#poesiauncazzo
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Rivelazione
Il sogno da bambino di essere magici, diversi svegliarsi un giorno e rivelarsi a sé stessi, al mondo con talenti, miracoli celati e lasciare tutti incantati mostrando di saper volare, anche solo levitando di una spanna, un palmo sopra la buccia del suolo in un istante cristallino e calmo.
Chiamare a sé un merlo dal becco giallo o un pettirosso, una rana verde con un semplice gesto uno sguardo, un fischio un canto nella loro lingua e lasciare tutti incantati mentre la creatura salta in braccio «Visto!», dirsi, «Posso farlo!» e anche solo per un attimo ammutolire la buriana.
Una figura non terrena d’oltre tempo, d’oltremare avrebbe allora attraversato i ghiacci e il tempo e la sua rena per vedere il mio raggio di luce e dirmi, «lo sola t’ho visto», dirmi, «Siamo al mondo per volerci bene». Io l’avrei chiamata, senza fiatare e prima di prenderla in petto, nella sua lingua, le avrei detto: «Su, vieni, ché andiamo».
Era possibile, era possibile mentre passeggiavo da piccolo con una mamma, sotto i platani in quella via paesana in discesa larga ai miei occhi bambini come una Prospettiva russa e accanto a noi quel muro che indossava un mosaico celeste e bianco e marrone di cui mille tessere, ho perduto nella dimenticanza.
Stasera, nella via cittadina tornavo, con una cena da passeggio e pensavo, nel chiarore della sera che è possibile, ancora, immaginarlo con la musica e nella musica nelle parole dei buoni scrittori o degli scrittori buoni, posso ancora incantare i presenti mentre ricompongo il mosaico e torno piccolo e vado, volando a salvare una tristezza.
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Delitto con espatrio
questo desiderio di piangere che è anche un po' desiderio latente di morte morte altrui ma soltanto immaginata morte propria ma soltanto inscenata morte apparente morte senza morte annullamento vacanza assenza latitanza senza estradizione coma placido, sparizione cambio d'identità invisibilità fuga. fuggire: e non frignare. dolersi senza ostentare occhi asciutti in terre straniere non esser visti, non farsi vedere. anonimi forestieri figli di N.N. clandestini in trasparenza perenne ignoti, non figli di madre ignota né mai più bambini contrabbandieri verso il mare o giardinieri in North Dakota purché oltre i confini attraverso la dogana essa sì, puttana.
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Faded
Il pomeriggio troppo assolato per far baccano, il traffico che defluisce lontano, sulla costa, la posta senza lettere e consegne le insegne spente senza una lettera, botteghe serrate serrande calate, le scuole sbarrate e silenziose, con le cattedrali della burocrazia che fanno meno paura, tutti via, evasi dalle loro quattro mura, son rimasti solo i gatti nei vicoli ed eccoli, infatti, rettangoli mai visti vuoti prima d’ora tra le auto in sosta per mezz’ora nei parcheggi in diagonale, le piccole stazioni da treno regionale semideserte, le finestre tutte aperte, le carte di giornale o dei gelati dei maleducati come ballerine di danza classica nel vento caldo, i marciapiedi liquidi e le pensiline come ultimi ripari, i cieli ampli e non ce ne voglia l’inverno, i crepuscoli senza pari. Città vuota e città di vetro, guardarsi indietro, ché dietro c’è tempo, e davanti c’è spazio, gli spiazzi le piazze i muri i tetti, le nuvole che avanzano veloci oltre la linea frastagliata dei palazzi, nuvole che non piovono o forse un poco, temporali, telegiornali e l’ansia di stare nella storia, anche attraverso una sparatoria, ché basta chiamarla guerra, così tutto sembra più importante - basta che la strage non entri casa, ma nemmeno sia troppo distante. Non ho ansia, solo un groppo in gola, sola la musica consola, nell’attesa delle persone pulite, gli affetti che profumano di buono, come gli odori dell’infanzia. Fiorenza Roma e Milano, Vicenza la Brianza San Colombano, Napoli Bologna San Gimignano, Ravenna Ferrara Pistoia Piacenza, Lodi Collodi, di nuovo Milano. La scia di un aeroplano, tante scie di aeroplani, che bianche di latte fanno il cielo a fette. Sotto, biciclette dimenticate in qualche parcheggio, biciclette rubate e biciclette a noleggio, un solo pedone a passeggio, i tram non hanno più fretta, le persone non hanno più volto, le sagre di paese che non hanno fine, il camminare che si libera dal fine, le colline i vigneti in fila indiana fin già nella piana, l’afa padana che toglierà anche il fiato, ma che a volte è solo un afflato più delicato, mica affanno, non è malaria di antica palude né altro malanno, è solo sole che elude l’ombra e brucia i pioppi e fa evaporare l’acqua dei canali e dei torrenti e dei grandi fiumi e i fumi sono carichi di una nostalgia che non sai, ma che puoi sentire anche se in certi luoghi non ci sei, o se ci sei passato mai. Il settimo e l’ottavo mese dell’anno toglietemi tutto, ma soprattutto, la frenesia. E lasciatemi quell’altra cosa che farebbe ancora rima, ma che solo a nominarla, già non è più, se ne vola, via. Come quando la rinneghi, ma poi subito ti manca, quando poi non la trovi più ed allora non te lo spieghi, dov’è che ora sia.
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Animali domestici
Come quando voglio stare sul divano con te, sotto il plaid quando la zuppa fumante della cena - il bollore dell’acqua, le patate e i legumi, il peperoncino, il vino - mi fa venire le mani calde calde buone da infilare sotto la tua maglia, la tua canotta senza farti sobbalzare, no solo sussultare dal piacere, sì mentre guardiamo la tv. Ma prima girare con te in un centro cittadino uno di quei centri storici medievali che sai nel nostro Nordovest mai nostro spiegarti la differenza tra broletto e chiostro sentirti pendere dalle mie labbra e distrarmi a pensare, neanche troppo segretamente a quando io, più letteralmente, pendo da quelle tue tipicamente intorno alle due di notte frattanto, nella piazza fermarci in un bar sotto il portico a bere un bicchierino un punch al mandarino un vino speziato e bollito o un qualsiasi tipo di liquore che ammazzi i caffè ammirando attraverso le vetrate il buio stellato e invernale che c'è il buio chiaro, azzurro e blu notte e argento, liscio e terso e limpido ché stasera il vento spazza il cielo per noi per noi e per tutti per noi che il cielo lindo e ampio in gennaio ci spiazza per noi tutti che siamo i passanti mentre il pavè della piazza lo spazzano i mercanti e spariscono le casse di frutta e le veline delle confezioni così com’è sparita la nebbia e i presagi dei nuvoloni carichi di pioggia fredda o brutte discussioni, di neve mai. Riepilogando: prima le olive greche e il pane abbrustolito e il formaggio brigante poi la zuppa vaporosa e piccante il vino prima dopo e durante quindi fuori, là fuori, a digerire, a respirare ad alcolizzarci un poco, il giusto e a guardare il mondo e le costellazioni e le strade lastricate e le chiese di laterizio il romanico il gotico il Gotico le statue equestri i palazzi del municipio i caffè novecenteschi i cordiali dentro le nostre sciarpe i nostri guanti ad assaggiare il sapore dell’inverno con sorsi brevi ma decisi poi di corsa a casa, a rintanarci, a scongelarci a stare caldi, seduti, sazi un po’ di fumi in testa a passare la più quieta e spensierata delle sere che anticipano il dì di festa in attesa di essere nudi a letto con quella confortante assenza di fretta che è tutt'altro che freddezza quel desiderio che si prende il tempo e il piacere di aspettare come quando ti abbasso il cotone per baciarti la fica baciarla alla francese parlarle in francese sfregarci sopra le guance ma per qualche lungo, fugace, caldo istante per poi rimetterti le mutande e tornare a scherzare o a guardare il film o a chiacchierare amabilmente con te ché tanto la notte è ancora lunga l’inverno lunghissimo ancora tornerà la nebbia, sicuramente le nubi ma domattina dormiamo stanotte pure, forse ma non intorno alle due.
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