancora una volta e ripetei semplicemente la domanda di prima.
Nel mentre parlavo, un singolare cambiamento avvenne nella fisionomia del sonnambulo. Gli occhi si girarono lentamente aprendosi, le pupille sparirono in su, la pelle prese una tinta cadaverica, più simile alla carta bianca che alla pergamena; e le due macchie etiche, rotonde che fino allora si vedevano ben definite nel centro delle due guance, si spensero a un tratto. Adopero questa espressione perché la rapidità della loro scomparsa non suscitò altra idea che quella di una candela spenta da un soffio. Intanto il labbro superiore, che prima copriva completamente i denti, si ritorse scoprendoli; mentre la mascella inferiore cadeva con uno scatto e un rumore sensibile, lasciando la bocca tutta aperta e mostrando la lingua nera e gonfia. Coloro che assistevano, erano presumibilmente abituati agli orrori di un letto di morte, ma l’aspetto di mister Valdemar era talmente spaventoso che indietreggiammo tutti insieme dal letto.
Sento di essere giunto al punto del mio racconto, che indurrà il lettore a non credermi. Ad ogni modo il mio compito è di seguitare.
Mister Valdemar non dava più il minimo indizio di vita, e, concludendo che fosse morto, lo abbandonammo alle cure degli infermieri. Ma allora divenne sensibile una forte vibrazione della lingua che durò forse un minuto. Dalle mascelle tese e immobili uscì quindi una voce, che sarebbe follia tentar di descrivere.
Vi sono tuttavia due o tre epiteti che potrebbero servire a designarla parzialmente; potrei dire per esempio che aveva un suono aspro, rotto, vuoto; ma l’orribile insieme non è descrivibile, per la semplice ragione che simili suoni non hanno mai offeso orecchie umane. Vi erano però due particolari, che, credevo allora e credo anche ora, potrebbero essere dati come caratteristici dell’intonazione e che possono suggerire un’idea della sua stranezza ultraterrena. In primo luogo la voce sembrava giungere alle nostre orecchie – almeno alle mie – da una gran distanza, o da qualche profonda caverna sotterranea. In secondo luogo, essa mi dette la stessa impressione (temo proprio che mi sia impossibile farmi comprendere) che danno le materie glutinose o gelatinose al senso del tatto.
Ho parlato di suono e di voce. Voglio dire che il suono era d’una sillabazione distinta, anzi meravigliosamente distinta. Mister Valdemar parlava; evidentemente per rispondere alla domanda che gli avevo fatto qualche minuto prima. Gli avevo domandato, come si ricorderà, se dormiva sempre. Ora diceva:
«Sì, – no – ho dormito…, e ora… ora son morto.»
Nessuna delle persone presenti cercò menomamente di dissimulare e neanche di reprimere l’indicibile orrore che queste poche parole così pronunciate non mancarono di destare in ognuno. Mister L., lo studente, svenne. Gli infermieri lasciarono immediatamente la stanza, e fu impossibile indurli a ritornare. Quanto alle mie proprie impressioni, non pretendo di renderle intelligibili al lettore. Per circa un’ora ci occupammo in silenzio – senza pronunciare parola – a richiamare mister L. in vita, e quando questi fu ritornato in sé riprendemmo le nostre investigazioni sulle condizioni di mister Valdemar.
Egli era rimasto assolutamente come l’ho descritto poc’anzi, tranne che lo specchio non dava più traccia di respirazione. Un tentativo di salasso al braccio non riuscì. Devo anche menzionare che questo arto non era più soggetto alla mia volontà. Fu invano che mi sforzai di fargli seguire la direzione della mia mano. Il solo vero indizio dell’influenza magnetica si manifestava ora nella vibrazione della lingua, ogni volta che facevo una domanda. Pareva che egli si sforzasse di rispondere, ma che non avesse più abbastanza volontà per farlo. Alle domande avanzate da altre persone sembrava del tutto insensibile, sebbene io tentassi di mettere il richiedente in rapporto magnetico con lui.
Credo di aver ormai riferito tutto quanto è necessario per capire lo stato del sonnambulo in questo periodo. Furono procurati altri infermieri, e alle dieci uscii dalla casa in compagnia dei dottori e del signor L.
Nel pomeriggio tornammo tutti a vedere il paziente. Il suo stato era sempre il medesimo. Avemmo allora una discussione sull’opportunità e la possibilità di svegliarlo, ma ci si trovò presto d’accordo nel concludere che non si sarebbe ritratto vantaggio alcuno. Era chiaro che sinora la morte (o quel che si suole definire con la parola morte) era stata arrestata dalla operazione magnetica. Sembrava evidente che svegliare mister Valdemar sarebbe stato semplicemente un assicurare il suo estremo istante o almeno accelerare la sua decomposizione.
Da quel giorno fino alla fine della settimana passata – un intervallo di quasi sette mesi– abbiamo seguitato a far visite giornaliere a casa di mister Valdemar, accompagnati dai medici e da altri amici; in tutto questo tempo il sonnambulo è rimasto esattamente come l’ho descritto. La sorveglianza degli infermieri era continua.
Venerdì passato finalmente risolvemmo di provarci a svegliarlo, ed è il resultato, deplorevole forse, di quest’ultimo tentativo che ha dato origine a tante discussioni private, nelle quali non posso trattenermi dal riscontrare un sentimento popolare ingiustificabile.
Per sottrarre mister Valdemar alla catalessi magnetica adoperai i passi soliti. Questi per qualche tempo non dettero risultato di sorta. Il primo sintomo del ritorno alla vita fu dato dall’abbassamento parziale dell’iride. Venne notato come cosa strana che questa discesa dell’iride era accompagnata dalla fuoruscita di un umore abbondante di color giallognolo (da sotto le palpebre) di odore acre e ripulsivo.
Mi venne allora suggerito di cercare di influenzare il braccio dei paziente, come pel passato. Tentai e non mi riuscì; il dottor F. manifestò il desiderio che io gli rivolgessi una domanda e gliela feci, così:
«Mister Valdemar, ci potete spiegare quali sono ora le vostre sensazioni o i vostri desideri?»
Vi fu un subitaneo ritorno delle macchie etiche alle gote, la lingua tremò o piuttosto roteò violentemente entro la bocca (sebbene le mascelle e le labbra rimanessero sempre immobili) e alla fine quella stessa orribile voce che ho descritto poc’anzi proruppe:
«Per l’amor di Dio! Presto! Presto! Fatemi dormire! O svegliatemi subito! Presto! Vi dico che sono morto!»
Io ero assolutamente snervato e per un momento rimasi indeciso sul da farsi.
Mi provai dapprima a riaddormentare il paziente, ma la completa inerzia della mia volontà non me lo permise; tentai allora il contrario, e con tutte le mie forze mi adoperai a destarlo. Mi accorsi subito che a questo sarei riuscito, o almeno credetti che il mio successo sarebbe stato completo, e sono certo che tutti i presenti si aspettavano il risveglio del paziente.
Quello che avvenne in realtà, non è possibile che essere umano se lo fosse potuto immaginare.
Nel mentre mi affrettavo a fare i passi magnetici tra le grida di “morto! morto!” che letteralmente esplodevano sulla lingua e non sulle labbra del paziente, tutto il suo corpo a un tratto – e in non più di un minuto – si scompose, si sbriciolò, imputridì sotto le mie mani. Sul letto, dinanzi a tutti i testimoni, giaceva una massa fetida e quasi liquida; un’orrida putrefazione.
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Oh, Madre!
Il giorno in cui ho capito che non sarei mai diventata madre avrò avuto nove anni, quando per la prima volta ho tenuto aperto sulle ginocchia un libro di Oriana Fallaci.
Ero in bagno, intenta nel mio passatempo preferito per combattere la stitichezza: frugare nel cassetto della moglie di mio padre, l'unico a distanza ravvicinata dal gabinetto su cui trascorrevo ore e ore in attesa che qualcosa uscisse dal mio corpo.
In mezzo a pile di slip, riviste osé e reggiseni, quel giorno trovai il libriccino galeotto che avrebbe annientato il mio istinto materno: Lettera a un bambino mai nato.
La moglie di mio padre utilizzava il cassetto del bagno per nascondere i suoi segreti più intimi, forse credendo che il senso del pudore avrebbe trattenuto chiunque dal rovistare tra le sue mutande.
Ma io da bambina non sapevo dove il pudore stesse di casa. Vivevo confinata nei muri della mia camera, senza amici e senza infanzia, e il mio unico confronto con il mondo erano i romanzi di Isabelle Allende con descrizioni dettagliate di tutto ciò che accadeva in camera da letto.
La mia famiglia non ha mai amato la lettura, anzi direi proprio che al verbo detestare associassero la parola libro come complemento oggetto. Quindi loro non avevano la più pallida idea di cosa ci fosse tra le pagine di quei libercoli in cui annegavo le mie giornate.
Se un libro è letto da una bambina, significa che è adatto a una bambina, pensavano. E per vent'anni ne sono stata convinta anch'io.
Ma quel pomeriggio, seduta sul gabinetto, mi sorprese leggere il titolo "Lettera a un bambino mai nato" sulla copertina di un libro nascosto tra i calzini e una scatola di preservativi nel cassetto della moglie di mio padre incinta di sei mesi.
Divorai quel libro in una settimana, ringraziando la mia incapacità di andare di corpo come le persone normali per darmi la possibilità di trascorrere impunemente due ore seduta sulla ceramica fredda del cesso, fino a sentire le gambe addormentate e il bacino indolenzito.
Dopo ogni sessione di lettura, riponevo con cautela il libro nel cassetto della mia matrigna, facendo attenzione a incastrarlo perfettamente tra le pieghe dei reggiseni e dei pigiami.
Nessuno della mia famiglia ha mai saputo che a nove anni mi appassionai del racconto di una donna incinta che desiderava abortire, del suo calvario interiore e della lotta contro l'idea che un ammasso di cellule potesse essere ritenuta vita senziente.
A tredici anni mi trasformai in una paladina del diritto all'aborto. Lasciai di stucco la mia professoressa di Italiano quando le consegnai un pamphlet protofemminista sotto forma di foglio protocollo, spacciandolo per il mio elaborato del compito in classe sul testo argomentativo.
Gli altri miei compagni di classe non avevano mai sentito parlare di aborto, tantomeno di Oriana Fallaci, e forse erano fortunati nella loro ignoranza.
Ma io mi consideravo un'illuminata, una prescelta, una donna adulta, perché a tredici anni ero in grado di difendere con sforzi patetici e artefatti il mio sacrosanto diritto a non dare la vita.
Tanto ne ero convinta, che agli esami di licenza media dedicai il mio tema di italiano all'aborto, ancora una volta. Ero ossessionata, ero pazza, ero invasata: dovevo far sapere a tutti gli adulti che io a tredici anni sapevo di non volere figli, che non li avrei mai avuti, che avrei combattuto perché le donne come me potessero scegliere di non averli.
Quando, dieci anni dopo, la mia migliore amica mi informò di essere incinta, la prima cosa che le dissi fu: "Vuoi abortire, vero?".
E alle occhiate scettiche e divertite delle donne più grandi, che ridacchiavano sornione mentre mi ricordavano l'esistenza dell'orologio biologico, io ribattevo con rabbia di chiudere il becco.
Questo fino all'anno scorso, quando una seduta con la mia psicologa esperta di EMDR ha messo un po' di disordine tra i miei piani.
Non avevo mai riflettuto sulla possibile connessione tra il mio rifiuto della maternità e il suicidio di mia madre, ma quella tragica mattina di febbraio la mia terapeuta decise di spiattellarmelo in faccia senza troppi mezzi termini: il fatto che mia madre si fosse uccisa e mi avesse abbandonata non significava che io avrei fatto lo stesso con i miei figli.
Quella fu l'ultima seduta con la mia terapeuta, perché mal tollerai questa inferenza nelle mie decisioni sul mio utero. Non mi interessava sapere quale fosse la causa del mio odio verso la gravidanza e soprattutto non volevo ammettere che la morte di mia madre mi perseguitasse fino a quel punto.
Abbandonata la terapia e accolti gli antidepressivi, ho smesso di mettere in discussione il mio disprezzo per la maternità fino a quando a essersi suicidato non è stato un mio amico.
A quel punto mi sono resa conto che il mio bagaglio di affetti contava già due suicidi nell'arco di vent'anni, una percentuale non da poco considerando che la mia permanenza su questa terra non ha varcato ancora la soglia dei trent'anni.
La morte del mio amico è coincisa con la ricomparsa breve e fugace di mio padre.
Dopo cinque anni di ostinata assenza e disinteresse, mio padre aveva deciso di riallacciare i rapporti con me dopo la scoperta di un tradimento da parte di sua moglie.
Mio padre ritenne quel momento un'ottima occasione per mettermi a parte della storia del mio concepimento.
Così ho scoperto, davanti a un raffinato piatto di uramaki, di essere la classica figlia del "proviamo a fare funzionare questo matrimonio": mia madre aveva fallito il suo primo tentativo di suicidio e aveva confessato a mio padre che avere una figlia l'avrebbe aiutata.
Si vede che non ho svolto bene il mio compito, considerando che dopo sette anni dalla mia nascita la mia cara mamma si fece trovare morta in bagno con una calza di nylon legata al collo.
Mentre il peso di questa rivelazione si sedimentava tra la bocca dello stomaco e la gola, togliendomi la capacità di proferire parola e l'appetito, mio padre rincarava la dose lamentando il suo "non aver fatto nulla di male per meritarsi questa vita" da crocerossina, vedovo e cornuto.
La mia domanda, formulata silenziosamente nelle settimane successive, riguardava piuttosto cosa avessi fatto io di male per meritarmi di essere desiderata, partorita, traumatizzata e abbandonata da mia madre.
Con poca calma e tanta perizia, nei mesi ho messo insieme tutti i pezzi del puzzle che è la mia incapacità di vedermi madre: dal libro letto di nascosto sul cesso al tema sull'aborto, dal consiglio a denti stretti dato alla mia amica al rifiuto del parere della psicologa, fino alla confessione di mio padre.
Il risultato è stato un puzzle oscuro e strambo, in cui alcuni pezzi si incastrano a fatica con gli altri e restituiscono un'immagine grottesca e spezzata. Un'immagine di me che lotta tra l'odio per la mia famiglia, il desiderio di non essere mia madre, il determinismo di un patrimonio genetico malato.
Insomma, un'immagine non troppo lusinghiera. Ma che almeno mi dà ragione dell'irritazione e della saudade che provo quando ascolto le mie coinquiline scambiarsi ogni sera confidenze con le loro madri per telefono, tra risatine e battute.
Questo puzzle sgangherato è una prova ulteriore del mio non voler essere madre, del preferire crepare da sola piuttosto che correre il rischio di dare la vita a una persona solo per traumatizzarla.
Allo stesso tempo, quando guardo questo puzzle, mi rendo conto che il fervore di quella tredicenne che scriveva pagine e pagine sull'aborto era solo un tentativo di rispondere a quell'unica, atroce domanda:
"Oh, madre! Perché mi hai abbandonato?"
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Se le tue scarpe potessero parlare, chissà cosa direbbero delle cose segrete che fai..
S. Mondesir-Prescott
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Se le foto potessero parlare, avrebbero tanto da raccontare.
Matteo Pirro
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