#ranavuottolo
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Da "Partitura" di Enzo Moscato (1988)
L'origine della controversa scena del lupanare ("S'agapò") nel film "Il giovane favoloso"
Hic Moritur Angelus: l'ho detto ccà schiatta 'o Ranavuottolo Il Rospo forestiero brutto, che scrive d'idilli e di splendide Aspasie Ccà iette 'o sanghe lo Scriba, maleodorante e scartellato, l'èlève des Materialistes, trainè a la chaine fino agli arenili azzurri fino ai sassi più consunti del golfo delle Bugie! Napoli, sono io il tuo prezioso ago nel pagliaio sono io l'anonimo, il nascosto, l'introvabile. Sono io questa carne queste ossa questi pensieri da giocare al lotto, edificante meraviglia di me si cerca, quando si cerca, una tomba, nu fuosso da nessuna parte posti. Mi faranno autopsie lo sai. Sono io l'incerta Graziella, suicida dalle rupi di Vivara io, la Ginestra, 'e pontone, muta. Io, lo schernito disgustoso sembiante dei diari d'amore di Rainer quell'amico, mio infermiere, mio aguzzino. […] Ho spesso pregato in cuor mio che Rainer - il mio ineffabile amico - l'esule impuro che trascrive i miei pensieri - non mi trascinasse, qualche sera, su quella casa ai Ventaglieri - quel lupanare dal lumicino rosso sul davanzale di finestra. Le donnacce già mi aspettavano ansiose, sedute, ma, dovrei dire meglio, sguaiatamente aperte su delle poltroncine ricamate. Ridevano e sgranocchiavano dolciumi, squadrandomi da capo a piedi con la falsa ironica pietà che si porge ad un cadavere, già attardatosi a crepare parecchio. Capii subito che Rainer le aveva informate di tutto. Addirittura leggevo nei loro sguardi i nomi scritti dei miei bizzarri, infelici amori: Fanny, Gertrude, Teresa, e i capoversi, le righe, le cancellature del mio tradito dolore. Feci l'atto di alzarmi dalla sedia, dove mi avevano costretto a guardarle divertirsi, quando una di esse mi prese la mano e "Allora?" mi disse, indicandomi una porta, "Llà??". Aveva le labbra dipinte di viola, gli occhi fieramente bistrati; un sesso decapitato, dalle calze rosa, ornate d'oro, rettile, impudico frutto dei mercati di questa città, innominabile. "S'agapò! S'agapò!" gli aveva suggerito di sospirarmi Rainer a perfido spregio del mio amore per la lingua e il mito dei greci "S'agapò, pauetà, s'agapò" e mi venne dietro oltre la porta oltre la risata delle sue grasse amiche e di Rainer gli occhi intontiti dal rosolio e dal fumo dei sigari E questa esclamazione di sfottente, indecente amore "S'agapò" questa pernacchia alla mia gobba questo epitaffio pagato in anticipo ai miei restanti giorni si sparse ben presto per i vicoli, come un eco pulcinellesca per la salita di Spezzano, per l'ansa di Pontecorvo per lo spiazzo della Cesàrea su, su, fino al vicolo del Pero, dovunque lo sberleffo del mio turpe persecutore/persecutrice fece adepti, ciurmaglia canora: "S'agapò, s'agapò, s'agapò" tarantellavano gli scugnizzi arrancandomi dietro "S'agapò, s'agapò, s'agapò…s'agapò s'agapò s'agapò" e neppure sapevano che volesse dire ti amo o che nella più viva delle carni iniettassero quel grido come il più indelebile veleno.
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Ridere
A tutti i miei tormenti non c'è che un rimedio, e pure potentissimo: riderne. E il compito di riderne è tanto più facile quanto più il soggetto è alto; perché l'umorismo non è che una inaspettata caduta, e tanto più rovinosa sarà quanto più il soggetto dello stesso ci pare eccelso. Più grande è la causa del dolore, più fragorosamente se ne può e se ne deve ridere. Senza moderazione; che non sia un esangue sorriso: non curerebbe. Nel dolore, è concesso mancare di rispetto a cosa lo procura. E com'è naturale il pianto, o la fissità della depressione, tanto dev'essere scuotente e irrefrenabile il riso. Quindi ridiamo senz'altro rispetto che non per noi stessi, di cosa ci fa male. E quando saremo meno dolenti, saremo pronti a ridere di noi stessi quasi senz'accorgercene. E così saremo guariti.
Ricordo quando Leopardi mi consigliò di leggere la farsa 'O ranavuottolo. Penso che tuttora dovrei rileggerne un pezzo, quello vergognosamente triviale dove Fanny lo invita a porgerle la gobba per farle stendere i panni; e dalla mia risolutezza nel passare sopra alla vergogna avrete la misura del mio dolore.
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