#oggi proprio mi sento stupida perché lavoro da casa finalmente
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Una vita legata al polso
Quale occasione migliore di una quarantena per scrivere contenuto Amadello? Soulmate!AU per rinfrescare l’animo in questi tempi difficili.
ATTENZIONE: Menzioni di una relazione poly comprendenti gli amadello e le loro relative consorti. Menzione di un divorzio passato. Questo è ovviamente un lavoro parodico e completamente irreale.
Rosario aveva sedici anni quando sul suo polso apparve il nome della sua anima gemella.
Era una mattina d’aspettativa. Il sole di maggio faceva capolino in modo ormai deciso, le giornate andavano a scaldarsi sempre più e la scuola per quel giorno poteva anche saltare, dai.
All'inizio, a causa degli occhi ancora pieni di sonno, non riuscì a notare alcun cambiamento nella pelle del polso destro.
Che fosse destinato a non avere alcuna persona accanto a lui?
A volte poteva accadere di non avere alcun nome, certo, ma era sempre un’occasione socialmente considerata molto triste. Rosario non riusciva a capirne il perché, visto che di solito le persone senza nome sembravano stare benissimo così.
Sbatté le palpebre e strofinò via il sonno rimanente. Faceva parte anche lui delle persone senza anima gemella?
Un bagliore bianco nel polso incriminato attirò la sua attenzione. Oh, il nome c’era. Il nome c’era!
“Il nome, facci vedere il nome!” gridò suo fratello più piccolo arrampicandosi nel letto. Rosario non sapeva cosa dire, perché il nome non era simile a nulla che avesse mai visto.
“Dev’essere una ragazza con genitori strani” sentenziò suo padre, e sua sorella concordò con lui. La penultima, invece, non sembrò abbastanza interessata all’evento da partecipare al dibattito.
“Certo che è strano però, chiamare propria figlia ‘Ama’.”
“Sarà un diminutivo?” propose sua madre. Rosario scosse la testa, confuso.
“Diminutivo di cosa?” “Am...Am…Amelia? Amanda? Amaretto…!”
“Amaretto non è un nome!”
“Sarebbe divertente se lo fosse, no?”
“Amedea!” esclamò sua sorella.
“Il diminutivo di Amedea sarebbe Ame, no?”
La bambina fece spallucce e gettò le braccia attorno al collo di Rosario, subito seguita dal fratellino.
“In ogni caso non importa tanto il nome, ma che oggi è il tuo compleanno!”
“Auguri!” urlò l’altra sorella, che prese la rincorsa e saltò anche lei su per unirsi all’abbraccio.
“Cientu ri sti iuonna!”
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La radio andava benissimo, i suoi colleghi erano meravigliosi e non avrebbe cambiato assolutamente nulla della sua vita, se gliel’avessero chiesto.
Rosario era un intrattenitore nato. Aveva conosciuto negli anni centinaia, se non pure migliaia di persone; eppure non aveva mai conosciuto alcuna Ama.
Non che gli importasse più di tanto, visto che era felice con le sue avventure di una notte e le conquiste più persistenti, seppur brevi, servivano a curare il suo stato d’ansia continuo.
Dall’altro canto però c’era Amedeo.
Di due anni più piccolo, quel giovane era l’opposto di quello che ci si aspetta quando si sente parlare di deejay: composto, abbottonato, fin troppo sobrio e timidino, ma bravo nel suo lavoro, e di carattere squisito verso chi riusciva ad avvicinarsi a lui nel modo giusto.
Amedeo aveva anch’esso un nome strano sul polso, una parola che Rosario aveva riconosciuto perché appartenente al suo dialetto d’origine.
“Toh, ‘Ciuri’! Pensavo di avere un nome particolare e tu arrivi con una certa e siciliana ‘Fiore’? Mi sento un po’ meno speciale ora”, aveva esclamato fingendo teatralmente di essere indignato.
Amedeo aveva una graziosa particolarità: la risata. Rosario avrebbe potuto ascoltarlo ridere per ore, e a volte lo faceva, quando erano soli e lui in vena di battute (il che accadeva più spesso di quanto potesse e volesse ammettere, seppur non era decisione propriamente conscia).
“E se fosse un certo e siciliano Fiore?” aveva replicato Amedeo con le orecchie di un forte color rubino.
“Perchè, a te piacciono i maschi? Sei gay?”
Amedeo aveva subito negato. Chi non l’avrebbe fatto? Rosario, che per nome d’arte si era messo Fiorello e guarda caso era pure siciliano, ma non aveva minimamente colto la coincidenza, rise di gusto.
“Nemmeno io sono gay.”
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Amedeo era un uomo sposato.
Cominciava a fare carriera come conduttore televisivo, ad avere un lavoro abbastanza sicuro, una famiglia e una vita decisamente più stabile rispetto a quella di semplice deejay o radiofonico. Finalmente poteva permettersi un po’ di tranquillità dopo una vita passata a correre per tutta l’Italia a fare serate.
Eppure c’era ancora qualcosa che gli sfuggiva.
Non aveva ancora trovato la sua Ciuri. Non che gli importasse; dopotutto solo i vecchi romantici credevano davvero alla questione dell’anima gemella.
Non che non ci avesse quasi creduto, per un po’.
Aveva provato a chiamare sua moglie così per qualche tempo, tanto per dare un senso alle linee bianche sul suo polso, ma aveva smesso velocemente. Non suonava...giusto. Nonostante le sue origini, non sentiva quel dialetto come suo.
Quella sera avvenne tutto troppo velocemente. Era il 1995. Il suo caro amico, l’ormai affermato comico Rosario Fiorello, era prossimo a partecipare a Sanremo, con la sua coda di capelli ben curata e gli occhi neri che l’avevano sempre attirato in qualcosa che non riusciva a comprendere appieno.
Era bastata qualche birra al bar.
Baciare il proprio migliore amico in un viottolo deserto non sembrana una cattiva idea dopo quelle birre, né lo sembrava abbassarsi in ginocchio davanti a lui come una delle tante prostitute che si trovavano in quella zona, e sopratutto non lo sembrava onorare l’amicizia in modo tutt’altro che amichevole.
Il nome sul polso di Rosario sembrava avere così tanto senso ora che quasi poteva permettersi di supporre che quell’ “Ama” non fosse altro che l’abbreviazione del suo nome d’arte, Amadeus.
E così l’aveva chiamato Rosario mentre dalla sua bocca volava via una nuvola di condensa nell’aria fredda della notte romana.
Non si era mai sentito così vivo.
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L’immagine dei capelli di Rosario tra le sue mani continuava a tormentarlo.
Se chiudeva gli occhi poteva sentire la pelle liscia delle sue gambe, sotto di sé la curva delicata della schiena e il rumore, quel misto di ansimi e corpi uniti che risuonava come un eco tra le mura di quel piccolo motel di provincia dove avevano preso l’abitudine di incontrarsi.
Entrambi erano troppo conosciuti ormai per passare inosservati altrove.
La danza era sempre la stessa. Macchina, parcheggio a tre isolati di distanza, occhiali scuri, sciarpa; nome falso, sempre lo stesso, la perenne scusa della carta d’identità perduta.
Le due stanze vicine, nello stesso pianerottolo. Una sola avrebbe destato sospetti. L’incontro all’una di notte, l’ora in cui il mondo chiude gli occhi e non vede.
Era la seconda volta che veniva scoperto.
La prima era stata per caso, una telefonata presa su dalla persona sbagliata, e i sospetti rivelatisi veri; la seconda Amedeo era senza un luogo in cui dormire, unica compagnia di una valigia riempita in fretta.
Qualche vestito, documenti, una penna e l’auto, compagna fedele di tutti quegli incontri, che non sapeva dove andare e girava le stesse strade di una vita, ora rese impossibili da percorrere da troppi ricordi, troppe cose andate male.
Il motel non era stato l’unico argomento di discussione affrontata in famiglia. Non che importasse più di tanto, visto che in casa non poteva più entrare in ogni caso.
Nella luce di un lampione, all’ennesima rotonda, lo sguardo gli sfuggì sul polso. Le lettere rilucevano pallide e sicure.
Ciuri non poteva raggiungerlo quella notte. Era solo.
Questa volta era inutile parcheggiare a tre isolati di distanza. La sciarpa, gli occhiali, il nome falso: tutti inutili. Il proprietario finse di non riconoscerlo, eppure gli diede la solita stanza, quella senza finestre, piccola ma accogliente, un po’ decadente ma resa accettabile dall’abitudine.
La camera non gli era mai parsa così vuota.
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Non era raro che i nomi sui polsi non combaciassero con quello dell’altro. Non che fosse importante. Dopotutto, chi credeva davvero alla storia delle anime gemelle?
Giovanna osservò le tre lettere incise sulla pelle sottile del suo polso. Lettere che aveva appena sentito pronunciare dalla persona che l’aveva appena invitata a prendere un caffè, dopo lavoro, tanto per passare il tempo tra una registrazione e l’altra.
“Chiamami pure Ama.”
Ne avevano parlato qualche giorno prima, durante una pausa tra colleghi; lei aveva segnato ben in mente le cinque, pallide lettere sul polso del conduttore.
“Oh. Non ci avevo pensato, perdonami. Il tuo nome.” Il conduttore avvampò e d’istinto tirò giù la manica del braccio destro, quasi a voler coprire il suo.
“Non preoccuparti, va benissimo così.” sorrise lei confortante. Non era stupida, sapeva che i sentimenti per una persona non dipendevano da quella strana cicatrice che appariva alla giovanissima età di sedici anni. Giovanna voleva provarci lo stesso.
“Hai mai incontrato la tua Ciuri?” chiese per far conversazione. Lui abbassò lo sguardo. Domanda sbagliata.
���In un certo senso,” disse piano, “e in un’altro no.”
“Va sempre così. Pochi trovano la propria anima gemella, se pure esiste, e quasi mai questa corrisponde al nome sul polso. Espresso?”
“Espresso, grazie. Già, trovare la persona giusta è...complicato.”
“Chissà, magari ce l’hai davanti proprio in questo momento, ma non te ne sei ancora accorto!”
Risero nervosamente. Erano colleghi dopotutto, solo buoni colleghi che volevano approfondire un po’ la conoscenza per trasformarla in amicizia, no? Il polso le continuava a prudere. Doveva avere qualche reazione allergica. Che fosse qualche prodotto utilizzato in quel bar?
“Chissà.”
Senza pensarci strofinò il polso contro il vestito per alleviare un po’ il fastidio. Ora che ci pensava, era una reazione che le capitava spesso quando si trovava vicino a lui.
Che avesse trovato il suo Ama?
Forse le leggende sull’anima gemella non erano così false come credeva.
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La scelta di una nuova casa è sempre un passo importante nella vita di una persona, Rosario lo sapeva bene.
Nulla poteva però prepararlo al nuovo proprietario dell’appartamento sotto al suo.
Chiavi in mano, abiti sobri, sguardo gentile: A giudicare dalla reazione, Amedeo era rimasto sbalordito almeno quanto lui. Era in compagnia di un agente immobiliare e una donna.
Oh, dunque non era il nuovo proprietario, capì con un moto di tristezza, ma solo semplice visitatore.
Lo salutò come avrebbe fatto con un amico, e in effetti lo era, amico di lunga, lunghissima data, e di intimità elevatissima.
Si unì al gruppo e intrattene un po’ durante il giro della casa, fingendo di star lì ad accogliere un amico, e non per puro bisogno di contatto con lui.
C’era stato un tempo in cui non immaginava nemmeno come la presenza della propria anima gemella potesse influenzare la sua vita, ed eccolo ora, a fare lo scemo pur di ricevere le sue attenzioni, e la sua risata, oh, così necessaria e familiare, unico suono oltre la sua voce ad avere il potere di calmarlo.
Avrebbe potuto giurare che il polso gli prudesse in sua presenza. Le lettere divenivano spesse sotto i polpastrelli, come tatuaggio di recente fattura, e prudeva in modo piacevole, un vago pizzicore elettrico che gli liberava l’anima.
Fu l’agente immobiliare ad invitarlo all’uscita poco prima che arrivasse il momento conclusivo della visita.
Non poté che sperare il meglio e cercare di spiare invano dalla tromba delle scale se riusciva a sentire qualche novità; ahimè, erano rimasti dentro casa e avevano chiuso la porta.
La gioia che provò a rivedere il suo Ama qualche settimana dopo davanti alla soglia, quattro scatole già poggiate davanti e chiavi in mano, la lascerò immaginare al lettore.
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Fu Susanna (detta Susy) la prima ad accorgersi degli sguardi che incorrevano tra suo marito e il nuovo vicino di casa.
Un vecchio amico, aveva detto? Nel suo polso destro spiccavano in glorioso bianco le stesse lettere che ricoprivano il suo.
Doveva fare qualcosa.
Non fu difficile riunire tutti sotto lo stesso tetto, sopratutto perché Rosario, suo marito, e il suo migliore amico Amedeo erano inseparabili e le cercavano tutte pur di vedersi. Convincere Giovanna fu altrettanto semplice.
Quattro persone sedute attorno a un tavolo discutevano sul loro futuro. Due di loro avevano il polso marcato con cinque lettere, le altre con tre.
Il rischio di ritornare alle vecchie abitudini era elevato, amplificato dalla nuova vicinanza. Questa volta, però sarebbe andata diversamente.
Le persone al loro fianco si erano accorte immediatamente delle coincidenze e del loro incredibile affetto, e addirittura non volevano affatto sopprimere il sentimento, ma canalizzarlo e regolarizzarlo in maniera splendida.
Parlarono per ore.
Era etico? Era necessario? Si optò per l’eccezione, la consapevolezza del segreto coltivato in famiglia, ma accettato nel migliore dei climi, discusso, deciso e concordato, con regole e modi verso cui tutti erano d’accordo.
Nella restrizione c’era il sollievo di essere allo scoperto.
Si rise persino, e si scherzò, e ci fu un bacio, fugace e incoraggiato, splendido, pieno nel suo essere finalmente compreso.
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Fiorello aveva cinquantanove anni quando l’uomo di cui portava il nome in polso gli chiese di essere al suo fianco durante uno degli eventi televisivi più importanti d’Italia.
“Ma scherzi?”
Il sorriso di Amadeus era fin troppo ampio per poter essere una battuta.
“Tempo fa ti feci una promessa, ricordi? Nel caso in cui uno di noi due finisse a condurre Sanremo ci sarebbe stato anche l’altro.”
Ricordava bene. Erano così giovani allora che al solo pensiero poteva sentire i capelli ingrigirsi.
“Quel caso si è presentato.”
Ascoltò quelle parole più incredulo che mai.
“Ti hanno proposto di condurre Sanremo?”
Il suo sorriso non scemò mentre annuiva trattenendo a stento l’eccitazione. Ah, che tempi, che tempi meravigliosi! Fiorello lo abbracciò con quanta forza aveva in corpo.
“Lo sapevo che sarebbe successo! Cosa ti dicevo? Hai visto che ce l’hai fatta?”
Il polso prudeva piacevolmente mentre lo prendeva per le guance e gli schioccava un veloce bacio sulle labbra. Non si sarebbe mai stancato di sentire la risata della sua anima gemella, nemmeno dopo trentacinque anni di conoscenza.
“Quindi ci sarai?”
“Ma scherzi? Certo che ci sarò,” disse accarezzandolo dolcemente,
“Non potrei mai lasciarti sopra quel palco durante un attacco d’ansia, no?”
Risero entrambi.
“Sempre che non debba consolare i tuoi, di attacchi d’ansia”
“Smettila e fammi un po’ crogiolare nella notizia! Ma com’è che ti hanno chiamato? Non c’era proprio nessuno migliore disponibile, eh?”
“Pensavano di chiamare te, ma poi hanno detto che eri troppo bravo e avresti fatto sfiguare tutti gli altri.”
“Sai che passeremo tutto il tempo a grattarci il polso, vero?”
Ci fu una breve pausa. Come deciso durante la cena in famiglia, nessuno aveva mai confidato al mondo la loro unione.
“Ama, se il mondo se ne accorgerà, cosa molto probabile, avremo un bel po’ di cose da spiegare. Ti senti pronto per questo?”
Amadeus sorrise e lo baciò dolcemente.
“Finché ci sei tu accanto a me, Ciuri, per me potrebbe pure crollare il mondo e il mio unico rimpianto sarebbe quello di non aver passato abbastanza tempo con te.”
#Amadello#Sanremo rpf#Amadello fanfiction#sanremo 2020#tutte le coppie hanno bisogno di questo AU#comprese quelle più crack#almeno posso contrastare così le persone che sbavano su Conte
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10 Aprile 2021
Non scrivo da un bel po’. Come al solito non sono in grado di mantenere viva una novità, nonostante quanto mi faccia stare bene, e mi sento stupida, come se stessi sprecando le mie capacità. E forse è così, pero devo amarmi, devo accettarmi, devo smettere di vivere come se dovessi raggiungere chissà quale scopo e poi, se non lo raggiungo, mi sento una fallita.
Poi mi conosco, so come fare ad aiutarmi. So che dovrei lasciare la tab di questo blog sempre aperta così quando sono al computer, se ho voglia di scrivere, lei è là ad attendermi.
So che per scrivere le mie storie ho bisogno di sapere che per qualche ora non avrò nulla da fare, nessuno mi disturberà, non dovrò far partire il treno della mia creatività e fermarlo bruscamente perché qualcuno mi chiama o perché devo uscire. È per questo che sono così indietro con il mio secondo capitolo. So anche che, appunto per le stesse ragioni appena dette, scrivo meglio la sera, nel letto, anche facendo molto tardi. Però ultimamente sono stanca, non voglio pensare, voglio solo mettermi a guardare una serie e poi spegnere tutto quando i miei occhi non riescono più a stare aperti.
Comunque, tanti pensieri come al solito, tanti pensieri negativi come al solito. Mi faccio tanto bella quando dico a mamma che deve guardare i lati positivi della vita e poi non lo faccio io. Tante preoccupazioni, ma una potenziale certezza: penso sia arrivato il momento di tornare a Londra e riprendere possesso della mia vita, della mia casa, dei miei tempi e delle mie abitudini, per poter poi avere le basi per cambiarle.
Sono quasi due settimane che cammino minimo un’ora al giorno e sto seguendo una YouTube challenge di due settimane. Mi piace, sono felice di riuscire a mantenere una qualcosa, per ora, e prego di poter continuare così. Voglio cambiare il mio corpo, leggo e mi informo e capisco che il percorso è lungo e lo sappiamo bene come io non sia molto abile a mantenere una sfida per un lasso di tempo esteso. Però questa volta voglio farcela, devo provare, devo farcela. In questo momento non vedo cambiamenti sul mio corpo e dò la colpa al ciclo che dovrebbe venire tra qualche giorno. Forse è quello, forse devo solo essere paziente. Perché mi sto impegnando davvero quindi dei risultati dovranno arrivare.
Poi il lavoro, la psicologa. Non mi hanno dato il lavoro per il quale ho fatto due colloqui, mi dispiace ma forse meglio così, c’è sempre una ragione dietro le vie della vita. E voglio provare a inserire Antonio all’interno dei miei progetti di Dixons Radio, prenderci un po’ di soldi fin quando possiamo, sperando che nessuno mi dica nulla. Devo chiedere ad Eddie e Sammi che ne pensano e se lo posso fare. E la psicologa, finalmente ho un nuovo nome sicuro, le ho mandato una mail dal suo sito ma è passato qualche giorno e ancora non mi risponde. Forse lunedì proverò a scriverle una mail diretta.
Ecco e ora mi sento frustrata perché non sono ancora arrivata al punto che mi ha spinto oggi a scrivere. E il punto mi crea imbarazzo e rabbia e confusione, però ci ho pensato e deve essere così. Penso di star perdendo Sasa e mi da un fastidio tale che vorrei urlare. E perdendo è decisamente il termine sbagliato ma drammatizza la mia frustrazione. Semplicemente, penso di star scendendo al secondo scalino di importanza rispetto al sue ragazzo, cosa che mai avrei pensato potesse succedere e mai avrei fatto io, ma ora temo che se mai dovessi trovarmi al suo posto, potrei farlo per ripicca se non per naturalezza.
Ed è proprio questo il punto, che ovviamente non sta succedendo in maniera forzata ne da un giorno all’altro, ma lo sento e lo vedo e semplicemente è la vita e sbaglio io a sentirmi tagliata via. L’affetto tra due amiche è diverso da quello tra due innamorati e non ho mai visto Sasa così felice con qualcuno e questo davvero mi riempie di gioia, ma mi chiedo se ora che ha trovato lui, se ora la scelta che prima era ovvia, io e lei, lei ed io, ora forse non lo è più. Ora forse non solo bisogna aggiungere anche lui al mix delle priorità, ma lui è anche sulla vetta. Quindi questo dispiacere mi si rigira in petto perché da una parte sono orgogliosa e così entusiasta che lei abbia finalmente trovato qualcuno con cui essere se stessa, ma d’altro canto ho così paura di essere messa da parte dall’unica persona al mondo che preferiva di certo me a qualcun altro. E questa realizzazione pesa e mi viene da piangere perché ora mi sento sola, sfigata e inutile e mi chiedo quando e se troverò qualcuno anche io che mi metta in cima alle sue priorità.
Tutti i miei più cari amici hanno un partner, io no, non mi è mai pesato così tanto quanto ora. Ora che le battute per far ridere celano quasi pietà nei mie confronti e io odio l’idea che la gente pensi che non riesco a trovare nessuno. È vero, non riesco a trovare nessuno, ma solo perché non mi voglio accontentare. E più ci penso più sono sicura che questa sia una certezza, che io non mi accontenterò costi quel che costi, e vorrei che gli altri lo capissero invece di provare ad appiopparmi gente come se io non fossi in grado di trovarmi qualcuno da sola. Forse sbaglio io a lasciarglielo fare, forse la prossima volta devo metterlo in chiaro, e lo farò.
Comunque, il mio problema rimane che mi sento lasciata indietro, io con i miei mille piani, e mi fa male. Vorrei solo trovare la persona giusta a cui dire tutte queste cose, la persona giusta che mi possa ascoltare e tranquillizzare e sostenere e rafforzare. Mi sento sola ma non mi darò la colpa di questo, non posso. Quello che posso fare è continuare a proteggermi, a migliorarmi, a rendermi felice, ad accettarmi e, soprattutto, a perdonarmi.
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Quante cose fai che ti perdi in un attimo?
Oggi il viaggio in treno mi ha distrutta. Sarà che sono particolarmente insofferente in questi giorni, ma quando devo passare 50 minuti in piedi, stipata tra un ragazzo che si soffia il naso ogni 15 secondi, una donna cinese sulla cinquantina che emana un certo odore di gatto fritto e una mamma con bimbo che grida al seguito, mi sento impazzire. E' normale penso, sono girata male per i fatti miei e vorrei che tutti rispettassero questa mio enorme bisogno di calma, serenità e posti a sedere sul treno. Ma come mi ha insegnato la mia mamma, le altre persone non mi leggono nel pensiero (grazie al cielo), hanno i loro problemi per la testa e non pensano sicuramente a me. Quando a Castel San Pietro terme sale un ragazzo e si piazza in mezzo a quella variopinta marea che sono i miei compagni di viaggio penso che potrei implodere su me stessa. Non ce la faccio. E' tipico, io faccio sempre così, nelle situazioni caotiche della vita di tutti i giorni mi faccio prendere dalla frenesia delle altre persone, dall'ansia che mi trasmettono quelli che camminano veloci e mi sbattono addosso senza neanche accorgersene, dal caldo che mi assale quando siamo 598 passeggeri dentro un autobus che ne può portare massimo 30 (se ben incastrati l'uno con l'altro). E allora mi arrabbio, con le altre persone ovviamente, ma non è che lo do a vedere, non mi metto certo a insultarli. Semplicemente alzo il volume della musica, metto su lo sguardo serio mentre lascio che la cattiveria mi salga dentro fino ad arrivare al cervello. E in questi momenti non mi rendo conto di quante cose, per colpa della mia stupida rabbia, mi sto perdendo. Non mi accorgo che il bambino grida con la madre perché si diverte come un matto a vedere le luci delle città che stiamo attraversando che scorrono sui finestrini. Non vedo che il ragazzo che si soffia il naso ogni 15 secondi sorride quando legge qualcosa sullo schermo del suo iPhone 6 nuovo di pacca perché magari la sua ragazza gli ha appena scritto un messaggio tenero che lo fa sentire meglio nonostante l'influenza. Non vedo nemmeno che la signora apparentemente cinese, non proprio tanto profumata, tiene gli occhi chiusi per tutto il viaggio, probabilmente perché stremata dal lavoro. Arriviamo in stazione a Bologna e mi sento sollevata, finalmente posso scendere da quel treno infernale che mi sta facendo diventare matta. La mamma con bambino urlante mi fa un cenno e mi lascia scendere per prima, allora mi rendo conto che mi viene spontaneo rispondere con un sorriso, non uno finto però, non tirato, un sorriso sincero. Per un momento mi sembra quasi di provare un po' di dispiacere nel lasciare i miei compagni di viaggio, alla fine abbiamo condiviso 50 minuti molto intensi e ora mi rendo conto che la mia rabbia mi ha appannato totalmente appannato la vista. Mi sento in colpa ora, mi sono lamentata della loro indifferenza nei miei confronti, di come mi urtasse la loro presenza sul treno, ma mi rendo conto che invece mi hanno tenuto compagnia, che hanno riempito il mio viaggio con i loro pezzi di vita (e con i loro germi). Che tristezza, come ho fatto a non prestare attenzione a una cosa così bella? Quando sono in piedi davanti alla fermata dell'autobus, ho ancora i postumi del viaggio in treno, mi accorgo che mi si è scaricato il telefono (il che implica niente più musica fino a casa) e sento la rabbia li in pole position, pronta ad esplodere di nuovo. Poi ad un certo punto sento un ragazzo dire: "Oh ma quanto si sta bene sta sera?" Allora alzo gli occhi e mi accorgo di quanto sia bella la città immersa nel traffico serale, con le sue luci, i suoi rumori, i suoi profumi (e perché no, le sue puzze). Chiudo un attimo gli occhi, lascio che l'aria di fine ottobre mi entri dentro al giubbotto e mi scompigli un po' i capelli. Mi guardo attorno, guardo bene tra la folla, non conosco nessuno, ma non mi sento sola. Mi sento forte, non ci sono i pregiudizi della gente a cui sono abituata a casa. O meglio, ci sono, ma io non ci faccio caso e mi sento libera di essere me stessa senza vergognarmi di niente, mi sento a posto con il mondo. La rabbia se n'è andata, non c'è più. Al suo posto c'è un senso di appartenenza a questo posto, un senso di tranquillità infinita che mi pervade dai capelli fino alle dita dei miei (bellissimi) piedi. Apro gli occhi, mi giro e guardo il ragazzo che aveva parlato poco prima, ora si sta soffiando il naso come un matto. Lo riconosco finalmente, è lui, il mio compagno di viaggio (grazie al quale probabilmente domani mi sveglierò con il mal di gola). Non importa niente però, gli sorrido, come a dire: "è vero, si sta proprio bene stasera, si sta bene qui". E mi rendo conto che non sento più nessun peso, nessuna stanchezza, niente rabbia. Ora come ora non vorrei essere in nessun altro posto.
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Mi hanno detto che per sentirmi meglio dovevo iniziare a scrivere di te, come una sorta di valvola di sfogo, per non tenere tutto dentro in caso non si volesse parlare faccia a faccia con qualcuno, e quindi eccomi qua, sto scrivendo di te, da cosa potrei iniziare? Scrivere di queste cose mi fa sentire una stupida, ma è tutto ciò che mi rimane in questo momento, da quando te ne sei andato e con te hai portato via la mia vita. Sono passati effettivamente abbastanza mesi per smaltire un trauma, anche se ci sono persone che pensano che non basti una vita per far tornare il cuore apposto, ma io credo invece che quello che accada nella nostra vita sia soltanto il frutto di un qualcosa di più grande che cerca di far fortificare un animo effettivamente fragile, una sorta di difesa personale che serve per rendere una persona forte. Certo, è un modo un po' di merda per far fortificare un animo, ma chiamasi destino. In questi tre mesi ho notato come la mia testa sia completamento cambiata, come il mio cervello per autoconservarsi abbia messo dei paletti tra la ragione e il volere, lo noto da come io non riesca a realizzare il tutto. Questo anno è stato un declino verso l'oblio. Invece di salire le scale, pian piano le ho scese, iniziando con delle piccole delusioni in amicizia e in amore, che però mi avevano portato via tutta la mia voglia di vivere. È stato un periodo straziante che si è concluso nel peggiore dei modi. E la cosa che più mi fa male è il ricordo amaro che hai lasciato di te, un ricordo così distante e non concluso, come un vecchio dejavou di cui non si ricorda l'inizio. E quello che mi da sui nervi è che te ne sei andato senza avermi permesso di viverti ancora un altro po', senza avermi permesso di iniziare a viverti come si deve. E di te mi ricordo tutto. Ti vedo ancora in casa sai? Sì, sento ancora la tua voce qualche volta e questo mi inquieta. A volte capita che io apparecchi per cinque, inconsciamente lo faccio, nonostante io mi fossi già abituata alla tua assenza a furia del lavoro. Sei sempre stato una testa di cazzo, te l'ho sempre detto e tu sempre mi hai detto che avresti messo la testa sulle spalle, ma come hai vissuto da coglione, sei morto da tale, quindi non posso fare altro che complimentarmi con te per essere stato coerente su questo aspetto, bravo. Papà mi ha sempre ripetuto di stare attento a te e che molto probabilmente da grande avresti bussato alla mia porta per chiedermi aiuto, perché ha sempre ritenuto che essendo io più diligente e ambiziosa di te, io avrei fatto carriera mentre tu saresti caduto in miseria, un pensiero da vero stronzo. Io invece ho sempre creduto che in realtà, nonostante tutto, tu qualcosa saresti riuscito a trovare, come è stato, sei andato a fare l'animatore in quei villaggi turistici ed ero felice per te perché ti vedevo finalmente realizzato. Uno dei miei rammarichi più grandi è stato non averti abbracciato come avevo progettato prima che partissi per il Madagascar. Ma non c'ho dato molto peso perché ho subito pensato che saresti tornato. Mi odio per questo. La prima volta che sei partito mi ricordo che me ne sono andata in balcone, ho messo le cuffie e sono scoppiata a piangere, sì cazzo, mi mancavi già da morire eppure eri uno stronzo. Ho urlato di odiarti un milione di volte e se avessi l'occasione di rivederti credo proprio che te lo urlerei ancora più forte, perché ti odio Alessio, io ti odio da morire, io odio da morire la testa di cazzo che sei, ma mannaia alla miseria quanto mi manchi. Mi hai lasciata senza parole. Oggi è Pasqua, ed è un'altra festa che tu non ci sei, sapevi che mi da fastidio festeggiare in famiglia perché siamo pochi e tu che fai? Te ne vai. Complimenti. Ora alle feste non siamo più in cinque, ma in quattro. Oggi è Pasqua, quindi auguri per un'altra merdosissima festa dove tu non sei presente, buona Pasqua
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