#pensieri da sala d'attesa
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~ Pensieri da sala d'attesa ~
Un bambino gioca con due mostriciattoli sul tavolino davanti a me. È concentratissimo, mentre inscena un combattimento all'ultimo sangue, senza esclusione di colpi, tra i due mostri. Uno dei due pare sul punto di soccombere, quando il bambino lo gira, lo guarda e serio gli fa: "Rialzati! Non ti puoi arrendere, vergognati! Devi combattere e vincere ad ogni costo!".
Sembra una frase fatta, sentita chissà in quale cartone e buttata lì, ma detta da un bambino così piccolo mi fa riflettere.
Questa epoca ci ha insegnato, e ancora insegna, a non piangere, ad essere forti, a non arrenderci, a combattere.
Ci vuole tutti guerrieri. Una mano sul cuore, chi ce l'ha, e una sull'elsa.
Arrendersi è debolezza. L'orgoglio deve insorgere. Morti piuttosto, ma non perdenti.
Ma è veramente così?
Quando vale la pena combattere fino allo stremo delle forze e quando è stupido accanimento?
Mi tornano in mente le parole di una persona che mi è stata cara.
"Quando non ce la faccio più o quando non so cosa fare, non faccio niente. Lascio andare. Faccio accadere le cose."
Fui fortissimamente in disaccordo su questo, mi arrabbiai con lui, era una cosa fuori dalla grazia di Dio per il mio modo di pensare all'epoca.
Io sono come gli elefanti però, non dimentico. Nel tempo ci ho pensato e ripensato a ciò che mi disse.
Con svariati anni di vita in più, e di battaglie, adesso penso che sia fondamentale saper distinguere il momento della resa da quello della resistenza e agire o non agire di conseguenza.
Lasciar andare talvolta.
Un guerriero è consapevole di sé e del momento che sta vivendo. Analizza con lucidità, anche con l'anima in tumulto.
Davanti alle battaglie, piccole e grandi, che la vita ti serve come noccioline, il vero guerriero non va avanti a qualsiasi costo.
Il vero guerriero sa quando è ora di combattere.
E sa ancora meglio quando è ora di arrendersi.
L'assistente chiama, è il turno del bambino. Dopo tanto lottare, tutto si risolve in un attimo, inaspettatamente. I mostriciattoli finiscono insieme nella tasca dei pantaloncini, faccia a faccia, sembrano sorridersi. Eh sì, tra una battaglia e l'altra, le tregue hanno un sapore dolcissimo e piacciono a tutti.
@conilsolenegliocchi 🐞
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Avevo tante storie da parte. Quelle brevi che scrivo quando magari sono in sala d'attesa in ospedale (io passo davvero tanto tempo ad aspettare in ospedale). Le tenevo da parte perché mi sono sempre detto che un giorno le avrei pubblicate. Poi però una vecchia amica che lavora nell'editoria e che non sento più mi disse "Ma no, nessuno ti pubblicherà mai dei racconti brevi" e io le diedi ascolto e accantonai il progetto. Poi arrivò il romanzo. Mi dispiaceva lasciarle lì a marcire. Ho pensato a tutte quelle storie e a come raccoglierle. Che aspetto dargli. Così le ho messe in ordine, suddivise per categorie e ho capito che mancava qualcosa. Delle illustrazioni. Ho chiesto a un'illustratrice professionista se avesse voglia di imbarcarsi in questo progetto insieme a me e disegnare le mie storie e ha detto "No". Ma se c'è una cosa che io ho imparato nella vita e andare sempre avanti anche quando tutti ti consigliano di non farlo. Avendo pure ragione, la maggior parte delle volte. Ho preso in mano matita e penna e mi sono messo a disegnare. Io che da una ventina d'anni mi nascondevo dietro i programmi di grafica e il computer, di nuovo a disegnare sulla carta. Ho provato con un iPad ma mi è sembrato freddo e sterile e troppo preciso, le cose venivano bene subito. Io non posso accettare le linee dritte e che le cose vadano bene. Mi da fastidio. Perché i miei racconti non sono dritti. Sono come i miei pensieri. Arzigogolati e stagnanti. Pagina dopo pagina la prima raccolta ha preso forma. Ho trovato un caro vecchio amico specializzato in fumetti che si è offerto di pubblicarla e ora sono felicissimo. È un libretto leggero ma prezioso, secondo me. Ci sono tanti errori di battitura e l'impaginazione lascia a desiderare ma è tutto frutto delle mie mani appiccicaticce. Si chiama "Mi annoiavo molto" ed è la prima parte di quella che sarà una collana (spero).
In caso vogliate una copia basta scrivermi, grazie grazie!
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Pensieri a nastro in sala d'attesa
In attesa della radiografia al torace, ovviamente ho mal di pancia perché il mio intestino non sa che non ha alcun senso ribellarsi.
Fa anche caldo, perché nella sala d'attesa non ci sono finestre e siamo in 7. In questi giorni dopo aver prenotato mi sono pentita diverse volte e poi ci ho ripensato appena mi tornava la tosse e anche se fossero soldi buttati e radiazioni inutili almeno ci mettiamo il cuore in pace. Una parte del ripensamento era anche dovuta alla decisione di fare la prenotazione nel solito poliambulatorio privato anziché nelle strutture pubbliche. Ce ne sarebbe stata una non tanto scomoda, oltre all'ospedale di sabato mattina, ma vista la cifra modesta ho pagato la comodità e il fatto che qui anche altri miei familiari hanno avuto occasione di fare radiografie di recente e sono stati contenti del trattamento. Non che un'accoglienza gentile sia necessariamente garanzia di una buona prestazione, purtroppo, ma in questo caso anche le macchine sembravano all'altezza della necessità. E di nuovo, non che all'occhio inesperto di noi profani della medicina questo sia effettivamente valutabile, ma tant'è, mi sono fatta convincere. Dovrei nel prossimo futuro pianificare anche altre visite, che avrei dovuto fare da mesi se non da anni e sempre rimandato per pigrizia e inerzia, e anche in questi casi mi chiedo quanto valga la pena risparmiare rispetto alla continuità che può darti uno specialista che ti segue anno dopo anno, come sono stata abituata per diverso tempo della mia vita. Però i professionisti invecchiano, vanno in pensione, o anche semplicemente si trasferiscono lontano e prendere un appuntamento con mesi di anticipo è qualcosa che evidentemente va oltre le mie attuali capacità. Quante paranoie mi faccio. Vorrei essere diversa in queste circostanze, vorrei essere più pragmatica e fare, invece di pensare e ripensare e rimandare alla prossima settimana che poi non arriva mai.
Chissà se prima o poi troverò una diversa forma di abitudine per questi aspetti della mia vita. Sarebbe preferibile prima di esserne costretta dalle circostanze, che prima o poi, se la vita farà il suo corso, arriveranno.
Scrivo perché non c'è campo e non posso leggere. In questo ogni tanto riesco a tenere il passo con le mie aspirazioni e in questi giorni sto leggendo Wild di Cheryl Strayed, sulla scia dell'abitudine riconsolidata con Il Colibrì di Sandro Veronesi. Il Colibrì non mi è piaciuto molto, sono riuscita ad andare avanti solo perché abbiamo deciso di leggerlo insieme a due mie amiche, come primo libro di un mini book club di noi tre. Una l'ha ascoltato come audiobook e le è piaciuto, ma finché non finisce pure la terza abbiamo promesso di non scambiarci altri commenti. Effettivamente come audiobook potrebbe essere più divertente, specie quei capitoli fatti di elenchi o quelli fatti a flusso di coscienza. Avevo abbozzato anche un post su tumblr per schiarirmi le idee alla fine della lettura, ma l'ho lasciato in sospeso sperando di aggiungere altro e poi, rimandando e rimandando, è rimasto lì. Quando dico che sono una procrastinatrice cronica non è una esagerazione, temo.
Wild mi piace molto, anche se a volte, avendo già visto il film, ho una sensazione di déjà vu. Ma se non amassi i déjà vu non sarei mai riuscita a riguardare millemila volte le serie TV o i film, o i libri appunto, che ho amato negli anni e spesso ricominciato daccapo. Sarà l'influenza della TV fatta di ennesime repliche che mi ha improntato l'infanzia, il piacere di ritrovare e sorridere prima ancora della battuta, di commuovermi prima ancora della scena clou.
Difficile anzi che io abbia visto o letto qualcosa una sola volta, se l'ho amata.
Ho deciso di leggere Wild proprio perché ho amato il film e volevo esplorare quella storia nella sua forma originale. Di tanti film che ho visto dopo aver letto il libro questo è uno dei pochi che mi fa fare la strada inversa. Potrebbe anche essere uno dei pochissimi all'altezza del libro, che di solito supera di diverse dimensioni la sua trasposizione cinematografica o televisiva.
Mentre ero malata qualche settimana fa ho visto una delle ultime versioni di Piccole Donne e non è stata affatto all'altezza, nonostante alcune scelte apprezzabili. Ogni tanto mi chiedo se la versione alternativa migliore non sia stata l'anime degli anni 80 che guardavo da bambina. Forse più semplicemente è una storia troppo piena e lunga da condensare in un paio d'ore di film.
Ok, mi hanno chiamato. Speriamo bene.
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Quanta ipocrisia. Non pensi di averne bisogno? Sei una tossicodipendente e neanche hai il coraggio di ammetterlo. Ritieni che le “cannette” siano la terapia adatta a te ma è solo l’ennesimo tentativo di attirare l’attenzione. Poi il thc dell’amico tunisino non ti sarà più sufficiente allora passerai alla coca per poi finire all’eroina caramellata. E la colpa sarà del sistema, perché non ti avrà aiutata. Abuserai del sistema sanitario nazionale, alla quale te non contribuisci, perché per quante cose vadano male in Italia, un’ambulanza arriverà sempre a tirarti su e un posto letto al PS c’è sempre. E gli altri stronzi in sala d’attesa rimangono lì.
Ecco una delle conseguenze dell’essere nati nella società del benessere, dove si cresce credendo che sia tutto dovuto e subito, che le difficoltà devono risolverle gli altri.
Che spreco.
Accetto il tuo pensiero e ti rispondo con quello che penso io. Non credo di essere una tossicodipendente, non penso di avere bisogno del Sert, comunque sono in cura e sto seguendo la mia terapia. Riguardo all'erba e affini ci sono tante opinioni contrastanti a riguardo, a favore o meno, quindi ognuno ha le sue convinzioni che siano giuste o sbagliato non sta a me o a nessun altro dirlo. Dico solo che sto meglio ora, perché non passo più le giornate a letto a prendere in continuazione gli ansiolitici per calmarmi e respirare un po'. Dici che finirò a farmi quotidianamente di eroina? Non lo so, non credo, non me lo auguro di certo. Come non posso saperlo io, non puoi saperlo tu e nessun altro, inutile fare congetture varie. Questa è la mia vita e la mia situazione la conosco solo io bene. Sono in un periodo di transizione e sto cercando, a fatica e con tante difficoltà, di costruirmi un futuro. Per la prima volta riesco a intravedere qualcosa dopo, non sempre, ci sono ancora quei momenti in cui tutto crolla e sembra impossibile tornare su. Non sono da sola adesso, ho cambiato contesto in cui vivo e qua ho una rete di persone che mi stanno aiutando. Non penso che sia colpa del sistema il mio malessere, certo potrebbero aiutarmi di più, i servizi pubblici non funzionano granché in queste zone e mi sto aggiustando. Non abuso del sistema sanitario nazionale, penso che se una persona sta male sia giusto e doveroso aiutarla, indipendentemente dal problema che ha, che sia fisico o mentale. Perché i problemi di origine mentale hanno importanza, sono come qualsiasi altra malattia e chi ne soffre secondo me ha diritto alle cure, senza sentirsi in colpa. Quello "stronzo" in sala d'attesa che magari ha una gamba rotta sta soffrendo quanto quel ragazzo che è arrivato in ambulanza perché ha avuto una crisi e ha tentato il suicidio. Questo penso, poi che la società non sia un esempio di perfezione credo lo sappiano in molti. C'è chi ritiene che gli sia tutto dovuto e subito, c'è chi si fa il mazzo per avere poco, c'è chi si risolve i problemi da solo in silenzio, c'è chi si lascia aiutare, chi i problemi li passa agli altri.
Pensi sia ipocrita? Va bene, se non ti piace quello che scrivo mi dispiace, puoi non leggere e andare oltre. Uso il blog per dire cose, scrivere pensieri o esperienze che vivo, distrarmi ogni tanto, parlare con gente nuova e per me va bene così.
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Sono inquieta e lo capisco dal numero di pensieri in cui inciampo in queste giornate. Ascolto canzoni che sembrano parlarmi e mille immagini, più o meno moleste, si affacciano alle porte della mente. Sembra la sala d'attesa per i prelievi del sangue alle 8:17 del lunedì mattina. Mi chiedo come possano nascere certe affinità, mi chiedo come facciano certe persone a conoscerti così profondamente. Anime che richiamano anime. In una di quelle immagini mi vedo contro lo specchio grande di camera mia e il tuo corpo incastrato col mio, come due pezzi del teris. In questa immagine c'è la voce di Alex Turner che vibra tra le pareti strette, mentre ti guardo, in un gioco di riflessi. A illuminare, solo la lampada di sale, avvolti da un chiarore albeggiante. Immagini, più o meno moleste, di fantasie inutili. Devo cucire i bottoni alle cuffie, per attaccare la mascherina, altrimenti da un giorno all'altro sarò senza orecchie.
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"È solo ipocondria" -CRONACHE DI UNA SOCIOFOBICA #10
'IPOCONDRIA': preoccupazione ingiustificata ed eccessiva nei confronti della propria o della altrui salute, con la convinzione che qualsiasi sintomo avvertito da un soggetto sia il segno di una patologia grave.
Ho riflettuto tanto prima di decidermi a scrivere qualcosa su questo argomento e
oggi, finalmente, ho trovato il coraggio per farlo.
Oggi, vi racconto la mia esperienza con l'#ipocondria.
Due anni fa ho sviluppato una forma di forte apprensione nei confronti della mia salute. Perciò, ogni minimo segnale di malessere fisico, mi generava un'ansia talmente difficile da placare che mi vedevo costretta ad andare dal medico di base. E così, ogni settimana avevo il mio posto fisso nella sala d'attesa dello studio della dottoressa - per la quale dovevo essere diventata un incubo. Dopo avermi fatta entrare, il copione era sempre lo stesso: iniziava con "Che cos'hai, Beatrice?" per poi finire con "Tranquilla, è solo ansia" dopo che le avevo elencato i sintomi che percepivo.
Le sue rassicurazioni sul fatto che non avessi nulla di grave, a parte il fatto che fossi estremamente ansiosa, riuscivano a calmarmi per qualche giorno, forse per una settimana o poco più. Poi l'incubo ricominciava e io venivo assalita da un'ulteriore ondata di paura, che fosse per un po' di mal di gola o per un banale mal di schiena.
Ed ecco che i miei pensieri si facevano via via sempre più sproporzionati e io mi chiudevo in una ricerca smaniosa su internet per trovare informazioni che confermassero la mia folle tesi, ovvero che fossi malata. Non riuscivo a fare a meno di compiere autodiagnosi e di convincermi che queste fossero fondate, per poi tornare nuovamente dalla dottoressa. Insomma, un circolo vizioso da cui mi sembrava di non poter più uscire.
Perché vi parlo di questo? Be' perché in questo periodo di pandemia, sono sicura che si tratti di una problematica comune a tante persone. Specialmente se si convive già con un disturbo d'ansia.
Quello che voglio dirvi dunque è che non siete sol*, che so quanto vi faccia stare male questa situazione e che siete stanch* di sentirvi ripetere che è che è "tutto nella vostra testa", che è "SOLO ipocondria".
So che vi crea disagio venire etichettat* come "malati immaginari", perché la vostra sofferenza è autentica e merita rispetto.
Voglio dirvi che il dolore non è mai una scelta ma c'è qualcosa che si può scegliere. Si può scegliere di farsi aiutare.
Perché anche se è difficile, è possibile uscire da questo disturbo o perlomeno imparare a gestirlo. Basta trovare il coraggio di affidarsi a un esperto che possa sostenervi senza giudicare quanto ciò che provate sia irrazionale (questo lo sappiamo già).
Qualcuno che vi aiuti con onestà e che vi tratti come ciò che siete: esseri umani.
Io sento di non aver superato del tutto la fobia per le malattie. A volte ho delle ricadute che mi buttano giù per diversi giorni, però non smetterò mai di ringraziare me stessa per essermi decisa a intraprendere un percorso con una psicologa. Essere seguita da lei mi ha aiutata tantissimo a conoscermi meglio e scovare le cause della mia ipocondria. Perché conoscere il proprio nemico, mettersi di fronte ad esso, può spaventare ma vi aiuta anche a capire quali sono i punti deboli su cui potete attaccarlo.
Ricordate, siamo più forti dei nostri demoni. Dobbiamo solo ricordarcelo più spesso.
Un abbraccio a tutt* e speriamo che questa pandemia finisca presto❤🍀
Beatrice Mascolini, @una-sociofobica-ribelle
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Deja vu
Narrativa
Parte 1
Il dottore si chinò ancora una volta verso di me per visitarmi e un brivido repentino mi percorse la schiena.
Ebbi come la sensazione che tutto questo fosse già avvenuto.
Sì, ovvio che fosse già avvenuto, mi sottoponevo alla solita visita da qualche mese ormai, ma quella volta c'era qualcosa di diverso, anche se non capii cosa.
Dopo la visita lasciai lo studio e, mentre percorrevo il corridoio, guardai di sfuggita la sala d'attesa. Seduti uno accanto all'altro, c'erano un'anziana gobba che tossiva, un uomo con un completo damascato che si girava i pollici con aria annoiata, una donna che cercava di calmare il figlio neonato con un sonaglio di latta.
La stessa scena mi balenò all'istante nella mente, come se avessi già visto quelle persone da un'altra parte.
Scossi la testa e imboccai un corridoio ben illuminato che conduceva all'uscita dell'ospedale.
Mi venne incontro una coppia di infermiere, che sorrisero in modo familiare, e la seconda, che aveva i capelli acconciati con un fermaglio a forma di peonia, altrettanto familiare, mi salutò allegramente.
"Alla prossima settimana, signor Tornini"
Sussultai e mi fermai di botto. Le seguii con lo sguardo finché non svanirono dietro a un angolo e fui nuovamente investito da una sensazione di deja vu. Quei volti, quel fermaglio, quella frase, tutto mi sembrava già visto in un luogo diverso, già sentito in un tempo diverso, magari anche in una vita diversa.
Che assurdità...
Abbandonai l'ospedale a grandi passi. Sperai che la velocità con cui stessi camminando avesse allontanato in fretta i miei dubbi, ma il malessere che provavo non mi abbandonava. Ero molto turbato e cercavo di capire quando e dove si sarebbero potute ripete quelle situazioni. Ero così assorto nei miei pensieri che non mi accorsi di trovarmi in mezzo alla strada.
Fu il clacson di un'auto sgangherata ad avvisarmi, facendomi indietreggiare spaventato e con il cuore a mille.
"Guarda a dove metti i piedi, 'a stronzo!"
Trasalii.
Mi era già capitato di essere quasi investito da un'auto sgangherata e di essere insultato da un uomo con un forte accento romano.
Era già successo.
Come poteva essere che proprio quella mattina avevo avuto così tanti flashback?
Apparivano davanti ai miei occhi come stelle cadenti, che non fai in tempo ad accorgertene che sono già passate.
Avevano un significato? Cercavano di dirmi qualcosa?
Fui invaso da una forte inquietudine, che aumentò quando sentii una goccia di pioggia cadermi sulla fronte.
Sollevai la testa e fissai il cielo plumbeo. Mi parve di aver già fatto lo stesso movimento nella stessa occasione, una volta.
Sentii un'altra goccia, identica alla prima.
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La cosa più divertente della terapia è osservare gli altri pazienti matti come me. Esistono due tipi di matti: i matti veri e propri e quelli che si prendono cura dei matti (l'analista, il terapeuta, lo psicologo e lo psichiatra). Sì, perché solo uno veramente folle si mette ad ascoltare discorsi allucinati di altri sei o sette matti tutti i giorni, tutti i mesi, tutti gli anni. Se non era pazzo prima lo è diventato dopo. Per quaranta anni li ho evitati accuratamente..Ahimè, adesso sono finito davanti a un matto, a raccontare le mie follie accumulate nel tempo. Lo confesso, da matto dichiarato confesso che adoro essere matto una volta alla settimana. La cosa più divertente della terapia è arrivare con qualche minuto di anticipo ed osservare gli altri pazienti matti come me nella sala d'attesa. Nell'ambulatorio dove faccio terapia ci sono otto analisti fuori di testa. Per cui nella sala d'attesa ce ne sono sempre quattro o cinque, in ansia, pensando alle cose folli che racconteranno di lì a poco. Nessuno guarda in faccia nessuno. C'è un silenzio pazzesco. Ed io, da scrittore, adoro osservare le persone: immaginare i nomi, la professione, quanti figli hanno, se appartengono al Rotary o al Lions, se tifano Corinthias o San Paolo. Penso che ogni scrittore adori questo gioco che definirei quanto meno creativo. E la sala d'attesa di "un ambulatorio medico", come dice la segretaria assolutamente normale (solo una persona normale come lei può leggere così tanto Paulo Coelho), è un piatto ricco per uno scrittore matto come me. Ecco, vediamo. (1) L'ultimo mercoledì c'erano: Io Un ragazzino mulatto vestito molto bene Un signore sulla cinquantina Una signora bassa e grassa Chiaramente, ho iniziato subito ad immaginare quale fosse il problema di ognuno di loro. Non è stato difficile perché, io partivo dal presupposto che tutti fossero pazzi come me. Altrimenti non sarebbero rimasti così a testa bassa e persi nei loro pensieri. (2) Il ragazzino nero, per esempio: chiaro che il colore della sua pelle, in un paese razzista come il nostro, deve aver contribuito non poco a portarlo fino a quella poltrona di vimini. Deve piacergli una tipa bianca, i genitori di lei non approvano il fidanzamento e lui non è riuscito ad entrare nel club esclusivo dell' 'Armonia del Samba'. Un problema di arrampicata sociale, senza dubbio. Il suo sguardo era triste, stanco. Iniziava a farmi pena. Poi ho notato che aveva una borsa. Poteva esserci dentro il corpo fatto a pezzi della fidanzata. Forse, solo la testa. Doveva essere un assassino, o un candidato suicida, come minimo. Poteva anche esserci un'arma là dentro.poteva essere pericoloso. Con la mia sedia mi sono allontanato un pochino da lui. Dava delle occhiate furtive a quella borsa da assassino. (3) E il signore vestito con un completo nero, cravatta nera, calze e scarpe nere? Come doveva soffrire, poveraccio! Faceva finta di niente, ma mi sono accorto che aveva un piccolo tic all'occhio sinistro. Corna di sicuro. E contento. I cornuti e contenti hanno sempre un tic. L'avete notato? Osservo le sue mani. Si mangiava le unghie. Insicuro come pochi, paura di vivere. Figlio drogato? Molto probabile. Come era infelice questo mio personaggio! Ad un certo punto prese un fazzoletto ed io aspettavo già le sue lacrime quando si soffiò il naso fragorosamente, interrompendo il Paulo Coelho dell'altra. Gli mancava un bottone alla camicia. Certo, abbandonato dalla moglie, doveva vivere in un appartamento che pagava caro, doveva avere debiti astronomici. Omosessuale? Penso di no. Nessuno bacerebbe in bocca un uomo con dei baffi simili. Tinti. (4) Ma il pezzo forte, la più matta di tutti, era la signora bassa e grassa. Che sedere immenso. Come soffriva, mio Dio! Bastava guardarla in faccia. Non doveva fare l'amore da più di trent'anni. Sarà che si masturbava? Sarà che era quello il suo problema? Un'incallita praticante di autoerotismo? No! Prese un rosario dalla borsa e si mise a pregare. Oddio, il caso era molto più grave di quanto pensassi. Era alla quinta sigaretta in dieci minuti. Tesa. Poverina. Che fine avranno fatto i figli? Penso che i figli non pranzassero da lei da decine e decine di domeniche. Aveva anche il viso di chi mente all'analista. Mia madre reciterebbe per lei un Salve o Regina, se la conoscesse. E' finito il tempo della mia attesa e devo andare a parlare con il mio psicanalista. Gli racconto il "trip" nella sala d'attesa. Lui ride.ride un sacco e mi dice: Ditinho è il nostro ragazzo tuttofare. Quello in completo nero è un informatore scientifico di una multinazionale farmaceutica di Ipiranga e passa di qui una volta al mese con le novità. La donna grassa è la signora Dirce, mia madre. E quanto a lei, ne passerà di tempo prima di ottenere qualche risultato.
Luis Fernando Verissimo - Cronaca di una giornata da matti
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OLTRE...
Sala d'attesa gremita di gente.
Oggi, al settimo piano della clinica, l'aria condizionata non riesce ad acquietare gli animi degli astanti. Qui l'attesa è talmente lunga che a fine giornata, il day hospital dei pazienti sembra un meeting tra parenti pazienti.
Ingresso/attesa, sguardi familiari.
Esami/attesa, chiacchiere,
Consulenza/attesa, caffè dalla macchinetta e sonnellino..
Seduta accanto ad un'esile donna anziana che agita il suo ventaglio, socchiudo gli occhi e mi appoggio al muro...
L'attesa e lo sventagliare della mia vicina mi permettono di andare OLTRE:
Oltre quel settimo piano accaldato e affollato,
Oltre uno schermo televisivo che proietta immagini ignorate,
Oltre Tutto...
Mentre onde d'aria investono i miei sensi, l'odore che arriva al mio olfatto possiede la mia mente a tal punto che.. io sono lei..
- le sue mani e lo scodinzolante verde ventaglio, i suoi pensieri, i suoi ricordi, la sua storia -.
Sento scrivere sulla mia pelle una vita fatta di altarini, lumini e santi, di talamo solitario, di vestiti e corredo chiusi in un armadio e profumati alla lavanda. Respiro la sua casa, il soggiorno in penombra, i centrini i drappi ed i ricami, la sua cucina, le conserve e il rosolio alla cannella, fatti dalle sue sapienti mani.
Cammino tra ombre della sua solitudine che a tratti �� interrotta dal servizio da caffè di delicata limoges ed i biscotti alle mandorle che prepara per gli ospiti...
Un suono: RG101, stanza 3..,
É il mio turno.
LUGLIO 2017
Fonte@thedarksideofthewomen
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Mi fa un po' sorridere chi afferma che pensare positivo sia inutile, forse perché chi lo dice non ha perseverato nell'azione... azione che risulta certo difficile ed è anche per questo che i risultati non arrivano, perché ci mettiamo in sala d'attesa convinti che far passare due o tre pensieri positivi sia sufficiente alla realizzazione di un proposito.
Fosse così semplice saremmo tutti felici e questo mondo non avrebbe interesse ad esistere.
Quando arriva lo sconforto i pensieri sono negativi, è normale e meccanico, c'è poco da fare... se non osservarli con il solito stato d'animo con cui osserviamo quelli positivi.
Ciò permette una maggiore padronanza nell'elaborazione consapevole del pensiero per riuscire mantenerlo nel positivo.
Non dovremmo aver paura di pensare positivo o negativo ma dovremmo preoccuparci del fatto che non riusciamo a pensare con intenzione.
<3
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Mi dispiace.
È l'unica cosa che sono in grado di dire, al momento.
Mi dispiace perché pensavo che la cosa non mi toccasse minimamente, sono sempre stata indifferente a questo ma so anche che ho mentito solo a me stessa.
Vedi, di solito ho la mente occupata, ma la sera, la notte, quando dedico del tempo solo a me, mi passi un po' fra i pensieri, chiedendomi perché hai fatto e stai facendo tutto questo.
Risentirti, per me, è stata una pugnalata al cuore, quelle che proprio te lo trafiggono.
Ti ho cercato, incazzata da morire, dicendoti le peggiori parole, perché per te provo rabbia, provo dolore, provo delusione, provo amarezza e angoscia. Provo tutte queste brutte cose, ma provo anche bene, quello che ti ho sempre dato.
Eravamo così freddi e distaccati mentre parlavamo, ma quello che vedevo fra i tuoi messaggi, era "protezione" come quella che hai avuto sempre nei miei confronti, per cose o persone che mi facevano del male. Cercavi di proteggermi anche da me stessa.
E mi chiedo sempre perché.
Perché hai dovuto distruggere un'amicizia bella come la nostra.
Eri mio fratello, eri quella persona a cui raccontavo tutto, eri un pezzo del mio cuore. Amici da anni e poi veder volare via tutto a causa di una persona, mio dio, mi fa quasi schifo.
Ogni volta che provo a buttare un pensiero verso di te, penso al mio diciannovesimo compleanno, dove non sei potuto venire a causa del lavoro, ma ti sei presentato di sera tardi, sotto casa mia, sotto la pioggia con un dolcetto in mano.
Penso a quando Federica era ricoverata in ospedale, e nonostante l'ospedale fosse vicino da te, venivi fin sotto casa mia a prendermi perché "in giro ci sono brutte persone e sola non ci stai".
Penso a quando eravamo nella sala d'attesa dell'ospedale, in attesa e con l'ansia che lei si svegliasse, quando piangevo poggiata sulla tua spalla, e mi rassicuravi, mi dicevi che lei si sarebbe svegliata da un momento all'altro e che non dovevo preoccuparmi. Ma io ero tesa come una corda di violino, eppure non mi lasciavi la mano perché eri spaventato quanto me e non sapevi se quelle parole le dicevi per consolare me o te stesso, perché sapevi che avevo perso fin troppo, e perdere anche lei sarebbe significato il mio crollo totale. La perdita di me stessa. Ma anche la tua perdita, nonostante non lo dicessi, avevi paura, avevi fin troppa paura di perdere lei e me.
Penso a quando facevamo quei video stupidi ma felici.
Penso a quando ti ho aiutato in una delle tue scelte più difficili, ti sono stata vicina, sempre, anche quando sei crollato davanti ai miei occhi, perché non ce la facevi più. Ed io ero lì per te.
Sono sempre stata lì per te.
Ma tu hai scelto la cosa peggiore che potessi fare.
Mi è passato davanti agli occhi un tuo vecchio messaggio: "Tu sei mia sorella, e lo sarai per sempre. Vorrei essere più presente nella tua vita ma molte volte non può essere, e credimi, che io ne soffro più di te. Ti guardo da lontano e ti vedo crescere senza di me."
Però non è stata una mia decisione. Non l'ho mai presa io.
E mi rode davvero tanto pensarti, mi rode davvero tanto far scendere qualche lacrima per te, al pensiero che ho perso il solo amico di cui potessi fidarmi. Mi rode vedermi a pezzi a volte e sapere che, fra tutte le lacrime che verso, qualcuna è anche tua.
Mi rode vederti in giro e passare dritto, come se tu fossi solo uno sconosciuto che mi è appena passato accanto. Mi rode vederti guardarmi negli occhi quando mi ignori per strada.
Mi rode ricordare il messaggio, un messaggio che mi ha spezzata in due, subito dopo avermi vista per strada eppure l'ho impresso nella mente: "Ti ho distrutta, l'ho visto nel tuo sguardo e questo sguardo, me lo porterò per sempre".
Mi dispiace continuare a pensare che poteva andare diversamente. Mi dispiace davvero.
Mi dispiace perché eri il mio migliore amico, eri mio fratello e adesso, beh adesso, sei nulla.
Pezzi di me
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[ _ Hospital _ Joshua Maffei & Hunter's Mother _ #extract _ #Ravenfirerpg _ ]
Joshua: Si trovava in sala d'attesa, davanti la stanza in cui ora vi era colui che poco prima gli si era fiondato tra le braccia. Hunter Cook, cugino dei Price, acerrimi nemici dei Maffei. Eppure Joshua non aveva tale pensiero. Non ci aveva pensato due volte ad aiutarlo. Con le mani tra i capelli e lo sguardo rivolto verso il basso, egli era piuttosto preoccupato. Cosa avrebbe pensato la sua famiglia di tale gesto? Ed i Price? Mother Price: Aveva saputo di Hunter tramite un ragazzo. Non aveva chiesto né genealogie né nome, e forse era stato quello lo sbaglio più grande che una madre avrebbe potuto fare. Hunter era quasi più prezioso eppure sarebbe stato un colpo per la donna conoscere il suo salvatore. Si era precipitata in ospedale ed ora con la borsetta Prada correva nei corridoi. * « Stanza Cook, mi dica dov’è, infermiera... » Joshua: La voce di una donna lo fece destare dai suoi pensieri. Cercava Hunter. Stessi lineamenti, stesso portamento. Che fosse la madre? Ne era quasi sicuro. Si alzò velocemente, per educazione, per non apparire indifferente al suo stato. 《 Qui davanti... 》 Alzò di poco la voce per attirare la sua attenzione. Mother Price: * Lo sguardo, o forse meglio l’intera persona di quella donna sulla cinquantina si voltò verso quella voce che proveniva da... Oddio, aveva già visto quel volto. Si immobilizzò, lo sguardo divenne pietra ardente. * « Tu.... » Joshua: Se lo aspettava. Era inevitabile. La sua voce, il suo sguardo, pareva quasi una fiamma pronta a scagliarsi contro il giovane Maffei. Come biasimarla. Non tutti avevano il carattere di Joshua, non tutti avrebbero ragionato come lui. 《 Io... 》 Lasciò in sospeso la frase con un sospiro. Eppure era consapevole di ciò che aveva fatto. Aveva salvato suo figlio. L'unica cosa che avrebbe potuto fare la donna, sarebbe stato ringraziarlo. Mother Price: Era inevitabile. Il riconoscimento del volto di quel ragazzo la destò dal lungo sonno di un odio forse mai provato, ma che ora fuoriusciva tutto. * « Che cosa hai fatto... a mio figlio? » * Si avvicinò a lui e lo guardò negli occhi abbassando gli occhiali da sole che coprivano gli occhi gonfi. * « Sei un Maffei. Io ti conosco. » Joshua: 《 Cosa ho fatto? Semplice. L'ho salvato. 》 Mormorò con un'alzata di spalle. Che cosa credeva? Che l'avesse aggredito? In tal caso, non sarebbe mai rimasto in ospedale, o peggio, l'avrebbe lasciato alla festa senza nemmeno alzare un dito nei suoi confronti. 《 Sì, sono un Maffei che ha salvato suo figlio. Ci può credere, come non ci può credere. Ho fatto ciò che credevo fosse giusto. 》 Mother Price: « L’hai portato tu qui? E chi ci crede! » * Disse in risposta e a quell’alzata di spalle dell’altro la donna lo fulminò ancora e poi continuò: * « Se ha qualche lesione permanente... sarà colpa tua. È chiaro che gli hai fatto qualcosa. » Joshua: 《 Gliel'ho detto, è sua la scelta di credermi. Io so cosa ho fatto. Se l'avessi lasciato lì, probabilmente sarebbe morto. Ma non mi aspettavo un ringraziamento. Quindi va bene così. 》 No, non stava facendo la vittima. Solamente, egli non chiedeva nulla in cambio, soprattutto da una donna che, come si era mostrata, non sembrava interessata a nulla, se non ad incolpare il ragazzo perché "Maffei". 《 Le chiedo di calmarsi. Suo figlio avrà bisogno di una madre comprensiva. Lasci stare il suo odio per la mia famiglia. Ora non serve. 》 Mother Price: * Gli occhi della donna tacquero, la loro fiamma si affievolì appena il ragazzo nominò la morte. Non avrebbe retto la morte del figlio. * « Non se lo aspetti il ringraziamento, ma non auguri nemmeno la morte ad un ragazzo che ha la stessa tua età... Siete la disgrazia della città. » * Ed era un chiaro rimprovero politico quello, poi, stizzita dalle parole dell’altro continuò. * « Sono una madre. So fare del mio meglio. Ora se permetti, spostati che entro. » Joshua:《 Non ho bisogno del suo ringraziamento per sapere che ho agito nel bene. 》 Il Maffei, che era stato sul punto di morire, sapeva bene cosa significasse provare dolore nel pensare ad un proprio caro in simili condizioni e lui stesso non avrebbe augurato tale disgrazia a nessuno, nemmeno ai suoi rivali politici. 《 Suo figlio si riprenderà. 》 Parole sincere, di speranza, di bontà. Non disse altro, semplicemente guardò la porta della stanza in cui vi era il ragazzo, poi sorpassò la donna per tornare a casa. 💝
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Nora Acheflow Macleod *E’ il tardo pomeriggio quando, improvvisamente, Nora viene svegliata da una strana sensazione al basso ventre. Da quando Virian aveva dato segni di pazzia, facendo spaventare tutti con /poco/ velate minacce di imminente parto, Nora era sempre con Varin. Lui doveva tenerla d’occhio. Era incredibile come lui fosse diventato ancor più ansioso. Il pancione era diventato abnorme, avrebbe potuto nascondere l’intera, piccola, figura della donna. Rickard non faceva che chiedere quando sarebbe arrivata la sorellina.. E poi… Poi quel tardo pomeriggio. Nora si alza di soprassalto. E’ il divanetto della saletta bar – biliardo; con lei ci sono Gemma, Lyla… C’è Bobby che, come al solito, cerca di far quadrare i conti. I ragazzi (gli altri) sono divisi fra l’officina e qualche missionetta da biker. Tutto nella norma, più o meno. Chibs fa le veci del presidente, Abel invece è gli occhi di Varin altrove. Varin, invece…Varin è in officina. Lontano, ma non troppo, dall’imminente nascita della figlia. Della loro primogenita. * << Che hai Xena? >> *Bobby l’ha sempre chiamata così. Un po’ per prenderla in giro, un po’ perché effettivamente Nora lo ha sempre inquietato un po’ per essere una donnicciola bassina, dalla faccia pulita, e la forte passione per le armi da taglio. L’unica persona al mondo in grado di tener testa Varin. Preoccupato, però, ora non gli sembra affatto di scorgere cazzutaggine dalla “piccola” Highlander. Fra le cosce comincia a scorrerle copioso liquido amniotico. Qualcosa sta succedendo e Nora non sa se sia stato provocato dall’incubo, o se l’incubo era la porta al mondo reale. Eppure è calma. Gemma e Bobby no. * < Vai a chiamare Varin.. > *Bobby velocemente corre verso l’officina. Nora lo guarda senza capire, davanti allo sguardo semi-sbigottito di Gemma. Non capisce, almeno finchè non realizza che qualcosa di veramente importante sta avvenendo. Una strana sensazione l’assale, facendola gridare. Sono contrazioni. E Gemma cerca di aiutarla ad alzarsi. Ed intanto…Varin corre da lei… Lo vede. Sempre più vicino. * Si sono rotte le acque! Si sono rotte le acque! *Lo ripete più volte. La voce strozzata dalla paura, dalla tensione… Le urla. Il dolore. Le contrazioni… *
Varg Bjørnsson *Stava lavorando a un'auto con un problema ancora poco chiaro, era piegato al di sopra del cofano aperto e stava controllando punto per punto ogni parte del motore eppure la risposta non si trovava. Era sul punto di chiamare Bobby per un consulto quando l'uomo era arrivato di corsa.* -Varin!- «Ah ecco cercavo giusto te. Senti mi serve una mano per smontare un paio di pezzi. Devi tener-» -Varin è Nora! Le acque!- *Varin inizialmente non aveva compreso, tutto assorto com'era nelle riflessioni sul motore. Poi però aveva collegato tutto. Aveva spostato Bobby bruscamente ed era corso in Clubhouse per vedere se fosse uno scherzo idiota o meno. Trovò Nora con un'aria che indicava proprio il suo essere prossima al parto. Varin si trovò Gemma addosso, la donna gli aveva bruscamente lasciato in mano le chiavi della sua auto ed era andata a raccogliere un po' degli oggetti di Nora. Varin invece era andato a sorreggere la compagna per portarla poi fino all'auto.* «Ce la fai a resistere fino all'ospedale?»
Nora Acheflow MacLeod *Imbarazzatissima, Nora, comincia a gemere davanti ad una Gemma sbigottita. Gemma e Lyla le ripetono di respirare, di prendere respiri profondi. Le ripetono che è brava, sta andando bene. Ma poi arriva Varin e a lei sembra finalmente di essere al sicuro. Sorretta dalla sua presa, Nora, lo guarda in viso mentre prova a respirare. * Posso farcela, ma devi correre! *Gli da, praticamente, il permesso di sfrecciare fino all'ospedale. Non le importa quanto veloce egli andrà, sono tre immortali: cosa può mai accadergli? * Andiamo Varin! *Lo sprona a muoversi cercando di ricordare com'è stato il parto di Rickard. E continua a dare ordini a Gemma, per quanto riguarda il piccolo e tutto ciò che riguarda la casa, il datore di lavoro...Insomma... E prima di accorgersene..Lei è in auto. A respirare profondamente, a spingere e trattenersi per evitare che la bambina nasca in un'auto in corsa. Che cosa orribile è l'essere donna. Che cosa orribile è il dare la vita. Varin aveva ragione: essere un mammifero fa schifo! Stavolta doveva proprio dargli ragione! * Tu non vieni in sala parto, vero Varin?! *L'imbarazzo improvvisamente la colpisce, così come la colpisce una contrazione più forte delle precedenti. Contrazioni fortissime, e strane sensazioni la colpiscono facendola sentire quasi "squarciata". Il viso suda, gli occhi lacrimano... E poi... Le forze vengono meno. I ricordi, i sensi, ripartono quando ormai ha una flebo attaccata al braccio, le gambe sulle staffe e un paio di dottori l'osservano e la aiutano. * << Signora spinga! >> < 1...2....3... Spinga... > *Voci. Il ginecologo, l'ostetrica...Quanta gente c'era in quella fottuta sala parto? Perché c'era tutta quella gente a fissarla fra le gambe? Perché non poteva essere tutto più semplice?! E respiro dopo respiro. Affanno dopo lacrima... ...Improvvisamente il pianto stridulo e fastidiosamente acuto di un lattante aveva squarciato l'aria, ammutolendo l'affollata e rumorosa sala. * << E' una femminuccia! >> *Tronfio, il ginecologo, aveva mostrato la piccola bimba piangente ed urlante, ad una Nora stremata, stanca e piangente per l'emozione e la tensione nervosa data dallo sforzo delle contrazioni e del parto. Pulita da tutti i "liquami" placentari, la piccola Virian, era stata posta sul petto di Nora. Solo allora, aveva dato il permesso di far entrare Varin in sala. Ora che la bambina era finalmente nata e il "peggio" era passato. *
Varg Bjørnsson *Aveva il piede fisso sull'acceleratore, non gli importava dei clacson o della gente che sterzava per evitarli. In auto c'era una donna incinta e nessuno avrebbe fatto diversamente. Quando arrivarono in ospedale, Varin per la seconda volta nell'arco di poco tempo aveva tirato giù la compagna di peso e la aveva aiutata a mettersi in carrozzina. Stavolta i medici gli offrirono di entrare, ma Varin volle rispettare le volontà di Nora e scosse la testa rimanendo fuori. La porta gli si chiuse in faccia e rimase in corridoio, teso e con il fiato in gola. Il biker cominciò a camminare avanti e indietro per il corridoio, fino a quando arrivarono gli altri, Gemma compresa, con tutto l'occorrente per il ricovero. Abel gli si avvicinò, tirandogli su il morale con una sonora pacca tra le scapole, mentre Chibs lo aveva tirato da parte, abbassando la voce. -Li abbiamo tutti in scacco, non preoccuparti. Sanno benissimo che devono rigare dritto. E poi in questa città pare che tutti più o meno a conoscenza delle stranezze che riempiono il mondo. Quindi non mi preoccuperei più di tanto.- Varin annuì, ma si vedeva palesemente che era distratto e immerso nei suoi pensieri. Suo padre gli aveva offerto una scelta e lui aveva deciso, non poteva vedere nulla che riguardasse la figlia né il suo futuro né poteva influenzarla, proprio come Akatosh aveva fatto con lui. Doveva sentirsi così suo padre nei suoi confronti. Lentamente la sala d'attesa venne riempita di motociclisti e dalle loro compagne, c'era una vera e propria pompa magna in attesa della piccola erede Bjørn. L'infermiera era riemersa, facendo calare il silenzio. -Signor Bjørn? Sua moglie la attende di là.- Varin spalancò gli occhi azzurri e si voltò a guardare gli altri che lo incitarono ad andare. Il biodno percorse il corridoio a grandi passi, aveva una sensazione strana nel petto, un pulsare profondo e a tratti debilitante. Era ansia, ansia di vedere e conoscere finalmente la sua erede, il sangue del suo sangue. Entrò nella sala, aveva rallentato il passo e si era avvicinato a Nora con gli occhi un po' persi, dopo di che aveva spostato lo sguardo sulla piccola, cambiando di nuovo espressione.* Benvenuta, Virian.
Nora Acheflow MacLeod *Quando ormai Varin era dentro, Nora, aveva avvertito la sua presenza, oltre ad aver sentito la sua voce. Era stanca, strematissima, da un parto che si era rivelato più difficile del previsto. Virian era una bella bambina grande e forte, lo si vedeva già dai suoi vispi occhietti da neonata. E le sorrise, sorrise dolcemente ma divertita nell'immaginare l'espressione di Varin alle proprie spalle. * ...Sono secoli che ti aspettavamo, Virian... *Mormorò sorridendo, alla piccola che finalmente cominciava a calmarsi e a non piangere più. * Questo brutto musone biondo, vicino a me, è il tuo papà... *Continuava a sorridere e piangere. Piangere per la stanchezza, per il dolore nelle membra...Per la gioia di esser diventata di nuovo madre. Lei. Lei che per tutta la vita aveva creduto che non sarebbe mai riuscita a diventarlo. * Vuoi tenerla un po', Varin? *Nora si era sporta verso di lui e gli aveva teso la bambina, così che lui la potesse delicatamente prendere. * Ora ti ho davvero incastrato, Alduin. *Aveva mormorato sorridendo divertita, al compagno, indicando con lo sguardo la piccola bambina biondissima proprio come lui. *
Varg Bjørnsson *Varin aveva teso le braccia con un sorriso insolito per i suoi standard: era genuino, buono e felice. Nell'interezza della sua figura Varin sembrava emozionato e ora con la sua erede tra le braccia era stranamente avvolto da un'aura particolare, di novità e se così si poteva descrivere, gioia mozzafiato.* Ciao Virian. *Aveva mormorato il biondo con la bambina stretta tra le braccia. Si era seduto vicino a Nora, il suo sguardo si divideva tra le due. Il drago lanciava a Nora occhiate colme di gratitudine e per certi versi amore, Nora forse avrebbe letto quegli sguardi proprio per quello che erano.* Sta bene? Sembra sana. *La bambina era ancora rossastra, gli occhi grigi si muovevano molto, senza forse vedere ancora nulla. Aveva alcune ciocche di capelli quasi bianchi che le spuntavano dalla testolina. Era perfetta.* Non ci credo che sia finalmente qui. Gli altri non vedranno l'ora di vederla. *Il motociclista prese il cellulare e provò a scattarle una foto, per poi rimettere in tasca l'apparecchio.*
Nora Acheflow MacLeod
N-no dai...Non scattarle le foto ora! *Accennò una risata, Nora, nel vederlo così impaziente e così gioioso. Nel frattempo sentiva i medici parlare e l'ostetrica venne a prendere nuovamente la piccola per poterla portare a fare tutti gli accertamenti necessari * Dicono che sia...tre kg e mezzo. *Umettandosi le labbra, Nora, aveva poi nascosto il viso contro il braccio del compagno, stanca ed ancora un po' sudaticcia per tutto lo sforzo fatto. * Tu sei felice, Varin? *Lo guardò tenendo una mano al suo volto, per potergli carezzare il viso velato da una leggera e biondissima barba. * ...Fa strano vederti sorridere così...Apertamente, senza che ci sia un cinghiale arrosto davanti a noi. *Aveva fatto dell'umorismo, e poteva permetterselo dato che Varin era completamente cambiato. Non c'era quella sua solita espressione sarcastica, o crucciata..Era, paradossalmente, più umano che mai. * ...Sei da solo o Gemma..E qualcun altro è arrivato?
Varg Bjørnsson
*Quando l'infermiera si f avvicinata Varin sembrò ritrarsi ed emettere un leggero brontolio, ma alla fine comprese che nessuno stava per portarle via la figlia, era solo la prassi.
Lasciò la piccola Virian e come una molla si alzò in piedi, seguendo l'infermiera con lo sguardo.* Non la scambieranno con altri bambini vero? *Varin seguì la donna fino al vetro in fondo alla stanza, quello che dava sulla saletta con i lavandini, pese e incubatrici. Seguì la donna con lo sguardo durante tutte le operazioni, nel mentre rispondeva a Nora.* Ci sono tutti i ragazzi, in officina sono rimaste alcune ragazze e i prospect. Gemma e Lyla sono di là, mi hanno detto che appena ti porteranno nella tua stanza ti aiuteranno con le cose da donna. *Varin infine era tornato da lei, essendo quasi certo che nessuno avrebbe scambiato la sua Virian con altri bambini più brutti e rachitici della sua principessa perfetta. Si sedette sul bordo del letto e le carezzò la fronte con il dorso della mano.* Come stai tu? Sei...immortale ma mi preoccupo comunque.
Nora Acheflow MacLeod
Dai, smettila..
*Aveva seguito Varin con lo sguardo, cercando di non ridere perchè effettivamente lui era realmente preso da queste seghe mentali ansiolitiche. * ...Nessuno scambierà nessuno con nessuno. E poi è riconoscibilissima! E' l'unica bimba biondissima! *Quando poi, Varin, si era riavvicinato ad ella aveva poggiato il viso contro il suo fianco ed aveva sorriso dolcemente. * Sto bene. Mi riprendo velocemente. Anche se avrò bisogno di tre settimane di massaggi sulla schiena! *Fece la linguaccia e puntò lo sguardo verso i suoi occhi * ...Tu come stai? Non hai ucciso nessuno, qua fuori, vero?!
Varg Bjørnsson
No, sono un bravo ragazzo, per chi mi hai preso?
*Parlava a voce bassa, appena udibile da lei. In quella stanza faceva quasi freddo, soprattutto con la differenza che c'era con il clima esterno. Varin fece scorrere lo sguardo sulla compagna, osservandone il corpo e gli eventuali segni di qualche dolore o fatica, ma poi tornò a guardarla.* Massaggi alla schiena? Penso che dopo avrò bisogno di un'intensa riabilitazione alle mani? *Il drago si accomodò meglio su letto, pensando a Rickard che veniva accudito da Ayrenn e dallo zombie.* E poi devi affrettarti a tornare, a far ingelosire un po' Rick con la piccolina. Dovremo fare a turno, non vorrei che le troppe attenzioni a Virian gli facciano male.
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Il viaggio in macchina quel pomeriggio mi sembrava interminabile, tra le vie della mia città, devo ammattere che speravo di non dover scendere mai dall'auto.
Avevo le cuffie e ascoltavo la musica ad alto volume tentando di sovrastare le loro parole, i miei pensieri e la musica della radio.
Ho mantenuto le cuffie anche quando mi sono ritrovata all'ingresso di quel posto, credo di aver fatto la rampa di scale due o tre volte per contare bene quanti scalini ci fossero.
Ho tentato in tutti i modi di non dover entrare in quella sala d'attesa, ci ho provato, ma, inevitabilmente mi ci sono ritrovata poco dopo.
Li faceva davvero troppo caldo, non respiravo bene, per niente, c'era fin troppa gente, ridevano e scherzavano tutti, io mi sentivo come se fossi un pesce fuor d'acqua.
Ero seduta di spalle alle 3 porte nel quale sarei dovuta entrare, la terza era quella che più mi incuteva timore.
Ogni 4 minuti, in maniera precisissima, mi giravo a controllare la porta, avevo il timore che si aprisse.
Quanto mi faceva schifo stare li, mi faceva schifo il solo pensiero di mettermi a nudo, persino da sola mi faceva schifo farlo.
Sarei scappata, lontano da tutto, lontano da me.
"numero 8"
Credo di non aver mai provato così tanta repulsione per una voce.
È stato un dolore lento prima, forte e veloce dopo.
Ho odiato quegli occhi su di me, quelle mani e tutti i termini medici del quale non mi importava, guardavo fuori dalla finestra e cercavo il mare, ma il mare non si vedeva, c'erano troppi palazzi, troppe persone e troppo disprezzo per vederlo, lui almeno era lontano e felice, libero di stare dove voleva, nel suo stato perfetto liquido e fresco.
Io non ero fresca e non ero liquida ne tanto meno perfetta, ero l'opposto, e li d'avanti a quei medici dovevo persino dimostrarlo, come se non fosse stato gia fin troppo evidente.
"Non sono il mare, ora basta però lasciatemi stare, voglio tornare a casa, voglio andare via." la mia era una preghiera sussurrata nella testa che puntualmente non è stata accolta.
Quando sono uscita da li piangevo, mi sono sentita sfinita, distrutta e senza forze.
Volevo essere il mare, volevo essere davvero il mare.
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Molecola
La prima cosa che ho pensato mentre camminavo alle 7 del mattino lungo via Marconi è che secondo me uno dei motivi per cui siamo così tristi, in questo momento storico, in questo luogo geografico, è che alle 7 del mattino non c'è quasi più nessuno che cammini per strada, che vada al bar a farsi un caffè, che si viva le 7 del mattino di un primo marzo glorioso, un'ora che se uno volesse davvero provare il significato etimologico esistenziale della parola "primavera" o anche del verbo "diocomegodo" non dovrebbe fare altro che uscire di casa e diventerebbe lui stesso molecola primaverile dedita al godimento divino. E invece la strada era quasi deserta. L'immenso bar era quasi vuoto. Il mercato non ancora allestito. Madonna la tristezza. La seconda cosa che ho pensato mentre sedevo nella sala d'attesa della Casa della Salute aspettando il mio turno per i prelievi è che secondo me uno dei motivi per cui siamo così tristi in questo momento storico nonché luogo geografico è che alle 7,15 del mattino la vita si concentra nelle sale d'attesa dei luoghi di salute. Lì giace il significato del Tutto, fra le sedie lucenti di metallo, fra i campioni di fluidi assortiti (variamente impacchettati come se fosse per sempre Natale), nelle lame di luce che tagliano il prato dietro le pareti di vetro (il tempo che scorre anche senza orologi). Ma soprattutto nella presenza rassicurante dell'Umarello Che Custodisce La Colonnina Dei Bigliettini Numerici e provvede a distribuirli con ordine e garbo alle schiere di anziani (che hanno appuntamento alle 8,45 ma nondimeno, visto che sanno la magia delle 7 del mattino, sono già in prima fila all'aprirsi delle porte a scorrimento del Punto Prelievi). Un Umarello con spiccato accento meridionale, che duetta con le azdore dallo spiccato accento bolognese, che hanno accompagnato mariti variamente rincoglioniti (per cazziarli se vengono cazziati, come è successo al povero Bruno che dopo essersi preso una lavata di capo dall'infermiera in accettazione perché non aveva firmato la privacy, quando è tornato a sedere bofonchiando vicino alla moglie è stato ulteriormente bastonato al grido di "Mi fai sempre fare delle figure di merda!"). Un Umarello meraviglioso, dicevo, che per spiegare agli astanti che dovevano prestare attenzione ai monitor e alla voce registrata che li avrebbe chiamati al prelievo secondo il loro numero progressivo ha detto così: "Ecco, vedete? Lì c'è lo schermo coi numeri. Se c'è il pallino rosso di fianco al vostro numero allora è il vostro turno. Se non riuscite a vedere lo schermo, niente paura! C'è una bella voce di una bella signorina che vi chiama e vi dice dove dovete andare. Dovete immaginare che ci sia una bella signorina nascosta da qualche parte che chiama solo voi. Che bello eh? Che poi siccome è nascosta potete pensare che sia ignuda o vestùta, quello vi lascio liberi di farlo voi, come volete!" E mentre diceva queste cose, io ero lì seduta a guardare le lame di luce e a compatire il povero Bruno fra me e me e proprio in quel momento è entrata una signora molto anziana che mi ha tolto le parole e i pensieri di bocca, perché ha detto guardandosi attorno "Eeeeeeh, ma che bel posto!" Eeeeh, ma come aveva ragione, t'al deg. Comunque alle 8 del mattino la situazione non era tanto cambiata. Il mercato era ancora in allestimento. La strada era ancora quasi vuota. Al bar non c'era nessuno. E allora ci sono andata io anche se mi girava un po' la testa e mi sono comprata due brioche piene di crema. E me le sono anche mangiate. Perché va bene la tristezza, però anche no.
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