#notti senza sonno
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Come primo mese da padre, al di là delle battute che ogni tanto pubblico qui, è stato abbastanza duro.
Non che io le rimproveri nulla, ci mancherebbe. Come biasimare una persona che, dalla sera alla mattina, si ritrova un povero stronzo nella propria vita, senza aver avuto la possibilità di poter dire la sua, ed essere anche costretta suo malgrado a doverla accettare, quando nulla era dovuto a nessuno, solo perché le è andata di sfiga (certo, c'è di peggio, ma sempre di sfiga si tratta, è andata molto meglio al gatto di Ilaria, per capirci). Razionalmente l'ho sempre accettato, ma una cosa è dirla, una cosa è viverla, e io l'ho vissuta male, molto male, il suo tenermi a distanza, il suo volermi evitare a tutti i costi, quasi come a dire "so che devi essere il mio papà perché l'ha detto un burocrate qualsiasi, ma almeno non mi rompere il cazzo", e diciamo che così ho fatto, pieno di rabbia e delusione ci siam divisi, vivevamo come due studenti universitari che condividono una casa, ognuno per conto suo, e così è stato per giorni, non ci ho dormito per diverse notti, e non riuscivo a trovare una soluzione, nonostante ci provassi in tutti i modi, una via per comunicare, un modo per trovarsi, quelle robe di cui tutti sembrano capire tanto qui sopra e poi a nessuno funziona. Esausto e avvilito, mi sono arreso e ho fatto finta come se non esistesse più, se non nei miei stretti doveri, perché rompere le scatole mai, a nessuno.
Poi, non so bene cosa sia successo, un giorno si è svegliata e mi ha detto ti voglio bene, così, di botto, lasciandomi come un cretino. E non perché le servisse qualcosa o avesse un po' di melassa da smaltire, era sincera, si sentiva dal suo abbraccio. E da allora sembra come se stessimo insieme da sempre, la mia scrivania è piena di disegni che mi dedica, mi tira via dai meeting, ci tiene a dire davanti a tutti che passare il tempo con me è tutta un'altra cosa, e che vi devo dire, io ho ritrovato il sorriso, il sonno e la gioia di vivere. Non saprò mai perché, e non lo voglio manco sapere.
Personalmente sono contrario a mostrare foto che non sono mie, quindi qui non ci sarà mai, e pur se volessi legalmente parlando non potrei. Questi racconti sono le mie foto con lei, perché chissà, se non schiattiamo tutti forse riuscirà a leggerle queste parole un domani, e ci faremo insieme una bella risata e un bel pianto su.
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Certe notti manca qualcosa.
Manca qualcuno che ricopra
quell'altra parte di letto
troppo vuota e troppo fredda
in questo spicchio di vita.
Una mano da allungare
per vedere se chi ami
é accanto a te
a vegliare il tuo sonno,
una mano da stringere.
Due braccia in cui rifugiarsi
e sentirsi a casa.
E due occhi
in cui scorgere il mondo
senza paura,
senza timore di nulla.
Certe notti
non manca solo qualcosa,
certe notti manca qualcuno.
Certe notti manca l'amore,
manca l'altra metá del cuore.
- Alessia L. / trafavoleeparole
#trafavoleeparole#pensieri#pensieri notturni#notte insonne#insonnia#notte#mancanze#solitudine#malinconia#sentimenti#emozioni#amore#nei miei pensieri
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L’ardore di quel bacio non li abbandonò per molti giorni e riempì di fantasmi delicati le loro notti, lasciando il ricordo sulla pelle, come una bruciatura.
La gioia di quell’incontro li rapiva, facendoli levitare per strada, li spingeva a ridere senza motivo apparente, li risvegliava concitati nel mezzo di un sonno.
Si toccavano le labbra con la punta delle dita ed evocavano esattamente la forma della bocca dell’altro..
Isabel Allende
#me soltanto me#ti sto ancora aspettando#a te che non esisti#soulversations#perfect soul#poco prima di stringerti a me
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"Ci sono giorni
senza senso
Ci sono notti
senza sonno
Ci sono mattine
senza forza
Ci sono intenzioni
senza voce
ma non ci sono attimi
che tu non sia
nei miei pensieri."
-Roberto Colonnelli -
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Poesia di https://www.tumblr.com/maripersempre-21
Tutta la notte con te nello stesso letto...
ho respirato il tuo respiro,
ho accarezzato il tuo corpo...
il mio seno ti ho offerto come cuscino,
con la mia bocca sfiorato la tua schiena nuda
ho baciato le tue mani
ad una ad una le tue dita...
ho sentito la freschezza della tua pelle
sulle mie labbra...
tutta la notte ho vegliato sul tuo sonno,
senza smettere un attimo di guardarti,
perché davanti a me avevo "il mio sogno"...
senza bisogno di dormire...
oh mio amore...
vorrei che tutte le notti
fossero uguali a questa...
le nostre vite,
i nostri cuori,
i nostri corpi,
vorrei vivere di te per sempre...
M.C.©
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UN VIAGGIO NELL'ORRORE
Tranquilli, non è il vostro viaggio ma il mio.
Io sono nato all'inizio degli anni '70, quindi mi sono fatto prima tutta la cinematografia horror di Dario Argento&co e poi tutti gli slasher americani con le icone classiche quali Jason, Freddy, Leatherface etc.
Ma c'è un problema...
Io non ho mai visto nessuno di quei film fino al 1990.
Vedete, io vivevo in una famiglia molto particolare™ dove la televisione era vista come il male assoluto, ragion per cui fino ai 14 anni io sono stato costretto ad andare a letto alle nove di sera e durante il giorno potevo guardare solo un'ora di televisione (stranamente non era conteggiato il tempo davanti al Commodore 64 e indovinate un po' chi era il mio migliore amico).
In quell'ora a disposizione io cercavo, ovviamente, di farci stare i miei cartoni animati preferiti ma non mi era possibile guardare film, tantomeno di sera.
Me li facevo raccontare.
Sì perché, evidentemente, il concetto di film non adatto ai bambini si applicava solo a me mentre tutti i miei amici, invece, rimanevano alzati fino a tardi a guardare film pazzeschi insieme ai loro genitori e il giorno dopo me li raccontavano.
A difesa dei miei genitori posso dire che in effetti ero un bambino particolarmente impressionabile ed è forse a causa dei sogni che facevo alle elementari che scelsero di non espormi a quello che in linguaggio tecnico viene definito nightmare fuel.
Non che ne avessi bisogno, intendiamoci.
Per esempio, in terza o in quarta elementare fui perseguitato da quello che io avevo soprannominato Il Burattinaio Cadavere, che si manifestava nel seguente modo: prima io mi trovavo in un qualsiasi luogo a me conosciuto (casa, scuola, parco giochi etc) poi improvvisamente tutto diventava scuro e dei fili tipo ragnatele scendevano dal cielo per toccare le decine di cadaveri che improvvisamente erano apparsi accasciati a terra, i quali si rianimavano come burattini e mi venivano barcollando incontro. Ovviamente mi svegliavo urlando come un ossesso.
E che dire della Lamante, una donna che ogni notte mi faceva vedere un buco sul braccio e mi sussurrava 'Se mi aspetti poi ti faccio vedere cosa mi hanno fatto'. E dopo tornava con le braccia amputate e due lame lunghissime innestate cercando di trafiggermi.
E poi il Buio, la Porta, il Verme Oculare, lo Sghignazzatore Maledetto...
(Beh, forse ero un qualcosa di diverso da 'impressionabile' ma vabbe'...)
Comunque, il primo film horror che vidi a casa di un amico fu Halloween di John Carpenter e al di là dell'angoscia di vedere REALMENTE un qualcosa horror, mi piacque parecchio e lì cominciò la mia collezione di problemi.
Come qualsiasi manuale di pedagogia insegna fin dai primi capitoli, la lunga privazione di un qualcosa di proibito che ero l'unico a non possedere mi spinse a fare binge watching di ogni film horror, di ogni libro di Stephen King, Clive Barker, Lovecraft e persino a scegliere come gioco di ruolo preferito Call of Cthulhu invece del più innocuo Dungeons&Dragons.
Andai fuori di testa.
Ogni notte un Geteit Chemosit che indossava la faccia strappata di mia madre cercava di entrare in camera mia e di giorno giravo sempre armato perché non si sa mai.
Mandai quasi in ospedale la mia povera mamma che ebbe la pessima idea di entrare in camera mia perché mi lamentavo nel sonno (non avevo capito che la faccia era attaccata alla persona giusta) e a distanza di anni ancora ridiamo con i miei amici di quando in campeggio tenni sollevato per il collo lo sventurato che fece un verso sospetto quando, uscendo per pisciare ancora mezzo addormentato, calpestai per sbaglio il suo sacco a pelo.
Per me valeva il motto 'L'uomo che dorme con un machete sotto al cuscino è un pazzo tutte le notti tranne una' e infatti la routine serale dei miei amici era aspettare che mi addormentassi e poi nascondere tutte le mie armi (grazie Francesca perché quella notte particolare avrei senza dubbio ucciso tutti con la mia Katana).
La notte, insomma, non mi è stata mai amica perché forte in me era la convinzione, per non dire la certezza, che il sonno rendesse possibile la venuta di orrori innominabili che si arrampicavano lungo la parte sbagliata della luce.
Verso i diciannove anni facemmo una festa per la fine della Maturità in un'enorme casa di campagna di non mi ricordo chi e dopo aver bevuto l'impossibile ognuno si appropriò di una stanza a casa, chi per trombare (non io) chi per collassare (io).
Solo che non collassai.
Come in un racconto breve di Stephen King mi misi a sedere su un vecchio letto col materasso di lana e tenendo i piedi nudi su un pavimento di cotto dalle piastrelle tutte storte (assurdo come certi particolari rimangano impressi) cominciai a fissare la porta chiusa.
Faceva caldo ma l'avevo chiusa.
Improvvisamente sento una sensazione strana sulla schiena, come di brividi, e i capelli mi si rizzano sulla nuca.
Un pensiero mi si insinua nelle tempie come un ago nel polistirolo...
'Sta arrivando'.
E poi abbasso lo sguardo e vedo che sto tenendo in mano un lungo coltello da macellaio, che evidentemente non ricordavo di aver preso giù in cucina.
Non ricordavo di averlo preso o forse in quel momento avevo capito qualcosa?
Sta arrivando
Punto i piedi a terra...
STA ARRIVANDO
Mi alzo e stringo più forte il coltello
STA ARRIV...
Ma io mi muovo per primo e scatto verso la porta con un fendente dal basso verso l'alto che avrebbe aperto in due la pancia dell'essere non appena avesse spalancato la porta.
TUNC!
Guardo la lama affondata a metà nel pannello della porta chiusa, assolutamente chiusa ma così chiusa che pareva l'emblema della possibilità che io quella sera trombassi.
Allora scendo in cucina, rimetto il coltello nel cassetto e tra i gorgoglii dei conati di vomito di chi aveva ecceduto e l'assoluto silenzio di chi non stava minimamente trombando, mi sdraio sul letto e mi addormento di un sonno senza sogni.
La parte più nobile e metafisica di me vuole pensare che con quell'ultimo fendente dato al vuoto in realtà uccisi definitivamente l'oscurità in me ma in realtà credo di aver semplicemente realizzato che chiunque fosse entrato in quel particolare momento si sarebbe visto rovesciare gli intestini sul pavimento e questo non rientrava tra le cose che avrei voluto fare da grande.
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E con il tempo tutto perde spessore, esattamente come la pelle del nostro corpo diventa più fragile, sottile e vulnerabile ma al contempo dura, ruvida, abituata alle asprezze del freddo o del caldo o degli agenti esterni con cui la trattiamo( detersivi e cosmetici, sole e notti in bianco). Il nostro volto diventa una mappa di rughe esattamente come la terra tanto sfruttata, arata, calpestata.
I giorni diventano una sequela così come il nostro corpo perde profumi e odori, diventando quasi come quello di un bambino ma senza le sue secrezioni che lo rendono morbido e delicato. La vita asciuga, prosciuga, scolora, sbiadisce. Come una tela troppo a lungo guardata, come un panno steso troppo al sole e lavato, così noi ci guardiamo e non ci riconosciamo. Diventiamo alberi spogli e i nostri rami avvizziscono, temprati dal vento e curvi resistiamo. Continuiamo a gemmare ma i fiori sono cambiati, meno vivide le luci. Un tempo urlavamo e ora mormoriamo. Un tempo piangevamo e ora le lacrime sono chiuse strette tra stomaco e gola in uno spazio senza nome dove finiscono ingarbugliati i nostri malesseri. La società ha creato nomi e pillole per ogni sogno e illusione caduti : basta cercare il nome di quello che abbiamo o sentiamo per trovare una soluzione che è presto pronta per l’uso: una moda ( lo stress) o un farmaco e si va avanti. Ma nei silenzi, nei frattempo, nelle zone frastagliate di questa ombra strana, arrivano ondate di ricordi : le risate, le speranze, gli errori, le follie. I voli🎈, le cadute, le resurrezioni.
Increduli osserviamo quegli attori giovani e belli che siamo stati, certamente meno eleganti di ora, più improvvisati ma furiosamente gioiosi e belli anche quando la vita tirava i pugni dal suo ring.
Il peggior errore che abbiamo fatto è stato non seguire le aspirazioni più pericolose, credere a quello che faceva stare bene, camminare saltellando velati di speranze e traguardi, compiacere gli attori che abbiamo avuto in platea.
Si resta distanziati a guardare, la mente offre spunti razionali che fanno male, il cuore ha una lucidità ed equilibrio che ferisce perché ha imparato a vedere e sa.
Non ci sono più scuse, alibi, vagheggiamenti. Lo specchio è fermo, reale, e ogni poro che rivela nei giochi di luce delle giornate chiare , ogni ruga scoperta, ogni difetto che cerchiamo di nascondere con il pennello del fard è stato creato da giorni in cui non abbiamo sorriso e si sono formate righe pesanti tra le labbra che cadono in giù. Tra gli occhi una strada di carne sottile pesa nello sguardo.
La vita ha droghe e risposte per ogni epoca, come il sonno dei moribondi per farli resistere e la debolezza dei malati per farli desiderare di fermarsi in un letto senza più correre.
Creati da qualcosa che non conosciamo e chiamiamo come meglio ci aggrada, siamo imperfezioni pungenti che brillano e trafiggono come la felicità
Tatiana Andena 2021
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Era una sera invernale come tante, fuori era innevato e lui, un ragazzo che per tanti, troppi anni, aveva fatto parte della mia vita, a intermittenza s'intende, mi invitò a casa sua, accettai. Non è mai stato uno che soffriva il freddo, girava a maniche corte e pantaloncini, io, invece, rimasi con il cappotto anche una volta entrata al caldo, ero congelata. Voleva alleggerirmi e mi accese la stufa al massimo, mi riscaldai subito e appena appesi il cappotto alla sedia notai il suo sguardo addosso: mi guardava come non faceva da tanto, si sorprese della mia bellezza, che io percepivo sempre come minima. Quella sera ero struccata e scompigliata dopo una lunga giornata di lavoro, mi percepivo come orrenda, ma il suo sguardo mi mise a mio agio, mi calmai e non pensai più a nient'altro. Parlammo, ridemmo e scherzammo, si fece tardi, un po' troppo per tornare a casa, io ero così stanca che mi si chiudevano gli occhi, motivo per cui mi offrí il suo letto, uno di quelli piccoli, per gli ospiti, in una cameretta che forse una volta era stata la sua, piena di orsacchiotti e peluche. Lo ringraziai e cominciai a disfarlo, pronta per mettermici dentro per stare calda e morbida. Dietro di me vidi un'ombra, era lui, appoggiato alla porta che mi fece segno di mettermi a letto, "forse ricorda dei miei problemi ad addormentarmi e cerca di farmi rilassare il più possibile" pensai. Era solito venire a casa mia per farmi addormentare nelle notti in cui non riuscivo ad affrontare l'insonnia: mi abbracciava, mi raccontava una storia e andava via, lasciandomi dormire tranquilla. Pensai che quella sera il suo intento fosse lo stesso perché si mise accanto a me e mi abbracciò da dietro, gesto che ho sempre amato dato che mi faceva sentire protetta. Non parlò, allora mi preoccupai e gli chiesi il motivo di tanto silenzio, lui amava parlare, non dei suoi pensieri, sentimenti o emozioni, ma di molte cose in generale sì. Mi rispose che si stava concentrando su ciò che sentiva "e cosa senti?" -gli chiesi pronta- "cerchi sempre di indagare su ciò che pensano gli altri, perché non me lo dici tu?". Rimasi di pietra, io non provavo nulla. Non provavo nulla perché avevo provato troppo per lui in passato ed era sparito spesso ogni volta che io mi ero lasciata andare nei suoi confronti, ritornando poco dopo cercando di riconquistarmi. Era il suo intento ogni volta, per cui poteva funzionare massimo due volte, non di più, motivo per cui ogni volta rimanevo disponibile per lui senza mai farmi coinvolgere totalmente, perché mi piaceva passare il tempo in quel modo, a flirtare con lui, sentirmi desiderata e sfidarlo in continuazione senza sentirmi oggetto del suo piacere, ma giocando al suo gioco.
Si schiarí la voce- "non ti sembra pazzesco questo nostro stuzzicarci? Continuiamo a corteggiarci come il primo giorno a distanza di 10 anni" -rimasi sorpresa ma ancora in silenzio, ero troppo stanca per avere la mia solita capacità di rispondere a tono anche a qualcosa di così semplice e continuò- "quando ho saputo che eravamo nella stessa città ho fatto di tutto per vederti perché sentirti è l'unico regalo che voglio". Approfittai di questo appiglio per fargli notare che un regalo è qualcosa che si dona totalmente perché poi appartiene a quella persona, di risposta "e tu a chi vuoi appartenere?". Cominciò a diminuire il sonno e in tono dissi "a chi mi sappia tenere", ed ecco che cominciava il nostro flirt fatto di botta e risposta in tono di sfida quando lui disse "ho dei lacci morbidi, meravigliosi fatti di rispetto, eros, feeling, fiducia e poesia...". Era tutto vero, lui era tutto quello, la fiducia mancava da parte mia, ma quelle erano le sue qualità, mi accendeva un fuoco dentro e la mente si fermò subito all'aggettivo morbido. Quanto mi conosceva, ricordava del mio tenere senza stringere, lacci morbidi, appartenere senza togliere libertà, poesia, pensieri... La conversazione, l'intimità di parlare a letto abbracciati, la tranquillità della notte e del sonno che mi cullava, tutto mi stava inebriando e lui lo notava "non è meraviglioso che dopo anni tu ti sorprenda ancora delle mie frasi?" - "è solo perché sono attenta ai dettagli, sono quelli che mi sorprendono" - "ed è questo che ti rende speciale"- cominciò con il suo essere classicista- "sai cosa significa speciale?" - "so che vuoi spiegarmelo tu con le tue parole" - "ma le mie parole hanno un effetto particolare su di te". Anche qui aveva ragione, le parole avevano un potente effetto su di me, mi davano un input da cui partire con la fantasia e la mia mente ci lavorava a più riprese rendendole eterne. "Non vorrei sprecare tutto ora" -continuò- "puoi considerarlo come l'amo che mi farà abboccare anche questa volta" -gli dissi- "peccato che resto infilzato io" -rispose. Non avevo mai notato la sua fragilità, in quella frase si mise a nudo, è come se avesse gettato la sua armatura fatta di flirt, sfide e risposte a tono per parlare seriamente.
Continua...
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"Quando avrai 27 anni, la vita ti colpirà duramente.
Capirai il detto "i soldi non crescono sugli alberi. " Lavorerai, pagherai la casa e le bollette, poi lavorerai di nuovo. Ripeto.
Ti mancherà il te stesso più giovane, con meno responsabilità e senza sapere molto del mondo.
Ci saranno notti in cui conterai le tue ore di sonno. Ti sveglierai per lavorare per soldi, trovando un'altra truffa per guadagnare di più.
La realtà è che, ora che sei cresciuto, il peso che porti è più pesante.
A 25, 27 o 30 anni, ti renderai conto che non stai più inseguendo solo i tuoi sogni. Cerchi di dare ai tuoi cari il meglio che questa vita possa offrire. ”
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Una cosa scritta molto tempo fa, giusta per questa serata di inizio ferie. "Dopo le notti di lavoro la mia vita appare in tutta la sua miseria. Il sollievo di avercela fatta, non si sa bene come. La sensazione di una libertà del tutto apparente, semplicemente una parvenza di libertà - la libertà che nasce dall'essere stato vampirizzato, fino al termine della notte, e quindi non aver più nulla da dare o da perdere. Libero come un cadavere.
E tutto il godimento concentrato in elementari piaceri fisici: mangiare patatine e schifezze, masturbarmi come un animale senza neppure un pensiero in testa, per mero sfregamento genitale, respirare ancora, nonostante tutto, provare sonno, cagare, meglio che in qualunque altro momento della settimana."
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Ci sono giorni senza senso. Ci sono notti senza sonno. Ci sono mattine senza forza. Ci sono intenzioni senza voce. Ma non ci sono attimi che tu non sia nei miei pensieri.
..:: SdB ::..
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“Una notte di molti, molti anni fa, ero di guardia notturna nel mio ospedale. Mi avvisarono alle 22 dell’arrivo di un traumatizzato stradale: condizioni disperate, dissero, stai pronto. Io sono nato pronto, risposi con la mia deprecabile grinta giovanile.
Partii dall’ecografia nella sala trauma. Poi lo portarono in Tac. C’erano tutti: anestesisti, ortopedici, chirurghi generali, chirurghi vascolari, otorini. L’uomo era sfasciato dappertutto, ma proprio dappertutto. Mentre sul monitor scorrevano le immagini della TC stavano tutti dietro di me, zitti, ad ascoltare la litania di accidenti che poi, di lì a poco, avrei trascritto nel mio referto. Ma a quel punto il referto sarebbe stato inutile: avevamo già fatto il punto della situazione, ci eravamo parlati. Ognuno di noi adesso sapeva cosa fare. Eravamo una squadra, un gruppo di persone che si fidavano gli uni degli altri, ciecamente. Quell’uomo era nelle migliori mani possibili, ve lo giuro su quello che ho di più caro al mondo.
Il Paziente andò in sala. Gli passarono sopra tutti, a turno: chirurghi, ortopedici, otorini. Gli anestesisti in seconda fila, a tenerlo vivo. Intorno alle cinque della mattina il lavoro grosso era stato fatto. Mi chiamarono per dare un’ultima occhiata in ecografia: in sala operatoria c’era sangue ovunque, sembrava ci fosse appena transitata Beatrix Kiddo di Kill Bill. L’uomo, l’omone anzi, perché era grosso come un armadio a tre ante, era disteso ancora sul letto operatorio. Sembrava che dormisse.
La mattina, alle otto, il momento dello smonto, telefonai in terapia intensiva. Mi rispose la collega della notte, con la voce stravolta dalla stanchezza. Disse: È vivo, è stabile, abbiamo fatto un buon lavoro. Tornai a casa carico di adrenalina: i bambini erano all’asilo, mia moglie al lavoro, avevo tutta la mattina per me. Non riuscii a prendere sonno: tutta quell’adrenalina accumulata mi girava ancora in corpo, vorticosamente. Quell’uomo era vivo grazie all’equipe di medici che avevano passato la notte in bianco per lui. È poco, dite? Può essere. Ma se quell’uomo fosse stato vostro marito, vostro figlio, vostro padre, allora sì che avrebbe fatto la differenza. Tutta la differenza di questo mondo.
Da quella notte sono passati vent’anni ed è cambiato quasi tutto nel modo di intendere la vita ospedaliera. I medici sono diventati carne da macello. La sanità si è trasformata in un’azienda che deve fabbricare utili, dividendi e consenso elettorale. Però, siccome costa troppo, deve anche tramutarsi in qualche altra cosa, lasciare spazi, cedere terreno. Mutare natura. Ma in silenzio, senza fare troppo rumore.
E di quel gruppo di medici cosa è rimasto? Qualcuno è andato in pensione, qualcun altro è rimasto dov’era, a svolgere il suo ottimo lavoro, qualcun altro ancora ha avuto il privilegio di trovarsi a dirigere un reparto tutto suo nella pia illusione di costruire qualcosa di buono. Nel mentre, dicevo, è cambiato quasi tutto. La politica ha preso il sopravvento e tirato i cordoni della borsa. Ai nuovi medici, giunti via via a sostituire i vecchi, non piace passare le notti in bianco nel pronto soccorso o nelle sale operatorie. Meglio un lavoro impiegatizio. Meglio un lavoro da casa, se possibile. Meno responsabilità, meno rotture di scatole, più soldi in tasca. Chi è rimasto delega: meglio una Tac in più, anche se non necessaria, che una in meno. Pazienza se tra vent’anni quella Tac causerà un tumore da qualche parte. La medicina ha smesso di essere un’arte, insomma, e le manca ancora troppo per diventare una scienza esatta. Meglio non rischiare. Meglio farsi i fatti propri.
Così, adesso io mi ritrovo in piena notte con un’urgenza addominale, e spesso sono da solo. Io, il tecnico e la Tac, nel silenzio più attonito che si possa immaginare. E non dovrei nemmeno essere lì, in quel momento, perché non è più il mio ruolo, quello. Così, mentre attendo le immagini sul monitor, mi domando perché quasi tutto è cambiato, perché certa politica ha fatto fuggire i medici dagli ospedali, cosa ha fatto perdere loro la passione, l’entusiasmo divorante, il ricordo dei validi motivi per cui, molti anni prima, hanno scelto quella professione e non un’altra. Cosa li spinge a essere indifferenti verso i Pazienti, verso colleghi che in loro assenza dovranno svolgere il lavoro che per qualche futile motivo non hanno voluto portare a termine. Cosa spinga loro, ma alla fine spinga tutti, in senso generale, senza distinzione di sesso, età, censo, lavoro, a credere di essere in perenne credito col mondo. Di essere dalla parte della ragione, sempre e comunque.
Ve lo dico subito: non trovo la risposta, e a questo punto credo che non la troverò mai. La risposta forse verrà fuori quando vi recherete in ospedale e troverete solo medici pagati a cottimo, gente che quella notte è lì e la prossima chissà dove, a quante centinaia di chilometri di distanza. Quando non esisterà più un gruppo, un’equipe affiatata pronta a passare la notte in bianco per salvare una vita, una sola: quella di vostro marito, vostro padre, o vostro figlio. Oppure la risposta andrete a chiederla a certa politica: la quale risponderà che non è sua responsabilità, e che gli errori di programmazione, il numero chiuso a medicina, l’imbuto di ingresso nelle specialità, sono colpa di quelli di prima. Di quelli che hanno governato, male, prima.
Ma quelli di prima eravamo anche noi: il radiologo, l’anestesista, il chirurgo, l’ortopedico, il maxillo-facciale. Quella fantastica squadra di bravi medici, ognuno dei quali si fidava ciecamente dell’altro. Ci rimpiangerete, certo. Come ci rimpiangiamo già noi stessi, ogni giorno, ogni santo giorno di lavoro, finché durerà ancora.”
(Da un post del Dott. Giancarlo Addonisio)
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Prospettiva di notte, #46
Notti insonni si moltiplicano, di zanzare dentro e fuori le orecchie, la mia testa: senza la grazia di lasciarmi andare alla corrente del tempo cronologico, senza il coraggio di vivermi nella verità della luce del giorno.
Madri sognate si scontrano coi deliri di riparazione, c’è tempo e tempo, luogo e luogo, ciò che appropriato e ciò che è davvero, che reclama la vergogna. Disperata, io ancora non cedo, e mi faccio questo perché è chiaro che io sola posso, tutto, quindi quello che lascio è frutto di una scelta. Spietata, perché il sonno è compassione, è quel silenzio che non riesco mai a sentire, che assomiglia alla morte. Io, d’altro canto, non assomiglio alla mia vita, sto piuttosto in questa via di mezzo tra le notti in bianco e la tristezza della sveglia, quando è troppo tardi, il giorno dopo.
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L’ardore di quel bacio non li abbandonò per molti giorni e riempì di fantasmi delicati le loro notti, lasciando il ricordo sulla pelle, come una bruciatura.
La gioia di quell’incontro li rapiva, facendoli levitare per strada, li spingeva aridere senza motivo apparente, li risvegliava concitati nel mezzo di un sonno.
Si toccavano le labbra con la punta delle dita ed evocavano esattamente la forma della bocca dell’altro.
Isabel Allende
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Una giornata di sole
È una giornata piena di sole, una di quelle in cui egli trascorre un'ora al balcone a capo scoperto, come gli ha consigliato il medico. La sua carnagione, di solito, è pallida, ma il sottotono olivastro della sua pelle gli impedisce di arrossarsi e scottarsi, cosicché egli si abbronza, assumendo un'aria più sana. Ed è solo per esibire al medico questa illusione di salute che si sottopone al bagno di sole. Gli chiedo, mentre guardo la strada sottostante, popolata di venditori ambulanti e ragazzetti che si rincorrono, se avverta un miglioramento nelle proprie condizioni. "Sì, come ogni anno quando finisce l'inverno," ma conclude la frase con un colpo di tosse. Volgo le spalle alla ringhiera del balcone e immergo gli occhi nella penombra della stanza dove in fondo, proprio sopra il letto, sulla parete azzurra, è appeso un grande rosario dai grani di legno scuro. "E così reciti le preghiere prima di andare a dormire," dico per scherzo. "Oh sì," risponde lui con gravità, "tridui e novene".
"Quella ragazzetta ha lo sguardo vispo," sussurro accennando a colei che sembra affaccendarsi riassettando le carte sopra uno scrittoio. "Ti assiste con amore?" "Amore di carità," soggiunge lui. "Le invidio che sappia leggere il greco, il latino e il francese; sapessi farlo anch'io, le farei recuperare tutto il sonno che ha perduto in queste notti." La ragazza esce dalla stanza senza salutare, con passo zoppicante, ma leggero. Ha lasciato sullo scrittoio una Bibbia, accanto a un'Iliade.
"Nella Bibbia è scritto che i morti dormono," dico trasognata. "E nell'Ade gli eroi non sono altro che ombre," prosegue lui. "Ma allora, se questa vita è sogno, e poi continueremo a dormire, non ci sveglieremo mai? Conosceremo soltanto il sonno?"
Lui tiene gli occhi chiusi al sole. "Io credo che stiamo facendo esattamente ciò a cui la necessità ci spinge. Tutto in noi è materia," prosegue. "Da bambino trascorrevo molte ore in ginocchio, pregando di essere risparmiato dall'inferno; poi da ragazzo sognai di poter entrare in paradiso con una corona di lauro. In realtà non ci spettano premii né castighi, dal momento che siamo esseri governati dalla fortuna. L'unico bene sarebbe non ricordare mai più di essere stati, e che qualcosa vi sia".
"E se la tua coscienza sopravvivesse?"
"Immagino che la natura dei morti non li faccia riguardare più la vita. In nessun modo. L'istinto di conservazione, la speranza...sono nelle fibre di questa carne."
"Torneresti?..." gli chiedo.
"Se fosse utile."
"A te o ad altri?"
"A chiunque, anche a un topolino. Purché ne avessi certezza."
"Se gli dei vogliono continuare a giocare con noi, dovranno farlo a carte scoperte," azzardo.
"Vorrei non capirli mai, gli dei."
"Ma se hai detto che vuoi certezza..."
"Ho risposto alla tua domanda: mi chiedevi se sarei tornato, non cosa volessi. Io voglio esattamente questo silenzio, questo mistero, in cui si è identici a prima di nascere e si può ignorare sia la vita che la morte, e che esistono differenze. Se un dio si chiarisse, ci darebbe la vita, e con essa la morte."
"Infatti Dio si è espresso," spiego accennando alla Bibbia.
"No," dici: "Quello lo abbiamo sognato..."
"Sai qual è l'espressione più evidente di Dio?" Lancio la sfida, e proseguo: "Quella ragazza. Si sacrifica per te, e potrebbe non farlo. Questo si chiama libero arbitrio, non necessità".
"Lo fa per ambizione," sorride amaramente, "vuole diventare santa, per compiacere suo fratello, l'unico uomo che non l'abbandonerà. Se morissi prima di stanotte, per lei sarebbe un sollievo."
"Che dici!" Protesto. Ma dentro di me so ch'è vero.
"Io e lei siamo due infelici che non s'incontreranno mai. E ora sono stanco, vorrei riposare un po'."
Lo accompagno a letto. Gli sistemo i due grossi cuscini che tiene sotto la testa e, mentre lo faccio, avverto qualcosa di duro tra l'uno e l'altro. "E questi?" Dico, vedendo un cartoccio di confetti.
"Me li ha regalati lei. La mia dolce morte. Stanotte, lei potrà finalmente riposare."
"Piantala," gli dico brusca. "Stanotte penserò io a intrattenerti. Ti leggerò le mie poesie e i miei racconti."
"Tu scrivi?" Chiede con una sfumatura sarcastica, inarcando leggermente le sopracciglia.
"Ma certo. Ti ho dedicato tante poesie..." Gliene recito subito una.
"Sono frasi, non è poesia. Non c'è metrica. E il linguaggio è colloquiale, direi trasandato."
"Questa è poesia contemporanea," spiego. "Si chiamano versi liberi."
"I versi sciolti sono tutt'altra cosa..."
"Infatti questi non sono sciolti, ma proprio liberi. Come i pensieri, come il vento..." sorrido. "Vuoi provare anche tu?"
"Certo. Sembra facile come parlare nel sonno."
Io assaggio un confetto, mentre lui sussurra con aria canzonatoria: "Dalla vita volevo fuggir via,
perché la morte sola beltà mi apparia;
ma la mia vile anima immortale
mi parla e dice che ancora avrò a dare
e la beltà di ciò che darò
è così grande che più non morirò!"
"Ecco, bravo," lo incoraggio ridendo. Forse attratta dalle risate, entra la graziosa ragazzetta zoppa. "Vuoi?" Dico offrendole il cartoccio di confetti. "Questo screanzato li aveva rubati per suicidarsi prima di stanotte," dico scrollando il capo.
Lei arrossisce e si torce le mani. "Il suicidio è peccato mortale..." finge di rimproverare il malato con lo sguardo fisso alla punta delle proprie scarpe. Esce portandosi via i confetti.
"E ora?" Mi chiede lui.
"Faremo versi tutto il pomeriggio e la notte. I più liberi e sciocchi che riusciremo a fare. Ma prima voglio leggerti un mio racconto."
"Come s'intitola?" Chiede rassegnato.
"Una giornata di sole"...
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Che poi, che poi ci pensi. Ti cali nel ruolo di padre, ti ci cali dentro fin tanto che le ultime bollicine escano. Lo fai perché ti tocca, perché un vero padre fa così, perché un padre ha le spalle larghe (o gonfia il petto fino a farsele venire) perché un padre se un/a figlio/a chiama (ac)corre. E non ci pensa più di tanto, si infila in auto, costi quel che costi, si sciroppa 800 km, parla con quello, con quell’altro, ascolta fin dove è capace (perché sarebbero mille le domande, perché un po’ di angoscia ce l’ha pure lui, perché non esiste un manuale che ti dice cosa si deve fare e come bisogna agire), fa buon viso a cattivo gioco, bilancia la controparte, pensa (ci prova) a dire quel che è meglio, si scervella, dimentica di avere una vita, degli impegni, perché lui deve stare lì, perché gli tocca, perché VOLERE BENE significa tutto questo, anche se si sente totalmente impreparato, anche se le risposte non ce l’ha (e si sforza di averne, quando a volte basterebbe stare lì, anche zitti, ma a volte se lo dimentica), anche se… non lo sa come si fa ma prova a farlo. Anche se vorrebbe solo dire “ci sono, sto qua, ti tengo come ti ho tenuto in braccio le notti, quando piangevi come una disperata perché avevi mal di qualcosa, o avevi solo un piccio di sonno, ma io ti stringevo forte, ti accarezzavo, ti baciavo… tranquilla ci sono, sto qua, il tuo papà ti vuole bene e c’ha le spalle grosse” anche se non sembra o gli son venute meno per strada. Ma poi dice, o meglio pensa… “ma a me chi ci pensa? Chi me la dà la forza, chi mi fornisce due paia di spalle che possano portare tutto, reggere quel mondo che sembra essere (é) andato a pezzi e raccoglierne i cocci si fa una fatica, perché le forze ormai ti stanno venendo meno e vorresti tu uno spuntone su cui aggrapparti, e reggerti e rialzarti. Ma comunque si fa, perché si è padri e perché se si vuol bene, gli 800 e passa km si fanno senza pensarci, per dire, mezzo stropicciato “sto qui, abbracciami e andiamo avanti”.
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