#relazione affettiva con oggetti
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Il legame invisibile con gli oggetti: tra ipnosi e consapevolezza
Il legame invisibile con gli oggetti: tra ipnosi e consapevolezza
Gli Oggetti Come Custodi di Ricordi e Emozioni nella vita quotidiana Nella nostra vita di tutti i giorni, gli oggetti che ci circondano non sono semplici elementi materiali, ma piuttosto custodi di emozioni, ricordi e relazioni. Questi legami affettivi con gli oggetti possono manifestarsi in modo particolare durante periodi di cambiamento. Quando, infatti, ci troviamo di fronte a un cambiamento…
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Il massacro degli animali...
Uno degli episodi iniziali dell'Olocausto, che neanche tanto stranamente hanno cercato di replicare dal 2019 ad oggi, fu la "Pet Shoah", cioè la requisizione e lo sterminio degli animali da compagnia delle ebree e degli ebrei durante il III Reich.
Da notare come i nazisti aggredirono inizialmente, prima ancora degli oggetti di valore (tipo quadri, gioielli, opere d'arte, ecc), la relazione affettiva uomo-animale, per colpire ed indebolire la vita emotiva ed affettiva delle persone.
Assassinare il cane, il gatto o il canarino dell'ebreo significava identificare nell'animale un obiettivo diretto dell'azione bellica, non tanto perché "oggetto di valore", ma proprio perché portatore di valore relazionale ed affettivo.
Ma ancora peggio dei nazisti, a mio parere, sono stati gli inglesi. Nel 1939, il governo britannico formò il "National Air Raid Precautions Animals Committee" (NARPAC), per decidere come comportarsi con gli animali domestici nel caso dell'inevitabile scoppio della guerra. Così il NARPAC pubblicò un opuscolo intitolato Advice to Animal Owners (lett. "Consigli per i proprietari di animali"), in cui suggeriva di spostare gli animali domestici dalle grandi città alle campagne. L'opuscolo concludeva affermando che: "Se non si è in grado di affidare gli animali ad un vicino, la soluzione migliore è lasciare che vengano soppressi"...
Il comitato era preoccupato che nel caso il governo avesse dovuto prendere la decisione di razionare il cibo, i proprietari si sarebbero trovati di fronte alla scelta di dividere le loro razioni con i propri animali domestici o lasciarli morire di fame.
A causa di ciò, nel 1939 prima ancora che si verificasse una carenza di cibo per l'imminente guerra, nel Regno Unito oltre 750.000 animali da compagnia vennero abbattuti.
Un vero massacro senza precedenti.
Nel periodo in cui la guerra fu dichiarata, nel 1939, moltissimi proprietari di animali domestici si riversarono nelle cliniche veterinarie per far sopprimere i propri animali domestici. E la strage si ripeté l'anno seguente, quando Londra fu bombardata nel settembre del 1940.
Il fatto è che molti dei proprietari di queste vittime, superata la paura dei bombardamenti e della mancanza di cibo, si sono pentiti di aver ucciso i propri animali domestici e accusarono il governo di aver dato il via ad una forma di isteria collettiva. Una famosa oppositrice dell'abbattimento indiscriminato degli animali domestici fu la duchessa scozzese Nina Douglas-Hamilton, amante dei gatti, che pubblicizzò una campagna contro l'uccisione degli animali e creò il proprio rifugio per cani e gatti in un hangar a Donhead St Andrew, nella contea di Wiltshire.
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Per Simondon – che rovescia l’assunto tradizionale della filosofia politica moderna, basato sulla originarietà e relativa autonomia dell’individuo rispetto all’insieme sociale – l’individuo è solo il risultato parziale e provvisorio di una serie di operazioni di individuazione che avvengono nella dimensione collettiva, e tramite essa. Parziale perché esso non potrebbe esistere senza un ambiente, e provvisorio poiché il mutare delle proprie condizioni di esistenza può innescare un nuovo processo di individuazione. Ogni trasformazione, ogni transizione di fase rappresenta la soluzione ad un problema della fase precedente. L’individuo è, allora, la realtà di una relazione “metastabile” e «il vivente è come un cristallo che mantenga attorno a sé, e nella sua relazione con l’ambiente, una permanente metastabilità». Un processo di individuazione psichica e collettiva è sempre al limite del disequilibrio o, appunto, in equilibrio metastabile, e tale condizione permette la trasformazione, ossia il passaggio da una fase di individuazione all’altra. Ora, per Stiegler, «l’individuazione è sempre al tempo stesso psichica e collettiva, ed è precisamente questo al tempo stesso che costituisce il sapere come tale, e come legame originario e indissolubile […]: è proprio nella misura in cui il sapere è sapere solo a condizione di una sua condivisione, del suo divenire-pubblico, che l’Io, come individuo psichico, non può essere pensato se non come appartenente a un noi, che è individuo collettivo».
Il sapere perciò sarebbe capacità di «trans-individuazione», dato che la trans-individuazione è ciò che lega lo psichico e il collettivo, e forma così il noi, ossia l’individuazione di una soggettività collettiva, ma trasforma anche lo stesso milieu sociale all’interno del quale possono crescere le singolarità. La trans-individuazione è quindi, al tempo stesso, formazione e trasformazione, ossia «un circuito all’interno del quale si formano dei segni, dei simboli, delle parole, degli oggetti sociali portatori di significato».
Proprio in quanto metastabile, l’individuazione psico-sociale è soggetta a oscillazioni e può quindi essere pensata come dinamica di polarizzazione nella quale sono presenti due tendenze: verso la successiva individuazione o verso la dis-individuazione. Il pericolo legato alla miseria simbolica è proprio quello di una dis-individuazione regressiva in quanto perdita di quel sapere che lega lo psichico al collettivo: la perdita del sapere è perciò perdita della capacità di transindividuazione.
Per Stiegler gli effetti della logica del consumo indotti dalla fase attuale del capitalismo sono assimilabili a un’intossicazione psichica, e tale intossicazione è indotta da fenomeni di saturazione, che coinvolgono le funzioni superiori del sistema nervoso come la concezione, la comprensione, la sensibilità e l’immaginazione, vale a dire la vita intellettuale, estetica e affettiva. Ora, se l’individuazione psichica è completamente ridotta alla logica del consumo attraverso la captazione dell’attenzione, secondo Stiegler l’individuazione collettiva – e dunque la “vita pubblica” – viene distrutta poiché l’attenzione è essenzialmente “prendersi cura degli altri”: «Non esiste più alcun noi; esistono solo loro, e il collettivo, che sia familiare, politico, professionale, confessionale, nazionale, razionale o universale, non è più portatore di alcun orizzonte: appare totalmente vuoto di contenuto».
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Sull’importanza del gioco nello sviluppo affettivo e intellettivo del bambino sono stati presentati molti e stimolanti interventi. I bambini giocano. Dire che i bambini giocano è come dire che il cielo è azzurro. Ovvio, banale, difficile che ci si soffermi a riflettere. I bambini giocano, probabilmente da quando esiste il mondo. Che cosa potremmo trovare, dunque, di meglio per comunicare con i nostri bambini? Giocando con loro impariamo a capirli, a conoscerli, li scopriamo ogni volta di più. E scopriamo un po’ di più di noi stessi. Ma nella vita degli adulti non sempre c’è spazio per il gioco. Bruno Munari (nelle foto), pittore, primo designer italiano, scrittore, creatore di libri per l’infanzia, sosteneva che “conservare l’infanzia dentro di sé vuol dire conservare la curiosità di conoscere, il piacere di capire, la voglia di comunicare”. Ma è difficile conservare l’infanzia dentro di noi. Le nostre vite sono spesso luoghi affollati di cose inutili, inutili fardelli che appesantiscono i giorni. Siamo una società depressa e ansiosa. Il nostro sistema produttivo frammenta il lavoro, in modo che ognuno svolga ripetutamente le stesse azioni, anello di una catena di cui non conosce direttamente né l’inizio né la fine. Tutto ciò deresponsabilizza e non favorisce l’autostima. Lasciati senza guida da una generazione di padri e di madri, che hanno tentato di scardinare i modelli familiari tradizionali e ci hanno lasciato il difficile compito di individuarne di nuovi, spesso abbiamo un’identità fragile, cui cerchiamo di dare una forma attraverso il possesso di beni. Siamo soli, e siamo soli con i nostri figli. Le famiglie tradizionali allargate vanno sparendo, lasciando i genitori soli di fronte al loro compito di genitori. Le esigenze pratiche sono troppe e rubano spazio alla relazione, al tempo del gioco. I genitori hanno addosso tutta la responsabilità e diventano ansiosi, si sentono inadeguati e a volte in colpa. Non c’è spazio per il gioco. Non c’è spazio per giocare con i propri figli. E poi giocare con i bambini non è facile. Perché ci mette in contatto con la nostra infanzia, la va a ripescare, la recupera, e non sempre questo recupero ci rende felici, non sempre i ricordi della nostra infanzia ci fanno piacere. E’ difficile trovare un adulto che sappia giocare. Ma giocare davvero. Nello stesso modo in cui giocano i bambini. Giocando solo per giocare. Perché il gioco è un’attività fine a se stessa. Il gioco non produce, non crea ricchezza materiale: il gioco, come dice Huizinga, impegna in maniera assoluta. E per che cosa poi? Per niente, è la prima risposta che può venire in mente a una società in cui tutto è monetizzato e misurato sulle possibilità produttive. Ma si può imparare a giocare. O meglio, si può riscoprire la naturale capacità di giocare che è dentro di noi. Spazio. Bisogna fare spazio. Spazio alle emozioni, spazio a ciò che non produce. Il gioco, per essere davvero gioco, deve essere spontaneo e soprattutto deve essere una sorta di passatempo. L’atteggiamento del giocatore per professione, come dice Huizinga, non è più un vero e proprio atteggiamento ludico. Nessuno può essere costretto a giocare, perché in quel caso il gioco perde di senso. Il gioco richiede l’intenzione di giocare. E si dovrebbe riflettere bene su questo nei diversi contesti istituzionali in cui si dice ai bambini: giocate! Non è detto, comunque, che giocando si cresca. Bisogna essere disponibili a lasciarsi cambiare dal gioco, a evolvere. Il gioco è un fenomeno articolato. Per poterne parlare bene bisognerebbe affrontare temi come la socializzazione, la formazione della cultura, il pensiero simbolico, la capacità di fare astrazione, la logica, le regole. Che giocare non sia una banale e poco rilevante attività infantile è stato evidenziato anche da Huizinga (1938), che nella sua opera Homo Ludens, ha definito il gioco come fondamento di ogni cultura, evidenziando che anche gli animali giocano e che quindi il gioco esiste prima della cultura. E’ stato Jean Piaget (1896-1980), psicologo ginevrino, la cui fama è legata soprattutto ai suoi studi sullo sviluppo cognitivo nell’età evolutiva, a riconoscere al gioco una responsabilità vitale nella maturazione dell’intelligenza. Piaget ha individuato, infatti, nello sviluppo infantile una prima fase, caratterizzata dal gioco-percettivo motorio, un tipo di gioco non orientato socialmente (tra i 12 e i 18 mesi) e una seconda fase, caratterizzata dall’integrazione del gioco simbolico alle attività percettivo-motorie (dai 18 mesi ai cinque anni). Mentre i giochi motori (afferrare gli oggetti, lanciarli lontano, sistemarli uno sull’altro) rafforzano nel bambino la sicurezza nelle sue possibilità di apportare piccoli cambiamenti alla realtà esterna, il gioco simbolico, in cui gli oggetti diventano simboli di altri oggetti, consentono al bambino di imparare la rappresentazione di eventi fantastici, di esercitare il linguaggio verbale, di scoprire quell’attività creativa che Piaget chiama fabulazione e che consiste nel piacere di ascoltare e di inventare fiabe. Quando arriva intorno ai cinque anni il bambino scopre poi l’interazione nel gioco e intorno ai sette-otto anni conquista la capacità di giocare rispettando delle regole. Nel 1967 un altro psicologo, Donald Winnicott, si è occupato del gioco, inserendolo tra quei fenomeni transizionali che aiutano il bambino, che ha beneficiato di buone cure materne, a emanciparsi in maniera non traumatica dalla dipendenza materna, imparando l’autonomia e conservando una certa fiducia in una realtà positiva che lo protegge. Winnicott ha definito il gioco come un fenomeno transizionale che consente al bambino di situarsi in un’area di illusione che media tra il mondo interiore del bambino e il mondo esterno, dapprincipio percepito come un patrimonio diviso con la madre. Sotto questo aspetto, sostiene Winnicott il gioco e gli oggetti transizionali (come peluche, coperte, sciarpe) danno al bambino un senso di sicurezza e lo aiutano nel controllo dell’angoscia. Vorrei qui evidenziare come, anche sulla scorta di queste osservazioni, sia evidente che il gioco si situa in uno stato intermedio tra i vincoli posti dalla realtà esterna e le infinite possibilità offerte dalla creazione fantastica. Il gioco è, quindi, una sorta di spazio intermedio tra una “realtà reale” e una “realtà immaginaria”. Potremmo paragonare lo spazio del gioco a quello che Carli, parlando dello spazio analitico, definisce “spazio anzi”, intendendo una funzione della mente che consente il ripensamento delle categorie mentali in base alle quali la realtà è stata classificata. Come dice Gregory Bateson “il gioco forza ogni categoria di cui disponiamo”. Lo spazio del gioco, come lo “spazio anzi” consente, infatti, ai bambini e agli adulti, di mettere in discussione le categorie mentali che contengono la propria storia passata, permettendo quel che Carli definisce “apprendimento pedagogico”, laddove porta, grazie a una traduzione simbolica delle proprie emozioni a una riorganizzazione psichica del proprio universo emotivo. Con il gioco, infatti, grazie alle sue regole pre-definite, è possibile trasgredire alle categorie mentali ereditate dalle figure genitoriali, per giungere a una ridefinizione del proprio modo personale di essere nel mondo e per vedere con occhi nuovi la propria storia passata. Il gioco, da questo punto di vista, quindi, agevola una definizione della propria identità. Il “fare finta” nel gioco, che può essere considerato una sorta di agire per prova, consente, inoltre, di mettere in scena esperienze non ancora reali ed educa a una capacità trasformativa dell’esperienza, grazie alla possibilità che offre di imitazione della realtà. Col gioco, infatti, i bambini possono “far finta di” essere adulti, sperimentando questa condizione, senza doverne affrontarne i relativi fallimenti e le inevitabili sofferenze. Per dirla con Bruner “il gioco offre un’eccellente opportunità per provare combinazioni di comportamenti che non sarebbero mai sperimentate sotto pressione funzionale” (Bruner, 1976) e offre “un modo per minimizzare le conseguenze delle azioni e quindi apprendere in una situazione meno rischiosa”. Il gioco, infine, educa al rispetto delle regole, al movimento da un universo di significati a un altro.. Un altro psicologo, il sovietico Lev Semenovic Vygotskji (1896-1934), autore di Linguaggio e pensiero (uscito postumo nel 1934) e di un’opera sul gioco e la sua funzione nello sviluppo psichico del bambino, si è occupato del gioco, centrando l’attenzione sull’importanza dei giochi intellettuali, motori individuali o sociomotori nell’evoluzione affettiva del bambino. Vygotskij considera il gioco come un’attività fondamentale per lo sviluppo intellettivo e come il mezzo più adeguato per facilitare il processo di astrazione. Sembra proprio che il romantico Richter avesse davvero ragione quando asseriva che il gioco è un’attività tremendamente seria.
Sigmund Freud, La psicoanalisi infantile
Donald Winnicott, Gioco e realtà
Johan Huizinga, Homo Ludens
Jean Piaget, Il giudizio morale nel fanciullo
C. Foti, C. Roccia, M. Rostagno, C’era un bambino che non era ascoltato. L’ascolto nella comunicazione, nella tutela, nella cura del minore, Centro Studi Hansel e Gretel di Torino
Claudio Foti, a cura di, Chi educa chi?: sofferenza minorile e relazione educativa , Milano-Unicopli
Gianni Rodari, Grammatica della fantasia 1992
Bruno Munari, Il laboratorio per bambini a Brera
Bruno Munari, Laboratorio giocare con l’arte, quaderni 1-9, Museo internazionale delle Ceramiche Faeinza, Faenza 1983-1994
Beba Restelli, Giocare con tatto Maria Montessori, La scoperta del bambino
Il gioco, un’attività tremendamente seria Sull’importanza del gioco nello sviluppo affettivo e intellettivo del bambino sono stati presentati molti e stimolanti interventi.
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Vanessa Pellegrino pedagogista analogica
Vanessa Pellegrino è un analogista, counselor e pedagogista analogica. Autrice del blog "Emotionsophia" racconta con maestria e professionalità le delicate complessità dell'animo umano. Vanessa aiuta le donne a ritrovare il proprio percorso, perchè ingabbiate in blocchi emotivi che non le consentono di progredire. Vanessa Pellegrino fa parte della community LeRosa , un progetto benefit che si occupa di creare collaborazione e sostegno tra le donne. Sul loro blog scrive di bambini grazie al suo ruolo di pedagogista analogica. In questa intervista Vanessa ci spiega gli obiettivi di questa professione forse ancora poco conosciuta. Vanessa qual è la tua formazione professionale ? Mi sono laureata in scienze pedagogiche. Durante gli anni universitari, specificatamente con l'esame di filosofia morale, ho scoperto il counseling filosofico. Me ne sono innamorata, come ero già innamorata di un concetto fondamentale nelle relazioni d'aiuto quale quello dell'empatia. Sei all'università e ti dicono che bisogna mettersi dalla parte dell'altro, del dolore dell'altro, del sentire dell'altro. E ricordo che nella mia mente c'era sempre una domanda che ritornava: ma come si fa? Dopo la laurea triennale mi sono sposata ho avuto subito il mio primo bambino e ho continuato gli studi. Dopo un anno del bambino sono rimasta nuovamente incinta con l’università da completare. La forza non mi è mancata così a Febbraio del 2011 mi sono laureata con un bambino di due anni e un altro di tre mesi. Ho vinto una borsa di studio regionale e a ottobre ho incominciato il master in PNL, mediazione familiare e counseling. Da qui non ho più abbandonato i miei studi. Ho continuato sempre alla ricerca di strumenti nuovi che mi permettessero di aiutare le persone a risanare le proprie ferite emotive. Nel 2018 ho intrapreso una nuova scuola, l'università delle discipline benemegliane, in cui viene utilizzato e insegnato come metodo principale dell’ipnosi dinamica diventando nel 2020 analogista. Ci racconti di cosa si occupa un analogista ? Questa professione forse poco conosciuta L’ analogista è un professionista olistico delle relazioni d'aiuto. Non è uno psicologo, né un medico, quindi non prescrive assolutamente farmaci né fa diagnosi. A me piace raccontarlo come un mediatore, il quale interpreta i linguaggi dell’inconscio, della parte emotiva. Individua le dinamiche comportamentali della persona; fino ad aiutarlo a raggiungere un benessere emotivo, che si traduce sostanzialmente nel trovare la strada della propria felicità e dello stare bene. L’analogista è un ponte tra la parte logica e la parte inconscia. Purtroppo, a volte, tendiamo a soffermarci sulle parole dell'altro dimenticandoci che c'è una parte anche analogica da interpretare; fatta di segni, gesti, tono di voce, ritmi, respiro attraverso i quali l'inconscio si esprime e sta dicendo realmente cosa la persona prova in quel momento. Diciamo che le parole a volte, possono mascherare o essere menzognere degli stati d'animo che la persona prova. Qual è l'obiettivo di una pedagogista analogica e a chi si rivolge? Pedagogista analogica è un termine che ho volutamente coniato io per definirmi, perché ho messo insieme i miei studi da analogista con quelli di pedagogista. Il pedagogista analogico è colui che mette insieme i suoi studi con le tecniche emotive, che si possono utilizzare all'interno della famiglia e con i bambini. Grazie a questo metodo, il bambino viene considerato nella sua totalità. Non solo come persona da educare ma come persona che esprime se stesso, i suoi sentimenti, la sua emotività attraverso gesti e comportamenti. Un bambino lancia gli oggetti quando è arrabbiato, piange quando è triste, in questi casi gli adulti tendono a etichettarlo come monello, cattivo…mentre è il suo modo naturale di esprimere quello che sente dentro. I bambini hanno solo il cervello limbico ancora sviluppato, sono molto emotivi e non riescono a parole, a trasferire quello che sentono dentro. Il pedagogista analogico fa proprio questo, traduce in linguaggi emotivi di ogni bambino senza giudicare il gesto, il comportamento, ma prendendo atto di quello che in quel momento sente. Tu sei una counselor qual è la differenza tra questa professione ed un coach? Il coach e il counselor condividono l'obiettivo comune. Promuovere, sostenere la persona nella propria realizzazione e mettere fuori le risorse che possiede in maniera acritica, secondo il suo modello di mondo. Anche in questo caso non ci sono diagnosi, né problemi, solo disagi che la persona vive e che non le permettono di essere in quel momento serena. Il coaching è focalizzato soprattutto sull'obiettivo, sulla performance della persona in relazione a quell'obiettivo. Invece, nel counseling, il cliente ha la possibilità di esplorare, consapevolizzare, integrare nuove modalità che gli permetteranno di affrontare la vita da quel momento in poi. Grazie a questa maggiore consapevolezza, conosce se stesso in maniera approfondita. E' capace di trasformare i suoi stati d'animo, i pensieri limitanti, le convinzioni che non gli impediscono di raggiungere determinati obiettivi. Vanessa Pellegrino Le persone che si affidano a te nella maggior parte dei casi che esigenze hanno? Cosa vogliono cambiare, migliorare o affrontare della propria vita? Io mi occupo principalmente di aiutare tutte quelle persone, che sentono il peso di una relazione di coppia insoddisfacente a realizzare una vita affettiva intima, serena, in cui sentirsi amate, apprezzate. Sono per la maggior parte donne e mamme che a causa di ripetuti litigi, hanno perso quel forte amore che sentivano all'inizio. Hanno perso anche la passione e non sanno se continuare ad amare il proprio marito o compagno, oppure mettere fine alla propria storia. Sono in uno stato confusionale, in cui non riescono a vedere la strada. Il miracolo più bello è che mentre lavorano, durante il mio percorso di 12 settimane, incominciano anche a cambiare la relazione con i propri figli, oltre che col proprio marito, con i propri i colleghi di lavoro e anche con i loro genitori. C'è chi invece ha anche cambiato lavoro, perché quando avviene una trasformazione profonda della persona e viene messa sulla strada giusta da sola, capisce cos'è bene. La cosa che più mi rende felice è vedere il loro sorriso, il loro volto tornare a splendere in modo da fare scelte del cuore. Come si può aiutare gli altri attraverso l’ipnosi, ci dai qualche informazione su questo tema? L'ipnosi è uno strumento che viene spesso considerato un male, dato anche l'utilizzo da palcoscenico che si è fatto in televisione. L'ipnosi, invece, è uno strumento che permette alla persona di capire il proprio passato, la propria storia. Grazie anche ad una linea del tempo che l' analogista crea e che permette di capire a che età è avvenuto quel blocco, quella ferita che oggi ancora è aperta. È una comunicazione molto profonda che considera, come ho già detto prima, il linguaggio verbale e soprattutto il linguaggio non verbale . L’analogista, infatti, cerca di capire qual è l'analogia che c'è tra il presente e il passato. Devi sapere che per l'inconscio non c'è un tempo passato, presente e futuro, l'inconscio vive sempre nel presente, quindi anche se qualcosa è accaduto ieri lui lo vive oggi a livello energetico. Ti faccio un esempio. Se un bambino è stato rifiutato alla nascita perché i genitori erano troppo giovani e non erano pronti a riceverlo, a diventare genitori, questa sua ferita rimane e nel tempo si “aggancerà”. Termine che viene utilizzato da noi analogisti, a persone che spesso lo rifiuteranno e che alimenteranno quella ferita. Sembra assurdo ma l'inconscio si nutre di quell'energia. Finché quella ferita è lì, non vissuta, non elaborata, la persona continuerà a vivere e a crearsi quella realtà. Attraverso l'ipnosi dinamica si ha la possibilità di lavorare sul rifiuto, in quello specifico momento, perché è l'inconscio che porta indietro nel tempo e fa rivivere alla persona anche il momento in cui era nella pancia della mamma appunto. Vanessa ci racconti un episodio o una storia di vita di un tuo paziente, che ti è rimasta particolarmente impressa ? Lei è una ragazza gioviale, allegra, profonda. Insegnante di yoga, mamma di due bambini. È venuta perché non era soddisfatta della sua vita. Sentiva di perdere tempo e non sapeva quale fosse la sua strada, sia in ambito relazionale che lavorativo. La situazione con il marito era assolutamente pessima, non c'era più dialogo se non per organizzare i bambini. Andava al lavoro in ufficio, ma non la gratificava, perché scelto da suo padre che aveva messo su un'agenzia per il lavoro. Lei dentro è una leader, ha una grande capacità di accogliere, di guardare nel cuore e di mettere insieme le persone, non è fatta per un computer, o per stare dietro una scrivania. È arrivata da me che voleva separarsi. Ha lavorato molto sul rapporto genitoriale. Ha imparato a dire di no a tutto quello che la sua famiglia ancora cercava di imporgli e piano piano ha ricostruito il suo legame sentimentale e intimo col proprio marito. Oggi è diventata coach, ha lasciato quel lavoro e ha la sua famiglia unita. È rinata. Quali sono i tuoi progetti futuri ? Non ho tanti obiettivi futuri, tranne quello di continuare ad aiutare sempre più persone, che vogliono tornare a credere nell’amore, credere che esiste un amore e un rapporto basato sulla fiducia affettivamente, intimamente profondo. Quando sogno in grande mi immagino di aprire una sede, in cui poter aiutare le donne vittime di violenza a sganciarsi da tutti quei mariti che, con il loro subdolo egoismo, vogliono tenere per sé. Le rendono dipendenti emotivamente da loro, le insultano e maltrattano. Voglio dare a queste donne una nuova possibilità e fargli credere che una nuova vita è assolutamente possibile. Read the full article
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Il narcisista patologico (o maligno più correttamente) e lo psicopatico considerano gli altri esseri umani come meri oggetti da dominare e controllare.
Il controllo e la dominazione sono ottenuti attraverso una iniziale fase di recitata amorevolezza, attenzione e falsa passionalità in modo da sollecitare, in futuro, la vittima ad accettare e sopportare la violenza morale e a volte fisica che subirà, nel vano e distruttivo tentativo di ripristinare il clima favoloso creato ad arte dal carnefice i primi tempi. Le dinamiche della relazione ben presto saranno tese alla distruzione della preda e, quindi, allo scarto finale, agito o indotto dal comportamento via via più intollerabile del perverso.
Il narcisista maligno e lo psicopatico, come sappiamo, non hanno coscienza nè rimorso, non hanno memoria, non nutrono alcun attaccamento nei confronti dei loro oggetti, siano essi figli, amanti, coniugi, amici o colleghi.
Il ciclo della idealizzazione-svalutazione-scarto è fisso e si ripete di continuo. Tuttavia, proprio come gli esseri umani sani reputano alcuni dei loro oggetti più utili rispetto ad altri, proprio come alcuni di essi sfuggono alle mode del momento, ed altri invece durano una sola stagione, come alcuni sono conservati per sempre nell’armadio o sulla mensola e mai più utilizzati e vengono riesumati di tanto in tanto, fatti scorrere tra le mani, guardati per qualche minuto e di nuovo dimenticati nel loro ripostiglio, altri, invece, benchè siano stati ampiamente maneggiati per qualche tempo (tanto magari da logorarne le fattezze, si pensi ad un bel paio di scarpe o una borsa o una simpatica maglietta), non verrano mai più usati e saranno gettati via, cosi il narcisista patologico e lo psicopatico si comportano con i loro oggetti umani.
I predatori, a causa di anomalie cerebrali, (danni alla amigdala, alla corteccia prefrontale, all’ippocampo, come attestano i più recenti studi) che si ritiene a volte esplodano in presenza di fattori ambientali avversi (clima ostile nell’infanzia, abusi morali o fisici ecc.), non hanno capacità affettiva, non provano emozioni autentiche e profonde, non temono le conseguenze delle azioni deprecabili che compiono e non hanno limiti etici che possano guidarli nel raggiungimento dei loro scopi. Per tali ragioni, i perversi non sono in grado di stabilire relazioni che tengano conto degli altri come esseri umani: questi ultimi, per uno psicopatico, sono l’equivalente di un paio di pantaloni.
Naturalmente, un narcisista maligno o uno psicopatico può avere come obiettivo quello di avere una famiglia di facciata così l’oggetto-moglie (o marito) e l’oggetto- figli saranno conservati molto a lungo o per sempre; ma ciò non deve ingannare: uno psicopatico è psicopatico con tutti ed a loro, gli oggetti fissi, riserverà violenza, manipolazione, inganno, insulti, falsità, denigrazione, tradimenti, distruzione, anche per tutta la vita. Accanto alle vittime di serie A (figli e partner ufficiali), vi è l’harem delle altre prede (amanti, amiche, colleghi, familiari) ossia una serie variegata di marionette, ciascuna con un ruolo determinato, che costituisce il complesso delle vittime di serie inferiore B, C, D, E, F ecc..
Generalmente, più una preda è in basso nella scala (insomma più l’oggetto umano è ritenuto poco valido ed utile) maggiormente manifesti saranno i maltrattamenti e disumani gli scarti. Difatti, la vittima di serie A, finchè rimane di serie A, sarà maltrattata aspramente ma alle fasi distruttive si alterneranno momenti di dolcezza, falso pentimento, promesse mai mantenute al fine di trattenerla. D’altra parte, anche noi esseri umani sani di tanto in tanto facciamo manutenzione agli oggetti che riteniamo debbano durare più a lungo (revisione auto, cambio olio, freni ecc.).
https://contattozero.com/tag/i-ritorni-del-narcisista-perverso-e-dello-psicopatico/
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Amore e cellulari
I telefoni cellulari hanno un posto unico e intimo nella vita delle persone.
Sono dispositivi affettivi e personali, che mediano le relazioni umane. I cellulari sono diventati tecnologie affettive; cioè oggetti che mediano l'espressione, la visualizzazione, l'esperienza e la comunicazione di sentimenti ed emozioni. Le persone godono di una relazione affettiva con i loro telefoni e si sentono attaccati a loro, vivendo in molti casi una sensazione di dipendenza e persino dipendenza.
Dicono che si sentono "strani", "persi", "scomodi", "infelici", "tagliati fuori", "insicuri" e "isolati" senza il loro cellulare. Alcuni di loro "odiano" di vivere senza il loro cellulare e riconoscono che anche le altre persone dipendono dai loro cellulari, dai clienti e colleghi di lavoro ai bambini che si prendono cura di loro e agli anziani, che si aspettano di essere in grado di raggiungerli.
Greg's insight:
I telefoni cellulari hanno un posto unico e intimo nella vita delle persone. Sono dispositivi affettivi e personali, che mediano le relazioni umane.
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