#san Nicola di Casole
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Two-tailed mermaid.
Otranto Cathedral floor mosaic.
Executed between 1163 and 1165 by a group of artists headed by Pantaleon, a basilian monk from the monastery of San Nicola di Casole.
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Libri| Ascesa e declino del rito bizantino in Terra d’Otranto. I possedimenti di San Nicola di Casole a nord di Brindisi
È in libreria dal 1 settembre l’ultimo libro di Vito Telesca “Il sogno orientale. Ascesa e declino del rito bizantino in Terra d’Otranto. I possedimenti di San Nicola di Casole a nord di Brindisi”.
Edito da ManifestoCultura è distribuito dalla Feltrinelli e Feltrinelli Online. Vito Telesca, saggista storico locorotondese ma di origini potentine, con questo libro ha voluto approfondire un tema poco dibattuto come la parabola del rito bizantino nella Puglia meridionale e in parte della lucania. Un crepuscolo favorito dalla chiesa di Roma che decise con Papa Niccolò II, attraverso un accordo con il normanno Roberto il Guiscardo, di intraprendere delle azioni per cacciare i bizantini dal sud Italia, favorendo la nascita del Regno di Napoli da un lato e il primato del rito latino dall’altro. Un passaggio che non fu né rapido né indolore come lo stesso Guiscardo volle evidenziare, ammettendo la radicalità estrema della cultura e del rito bizantino da Monopoli in giù.
Il libro dedica i primi due capitoli alla conquista bizantina del sud Italia per poi concentrarsi su una figura chiave, quella del principe Marco Boemondo d’Altavilla, fondatore (o restauratore) del monastero greco di San Nicola di Casole in Otranto. Un cenobio che dall’XI al XV secolo raggiunse l’apice della sua importanza poiché dotato di un enorme scriptorium con biblioteca ricca di libri greci, anche di stampo laico, e che a Costantinopoli era considerato una sorta di avamposto bizantino in Italia, dove si traducevano decine di testi e si alimentava la cultura greca.
Una vera accademia. Un monastero che godeva di numerosissimi possedimenti, sparsi anche oltre la Terra d’Otranto. Questi vennero elencati in un documento del 1218 da Papa Onorio III che, scrivendo all’Abate di Otranto, Padre Nicodemo, confermava i possedimenti al monastero. Tra questi uno a Monopoli, uno a Brindisi, ben due in territorio di Locorotondo e uno, enorme, a Fasano. Possedimenti in cui i monaci poterono avere una sorta di mobilità (un network basiliano) e un collegamento costante con Otranto. I possedimenti vennero confermati a patto che ovunque si continuasse a rispettare la regola di San Basilio. Quindi il rito greco-bizantino era, sotto Onorio, ancora garantito.
Attraverso i documenti, gli strumenti della moderna ricerca archeologica che sfrutta le fotogrammetrie aeree, i rammendi filologici tra discipline diverse come la storia della Chiesa e non ultima l’antropologia culturale, il libro invita a riscoprire il nostro territorio, ricco di storia magari dimenticata o ignorata e, soprattutto, a riscoprire le chiese rupestri. Soprattutto quelle a noi vicine come Lama d’Antico a Fasano e le tante masserie, guardandole con un occhio diverso, simbolo odierno di quegli anni e di quei movimenti.
Dal XV secolo la Terra d’Otranto subì l’invasione turca con la presa di Otranto nel 1480 e la distruzione del Monastero di Casole e della sua cultura. Ma, più del turco, fu Roma a dare il colpo definitivo al rito bizantino. Le chiese vennero riconvertite forzatamente al rito latino, i sacerdoti greci messi al bando (anche uccisi) e i libri bruciati. Soltanto l’immigrazione dai balcani riuscì a dare una certa continuità al rito greco-ortodosso con la creazione di quartieri in alcune città o la fondazione di paesi sorti grazie all’avvento di slavi e albanesi. I monasteri greci passarono ai benedettini. Il libro, nel suo ultimo capitolo, racconta in modo interessante come alcune usanze di oggi derivino proprio da quel periodo e da quella cultura. Siamo per certi versi e inconsapevolmente ancora bizantini.
SCHEDA DEL LIBRO:
Titolo: Il Sogno orientale
Sottotitoli: Ascesa e declino del rito bizantino in terra d’Otranto. I possedimenti di San Nicola di Casole a nord di Brindisi.
Autore: Vito Telesca
Pagine: 206 patinate a colori
Editore: ManifestoCultura – Mantova – Ce.Di. S.p.A.
Prezzo di copertina: 25 euro
Anche e-book su Amazon, IBS e Mondadori Store
https://www.lafeltrinelli.it/libri/vito-telesca/sogno-orientale-ascesa-e-declino/9788892360693
Scheda dell’autore:
Vito Telesca, Scrittore saggista storico pugliese di Locorotondo, direttore di StoriaMeridiana e co-fondatore e consigliere Nazionale di ManifestoCultura, gruppo di studio per la valorizzazione e il recupero del patrimonio storico e artistico. In passato co-conduttore di “Sharing-Popoli che scelgono di incontrarsi”, promosso dal Consiglio d’Europa (programma Radiofonico). Ha collaborato con La Gazzetta del Mezzogiorno, e attualmente scrive articoli di storia e arte per la pagina culturale dei quotidiani “Il Roma – Cronache Lucane” e “Il Mattino” di Puglia e Basilicata. Collabora con il mensile Paese Vivrai. Insignito del Premio “Eccellenza Medievale 2014” assegnato da “Sguardo sul Medioevo” per il progetto di StoriaMeridiana.
Ha pubblicato: nel 2008 “Di padre in padre – viaggio nel rapporto tra padri e figli nella storia” (seconda edizione 2010), Francesco e Federico, due giganti allo specchio (2013), dist. Feltrinelli; una trilogia su Siponto e Monte Sant’Angelo per ManifestoCultura: Siponto e il Protoromanico (2017), Il Castello di Monte Sant’Angelo (2018) e l’abbazia di Santa Maria di Pulsano (2019).
#Bizantini in Terra d’Otranto#san Nicola di Casole#Vito Telesca#Libri Di Puglia#Spigolature Salentine
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I turchi espugnano Otranto e giustiziano 813 otrantini che non rinnegano la fede cristiana. Distruggono il monastero di San Nicola di Casole, simbolo eccelso di cultura con la biblioteca tra le più ricche d’Europa e del mondo e luogo di nascita della lingua italiana poi divenuta dotta con Dante. Di Otranto e dei suoi martiri parlo nel mio giallo Il dio danzante – delitto nel Salento
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Otranto, l’affascinante borgo in provincia di Lecce
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Otranto, l’affascinante borgo in provincia di Lecce
Otranto, è un borgo situato in provincia di Lecce.
Il suo mare paradisiaco e il paesaggio mozzafiato sono soltanto alcune delle caratteristiche che rendono Otranto una località perfetta per ogni turista, che decide di trascorrere una vacanza in Puglia, all’insegna del relax.
Infatti, questo paese è ricco di luoghi interesse, dal punto di vista storico e culturale. Proprio per tale motivo, abbiamo pensato di offrirvi una lista contenente gran parte delle attrazioni da non perdere.
Scopriamole insieme!
Cattedrale dell’Annunziata
La cattedrale dell’Annunziata, risale all’epoca medievale. Pensate che fu consacrata per la prima volta nel 1088, quando ci fu il papato di Urbano II.
Tuttavia, pur essendo edificata tramite i normanni, raggiunse il suo completamento intorno al XII secolo. Ovviamente, nel corso del tempo la cattedrale dell’Annunziata subì numerose modifiche e restaurazioni, anche a causa di una serie di eventi storici (come ad esempio le devastazioni turche verso la fine del ‘400).
Ciò che rende questo luogo religioso speciale, è la presenza di un mosaico che sorge attraverso le tre navate con l’albero della vita e racchiude alcuni simboli, legati all’Antico Testamento. Senza contare il fatto che all’interno sono presenti le reliquie dei Santi martiri di Otranto.
Chiesa di San Pietro
A Otranto, esiste un’importante testimonianza dell’arte bizantina, ossia la chiesa di San Pietro.
Secondo la leggenda, sarebbe la prima basilica di questa località, risalente al IX secolo circa.
A livello strutturale possiede tre navate e una cupola centrale, messa su da quattro colonne. Inoltre, si ha modo di ammirare degli absidi, contenenti dei cicli di affreschi, sempre del genere bizantino.
Tra le altre chiese simbolo di Otranto, troviamo la Madonna dell’Altomare, quella di Santa Maria dei Martiri e la Chiesa di Santa Maria del Passo.
Sono tutte risalenti al periodo che va dal ‘500 al 700 e racchiudono diversi esempi di arte bizantina e rinascimentale. Ciò che colpisce di tali strutture religiose, è il fatto che ci siano le raffigurazioni di eventi storici, come ad esempio la strage degli otrantini.
Monastero di San Nicola di Casole
E sempre restando in tema “luoghi di culto”, in questo borgo salentino è possibile ammirare l’antico monastero di San Nicola di Casole.
Esso è una delle testimonianze più importanti del periodo medievale, sia in termini storici che culturali e artistici.
Il monastero di San Nicola di Casole, nacque inizialmente sotto forma di casale nel 1098, grazie a Boemondo I d’Antiochia. Successivamente, la struttura passò in mano a dei basiliani, che nel corso del tempo diedero vita alla vera e propria Abbazia.
Tuttavia, ciò che rende noto questo luogo, è principalmente il fatto che per diversi secoli sia stato una specie di archivio, contenente una serie di volumi e libri scritti in lingua greca e latina.
Come potete ben immaginare, tale caratteristica rese il monastero una delle biblioteche più importanti d’Europa.
Soltanto che a causa della devastazione dei turchi, tutto il patrimonio storico e culturale restò completamente distrutto. Ciò significa che attualmente sono presenti soltanto delle rovine.
Ma a prescindere dalle sue condizioni, resta comunque uno dei simboli più noti di Otranto.
Attivissimo centro culturale, conservò per lunghi secoli numerosissimi volumi greci e latini. Era all’epoca una delle biblioteche più ricche d’Europa. Venne distrutta nel 1480, in seguito alla devastazione dei Turchi. Di essa rimangono oggi solo rovine.
Castello Aragonese
Sempre restando in temi di simboli, nel momento in cui si parla di Otranto, è impossibile non pensare al Castello Aragonese (noto anche come Castello di Otranto).
Ideato da Ciro Ciri e Francesco di Giorgio Martini, esso nacque come struttura di difesa, verso la fine del 1400. Sorge precisamente in Piazza Castello: all’epoca, qui erano presenti anche alcune fortificazioni legate alla dominazione sveva (e poi successivamente ai turchi).
Attraverso gli aragonesi, la zona che circondava il castello subì delle modifiche. Infatti, si creò un alto fossato e dei torrioni, di tipo cilindrico angolare.
Tuttavia, ci furono ulteriori restaurazioni nei secoli successivi. Ad esempio, verso la fine del ‘500, si aggiunsero ulteriori forme di difesa (contro flotte nemiche e navi), nella parte che affaccia sul mare.
Oggi invece, il Castello di Otranto risulta essere una delle testimonianze più affascinanti del passato e gran parte dei turisti che si recano in questo luogo, decidono sempre di scattare una foto ricordo.
Otranto Cava di Bauxite
Passando all’aspetto paesaggistico, Otranto è nota anche per la Cava di Bauxite (detta anche laghetto di Bauxite), situata vicino alla baia delle Orte.
Sembrerebbe proprio che le sue origini risalgono al periodo della seconda guerra mondiale, quando si praticava l’estrazione mineraria.
Nel caso della bauxite (tipo di roccia sedimentaria), come molti di voi già sanno, si può estrarre l’alluminio.
Tale pratica commerciale fu portata avanti per alcuni decenni, fino al 1976. Da quel momento, la cava rimase in uno stato di abbandono ma cambiò d’aspetto, per via della natura. Infatti, il laghetto che si può ammirare al centro è il risultato di una serie di infiltrazioni d’acqua.
Oggi questo luogo risulta essere uno dei più fotografati in assoluto. Vi basta cercare cava di bauxite su instagram per capire quanti turisti decidono di recarsi qui ogni anno.
E’ davvero uno spettacolo di colori imperdibile. Pertanto, nel caso in cui doveste recarvi a Otranto, fateci un salto.
Altri luoghi di interesse: Cripta di San Nicola, Cripta del Padreterno, Catacombe di San Giovanni, Chiesa della Madonna della Serra, Palazzo Lopez, Palazzo de Mori.
Masserie e torri costiere
A Otranto è possibile trovare una serie di masserie e torri costiere, che danno quel tocco in più a livello di fascino e soprattutto tradizione secolare.
Tra le masserie troviamo: Consalvi, Panareo, Cippano, Creste, Bandino, dell’Orte, Torre Pinta, Ficola, Maramonte Nuovo, Muzza, Fagà, Cerra, Murrune, Frassanito, Autigne, Montelauro, Prosperi, Fabrizio.
Mentre per quanto riguarda le torri costiere, bisogna citare: Fiumicelli, Santo Stefano, del Serpe, dell’Orte, Sant’Emiliano.
Otranto curiosità
Lo stemma di Otranto è rappresentato da una torre e da un serpente.
Secondo la descrizione araldica, rappresenta:
“Un campo d’azzurro, alla torre cilindrica d’argento, avvinghiata da una serpe di nero che, risalendo in senso sinistrorso i fianchi di essa torre, introduce la testa nell’alta finestra aperta nel campo. Lo scudo fra due rami di quercia e d’alloro decussati alla base è timbrato dalla corona urbica del rango di città”.
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In der Kirche #SantaAnnunziata von #Otranto befindet sich ein #Bodenmosaik von 1.600 m2 aus dem 10. Jahrhundert. Der Künstler war ein Mönch namens #Pantaleone aus dem Kloster San Nicola di Casole. Er galt in seinem Heimatkloster San Nicola di Casole als jemand, der es versteht, die griechischen und nordischen Mythen zu deuten und ihren geheimnisvollen Beziehungen zu den christlichen Geschichten und Gleichnissen eine künstlerische Gestalt zu geben. Insgesamt sind in diesem Mosaik über 700 einzelne „Geschichten“ miteinander verwoben. Es gibt Bilder von Kain und Abel, Garten Eden, Turm von Babel, Stenzeichen, und und und …
Das Bilderbuch von #Otranto In der Kirche #SantaAnnunziata von #Otranto befindet sich ein #Bodenmosaik von 1.600 m2 aus dem 10. Jahrhundert.
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Uno sguardo alle prime scriptae salentine
di Giammarco Simone
Introduzione
Per introdurre il tema del presente articolo, vorrei partire dalla definizione di ‘linguaggio’ del vocabolario Treccani, secondo cui esso è “la capacità e la facoltà, peculiare degli esseri umani, di comunicare pensieri, esprimere sentimenti, e in genere di informare altri esseri sulla propria realtà interiore o sulla realtà esterna, per mezzo di un sistema di segni vocali o grafici”.
Tra i segni grafici utilizzati dall’essere umano, la scrittura alfabetica diventa espressione culturale di un popolo che utilizza un sistema di lettere per comporre, comunicare e conservare per iscritto pensieri, racconti, leggende, canzoni e poesie.
La scrittura diventa testimonianza linguistica di una civiltà ed è affascinante conoscerne e studiarne le origini, in quanto custodisce le chiavi di accesso per comprendere l’attuale panorama linguistico. Il fine di questo viaggio attraverso i secoli è quello di riscoprire alcuni testi antichi che hanno fatto la storia del salentino e che si conservano nelle prestigiose biblioteche d’Italia (Padova, Milano, Firenze, Perugia e Roma, per citarne alcune) ma anche in quelle inglesi, francesi e austriache. Ho deciso di attingere le notizie dalle ricerche fatte negli anni dagli studiosi interessati all’argomento e, consapevole della quantità degli studi effettuati e dei ritrovamenti, per motivi di spazio ne ripropongo solo alcuni sotto forma di breve raccolta.
edizione degli Epigrammi del 1490 custodita nell’Archivio del governo di Aragona, in Spagna (immagine tratta da http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Marcial._Epigrammata._1490.jpg?uselang=it)
Le prime scriptae salentine
Ancora prima dell’inizio del Medioevo, l’odierno Salento era abitato dapprima da tribù autoctone, come gli Iapigi, ed in seguito da popolazioni straniere provenienti dalla Grecia, ovvero i Messapi[1]. Posteriormente al dominio messapico, i Romani arrivarono da conquistatori nel I a.C. e vi rimasero fino alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C., anno convenzionale per l’inizio del Medioevo.
Dopo i Romani, la Terra d’Otranto fu desiderio di conquista da parte dell’Impero Romano d’Oriente, con i Bizantini che imposero la loro egemonia per molti secoli, soprattutto per l’importanza che ricopriva il Salento nelle rotte commerciali con l’Oriente. Di lì a poco, si susseguirono varie popolazioni e domini stranieri (Saraceni, Longobardi, Angioini, Aragonesi, Francesi) lasciando notevoli tracce del loro passaggio. In questo via vai di popoli, tradizioni, culture e lingue, il nostro idioma è andato formandosi assorbendo tratti e caratteristiche che nel corso dei secoli si sono modellate, fino a consolidarsi e a dar vita al salentino attuale.
Tuttavia, per conoscere le prime testimonianze scritte dobbiamo percorrere un viaggio a ritroso nei secoli quando ancora in Salento si parlava il volgare salentino, un parente non troppo lontano dell’attuale dialetto salentino, ma che con parole più tecniche si potrebbe definire un discendente strettissimo del latino volgare[2].
La documentazione dei testi in latino volgare è abbastanza esigua. Negli studi di storia della lingua italiana, l’esempio più conosciuto di testo dove compaiono forme in latino volgare è l’Appendix Probi (L’appendice di Probo) risalente al VI-V secolo a.C., contenente una lista di ben 227 parole scritte dal grammatico Probo, il quale riporta il corretto nome in latino classico affiancato dalla sua corrispettiva voce in volgare ritenuta ‘scorretta’. Una storia completamente diversa si ha per quanto riguarda le prime attestazioni in volgare italiano, con la maggior parte degli studiosi che concordano sul fatto che le sentenze giuridiche dei Placiti Campani, databili X secolo d.C., sono tra prime testimonianze sul territorio nazionale. Scritte in latino classico, contengono però stralci di italiano antico, in quanto le deposizioni dei testimoni (di madrelingua volgare) venivano riportate nella loro lingua parlata:
Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti.[3]
Sao cco kelle terre per kelle fini que tebe monstrai, Pergoaldi foro que ki contene et trenta anni le possette[4].
Kella terra per kelle fini que bobe mostrai Sancte Marie e et trenta anni la posset parte sancte Marie[5].
Sao cco kelle terre per kelle fini que tebe monstrai trenta anni le possette parte Sancte Marie[6].
Se già a partire dal X secolo d.C. nel territorio nazionale si attestano in testi scritti espressioni e vocaboli in volgare italiano, si può dire lo stesso per il volgare salentino? La risposta è sì, seppur meritevole di qualche precisazione.
In passato, l’elaborazione e la stesura di libri e testi era compito solo di alcune persone erudite (gli amanuensi) che grazie alle loro conoscenze grafiche e linguistiche potevano scrivere e persino tradurre testi antichi di altri idiomi e volgarizzarli nella nuova lingua. Dalle attestazioni in volgare italiano si evince che la grafia utilizzata dagli eruditi fu quella latina, mentre per quanto riguarda le parlate regionali e locali (nel nostro caso il volgare salentino) assistiamo ad una lunga tradizione di testi redatti in alfabeti diversi dal latino, e cioè in ebraico e greco. La spiegazione di tale comportamento è da ricondurre alla situazione socio-linguistica del nostro territorio in quei secoli. Come affermato da Maggiore (2015)[7]:
Il primo elemento di specificità è legato alla presenza, in un arco di tempo che supera i confini cronologici del Medio Evo, di scritture redatte in alfabeti diversi da quello latino, segnatamente i caratteri israelitici e greci. La presenza dei primi è legata alle vicende storiche della comunità ebraica salentina, mentre la ricchezza dei secondi chiama direttamente in causa la durevole vitalità dell’esperienza culturale italo-greca di Terra d’Otranto, che pervenne anche a esprimere personalità letterarie di primissimo piano come quella di Nettario di Casole, poeta bizantino vissuto a Otranto tra il XII e il XIII secolo.
Casole presos Otranto
La comunità ebraica si stabilì nel Salento già dai primissimi secoli successivi alla Diaspora Ebraica iniziata con la conquista dei Romani della Terra d’Israele intorno al VIII-VI secolo a.C. E’ proprio uno scritto in alfabeto ebraico, datato intorno al X secolo d.C., ad essere stato redatto in Terra d’Otranto. Si tratta di un importante trattato di farmacologia risalente al 965 d.C. scritto dall’astronomo, filosofo e medico ebreo (nato ad Oria nel 913 d.C.) Shabbetai Donnolo.
L’importanza di questo testo risiede nel fatto che, secondo Cuscito[8](2018), è “ritenuto il più antico testo farmacologico ebraico, se non il più antico testo medico scritto in questa lingua dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente”. Il Sèfer ha–yaqar (Libro prezioso), così si intitola l’opera, nonostante sia un testo innovatore nel panorama medico e scientifico di quell’epoca, dal punto di vista linguistico fornisce esempi di salentino, in quanto ricco di toponimi meridionali e termini botanici greci, latini e volgari che sono arrivati fino ai giorni nostri. Un esempio è il cocomero asinino (scritto QWQWMRYNA secondo la traslitterazione di Treves)[9], che ritroviamo a Lecce con il nome di cucummaru sputacchiaru o riestu[10].
Sempre in alfabeto ebraico e con rilevanza linguistica ancora più notevole sono le 154 glosse ritrovate all’interno di un antico codice ebraico, il Mišnah, datato 1072 e studiato attentamente da Cuomo[11](1977), dove compaiono parole salentine pervenuteci fino ad oggi: lentikla nigra, meluni rutundi, iskarole salβateke, kukuzza longa, sciroccu, kornula, làuru e voci verbali come pulìgane, sepàrane, assuptìgliane.
Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C, e con l’arrivo dei Bizantini provenienti da Oriente, la tradizione scritta salentina si sviluppa anche in alfabeto greco. Infatti, si registra una attività greca molto forte tra il XIII e il XVI, che porta la lingua greca ad essere parlata e scritta nelle scuole e nelle case. Tale fu l’impatto greco-bizantino sul nostro territorio che ne conserviamo l’eredità linguistica (mi riferisco alla Grecia Salentina e al griko, un dialetto della lingua greca parlato nel Salento). Esempi in alfabeto greco sono due brevi liriche amorose databili tra un arco temporale che va dal 1200 al 1300. Di seguito, ripropongo la traslitterazione in grafia latina fatta da De Angelis[12](2010), a cui si deve anche l’importante studio linguistico che ne conferma la salentinità, nonostante a prima impressione il testo possa essere definito di tipo siciliano:
Amuri amuri
1. Αμουρι αμουρι δ’αμουρι λα μια [μ]ουρτί σε αλτρου ομου τε κουλ-
2. κόου λα ρουφιάνα κουτραρα β[4]σζαϊ λου βανου κόρε:-
3. πρέγαρὲ βόλλου λί μεϊ ουργανατούρι κούιστέ παρόλε δεϊσζα-
4. νου <μ>βεζαρε σζ’αννου<ν>ζου ε δαδρι όττα περ μιου αμόρε· ρουσζίερ
5. κου[35]β…
6. τα δέισζαλα καντάρε δε[ισ]ζα μανδάρε περ τόττα λα κου[ν]-
7. τράτα κούεϊστα βαλλάτὰ σζι ε φάττα νυβέλλα δα σζοι
8. σε αππέλλα νικολα δεττορε:-
9. λου δεττορε
1. amuri amuri d’amuri la mia murti se altru omu te
cul-
2. cóu la rufiana quatrara b[vacat] ci hai lu vanu còre
3. pregare vogliu li mei urganaturi quiste parole diggia-
4. nu mbezzàre c’annunciu e dadri otta per miu amore;
5. [†]
6. cierta (?) diggiala cantare diggia mandare per totta la cun-
7. trata quista ballata ci è fatta nuvella da ci
8. se appella Nicola Dettore
9. lu dettore
In questo breve componimento, l’autore, un tale Nicola Dettore dice che, nel caso in cui la sua amata (v.2 la rufiana quatrara) lo tradisca (v.1 se altru omu te culcòu), egli morirà a causa del mal d’amuri. Per questo, si augura che i cantori (v.3 urganaturi) possano imparare queste sue parole (vv.3-4 quiste parole diggia-nu <m>bezzàre c’annu<n>ciu ) e che si diffondano per tutta la contrada (v.6 diggiala cantare diggiala mandare totta la cuntrata), affermando che la ballata è una novella (v.7 quista ballata ci è fatta nuvella) scritta proprio da colui che si chiama Nicola Dettore (vv.8-9 se appella Nicole Dettore).
Bellu missere
01. ββέλλου μισσέρε ασσάι δουρμιστι
02. κουμμίκου νον γγαυδίστι ζζο
03. μι [ν]κρίσζι κα λ’αλβουρι αππα-
04. ρεισζε πάρτ<ε>τε αμουρι πρε[σ]του
05. α κουρτεσία ελλάλβουρι αππα-
06. ρεισζε ε κουι νο [σ]τάρε οννει
07. ββρίγα ε δουλενζια τι κου<μ>βένε
08. νον σίτι αμαντε δε δοννα ακουι-
09. σταρε νι ννα [δ]’αζζιρε ε νι δ’άβιρ[ε]
10. [δ]εποι κα νσζι βουλι[σ]τι α[δ]ουρμενταρε
11. σζε μι σζε[ρ]κάστι α μ[ε]ντ[ι]ρε π[ε]ρ
12. ομου σζι τενε ουνα ταλε σζο-
13. για σζε λλι αννογια.
01. bbellu missere assai durmisti
02. cummicu non gaudisti ciò
03. m’incrisci ca l’alburi appa-
04. risce partete amuri prestu
05. a curtesia e ll’alburi appa-
06. risce e qui no stare onni
07. bbriga e dulenzìa ti cunvene
08. non siti amante de donna acqui-
09. stare ni nn’a d’aggire e ni d’avire
10. depoi ca nci vulisti adurmentare
11. ce mi cercasti a mentire per
12. omu ci tene una tale gio-
13. ia ce gli annoia
Il testo è considerato da Distilo (2007)[13] appartenente al genere di canzone di malamata, ovvero quei componimenti nei quali le donne raccontavano la loro insoddisfazione coniugale. Nel testo, la donna dice al suo uomo (v.1 bellu missere) che a causa del suo troppo dormire (v.1 assai durmisti) non si dilettò con lei (v.2 cummicu no gaudisti). Per questo, la donna si dispiace che sia già giorno (v.4 m’ncrisci ca l’alburi apparisce) e lo esorta ad andarsene (vv.4-5 partete amuri prestu, a curtesia) e a non rimandare le fatiche e le preoccupazioni del nuovo giorno che gli spetta (vv.6-7 e qui no stare onni bbriga e dulenzia ti cunvene). Poi accusa l’uomo di non saperla conquistare, né di saper agire né tantomeno tenerla a sé (vv.8-9 non siti amante de donna acquistare, ni nn’a d’aggire e ni d’avire) visto che preferisce addormentarsi (v.10 depoi ca nci vulisti adurmentare). La donna chiude il suo componimento quasi con una domanda dal sapore amaro, in quanto non capisce il comportamento dell’uomo che preferisce addormentarsi invece di godere dei piaceri da lei offerti (vv-12-13 per omu ci tene una tale gioia ce gli annoia).
Un altro importante ritrovamento, sempre in alfabeto greco, ma questa volta di lunghezza più estesa e di carattere religioso, è la Predica salentina risalente alla seconda metà del 1300. Si tratta di un commento alla Divina Liturgia di S.Giovanni Crisostomo, il testo liturgico utilizzato in quel tempo dai Cristiani d’Oriente. Il testo fu studiato da Parlangeli (1958)[14], il quale lo trascrisse in alfabeto latino. Ne presento uno stralcio[15]:
“Veniti addunca cun pagura de ddeu e cun fide e cun pace a rrecìpere lu corpiu de ristu secundu ammonisce e séumanda a Santu bbasiliu e sse alcun omu non ave cun se quiste tre cause chi avimu ditte, zzoè pagura de Ddeu, fede e ppitate, non dive venire sé ancostare a rrecìpere quistu prezziosu corpu, ca dice Santu Paulu: quillu chi mangia e bbive lu corpu e sangue de Gesu Cristu indignamente, si llu mangia e bbive a ggiudizziu ed a ccondannazione soa. Venimi addunca cun pagura, fede e ppitate e ppuramente recipimu da li spirduali patri nostri lu dittu corpu e ssangue de lu nostru signore Ggesu Cristu, azzò séchi sse fazza e ssia a nostra salvazione spirduale….”
Da quanto visto finora, le prime scriptae medievali in lingua salentina furono redatte in alfabeti diversi da quello latino, ed infatti, secondo Bernardini (2010) “dalle fine del IX secolo fino alla fine del XVI secolo, troviamo 400 codici greci contro i 30 latini risalenti allo stesso periodo”[16]. Lo studio dei documenti in caratteri ebraici e greci costituisce una fonte importante per studiare l’oralità di quell’antico salentino, in quanto, come afferma Maggiore (2013) “offrono spesso testimonianze linguisticamente più aderenti alla realtà del parlato rispetto a quanto avviene normalmente nella scripta in caratteri latini, maggiormente soggetta a fenomeni di conguaglio dei tratti diatopicamente marcati”[17].
Tuttavia, dobbiamo sottolineare che anche l’alfabeto latino veniva utilizzato nella scrittura ma ciò in epoca più tardiva, ovvero a partire dal XV secolo, quando, secondo gli studiosi, il volgare salentino aumentò il suo status di lingua locale diventando una vera e propria koinè (κοινὴ διάλεκτος “lingua comune”), cioè una lingua a carattere regionale (da non confondersi con l’intera Puglia, ma solo riferito alla regione Salento) che riuniva i tratti tipici dialettali, quelli della lingua letteraria toscana ed altri comuni a tutto il Meridione. La lingua comune salentina nel suo nuovo status di lingua regionale si utilizzava non solo per redigere lettere mercantili e trattati notarili ma divenne lingua di corte ed impiegata in campo letterario nelle illustrissime corti di Maria D’Enghien a Lecce, di Giovanni Antonio del Balzo Orsini a Taranto e di Angilberto del Balzo Orsini a Nardò.
Esempi di koinè sono le cinque lettere commerciali, studiate da Stussi[18](1982), scritte tra il 1392 ed il XV secolo tra un mercante ebreo tale Sabatino Russo e suo socio d’affari il veneziano Biagio Dolfin, con il quale fondò una società per il commercio in Oriente. In una di queste lettere, Sabatino avverte il suo socio che una nave fu depredata dai pirati “intru lu portu de Nyrdò”. Tale evento, però, fu smentito da una sesta lettera scritta da un altro commerciante ebreo, tale Mosè de Meli, il quale informò Biagio Doffin di essere stato truffato da Sabatino che finse il furto per appropriarsi egli stesso del bottino:
Sery Byasi Dalfyn hio Mosè de Meli vi fazo assavery chy my sa mullto mali de la gabba che ve à ffatto Sabatyno judeo de Cobertyno chy sta mò in Leze de li besanti C”‘ de oro che pellao delu vostro et addusseli in Leze et guadannò dela ditta moneta vostra ducaty CL chy contao in vostra party de lu guadanno…
Nella corte di Lecce, il cappellano della contessa Maria D’Enghien, tale frate Nicolao de Aymo scrisse la grammatica latina Interrogatorium constructionum gramaticalium (1444) dove si avvalse proprio del volgare salentino come lingua di traduzione per fornire esempi delle regole grammaticali. Di quest’opera ci rimangono due manoscritti che son utili dal punto di vista linguistico, in quanto sono presenti parole tipicamente dialettali come suggerisce Maggiore (2015): nusterça (nusterza), groffolare (cruffulare), insetare (nsitare), scardare pissi (squamare pesci)
Nel Principato di Taranto di Giovanni Antonio del Balzo Orsini troviamo il Librecto de pestilencia (1448) scritto dal “cavaliero et medico” galatinese Nicolò di Ingegne, il quale conversa con altri due medici di corte, tali Aloysi Tafuro de Licio e Symone de Musinellis de Butonto, e con lo stesso Giovanni Antonio riguardo la peste e sui possibili rimedi e cure. Inoltre, nell’opera si menzionano alcuni nomi di vini, tra cui uno tipico tarantino, il Gaglioppo, come si legge in Maggiore[19] (2013): “ma più in lo tempo de la peste, sincome sonno malvasie, greco, guarnaze, [..] et da nuy tarentini ‘galioppo’ chyamato, lo quale in questa città più che in parte del mundo perfecto se fa”.
La corte di Angilberto del Balzo Orsini, conte di Ugento e duca di Nardò, annoverava nella sua una ricca libreria copie di libri in latino e volgarizzamenti delle opere di Dante, Petrarca e Boccaccio. Ad essa appartiene lo Scripto sopra Theseu re, un ricco commento al Teseida di Boccaccio redatto da un anonimo salentino, probabilmente nella seconda metà del Quattrocento nella scuola di Nardò, una scuola di amanuensi domenicani molto attiva in quel periodo.
Il commento al Teseida, oltre che fornire prove sulla circolazione delle opere toscane nel Salento, dimostra la varietà linguistica della koinè salentina che abbraccia sia i toscanismi letterari, sia i termini più vernacolari e i meridionalismi generalizzati, come riporta Maggiore (2015): amochare ‘coprire’, annicchare ‘nitrire’, ganghe ‘guance’, lucculare ‘urlare’, magiara ‘strega’, nachiro ‘nocchiero’, sghectata ‘spettinata’, rugiare ‘borbottare’, ursolo ‘piccolo recipiente per liquidi’.
Inoltre, appartenente alla libreria di Angilberto, il Libro de Sidrac che merita una considerazione speciale. Si tratta di un trattato filosofico in stile “domanda e risposta” tra il re Buctus e il filosofo Sidrac. Quest’opera, scritta originariamente in lingua francese d’oil tra il 1270 e il 1300, potrebbe essere considerata un best seller di quell’epoca, in quanto nei secoli successivi fu tradotta in ben sessanta versioni romanze tra cui anche in volgare salentino. Si tratta, indubbiamente, di un testo che ci fornisce esempi di koiné salentina, come nell’incipit del testo “Ore Sidrac incomenza a respondere a lo re Botus ad tucte le sue addimande, et a chascaduna responde di per sé. La prima ademanda si è si deu pòy essere veduto. Deu si è visibile et non visibile, cà illu vede tuctu et non pote essere veduto”[4r 32-35]. Secondo gli studi linguistici fatti da Sgrilli[20](1983), il Sidrac salentino fu scritto per mano di un autore brindisino, mentre quelli fatti in precedenza da Parlangeli (1958)[21] dicono che “il nostro testo sia scritto in un dialetto del tipo salentino settentrionale, quale, a un dipresso, doveva essere parlato nella zona di Nardò”.
Le attestazioni del salentino volgare non provengono solo da testi e manoscritti ma anche nelle epigrafi come quella nella Cattedrale di Nardò all’interno di un affresco risalente alla metà del XV secolo e raffigurante San Nicola, la Madonna col Bambino e Santa Maria Maddalena orante (nella navata sinistra). La riscoperta dell’attestazione è da attribuire al dott. Gaballo e al prof. Polito e recita:
O tu chi ligi, fa’ el partisani:
chi ley fey fare, Cola è ’l sua nome,
filliolu de Luisi de Pephani.
Secondo Castrignanò[22] (2016), la parafrasi reciterebbe: Oh tu che leggi, prendi la mia parte/ chi la fece fare [la pittura], Nicola è il suo nome/ figlio di Luigi di Epifanio. Se a prima impressione l’epigrafe sembrerebbe una captatio benevolentiae, in quanto l’autore chiede ai chiunque guardi il suo affresco di parlarne bene (fa’ el partisani) in realtà sembra rievocare il verso dantesco If IX 61-63: O voi ch’avete li ’ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani.
Per concludere con uno sguardo sulla società medievale e sulle relazioni interpersonali tra i cittadini di quell’epoca, mi piacerebbe menzionare le deposizioni presenti ne Il registro dei reati e delle pene, una raccolta giudiziaria di 607 denunce appartenente al resoconto fiscale de la Corte del Capitanio di Nardò[23] (1491) e redatte da Giampaolo de Nestore di Nardò, nelle quali si apprezza la lingua dei protagonisti che si lasciano andare a forme ingiuriose e minacciose come:
Marco de Sidero, denunciato per Gabrielj Caballone, che li dixe: «Levatinte davanti et portame li forfichi, ca le mecto le mano alli capillj»
Charella Malicore, denunciata per Hieronimo serviente, che li dixe: «Si marituma era cqua, te haveria dato cinquanta bastonate»
Uxor Giorgii Taurini, denunciata per la molliere de Francesco de Cupertino perché li dixe: «puctana, frustata, tu teni cento innamorati»
Francesco de Follica, denunciato per Gabrieli de Montefusco, perché li dixe: «yo trovai le terre allo culo de mammata»
Conclusioni
Questo viaggio intrapreso lungo i più remoti secoli della storia ha portato alla luce alcune delle primissime forme di scrittura nella nostra lingua in epoca medioevale. Grazie agli studi di alcuni ricercatori in merito alla tradizione scritta salentina, in questo iter abbiamo messo in risalto non solo aspetti relazionati al lessico ma anche alle antiche vicende sociali e culturali che la nostra terra ha vissuto: mi riferisco alla forte presenza della comunità ebraica alla quale si deve una importantissima produzione sia in alfabeto ebraico ma anche in quelli greco e latino, all’evoluzione linguistica del volgare salentino che da lingua locale si trasformò in lingua comune grazie soprattutto alle figure dei primi mecenati in Terra d’Otranto che ne permisero la diffusione. In altre parole, un piccolo viaggio tra lingua, storia, cultura e società alla riscoperta del nostro passato.
[1] Per maggiori dettagli: https://www.fondazioneterradotranto.it/2021/02/11/messapia-era-davvero-una-terra-tra-due-mari/ e https://www.fondazioneterradotranto.it/2021/02/17/messapia-chi-conio-questo-termine-e-perche/
[2] Per le definizioni di latino volgare e latino classico, vedi “Vocalismo e consonantismo del dialetto salentino”, https://www.fondazioneterradotranto.it/2021/02/13/vocalismo-e-consonantismo-nel-dialetto-salentino/
[3] Trad. ita: “Io so che quelle terre, che qui si dice, le ha possedute trent’anni la parte di San Benedetto”.
[4] Trad. ita: “So che quelle terre secondo quei confini che ti mostrai furono di Pergoaldo come qui si dice e le ha possedute per trent’anni
[5] Trad. ita: “Quella terra secondo quei confini che vi mostrai, è di Santa Maria e l’ha posseduta trent’anni.
[6] Trad. ita: “So che quelle terre secondo quei confini qui descritti le ha possedute per trent’anni la parte di santa Maria.
[7] Maggiore, Marco (2015), Manoscritti medievali salentini, in L’Idomeneo, n.19, pp. 99-122.
[8] Cuscito, Giuseppe M (2018), Il Sefer ha-yaqar di Šabbeṯay Donnolo: traduzione italiana commentata. Sefer Yuḥasin ספר יוחסין | Review for the History of the Jews in South Italy<Br>Rivista Per La Storia Degli Ebrei Nell’Italia Meridionale, 2, 93-106. https://doi.org/10.6092/2281-6062/5568.
[9] In Maggiore (2015:102).
[10] Garrisi, Antonio (1990), Il dizionario leccese-italiano, Congedo Editore. Sotto la voce cucummaru sputacchiaru o riestu: pianta ruderale, strisciante, con steli e foglie scabri, i cui turgidi frutti peponidi maturi, se toccati, lanciano (sputano) il succo e i semi all’intorno.
[11] Cuomo, Luisa (1977), Antichissime glosse salentine nel codice ebraico di Parma, De Rossi, 138, in «Medioevo Romanzo», 4, pp. 185-271.
[12] De Angelis, Alessandro (2010), Due canti d’amore in grafia greca del Salento medievale e alcune glosse greco-romanze, in Cultura neolatina, Anno 70, Fasc 3-4, pp.371-413.
[13] Rocco Distilo, Parole al computer. Dal genere al motivo d’‘alba’ (per un’ignota ‘alba di malamata’), in Atti del V convegno internazionale e interdisciplinare su testo, metodo, elaborazione elettronica (Messina-Catania-Brolo, 16-18 novembre 2006), a cura di Antonio Cusato, Domenica Iaria e Rosa Maria Palermo, Messina, Lippolis, 2007, pp. 101-115.
[14] Oronzo, Parlangèli (1958), La «Predica salentina» in caratteri greci, in Lausberg-Weinrich, pp. 336-360 [ristampa in Parlangèli (1960), pp. 143-173].
[15] La traslitterazione è presa da: Greco, V.,C., “Rimario letterario” (e non solo) Leccese e… Salentino.
[16] Bernardini, Isabella (2010), Greek Language and Culture in South Apulia. Proposals for teaching Greek, in The teaching of modern Greek in Europe: current situation and new perspectives (p. 132), Editum, Universidad de Murcia.
Ho riportato una traduzione dell’originale: “From the end of the ninth century through to the end of the sixsteenth century we find 400 Greek codices, compared to 30 Latin ones for the same period.”
[17] Maggiore, Marco (2013), Evidenze del quarto genere grammaticale in Salento antico, in Medioevo letterario d’Italia, Fabrizio Serra Editore, Pisa-Roma .
[18]Stussi, Alfredo (1982), Antichi testi salentini in volgare, « Studi di filologia italiana », xxiii, 1965, pp. 191-224, ristampato in Id., Studi e documenti di storia della lingua e dei dialetti italiani, Bologna, il Mulino, 1982, pp. 155-181.
[19] Maggiore, Marco (2013), Italiano letterario e lessico meridionale nel Quattrocento, in Studi Linguistici Italiani, vol. XXXIX, Salerno Editrice, Roma.
[20] Sgrilli, Paola (a cura di), Il libro di Sidrac Salentino, Pisa (1983).
[21] Oronzo, Parlangèli (1958), Postille e giunte al Vocabolario dei dialetti salentini di G. Rohlfs, in RIL, XCII, pp. 737-798.
[22] Vito, L.,Castrignanò (2016), A proposito di un’epigrafe salentina in volgare (Nardò, entro il 1456), in Revue de Linguistique Romane, n°317-318, Vol.80, pp, 195-205, Strasbourg.
[23] Perrore, Beatrice (2018), Il discorso riportato ne La Corte del Capitanio di Nardò (1491): alcuni tratti sintattico-testuali, in Linguaggi settoriali e specialistici, Atti del XV Congresso SILFI Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana, (Genova, 28-30 maggio 2018). Vedi anche: Holtus, Günter; Metzeltin, Michael; Schmitt, Christian, (a cura di), Die einzelnen romanischen Sprachen und Sprachgebiete vom Mittelalter bis zur Renaissance, De Gruyter, Berlino (1995).
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