#non ho tutto dalla vita
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Che storia meravigliosa. La conoscevo, certo, ma ieri ho avuto il privilegio di ascoltarla direttamente da una persona legata all’ex proprietà. Una di quelle occasioni che ti fanno venire voglia di fermarti, ascoltare e, sì, prendere appunti.
Luisa Spagnoli e Giovanni Buitoni. Un amore che non avrebbe mai dovuto esistere, eppure è esistito. Segreto, proibito, ma inarrestabile, come ogni cosa vera. Lei, sposata, madre di tre figli, con quattordici anni di troppo per un mondo che non perdona. Lui, giovane, brillante, capace di vedere oltre. In lei, non solo una donna, ma un’idea, un atto di sfida. Da quella relazione impossibile nascono i Baci Perugina, che non sono mai stati solo cioccolatini. Sono l’amore che resiste, il manifesto di chi sceglie di vivere, nonostante tutto.
I bigliettini che Luisa infilava nei cioccolatini per Giovanni erano più che parole: erano vita, cuore, rivoluzione. Quei messaggi, diventati i cartigli, sono la prima forma di trigger emotivo nella storia del prodotto. Non è più solo cioccolato: è gesto, è storia, è amore che si racconta. È lì che nasce l’ancoraggio emozionale. Non compri un dolce. Compravi lei. Lui. Loro.
La scelta del nome, da “Cazzotto” a “Bacio”, è un caso lampante di reframing linguistico, dove il focus si sposta dalla rudezza al gesto romantico. Giovanni Buitoni intuì che il linguaggio non era solo descrizione ma percezione, e che un termine sbagliato poteva distruggere la magia. “Bacio” diventò così il frame perfetto: semplice, diretto, evocativo.
L’incarto argentato con stelle blu, disegnato da Federico Seneca, è semiotica visiva al suo massimo. L’argento grida preziosità, le stelle parlano di sogni, e i due amanti, ispirati a “Il Bacio” di Hayez, consolidano il frame emozionale. Non è solo un packaging: è una narrazione visiva che colpisce il cuore prima ancora del palato.
I Baci Perugina non sono mai stati solo cioccolatini. Sono pezzi di storia italiana, un intreccio di coraggio, imprenditorialità e comunicazione al massimo livello. Metafore visive, parole che restano, un equilibrio perfetto dove ogni elemento – nome, cartigli, packaging, campagne – parla la stessa lingua. Una storia d’amore privata che si trasforma in linguaggio universale. Non si vende cioccolato. Si vende un sogno. Un sogno che continua, immutato, a emozionare.
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Tutto è cambiato da quel 2010,
anni passati buttata in un letto,
salvata per miracolo, le ore sotto i ferri sono state dieci,
per me sono state eterne, mi sentivo inerme,
“la paziente ha perso troppo sangue, la situazione é complicata,
non ho mai creduto a Dio, sempre pregato gli angeli che mandano segnali dal cielo,
questa vita ti ha maneggiata bruscamente, mai stata delicata,
ti ha tolto l’uso dei tuoi arti,
non sapendo che il tuo punto di forza é insito nel tuo carattere,
quanta forza di volontà, non ti fai mai abbattere,
ma dimmi un giorno come farò a dimenticarti?
Conservo con me quel delfino trovato in una giornata triste dentro un cassetto,
tuo figlio é sempre quello di un tempo,
un concentrato di ansie e incertezze,
che scrive i suoi mostri sopra un foglietto,
dicevi “non piangere”, guarda dentro la tasca,
di anni ne avevo 6, a scuola piangevo ogni santo giorno,
tant’era la paura della solitudine, che chiedevo alle maestre sé fossi rimasto solo, insicuro delle mie stesse insicurezze,
speravo nessuno vedesse, stringevo il delfino,
chiudevo gli occhi, allontanando quelle paranoie trasportate dalla burrasca,
di idee negative succubi di voci “cattive”,
ti chiedevo “Mamma?
Perché quando gli altri piangono io stringo loro la mano e sorrido?
Se quando piango loro mi fissano, ridendo a squarciagola come in un grido?”
“Ognuno é fatto a modo suo,
non tutti hanno un cuore compatibile col tuo”.
“Non ha importanza se nessuno ti ha compreso,
non ti sei “abbassato”, non hai cercato compassione, per essere accettato”,
Tu come me davi retta a tutti, poi quando c’era bisogno, “ognuno c’ha i sui impegni”, (già!),
strano come poi piangano lacrime di coccodrillo mentre sei disteso su una bara.
Stesso sangue, avvelenato dalla vita, dal pregiudizio inutile di chi fingeva di esserci vicino,
umani come medicine, un giorno ti elevano al settimo cielo, i restanti ti rigettano l’inferno,
finisci in para, dicono “passerà”, nessuno ci tiene, impara.
Ti sento piangere le notti,
con due tumori che si fanno spazio nel tuo corpo, silenziosamente,
mi dici che non molli, anche sei distrutta, “non voglio spegnere quel tuo sorriso”,
io non ne conosco di altri motti,
mi guardi, mi stringi, col corpo che trema, la mia anima lo sente,
io invidio il tuo essere, fragile e tenace,
tu non vivi, sopravvivi, lotti,
come quando ballavi il tango,
cambiavi l’atmosfera,
la tua? La classe di chi soffre senza farlo notare,
a ogni tuo passo il mio cuore accelera,
professionisti che dicevano “incantevole, come
una bambina si diverte in mezzo al fango”.
In una vita di spine, senza una rosa,
sei un’artista nel dipingere le mie giornate,
metti ordine fra miei pensieri come in un quadro a ogni dettaglio i suoi colori,
siamo io e te e papà, stretti dentro un incubo, sappiamo che ogni giornata potrebbe essere preziosa,
ho sempre dato tutto per scontato, bastava dirti grazie, rispettare le tue urla, i tuoi dolori.
Quante volte mi hai detto ti vorrei aiutare?
Ma testardo davo retta solo a me stesso,
capendo che una donna é l’unica soluzione,
se ti sa guardare dentro, é più erotico del sesso,
ti scrivo le mie lacrime del cuore,
quelle che nessuno vede,
mentre dentro sé stessi ogni equilibro cede.
Ti ho detto troppe volte, “se ti spegnessi metterei fine ai miei giorni”,
tu solo una cosa mi hai risposto “fammi rivivere in quei giorni”.
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Ripeti a voce, con molta concentrazione, dopo avere respirato profondamente.
Mi do il permesso di separarmi da persone che mi trattano bruscamente, con violenza, che mi ignorano, che mi negano un saluto, un bacio, un abbraccio… Da questo preciso momento le persone brusche o violente sono fuori dalla mia vita.
Mi do il permesso di non costringermi ad essere “l’anima della festa”, la persona che mette entusiasmo in tutto o quella sempre disponibile al dialogo per risolvere conflitti quando gli altri nemmeno ci provano.
Mi do il permesso di non intrattenere ed incoraggiare gli altri a costo di stancarmi io: non sono nata per spingerli ad essere sempre al mio fianco.
La mia esistenza, il mio essere è già prezioso.
Se vogliono stare al mio fianco devono imparare a valorizzarmi.
Mi do il permesso di lasciar svanire le paure che mi hanno inculcato da bambina. Il mondo non è soltanto ostilità, inganno o aggressione. Ci sono anche tanta bellezza e gioia inesplorata.
Mi do il permesso di non stancarmi nel tentativo di essere perfetta. Non sono nata per essere la vittima di nessuno. Non sono perfetta, nessuno è perfetto e mi permetto di rifiutare gli schemi altrui: una persona senza difetti, estremamente impeccabile ovvero disumana.
Mi permetto di non vivere nell’attesa di una telefonata, di una parola gentile o di un gesto di considerazione. Mi affermo come persona che non dipende dalla sofferenza. Non aspetto rinchiusa in casa e non dipendo da altre persone. Sono io stessa a valorizzarmi, mi accetto e mi apprezzo.
Mi permetto di non voler sapere tutto, per non essere sempre presente durante il giorno. Non ho bisogno di molte informazioni, di programmi per il pc, di film al cinema, di giornali, di musica.
Mi do il permesso di essere immune alle lodi o agli elogi smisurati: le persone che fanno troppi complimenti finiscono per sembrare opprimenti. Mi permetto di vivere con leggerezza, senza accuse o richieste eccessive. Non fa per me.
Mi do il permesso più importante di tutti, quello di essere autentica.
Non mi sforzo di compiacere gli altri. È semplice e liberatorio abituarsi a dire di no ogni tanto.
Non mi voglio giustificare: se sono felice, lo sono, se non sono felice, non lo sono. Se un giorno del calendario è considerato come quello in cui sentirsi obbligatoriamente felici, io mi sentirò esattamente come mi sentirò.
Mi permetto di sentirmi bene con me stessa e non come vogliono le usanze o quelli che mi stanno attorno: quello che è “normale” o “anormale” nei miei stati emotivi sarò io a deciderlo.
J. ARGENTE
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Quando si va via dalla vita di una persona, bisognerebbe accertarsi di aver lasciato tutto in ordine, prima di chiuderci la porta alle spalle. Bisognerebbe avere la stessa cura che abbiamo usato nell'entrarvi.
E dunque, sarebbe buona cosa guardarla negli occhi e raccontarle di noi, di cosa non capiamo, di cosa ci chiama lontano da li.
Di cosa non troviamo più.
O semplicemente di cosa credevamo di aver trovato.
Dovremmo raccontarle di lei.
Di cosa abbiamo amato, di cosa è cambiato, di cosa non ha compreso di noi. Dovremmo chiederle come sta, cosa pensa, quanto male fa.
Ecco, quanto male fa. Quanto male le stiamo causando.
E poi abbracciarla e farle sentire che il suo amore non è stato sprecato, non è stato gettato via.
Quando ce ne andiamo dalla vita di una persona, dovremmo avere le mani pulite. Dovremmo chiedere scusa, come quando il giorno che siamo entrati avremmo dovuto chiedere permesso.
Avremmo dovuto, ho detto.
Paola Delton
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Sono ormai cinque anni che sono nel campo sanitario, l'ho scelto per imparare certe cose pratiche che mi sarebbero potute servire in futuro, ma credo di stare imparando anche altre cose, sia non pratiche sia di me stessa.
L'empatia è una delle principali. Ti metti nei panni dell'altro e soddisfi i suoi bisogni primari, ma non solo quelli. Io sono un semplice OSS, ma fare questa parte del lavoro ti permette di conoscere bene le persone, che in quel momento sono anche pazienti.
Prima in RSA, adesso in ospedale. Vedi continuamente malattie, sofferenze ed anche morte. Io non ho mai avuto problemi a vedere, pulire, parlare di vomito, scariche, urina, sangue, escreato, lesioni da decubito, tanto che dopo un po' ti abitui a parlarne anche mentre mangi, riesci a scollegare le due cose, diventa tutto routine.
E poi c'è il fine vita, ti abitui in un certo senso anche alla morte.
Prima accudivo una persona per farle finire la sua vita nel migliore modo possibile, adesso i pazienti che mi passano davanti sono tutti diversi. Chi sta un giorno e mezzo, chi rimane settimane. Chi torna a casa sulle sue gambe, chi dopo giorni, leggi in consegna: attende hospice. E ti chiedi in qualche modo perché.
Hai già visto infarti che non si riescono a recuperare. Hai già visto chi non si cura e dopo due settimane a casa torna in ospedale un mese. Hai già visto tante persone, tanti caratteri, tante storie di vita, ma poi arriva quella che ti lascia con i pensieri. Quella che non è anziana, quella che deve fare tante cose ancora, quella che entra per un dolore, ma il problema non è lì. Quella che fino ad un minuto prima è in piedi, autonoma, e poi le dicono che deve restare a letto, che arriva il medico a parlarle. Quella che cambia la luce degli occhi dopo che forse non le hanno neanche detto tutto davvero, ma che ha capito tutto lo stesso.
E rifletti che forse non vedrà il Natale. Che avrà mille cose da sistemare. Che non sta reagendo, non si sta arrabbiando, non sta piangendo. E ti chiedi come reagiresti tu. Perché io so benissimo cosa vorrei, lo dico sempre alle persone intorno a me, ma ti devi trovare nelle situazioni prima di sapere veramente come reagirai. E pensi al "dopo di noi", a tutto quello che sarà dopo di me...
E pensi a come la vita ti cambia, quello che ti succede ti cambia, quello che vedi negli altri ti cambia. Di quanto la vita sia breve, imprevedibile, a volte bastarda.
E l'empatia ogni tanto ti molla ed hai bisogno di raccontare come stai, per buttare fuori quello che stavolta non è uscito a fine turno, uscendo semplicemente dalla porta del reparto. E ringrazi chi ti ascolta. E chiedi scusa perché ti senti un po' in colpa perché stavolta hai dovuto raccontare e ti sembra di aver lasciato un pezzo di dolore in chi ti ha ascoltato.
Boh, anche questo mio sfogo è un modo per buttare fuori, e quindi chiedo scusa anche a voi se mi avete letto fino qui. Grazie.
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LA LETTERA D'AMORE PIU BELLA CHE IO ABBIA MAI LETTO.
"Cara Francesca,
Spero che questa mia lettera ti trovi bene.
Non so quando la riceverai. Quando io me ne sarò già andato.
Ho sessantacinque anni, ormai, e ne sono passati esattamente tredici dal nostro primo incontro, quando imboccai il vialetto di casa tua in cerca di indicazioni sulla strada.
Spero con tutto me stesso che questo pacchetto non sconvolga in alcun modo la tua vita. Il fatto è che non sopporto di pensare alle mie macchine fotografiche sullo scaffale riservato all’attrezzatura di seconda mano di un negozio o nelle mani di uno sconosciuto. Saranno in pessime condizioni quando le riceverai, ma non ho nessun altro a cui lasciarle e mi scuso del rischio che forse ti costringerò a correre mandandotele.
Dal 1965 al 1975 ho viaggiato quasi ininterrottamente. Nell’intento di allontanarmi almeno parzialmente dalla tentazione di telefonarti o di venire a cercarti, tentazione che da sveglio in pratica non mi lascia mai, ho accettato tutti gli incarichi oltreoceano che sono riuscito a procurarmi. Ci sono stati momenti, molti momenti, in cui mi sono detto: << All’inferno, vado a Winterset e, costi quel che costi, porto Francesca via con me>>.
Ma non ho dimenticato le tue parole, e rispetto i tuoi sentimenti. Forse avevi ragione, non lo so. So però che uscire dal viale di casa tua, in quella arroventata mattinata di agosto, è stata la prova più ardua che abbia mai affrontato e che mai avrò occasione di affrontare. Dubito, in effetti, che molti uomini ne abbiano vissute di più dure.
Ho lasciato il National Geographic, nel 1975 e da allora mi sono dedicato soprattutto a fotografare ciò che piaceva a me, prendendo il lavoro là dove potevo, servizi locali o regionali che non mi impegnavano mai più di pochi giorni.
Finanziariamente è stata dura, ma tiro avanti.
Come ho sempre fatto.
Buona parte del mio lavoro lo svolgo nella zona di Puget Sound. Mi va bene così. Pare che invecchiando gli uomini si rivolgano sempre più spesso all’acqua.
Ah, sì, adesso ho un cane, un golden retriever.
L’ho chiamato Highway, e lo porto quasi sempre con me, quando siamo in viaggio, se ne sta con la testa fuori dal finestrino, in cerca di posti interessanti da fotografare.
Nel 1972 sono caduto da una rupe nell’Acadia National Park, nel Maine, e mi sono fratturato una caviglia.
Nella caduta ho perso la catena e la medaglia, ma fortunatamente non erano finite lontano. Le ho recuperate e un gioielliere ha provveduto ad aggiustare la catena.
Vivo con il cuore impolverato, Meglio di così non saprei metterla. C’erano state delle donne prima di te, qualcuna, ma nessuna dopo. Non mi sono votato deliberatamente alla castità: è solo che non provo alcun interesse.
Una volta ho avuto modo di osservare il comportamento di un’oca canadese la cui compagna era stata uccisa dai cacciatori. Si uniscono per la vita, sai. Dopo l’episodio, ha continuato ad aggirarsi intorno allo stagno per qualche giorno. L’ultima volta che l’ho vista, nuotava tutta sola tra il riso selvatico, ancora alla ricerca. Immagino che da un punto di vista letterario la mia analogia sia troppo scontata, ma è più o meno così che mi sento anch’io.
Con la fantasia, nelle mattine caliginose o nei pomeriggi in cui il sole riflette sull’acqua a nord-ovest, cerco di immaginare dove sei e che cosa stai facendo.
Niente di complicato…ti vedo in giardino, seduta sulla veranda, in piedi davanti al lavello della cucina. Cose così.
Ricordo tutti. Il tuo profumo e il tuo sapore, che erano come l’estate stessa. La tua pelle contro la mia, e il suono dei tuoi bisbigli mentre ti amavo.
Robert Penn Warren scrisse: << Un mondo che sembra abbandonato da Dio >>. Non male, molto vicino a quello che provo per te certe volte. Ma non posso vivere sempre coì. Quando la tensione diventa eccessiva, carico Harry e, in compagnia di Highway, ritorno sulla strada per qualche giorno.
Commiserarmi non mi piace. Non è nella mia natura. E in genere non me la passo poi tanto male.
Al contrario, sono felice di averti almeno incontrata.
Avremmo potuto sfiorarci come due frammenti di polvere cosmica, senza sapere mai nella l’uno dell’altra.
Dio o l’universo o qualunque altro nome si scelga di dare ai grandi sistemi di ordini ed equilibri, non riconosce il tempo terrestre. Per l’universo, quattro giorni non sono diversi da quattro miliardi di anni luce. Per quanto mi riguarda, cerco di tenerlo sempre a mente.
Ma, dopo tutto, sono un uomo.
E tutte le considerazioni filosofiche non bastano a impedirmi di desiderarti, ogni giorno, ogni momento, con la testa piena dello spietato gemito del tempo, del tempo che non potrò mai vivere con te.
Ti amo, di un amore profondo e totale. E così sarà sempre."
“I ponti di Madison County”, R.J.Waller
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Pensavo fosse amore invece era un altro esame alla prostata
Tutto sta andando esattamente come deve andare ovvero molto storto. Niente segue i piani. Ci sono costanti ritardi e io non sono una persona puntuale, mi vanto sempre di avere un'enorme pazienza. Lo dico a ogni ragazza "Non hai idea delle dimensioni della mia pazienza" e poi si sorprendono e confermano "Accidenti, ma è gigantesca, non ne ho mai vista una così grande!" e io sorrido soddisfatto ma oramai mi sono rotto le palle di essere paziente. Lo penso mentre entro in ospedale, un controsenso. Entro perché sono un paziente ma vuoi sia il caldo, vuoi siano i ritardi e i rimandi: sono diventato impaziente.
Mentre ero in bici stamattina faceva fresco, quel bel fresco che di sicuro finisce che mi ammalo. Mi hanno fatto entrare in una sala piena di studenti della mia malattia o affezionati del settore. C'era un dottore giovane al centro, penso stesse cercando di fare colpo sulla classe perché era eccessivamente preciso nel descrivermi gli effetti collaterali della prossima terapia che dovrei iniziare. Questa volta sperimentale, quindi ci sono pochissimi studi al riguardo e io mi sento come un porcellino d'India, uno di quelli spelacchiati però. Aspetto mi riempiano il pancino glabro con pastiglie dai risultati imprevedibili ma sorrido, perché almeno, forse, finalmente, qualcosa si muove. Ho bisogno di una novità o di qualcosa che funzioni. O forse solo di qualcosa che mi distragga? Ecco, penso che sia più che altro questo. Io me lo sarei fatto quel dottore oggi, così, davanti a tutta la sua classe, per insegnare agli studenti che cosa è la disperazione. Che faccia ha. Ma non se ne è fatto nulla, mi hanno mandato via dicendo che è ancora troppo presto e che devo essere ulteriormente paziente. Sicuro se lo limonavo mi infilava il nuovo farmaco nella scollatura.
È vero, ultimamente latito molto da queste parti, sono colpevole. È che sto scrivendo per una specie di magazine online e allora quando voglio spremere la prostata della mia creatività lo faccio laggiù ma mica perché io mi sia scordato di questo luogo, accidenti no. Io vi guardo. Vi spio. Vi ammiro e nel privato, vi desidero. Però laggiù in teoria mi pagano, in pratica mi fanno promesse e io sono un giovane pieno di speranze e sogni che ha imparato a portare pazienza e pazientemente aspetto.
Ieri ho festeggiato due anni di Ernesto, il mio gatto. In pratica un giorno mio fratello suona alla mia porta con un gatto rosso in mano e mi dice "Da oggi tu hai un gatto, io devo partire per le ferie" e da allora quel rosso pezzo di merda controlla la mia vita. Sta male con il pancino, mangia poco, fa la pupù brutta e l'ho portato dalla veterinaria e ho speso più soldi per lui che per la mia salute fisica e mentale. Quanto cazzo costa mantenere un felino? Un altro essere vivente in generale. Cioè, poi mi chiedono perché non ho figli. Ma io ho passioni, ho una carriera da morto di fame da mantere, mica posso permettermi il lusso di far crescere una mia copia in miniatura. Sicuro mi uscirebbe ancora più stronzo del sottoscritto e magari che vuole studiare pure. Ma col cazzo. Una cosa buona di Ernesto è che è stupido come la merda ma bello come il sole. Proprio come suo padre (me).
Ho lavorato per quasi un mese e mezzo in una cucina. Ho fatto l'aiuto cuoco. Ricordo che undici anni fa, quando mi trasferii a Vienna, ero pieno di sogni e speranze ma al tempo stesso ero consapevole dei limiti umani di cui soffrivo (essere stupido come la merda, che è una condizione più grave delle mie malattie croniche) e allora me l'ero già messa via e ricordo che andavo in giro per ristoranti di finti italiani (una cosa che ho imparato vivendo all'estero: più grande è il tricolore, più ossessivamente il locale è decorato con la bandiera italiana, meno i proprietari saranno della penisola, una volta bazzicavo in questa pizzeria chiamata "Pizzeria il Vesuvio da Mario" che era un'accozzaglia di stereotipi e il proprietario era un mistro tra un panda, Lino Banfi e un libanese e c'erano poster delle Marche ovunque, cioè chi cazzo appende poster delle Marche pensando sia una buona idea? Solo questa chimera più occhiaie che talento nel fare la pizza) (dove ero rimasto?) (ah sì) andavo in giro per ristoranti a pretendere di venire assunto solo per via delle mie origini. Non portavo manco un curriculum, dicevo: "Sono italiano, sicuro sono più bravo di voi a cucinare". Undici anni fa credevo davvero un sacco nelle mie scarse potenzialità nonostante l'essere stupido come la merda. Beh, all'epoca nessuno mi assunse e invece oggi, pensate un po'? No, nemmeno oggi mi hanno assunto. Mi hanno usato per sostituire uno che se ne doveva andare e invece alla fine non se n'è più andato. Però ragazzi, quante cose ho imparato lavorando in cucina. Tipo a tagliare i datteri! Oppure che altro, ah sì, a farmi le foto sembrando uno che ci sa fare con i coltelli. Il tutto perché sto guardando la terza stagione di The Bear e se prima ho detto che mi sarei limonato il dottore che c'era oggi in ospedale beh, non avete idea di cosa farei a quel cuoco modello di Calvin Klein.
Insomma, ho migliorato le mie capacità culinarie. A resistere allo stress. A tagliare. Oramai taglio che è un piacere e perché, con quale fine, se non fare da mangiare al mio gatto del cazzo che ha la diarrea da una settimana e se non gli preparato il tacchino magro con le verdurine poverino non mangia? Ecco cosa sono diventato, il cuoco personale del mio felino. Tornerei anche domani a lavorare in cucina perché, per una volta, il mio cervello era in pausa. Non avevo tempo per dargli ascolto, c'erano troppe cose da fare contemporaneamente. Ora capisco perché tutti ci infiliamo in lavori del cazzo: perché dobbiamo stare lontani dai discorsi che il nostro cervello si mette a fare.
Io al mio cervello gli voglio bene. Ma non siamo fatti l'uno per l'altro.
Qualche giorno fa mi è stato chiesto qual è la parte del mio corpo che mi piace di più e io non ho saputo rispondere. Non c'è una singola parte di me che mi piace. Ok, mi ritengo una divinità scesa sulla terra per via di una punizione ma al tempo stesso, questo corpo terreno, mi disgusta. Una volta avrei detto "il mio cervello" ma oramai neanche quello. Ha troppi problemi. È un vecchio motore a scoppio che cerca di restare al passo con i tempi ma viene lasciato indietro da tutto. C'è stato un periodo in cui siamo andati d'accordo ma ora non fa altro che sabotare ogni cosa bella che mi accade e amplificare le cose brutte e distrarmi dalle cose importanti e soprattutto non mi fa smettere di cercare carte Pokémon. Dai, io già non ho soldi, perché mi fai questo? Avessi un figlio e non un gatto sono sicuro che prenderebbe la mia collezione di carte e ci vomiterebbe sopra. Almeno Ernesto mi vomita solo su i pavimenti. O nelle scarpe. O nello zaino. Per questo motivo sono andato a lavorare in cucina, per migliorare e farlo smettere di vomitare ovunque. Ha funzionato? Aspettate un attimo che pulisco il vomito dal tappetino della cucina e ve lo dico.
Il bello del passato, quando è veramente passato e smette di fare male, è che puoi ricordare selettivamente solo le parti che ti fanno comodo e pensare che poi, alla fine, non sia stato così una merda. Che gli anni di psicanalisi siano quasi stati divertenti perché ehi, sono passati! Per questo torna il fascismo e l'ignoranza e la demenza e persino io che sono stupido come la merda me ne rendo conto che qualcosa non torna. Il passato è passato e così deve restare ma se siete come me, una persona che è costretta a portare pazienza da tutta la vita, allora il passato sembra un luogo fantastico. È il momento in cui le cose non andavano così male. Il presente mi fa paura. Mi fa ancora più paura pensare al domani, con una terapia nuova che magari non funziona e un gatto che vomita e caga ovunque e io senza un lavoro decente ma una una collezione di carte Pokémon da fare invidia a qualche bambino alle soglie della pubertà. Poi anche lui andrà incontro al mio stesso destino, scoprirà la figa e Pikachu andrà a farsi fottere fino al momento in cui pure la figa perderà il suo potere e penserà "Oddio sono finalmente libero!!!" e invece no, torna Pikachu e 'sto giro costa il triplo.
Ho bisogno di certezze se voglio dare certezze ma al momento l'unica cosa che riesco a dare è la certezza di non starci con la testa. Da fuori sembro anche capace di controllare tutto ma se entrate un secondo dentro il cranio ci sono le matasse di pelo di Ernesto e la polvere. Io pensavo che dopo il libro tutto sarebbe stato in discesa e invece manco per il cazzo. Dopo che realizzi il tuo sogno ti rendi conto che la bestia di insicurezze che hai dentro non si placa. Il mio mostro vuole di più, non si accontenta e io come posso spiegargli che per me è già abbastanza così, vivere con la consapevolezza delle mie copie vendute sentendomi in colpa per non essere stato migliore delle mie aspettative. La mia bestia interiore è più vorace di Ernesto davanti a una scatoletta Gourmet Gold (mica cazzi per lui spendo) e poi divora e smembra e aspetta io mi volti soddisfatto per rigurgitare ogni brandello sul pavimento, fissarmi con i suoi occhi a feritoia per sfidarmi dicendomi "Voglio di più, ancora, meglio, questo non era abbastanza".
Ci ho riflettuto e io sono un figlio degli anni 80. Sono nato in un'epoca in cui ci hanno inculcato, come verme distruttivo, il pensiero che se non riesci a ottenere una cosa è solo perché non stai lavorando abbastanza. Devi lavorare di più e la otterrai. Fottuto verme del cazzo, io vorrei solo dormire la notte e avere una terapia che funzioni. A me, dei tuoi desideri non importa una sega. Però sai com'è, nella mia testa ci sei tu e io non sono un pozzo di intelligenza, sono stato cresciuto così dalla televisione e da quarant'anni di Berlusconi e dai fottuti americani e i loro film del cazzo e mi sono sempre identificato nell'eroe inaspettato, colui sul quale nessuno avrebbe mai scommesso e alla fine porta a casa il risultato e la partita e vince tutto e io cosa ho vinto? Ho più paranoie che parole e se siete arrivati a leggere fino a questo punto vi state rendendo conto dell'abisso. Il successo, la realizzazione del noi è un'utopia. La calma, la pace, il silenzio del verme nel cervello è l'obiettivo. Anche il proprio gatto che smette di avere diarrea e vomitare è un altro obiettivo ok.
Sono stato bene per un periodo e ora aspetto solo di avere nuovi sogni che accuratamente cercherò di non realizzare per tornare a stare bene.
Quando mi guardo intorno cerco di capire se sono il più vecchio nella stanza. Sono a quel punto dell'età dove non è facile capirlo. La maggior parte dei miei coetani appare vecchia come un 56k e io li guardo e penso "Cristo ma faccio schifo come loro?" e magari loro hanno una copia di se stessi che sta crescendo e che costa un sacco più del Giratina V che tanto desidero mentre io invecchio e basta e i miei tatuaggi sono stupendi perché ho una pelle magnifica ma il verme in testa mi ripete quanto dovrei fare (invece di bere solo alcolici che saranno controproducenti per la prossima terapia) è solo l'ennesimo prodotto del capitalismo che è servito ai nostri genitori per comprare casa quando avevano vent'anni mentre a noi cosa resta? Portare pazienza. Ecco cosa ci resta.
Il mio amico Matteo (che non sono io, è un altro Matteo, Matteo è un nome molto comune) mi ha detto che da quando ha divorziato ha perso interesse nell'uscire e conoscere nuove persone e mettersi in gioco perché ritiene di aver scopato abbastanza per questa vita. Lo invidio molto. A me scopare piace ma io, se c'è una cosa che metterei da parte per questa vita, è continuare ad avere sogni e desideri. Ne ho avuti abbastanza. Tutti figli del capitalismo e di una realizzazione di sè che non ha senso.
Finisco il mio ultimo vino, rileggo quello che ho scritto e maledico questo posto dove riesco, mio malgrado, a essere la versione di me stesso che vorrei essere sempre.
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ho 29 anni e mi ritengo una persona abituata alla morte. o almeno penso di esserla mentre guardo fuori dalla finestra ingnorando il telefono che mi suona in cuffia. se fossimo in quel film con tutte le emozioni probabilmente ora sarebbero tutte chiuse sottochiave mentre in plancia di comando ci sarebbe solo l'apatia. non ho ancora ben capito quale emozione provo nei confronti della morte, se paura, tristezza o rabbia. in questo momento provo apatia. poi mi fermo a rivedere le foto di Leo e mi dico che a volte qualcosa di buono questa famiglia del cazzo lo sa fare. Eri un bravo micio, ciecato completamente e quando ti abbiamo trovato in mezzo a quella boscaglia era un miracolo se il tuo cuore ancora continuasse a battere. eppure oh possiamo girarci intorno finché vogliamo ma quando dicono che l'amore è prendersi cura hanno ragione. sei arrivato che eri molto più morto che vivo e probabilmente te ne sei andato nello stesso modo, con quella stessa immensa incredibile voglia di rimanere attaccato alla vita. tutto ciò che su sull'amore l'ho imparato dagli animali non dalle persone. e ti giuro che abbiamo fatto davvero tutto il possibile ma a volte non è sufficiente cazzo, non basta, perché a volte i miracoli succedono ma non sono eterni e mi dispiace così tanto.... eri bellissimo anche se eri un gattino disastrato e adoravo giocare con te prima di andare a letto perché volevi saltarmi addosso anche se non ci vedevi un cazzo. eppure tu vedevi molto più di quanto si possa fare, anche se non avevi più gli occhi. un micetto con la 104 ti dicevo sempre.
mi sono sempre ritenuta una persona abituata alla morte.
soprattutto perché quando lavori con gli animali ne vedi tanti andarsene. la loro vita è breve, un soffio e forse tutto ciò che possiamo fare e voler loro bene e fare in modo che questa esistenza gli faccia meno male possibile. e mi fa sorridere questa cosa che non ci vedevi una minchia ma sapevi perfettamente dover'ero sempre, in ogni momento. e che quando mi sentivi rientrare a casa scendevi le scale. a raccontarla così sembra na cosa impossibile ma vi giuro che lui saliva sul divano, scendeva le scale, si arrampicava sul tetto.
e adesso che non ci sei più mi sento un pochino persa. sei solo un gatto sì, però sei uno di quegli animali che ti lasciano qualcosa quando incrociano la tua esistenza.
ah comunque non è vero che sono abituata alla morte, perché a quella non ti abitui mai.
ti porto nel cuore, ovunque io vada.
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Oggi è valsa la pena fare la solita sfacchinata fino in dipartimento anche solo per incontrare prof S., componente della commissione di laurea, che in corridoio mi ha fermato dicendomi: “Mi ricordo perfettamente [credevo di no]. Le faccio ancora tanti complimenti per il lavoro interessante e coraggioso”. Le glorie di quel giorno continuano quindi a riecheggiare in quell’edificio segnato dalla routine, dalle lungaggini burocratiche, dall’inefficienza, dal vomitevole e ingiustificato disinteresse di molti studenti. D’altronde, si è trattato della stessa persona che nel giorno della discussione ha agito da talpa sotto agli occhi di tutti: mentre esponevo o forse a fine esposizione ha contattato in tempo reale relatore (non presente quel giorno) per dirgli che era il lavoro migliore ascoltato tra tutti. Parallelamente, qualche giorno dopo, lo stesso presidente di quella commissione, estraneo a questo primo giro, mi contattava a sua volta meravigliandosi e complimentandosi per il lavoro svolto. Tornando dunque a oggi, dopo il fatidico e insperato incontro di prof S. mi reco alla mia lezione target e quest’altro docente interagisce solo con me perché nessuno gli dà retta; vuoi per noia, vuoi per totale disinteresse, per stanchezza o timore di sbagliare. In ogni caso è una lezione á deux. Sì, vi ho appena parlato di quattro docenti diversi. Sì, studiare e interfacciarmi con l’istituzione accademica rimane la mia unica fonte di vita per il resto martoriata da un corpo che non mi dà mai mai mai tregua. Neanche a fronte di simili gioie. “Quando ti laureerai ti passeranno tutte le malattie”. Di frasi di sorta sono stati autori anche medici, e medici rinomati e preparati. Questa triennale l’ho strappata al destino. Per questo motivo qualsiasi sua rappresentazione fotografica me ne sembra, dopotutto, un volgarissimo svilimento. Niente avrà sufficiente forza espressiva per raccontare quello che c’è stato dietro a questo primo iter di carriera. E non è di certo il traguardo a poter restituirmi la salute. Certo è invece che portarlo avanti, ampliarne le premesse, vivificarlo è una delle poche cose che mi resti cui appigliarmi. Per il resto ho trent’anni, prospettive di vita e salute obbrobriose, non una 104 o una qualsivoglia attestazione di invalidità, non uno sgravo fiscale (dicasi uno). Ho invece un nucleo familiare in bancarotta causa mia madre che sperpera denaro nell’etere, una famiglia che non fa che aggravare ulteriormente le cose da ogni punto di vista, aggiungendo svilimento allo svilimento quando non anche offese esplicite e danni economicamente tangibili (non oso riportare cifre, ma ce ne sono state a cinque zeri molto di recente). Quindi sì, certo, mi esalto per il fatto che la mia laurea susciti ancora commenti e felicitazioni in chi ne sia stato testimone a due settimane dal suo svolgimento. E quindi sì, forse sperimentare solo sciagure senza un barlume di speranza all’orizzonte rende narcisisti, perché l’alternativa è morire. L’importante, a mio avviso, è che l’eventuale narcisismo o simil-tale si espleti dentro al proprio spazio vitale; per il resto, non vedo che disturbo possa arrecare. In giro si vede di tutto. Un povero cristo martirizzato dall’esistenza che si rintana in un cantuccio a contare le sue pur misere e magre soddisfazioni non mi sembra poi un fenomeno degno di stigma sociale.
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"Magnifico "scritto"
"Donne stiamo attente, ci stanno levando tutto! Se ci levano anche la vecchiaia siamo fritte. Voglio restauraurare una parola fuori moda, fuori legge: vecchiaia.
La vecchiaia è un'età anche interessante, la vecchiaia è un'età molto anarchica e romantica. Perché ogni giorno può essere l'ultimo, perché sei in fuga dalla morte e ogni giorno in più dici: tié, ti ho fregato. È un età molto fervida, è un'adolescenza senza domani. E sarebbe un'età interessante se non fosse che poi si muore.
Cioè, io la retorica sulla bellezza della vecchiaia la lascio al mercato che ci adula a noi vecchi per venderci i suoi schifosi prodotti. Mi secca essere vecchia, perché è la porta della morte ed è, e resta, una maledizione biblica. Però non è mai stata così brutta da quando si cerca di nasconderla, da quando non si nomina più, cioè, non è una parolaccia è il nome di una stagione, perché esistono le stagioni e c'è una grande durezza, ma anche una grande dolcezza in questo.
Terza età, anziano, mi fa sentire in fin di vita mentre vecchio ha un bel suono di battaglia, vecchio! La vecchiaia femminile è stata abrogata dal mercato e la donna è stata demonizzata: la donna accetta la farsa della giovinezza obbligatoria, la plastica è il nostro burqua.
Ci fosse il filtro di giovinezza ti credo correrei! Farei qualsiasi bassezza, vorrei avere sedici anni in tutto, specie nella mente, ma anche in corpo, nel fegato... E se non mi sono rifatta non è perché non sono vanitosa, ma è perché sono vanitossissima, di una vanità ributtante, e non voglio aggiungere l'oltraggio del bisturi a quello del tempo. Certo, ci vuole un senso dell'umorismo sempre più spiccato per portare in giro la propria faccia, però mica sei vecchio sempre. La persona libera cambia età molte volte al giorno: siate nonne a quindici anni, fidanzate a ottanta, ma non siate mai quelle che gli altri vogliono.
La donna oggi: in una mano la ramazza nell'altra il biberon nell'altra il computer nell'altra la biancheria sexy nell'altra i vecchi da curare. Ma quante mani ha una donna? E adesso bisogna pure essere fighe fino a ottant'anni. Ma perché? Non facevamo già abbastanza?"
BARBARA ALBERTI
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Molti dei Millennial sono cresciuti sotto l’effetto di strategie fallimentari di educazione famigliare.
Per esempio, è sempre stato detto loro che erano speciali, che potevano avere tutto quello che volevano dalla vita solo perché lo volevano.
Quindi qualcuno ha avuto un posto nella squadra dei pulcini non perché fosse un talento, ma solo perché i genitori hanno insistito con l’allenatore.
Oppure sono entrati in classi avanzate non perché se lo meritassero ma perché i genitori si erano lamentati con la scuola, per non parlare di coloro che hanno passato gli esami non perché se lo meritassero ma perché gli insegnanti erano stanchi di avere rogne dai genitori.
Ad alcuni hanno dato medaglie di partecipazione per essere arrivati ultimi, una bella medaglia affinché nessuno si dispiaccia.
La scienza comportamentale non ha dubbi: è una svalutazione della medaglia e dei riconoscimenti di chi lavora duramente per ottenere un buon risultato, inoltre fa sentire anche in imbarazzo chi arriva ultimo perché, se ha un minimo di dignità, sa che non se l’è davvero meritata quella medaglia.
Così queste persone sono cresciute con l’illusione che, anche senza sforzarsi troppo, è possibile farcela in qualunque settore.
Allora finiscono l’università, magari a pieni voti e pretendono immediatamente che un tappeto rosso si srotoli sotto i loro piedi, invece sono gettati nel mondo reale e in un istante scoprono che non sono per niente speciali voto o non voto, che i genitori non gli possono fare avere un buon posto di lavoro e figuriamoci una promozione, che se arrivi ultimo non ti danno niente, anzi rischi il licenziamento e, guarda un po’, non ottieni qualcosa solo perché semplicemente lo vuoi.
Non voglio fare ironia, credetemi, né tanto meno sorridere, la faccenda è davvero delicata poiché quando questa persona prende coscienza reale dalla situazione in cui si trova è un momento cruciale perché in un attimo, nell’istante preciso in cui concepisce la verità, l’idea che ha di se stessa va letteralmente in frantumi.
È questo anche il momento in cui si attacca alla sua fonte primaria di dopamina: i social network.
Ciò ci porta ad un altro problema : la tecnologia.
I Millennial sono cresciuti in un mondo fatto di Tik Tok, di Instagram ed altri social, dove siamo bravi a mettere filtri alle cose.
In cui siamo un po’ tutti fuoriclasse a mostrare alla gente che la nostra vita è magnifica: tutti in viaggio ad Ibiza, tutti al ristorante stellato, tutti felici e pimpanti anche se invece siamo tristi e depressi.
Ho letto un’interessante ricerca scientifica, che in sintesi dice che ogni qual volta che riceviamo una notifica sullo smartphone, un messaggio o quant’altro, nel nostro cervello viene rilasciata una bella scarica di dopamina (una sostanza che dà piacere).
Ecco perché quando riceviamo un messaggio è una bella sensazione oppure se da qualche ora non si illumina il cellulare, alcuna notifica, né un messaggio, iniziamo a vedere se per caso non è accaduto qualcosa di catastrofico.
Allo stesso modo andiamo tutti in stress se sentiamo il suono di una notifica e passano più di tre minuti senza che riusciamo a vedere di cosa si tratta.
È successo a tutti, ti senti un po’ giù, un po’ solo, e allora mandi messaggi a gente che forse nemmeno sapevi di avere in rubrica.
Perché è una bella sensazione quando ti rispondono, vero?
È per questo che amiamo così tanto i like, i fan, i follower.
Ho conosciuto un ragazzo che aveva sui 15 anni che mi spiegava quanto tra loro si discriminassero le persone in base ai follower su Instagram!
Così se il tuo Instagram cresce poco vai nel panico e ti chiedi: “Cosa è successo, ho fatto qualcosa di sbagliato?
Non piaccio più?”
Pensa che trauma per questi ragazzi quando qualcuno gli toglie l’amicizia o smette di seguirli!
La verità, e questa cosa riguarda tutti noi, è che quando arriva un messaggio/notifica riceviamo una bella botta di dopamina.
Ecco perché, come dicono le statistiche, ognuno di noi consulta più di 200 volte al giorno il proprio cellulare.
La dopamina è la stessa identica sostanza che ci fa stare bene e crea dipendenza quando si fuma, quando si beve o quando si scommette.
Il paradosso è che abbiamo veri limiti di età per fumare, per scommettere e per bere alcolici, ma niente limiti di età per i cellulari che regaliamo a ragazzini di pochi anni di età (già a 7 o 8 anni se non a meno).
È come aprire lo scaffale dei liquori e dire ai nostri figli adolescenti: “Ehi, se ti senti giù per questo tuo essere adolescente, fatti un bel sorso di vodka!
In sostanza, se ci pensate, è proprio questo che succede: un’intera generazione che ha accesso, durante un periodo di alto stress come l’adolescenza, ad un intorpidimento che crea dipendenza da sostanze chimiche attraverso i cellulari.
I cellulari, da cosa utile, diventano facilmente, con i social network, una vera e propria dipendenza, così forte che non riguarda solo i Millennials ma ormai tutti noi.
Quando si è molto giovani l’unica approvazione che serve è quella dei genitori, ma durante l’adolescenza passiamo ad aver bisogno dell’approvazione dei nostri pari.
Molto frustrante per i nostri genitori, molto importante per noi, perché ci permette di acculturarci fuori dal circolo famigliare e in un contesto più ampio.
È un periodo molto stressante e ansioso e dovremmo imparare a fidarci dei nostri amici.
È proprio in questo delicato periodo che alcuni scoprono l’alcol o il fumo o peggio le droghe, e sono queste botte di dopamina che li aiutano ad affrontare lo stress e l’ansia dell’adolescenza.
Purtroppo questo crea un condizionamento nel loro cervello e per il resto della loro vita quando saranno sottoposti a stress, non si rivolgeranno ad una persona, ma alla bottiglia, alla sigaretta o peggio, alle droghe.
Ciò che sta succedendo è che lasciando ai ragazzi, anche più piccoli, accesso incontrollato a smartphone e social network, spacciatori tecnologici di dopamina, il loro cervello rimane condizionato, ed invecchiando troppi di essi non sanno come creare relazioni profonde e significative.
In diverse interviste questi ragazzi hanno apertamente dichiarato che molte delle loro amicizie sono solo superficiali, ammettendo di non fidarsi abbastanza dei loro amici.
Ci si divertono, ma sanno che i loro amici spariranno se arriva qualcosa di meglio.
Per questo non ci sono vere e proprie relazioni profonde poiché queste persone non allenano le capacità necessarie, e ancora peggio, non hanno i meccanismi di difesa dallo stress.
Questo è il problema più grave perché quando nelle loro vite sono sottoposti a stress non si rivolgono a delle persone ma ad un dispositivo.
Ora, attenzione, non voglio minimamente demonizzare né gli smartphone né tantomeno i social network, che ritengo essere una grande opportunità, ma queste cose vanno bilanciate.
D’altro canto un bicchiere di vino non fa male a nessuno, troppo alcol invece sì.
Anche scommettere è divertente, ma scommettere troppo è pericoloso.
Allo stesso modo non c’è niente di male nei social media e nei cellulari, il problema è sempre nello squilibrio.
Cosa vuol dire squilibrio?
Ecco un esempio: se sei a cena con i tuoi amici e stai inviando messaggi a qualcuno, stai controllando le notifiche Instagram, hai un problema, questo è un palese sintomo di una dipendenza, e come tutte le dipendenze col tempo può farti male peggiorare la tua vita.
Il problema è che lotti contro l’impazienza di sapere se là fuori è successo qualcosa e questa cosa ci porta inevitabilmente ad un altro problema.
Siamo cresciuti in un mondo di gratificazioni istantanee.
Vuoi comprare qualcosa?
Vai su Amazon e il giorno dopo arriva.
Vuoi vedere un film?
Ti logghi e lo guardi, non devi aspettare la sera o un giorno preciso.
Tutto ciò che vuoi lo puoi avere subito, ma di certo non puoi avere subito cose come le gratificazioni sul lavoro o la stabilità di una relazione, per queste non c’è una bella App, anche se alcune delle più gettonate te lo fanno pensare!
Sono invece processi lenti, a volte oscuri ed incasinati.
Anche io ho spesso a che fare con questi coetanei idealisti, volenterosi ed intelligenti, magari da poco laureati, sono al lavoro, mi avvicino e chiedo:
“Come va?”
e loro: “Credo che mi licenzierò!”
ed io: “E perché mai?”
e loro: “Non sto lasciando un segno…”
ed io: “Ma sei qui da soli otto mesi!”
È come se fossero ai piedi di una montagna, concentrati così tanto sulla cima da non vedere la montagna stessa!
Quello che questa generazione deve imparare è la pazienza, che le cose che sono davvero importanti come l’amore, la gratificazione sul lavoro, la felicità, le relazioni, la sicurezza in se stessi, per tutte queste cose ci vuole tempo, il percorso completo è arduo e lungo.
Qualche volta devi imparare a chiedere aiuto per poi imparare quelle abilità fondamentali affinché tu possa farcela, altrimenti inevitabilmente cadrai dalla montagna.
Per questo sempre più ragazzi lasciano la scuola o la abbandonano per depressione, oppure, come vedo spesso accadere, si accontenteranno di una mediocre sufficienza.
Come va il tuo lavoro? Abbastanza bene…
Come va con la ragazza? Abbastanza bene.
Ad aggravare tutto questo ci si mette anche l’ambiente, di cui tutti noi ne facciamo parte.
Prendiamo questo gruppo di giovani ragazzi i cui genitori, la tecnologia e l’impazienza li hanno illusi che la vita fosse banalmente semplice e di conseguenza gliel’hanno resa inutilmente difficile!
Prendiamoli e mettiamoli in un ambiente di lavoro nel quale si dà più importanza ai numeri che alle persone, alle performance invece che alle relazioni interpersonali.
Ambienti aziendali che non aiutano questi ragazzi a sviluppare e migliorare la fiducia in se stessi e la capacità di cooperazione, che non li aiuta a superare le sfide.
Un ambiente che non li aiuta neanche a superare il bisogno di gratificazione immediata poiché, spesso, sono proprio i datori di lavoro a volere risultati immediati da chi ha appena iniziato.
Nessuno insegna loro la gioia per la soddisfazione che ottieni quando lavori duramente e non per un mese o due, ma per un lungo periodo di tempo per raggiungere il tuo obiettivo.
Questi ragazzi hanno avuto sfortuna ad avere genitori troppo accondiscendenti, la sfortuna di non capire che c’è il tempo della semina e poi quello del raccolto.
Ragazzi che sono cresciuti con l’aberrazione delle gratificazioni immediate, e quando vanno all’università e si laureano continuano a pensare che tutto gli sia loro dovuto solo perché si sono laureati a pieni voti.
Cosicché quando entrano nel mondo del lavoro dopo poco dobbiamo raccoglierne i cocci.
In tutta questa storia, sono convinto che tutti abbiamo una colpa, ma che soprattutto tutti noi possiamo fare qualcosa di più impegnandoci a capire come aiutare queste persone a costruire oggi la loro sicurezza e le loro abilità sociali, la cui mancanza rende la vita di questi giovani inutilmente infelice e inutilmente complicata.
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Ho perso l’abitudine dello sviscerare quello che sento, quello che vedo, con le parole. Avere dalla mia parte le immagini è un aiuto, ci danzo attorno con qualche lettera in fila per farne una cornice, per guidare lo sguardo, ma nulla di più. Solo che poi finisco per sentire troppo e sento la necessità di decomprimere.
E’ un mondo fatto per due, e questo mi fa paura. Ho imparato così bene a stare da sola da non capire davvero ciò che voglio, sento la necessità di carezze balsamiche fatte col dorso di una mano, di baci dati con la punta delle dita, e mi chiedo: è ciò che voglio o ciò che sento di dover desiderare? Sono così bloccata dall’ansia o semplicemente, in realtà, non è quello che bramo? In questa vita da grandi, le settimane passano svelte svelte, un po’ come quando giro le pagine dell’agenda. Contare i giorni che mancano a qualcosa, tranquillizzarmi sapendo di averne a sufficienza, è una strategia che ho fatto mia quando ancora non sapevo dare un nome alle cose. Ora le cose arrivano semplicemente, e se conto quei giorni non bastano mai, mi sembra di non avere il potere di fermare nulla. Il primo di giugno mi sembra passato da due giorni appena. Continuo a pensare che l’idea di te che mi sono dipinta nella testa sia l’unica opzione di vita felice possibile, l’unico amore (non necessariamente romantico, anche se ho la tendenza a romanticizzare tutto) che potrebbe incastrarsi con me. Ma le idee restano idee e il tempo continua scorrere troppo veloce. Chissà se ci pensi mai, a come sarebbe stato, se.
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"Poi non è che la vita vada come tu te la immagini. Fa la sua strada. E tu la tua. E non sono la stessa strada. Così... lo non è che volevo essere felice, questo no. Volevo... salvarmi, ecco: salvarmi. Ma ho capito tardi da che parte bisognava andare: dalla parte dei desideri. Uno si aspetta che siano altre cose a salvare la gente: il dovere, l'onestà, essere buoni, essere giusti. No. Sono i desideri che salvano. Sono l'unica cosa vera. Tu stai con loro, e ti salverai. Però troppo tardi l'ho capito. Se le dai tempo, alla vita, lei si rigira in un modo strano, inesorabile: e tu ti accorgi che a quel punto non puoi desiderare qualcosa senza farti del male. È lì che salta tutto, non c'è verso di scappare, più ti agiti più si ingarbuglia la rete, più ti ribelli più ti ferisci. Non se ne esce. Quando era troppo tardi, io ho iniziato a desiderare. Con tutta la forza che avevo. Mi sono fatta tanto di quel male che tu non puoi nemmeno immaginare."
[Alessandro Baricco - "Oceano mare "]
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Solo con te io vivo davvero
Ti voglio. Ti penso tutto il giorno. Non riesco più a stare senza di te. Fino a pochi mesi fa ero solo una donna qualsiasi. Un po' spenta, forse anche insignificante: consumata dalla routine casa-lavoro-marito-figlia. E rari doveri coniugali, consumati di solito al sabato sera, solo per far venire veloce Alfredo e poi poter finalmente dormire un po’ di più all'indomani in santa pace.
A questo mondo la mia anima non nutriva più nessuna aspettativa per il futuro; avevo nel cuore soltanto amarezza e poi soffocavo in silenzio i forti rimpianti per la mia gioventù sfiorita, le occasioni non colte, i doni del cielo che ho aspettato, cose per cui ho pregato tanto e che purtroppo non ho mai ricevuto. Negli ultimi anni ho sempre avuto in tutto il mio essere una crescente ma regolarmente frustrata voglia di essere compresa, coccolata. Amata, in definitiva. Era un bisogno assoluto di piacere veramente, brama di tenerezza e di una qualche vera, preziosa intimità. Senza però farmi più illusioni. Figurati: le cose belle succedono solo nei film.
E invece sei arrivato tu, Adelmo: più giovane di me di quindici anni. Solo di qualche anno più grande di mia figlia tredicenne: a casa t'ha portato lei, perché voleva prendere lezioni di piano. E a scuola c'era quel tuo annuncio in bacheca. Il piano gliel'abbiamo comperato subito, sia pur con gran sacrificio; mio marito ha una merceria e io lo aiuto quando posso.
Quindi due volte a settimana - martedì e sabato - mi sono trovata ad aspettare il tuo arrivo di studente universitario squattrinato ma quasi diplomato al conservatorio. Scoprivo progressivamente in me stessa sempre di più una piacevole, malcelata impazienza. Ma tu guarda: alla mia età!
Finita ogni lezione, due chiacchiere cortesi di pochi minuti, che però man mano diventavano sempre più lunghe. Poi ho preso a prepararti il tè, per poterti mangiare con gli occhi e per strappare alla tua vita fuori dalla mia casa un ulteriore quarto d'ora solo per me. Tu eri veramente deliziato; da studente fuori sede, divoravi i miei ciambelloni e gustavi con morsi famelici le crostate.
Bevendo il tè, mi guardavi fissa e io toccavo il cielo con un dito. Sciogliendomi dentro. Ero totalmente istupidita. Vederti lì, vicino a me, mi rimescolava il sangue dentro. Era bellissimo. Anche se non ero capace di ammetterlo neppure con me stessa. Finché un giorno, nel salutarti col solito bacino sulla guancia, ho sentito entrambe le tue mani poggiarsi dietro di me, sul mio vestito leggerissimo e palparmi il culo per bene, a lungo fino ad entrare nel solco!
Non riuscivo a evitare di far battere forte il mio cuore… Imbarazzatissima che ero, ho fatto finta di nulla ma sono avvampata: sentivo di essere rossa in viso come un peperone. Ho solo detto improvvisamente il mio ciao a occhi bassi. Poi t'ho chiuso la porta in faccia e sono scappata in bagno. Stava succedendo e non sapevo che pesci pigliare. Piangevo.
E francamente non capivo bene se era per il rimorso nei confronti di mio marito, per la rabbia di essere stata toccata in modo improprio: “ma come cazzo s'è permesso, ‘sto stronzo di un pivello…” o invece piuttosto per la gioia di essere finalmente considerata sessualmente appetibile da un giovane, stupendo uomo e quindi per il grandissimo desiderio che tu lo rifacessi e osassi molto di più.
Da quel momento non ho fatto che pensarti. T'ho scritto la sera stessa dopo cena, come niente fosse successo, con una scusa scema: chiedendoti qualcosa sui quaderni pentagrammati per gli esercizi di scrittura e su alcune partiture da acquistare. Tu, giovane ma assolutamente non stupido, m'hai risposto dritto dritto con un: "Ti desidero anche io, tantissimo." e quindi…
"Basta adesso, Adelmo! Smettila immediatamente. Potresti essere mio figlio. Finiscila: per me sei solo l'insegnante di piano di Lucia. Oltretutto non sei il mio tipo, sai? (Mi fai morire, quando mi guardi. E poi quel tuo culo sodo! Che voglia di farti un pompino, poi sollevare le tue gambe e leccarti tra le chiappe a lungo!)"
"Mi vuoi anche tu, Adele. Lo so e non negarlo. Non ti sei opposta, quando t'ho massaggiato forte il culo. Non ho potuto proprio farne a meno e non mi scuserò per quello che ho fatto: il tuo profumo m'ha stregato. Ti adoro per come sei. Poi per dirla tutta: ti sei aperta subito, sotto il mio tocco. Il vestitino corto impalpabile che indossavi solo per me m'ha permesso per un secondo di sentirti chiaramente mentre divaricavi le natiche, per meglio godere del mio medio che premeva per entrarti dentro."
"È solo una tua falsa impressione. Non diciamo sciocchezze… non farti illusioni, ragazzino. Hai creduto di sentire qualcosa che invece non c'è stato. E non ti permettere mai più: ringrazia il cielo che come insegnante sei bravo, che Lucia progredisce, altrimenti… (Invece era tutto vero: mi sarei fatta inculare da te seduta stante! E pensare che a mio marito non l'ho mai permesso!)"
"Altrimenti non mi guarderesti come mi guardi: con una palese voglia di mangiarmi; l'ho capito guardandoti fissa negli occhi, sai? So che è così."
"Basta! Vaffanculo: cazzo credi... Ho altro da pensare io. (Oddio: questo ragazzo mi legge l'anima!)"
Per la miseria, se aveva ragione! Ma… allora è sempre così evidente quando una donna è innamorata cotta? La settimana successiva, il pomeriggio del martedì ero vestita, profumata e truccata da vergognarsi. Mia figlia m'ha pure detto: “mammaaa… ma dove cavolo devi andare stasera?” E al solito momento del commiato, approfittando del fatto che Lucia era andata in camera sua per prepararsi a uscire con gli amici, tremante t'ho dato il solito bacetto. Ma tu maledetto m'hai stretta a te, infilandomi una mano sotto la gonna.
Stavolta davanti. Sfrontato e adorabile bastardo: la mano tutta dentro le mutandine. Il medio dritto e senza esitare tutto nella fica… Ho allargato le gambe per soli cinque secondi senza più pudore ormai, per farti fare ciò che volevi. Non ho proprio saputo resistere. Ma poi te l'ho subito tolta via a forza, quella cazzo di mano santa! T'ho buttato fuori casa e dietro alla porta chiusa mi sono morsa le labbra… Messaggi dopo cena:
"È stato decisamente uno sbaglio, fartelo fare. Non si ripeterà più. Adesso chissà cosa penserai di me… Ti prego di credere che io sono una brava donna, timorata di Dio. Devi capire che non si induce in tentazione una tranquilla madre di famiglia. Non farlo mai più. In fondo, so che sei un bravo ragazzo… (Non desistere, ti scongiuro: non vedo l'ora di cedere. Ti voglio da non poterne più!)"
" Ti voglio, Adele..."
"Si, buonasera! Guarda: tu sei solo un ragazzino. Che futuro pensi potrebbe avere una nostra storia, se non la completa rovina della mia famiglia? È questo ciò che ti prefiggi? Per il gusto di una scopata con una vecchia come me? (Si, si: dimmelo, che mi vuoi scopare, sfondare, inculare fino a riempirmi e farmi dire basta… Dimmelo che vuoi sentire le mie labbra ingoiare senza fare un fiato tutto il tuo cazzo… )"
"Macché vecchia: sei la femmina più sensuale, provocante e calda che io conosca. Ti voglio. Dimmi solo quando potremo stare insieme… non mi interessa altro. Non riesco neppure più a studiare. Ti prego: se non altro, fallo… per il mio profitto!"
"Non pensarci più, per favore. Neppure per un istante. (Ti prego: insisti! Mi desideri davvero, mi vuoi: Dio ti ringrazio per questo.)"
"Ti voglio. Ti voglio… come te lo devo dire?"
(Dimmelo di continuo; in due o tre lingue, ti prego!) "Insomma: adesso basta. Non scrivermi più. (Non smettere mai di scrivere che mi desideri, ti prego! Leggo e rileggo di nascosto come una scema. Cerco di capire i significati reconditi di ogni tua sillaba.)"
"Ti voglio da impazzire..."
"Che il Signore mi perdoni: basta! Sabato pomeriggio prossimo, dopo la tua lezione, Lucia alle cinque andrà all'allenamento di basket. Mio marito chiuderà al solito il negozio alle otto e mezza e quindi prima delle nove entrambi non saranno a casa. Lo faremo una volta e poi dimenticheremo tutto, ok? Ti toglierai 'sto sfizio e vedrai che ti passeranno tutti i grilli per la testa, va bene? (Spero invece con tutta la mia anima che sia solo l'inizio di una nostra storia d'amore: impossibile, maledetta e segreta!)"
Da quel giorno, ovviamente, è stata solo una bellissima, irresistibile discesa all'inferno del puro peccato; t'ho concesso tutto il mio corpo. Sei ormai il mio padrone assoluto. Vuoi il mio culo? Te lo do. Vuoi farti succhiare l'uccello? Fino a che non mi dici basta io non smetto. A costo di slogarmi la mascella. Vuoi divorarmi i seni mentre mi fai godere con il cazzo e la tua mano infilati nella passera e nel culo? Fallo quando ti pare.
Vuoi venirmi dentro? A tua completa disposizione. Non esiste droga più forte di qualcuno che desideri il tuo corpo. È la più potente lusinga che ci sia. Iddio sa quanto aspetto soltanto il momento in cui mi rompi il culo, quando il tuo glande si poggia sul mio ano. E come desidero e gusto ogni secondo della tua spinta. Lentissima ma inesorabile e poderosa, ad esplorarmi le viscere!
E infine quanto mi piace sentirti felice mentre sborri liberamente dentro di me, quando gemi e sussurri al mio orecchio truci oscenità. In quei momenti sono solo una puttana. Niente altro desidero. Non so come finirà, ma per ora so che con te io godo, godo, godo e che sono… ringiovanita. Mio marito e mia figlia sono piacevolmente sorpresi, di questa nuova Adele. Jeanne Moreau ha detto che…
“La vecchiaia non protegge dall'amore ma l'amore, in qualche maniera, protegge dalla vecchiaia.”
Posso garantire che è così. Mi vesto solo per eccitarti. Quando mi vuoi, m'invento le scuse più assurde e corro immediatamente da te. Ci vediamo e ci amiamo nei posti più insoliti. Con te ho finalmente riscoperto la vera me stessa e il gusto dell'amore. Quello che ti fa diventare folle.
RDA
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" Il 31 ottobre 1926, durante una grande adunata fascista a Bologna, un colpo di pistola viene sparato contro il ‘Duce’. Chi ha sparato? Il fatto è ancora avvolto nel più grande mistero. Un ragazzo di 16 anni, tale Zamboni, ex fascista, viene conclamato autore del gesto e trucidato sul posto, sotto gli stessi occhi del ‘Duce’. È l’uragano che, stavolta, sconvolge tutta l’Italia. Gli oppositori più in vista sono obbligati a sottrarsi alla furia e le loro case vengono saccheggiate. I giornali avversi al regime sono distrutti. Dovunque, sono giornate di terrore. Quel giorno, io ero a Cagliari, a casa mia. Verso le nove di sera, un amico, trafelato, venne ad avvisarmi che i fascisti suonavano l’adunata di guerra. Io uscii con lui per vedere di che si trattava. Sulla porta di strada, un altro amico mi riferì la notizia che era arrivata ai fascisti ed alla prefettura la notizia dell‘attentato al ’Duce’. «Ho potuto segretamente avere copia del telegramma. Qui, tutti i fascisti sono stati convocati d‘urgenza per le rappresaglie. La tua casa e la tua vita sono in pericolo. Abbandona la città o nasconditi in una casa sicura.» Mentre parlava, arrivavano da più parti gli squilli di tromba con cui, nei differenti rioni, gli squadristi suonavano l’adunata. Salii in casa, licenziai la donna di servizio. Non dovevo pensare che a me stesso. Ridiscesi. Altri amici in piazza erano corsi ad informarsi: i fascisti si adunavano nella loro sede centrale; le automobili erano in movimento per il trasporto più rapido, grida di morte si udivano qua e là contro di me. Andai a pranzare in un ristorante, a pochi metri da casa.
Mentre pranzavo, mi giungevano via via le notizie: i teatri, i cinema, i pubblici ritrovi erano stati fatti chiudere tutti; le squadre fasciste circolavano armate; alla sede del fascio organizzavano la spedizione punitiva contro di me; i capi esaltavano i gregari con discorsi incendiari; io ero la vittima designata; fra mezz‘ora sarebbe cominciata l’azione. Il cameriere, che mi serviva, era stato alle mie dipendenze durante la guerra. Era diventato fascista in seguito, ma non poteva dimenticare un certo rispetto per il suo antico ufficiale. Era molto imbarazzato quella sera, e non osava parlarmi. Tentò più volte, ma io non lo incoraggiai. Finalmente mi disse: «Signor capitano, io so quali ordini ci sono. La scongiuro, non ritorni a casa: parta subito. Si tratterà solo di qualche giorno. Poi vedrà che tutto diventerà normale». «Credi tu» gli chiesi «che io abbia ragione o torto?» «Lei ha ragione» mi rispose arrossendo e prendendo macchinalmente la posizione militare d’attenti. «E allora, perché dovrei fuggire?» La mia domanda lo imbarazzò ancor di più. Non aggiunse parola. Andando via, gli chiesi: «Perché sei diventato fascista?» «I tempi sono difficili. Mi hanno promesso tante cose… Chi può vivere contro i fasci?» "
Emilio Lussu, Marcia su Roma e dintorni, introduzione di Giovanni De Luna, Einaudi (collana ET Scrittori n° 1037), 2008⁴, pp. 168-170.
NOTA: Questo memoriale antifascista fu pubblicato dall'autore in esilio a Parigi dapprima nel 1931 per un pubblico internazionale, quindi nel 1933 in lingua italiana (col significativo sottotitolo Fascismo visto da vicino) dalla casa editrice parigina "Critica". Il libro fu edito in Italia già nel 1945 dall'editore Einaudi nella Collana "Saggi".'
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IL MIO DIFFICILE RAPPORTO CON LA TAC
Domani devo fare una TAC con mezzo di contrasto per il solito motivo: il simpatico Linfoma Non Hodgkin che ha deciso di entrare nella mia vita. E ho rispettato una tradizione. Ogni volta che devo svolgere questo esame, il mio coefficiente di imbecillità supera il livello di guardia.
L'altra volta ho dimenticato la borsa con i documenti sanitari alla fermata dell'autobus, ma il destino è stato misericordioso perché poi l'ho ritrovata. Stavolta ho fatto un'altra boiata, per fortuna senza conseguenze.
Ma andiamo con ordine.
Alcune settimane fa ho avuto la visita oncoematologica e mi hanno prescritto un'immensa quantità di esami, tra cui questa TAC.
Purtroppo i medici non me l'hanno prenotata nell'ospedale che mi ha preso in carico. Hanno detto: "Eh, a differenza di un esame tipicamente rivolto ai pazienti oncologici come la PET, la TAC non possiamo prenotarla noi, perché riguarda una platea molto più vasta. Devi pensarci da solo". Mi aspettavo che aggiungessero: "Niente di personale, amico". Ma so bene che non è colpa dei medici. La colpa è del sistema.
Insomma: l'ospedale mi ha preso in carico, ma non per la TAC. E sapete come funziona? Quando prenoti tu un esame con la ricetta, molte cose possono andare storte. Diventa un'avventura, un'impresa, qualcosa di rocambolesco. La tua missione è chiara: ottenere una data col Sistema Sanitario Nazionale in tempi possibilmente inferiori a un'era geologica.
Abito in provincia di Milano, ma ho fatto una ricerca estesa a tutta la Lombardia, perché ovviamente a Milano e provincia non c'era nulla. E mi è capitato un incredibile colpo di fortuna. Una data fantastica: 20 agosto in provincia di Bergamo, a mezz'ora di auto da casa mia. Forse si è trattato di una congiunzione astrale. Forse si è liberato un posto per una disdetta.
E veniamo alla boiata.
L'altra volta, prima della TAC, avevo fatto le analisi del sangue per misurare il livello di creatinina. Senza il valore della creatinina, ti rimandano indietro.
Questa incombenza è sempre indicata nei fogli riguardanti la preparazione in vista della TAC.
Stavolta li ho letti? Ma certo che no. Il motivo: "Li leggo il giorno prima, tanto sono le solite cose: stare a digiuno, eccetera".
Stamattina mi sono detto: "Tanto per scrupolo, controlliamo un po' quei fogli". E la terribile verità si è manifestata.
Leggerissimo attacco di disperazione: "Vuoi vedere che mi sono giocato qualcosa che somiglia alla vittoria della lotteria?".
A parte quel mirabile 20 agosto, ricordo date improponibili in province lontanissime. Qualcosa tipo: gennaio 2025.
In teoria, nel caso di date assurde, la TAC si può fare privatamente e chiedere un rimborso. Almeno credo. Ma questo significa altre menate, altri fastidi, altra burocrazia. Niente è paragonabile alla possibilità di risolvere tutto in 24 ore presentandosi a un appuntamento già fissato.
Beffa del destino: l'esame della creatinina è nell'elenco dei mille esami ematochimici raccomandati per il giorno prima della prossima visita ematologica. Forse l'esame è uscito dalla mia mente per questo. Nel mio cervello era programmato per il 28 agosto.
Ero sull'orlo delle lacrime.
Poi mi è venuta in mente un'opzione che in un primo momento avevo escluso.
Mi sono messo a riflettere: "Ho dormito poco questa notte, ma non ho mangiato nulla. Nemmeno un tozzo di pane o un cracker".
A volte in casa ci sono schifezze che sgranocchio di notte per l'ansia. È un'abitudine poco salutare, non prendete esempio da me.
Stavolta no. Armadio della cucina privo di snack. Frigo vuoto. Stomaco vuoto.
Sapete cosa significa?
Ho capito di poter fare l'esame della creatinina oggi.
Dubbio: "Ma otterrò il risultato in tempo?".
Mentre ci pensavo, sono uscito di casa. Non avevo alternative.
Ho fatto una corsa a perdifiato verso il laboratorio di analisi più vicino, perché non ho la macchina.
C'è un laboratorio nel paese in cui abito.
Altro dubbio: "Ma sarà aperto?".
Sono giunto a destinazione e ho scoperto che ha riaperto proprio oggi, dopo la chiusura estiva. Un po' di fortuna ogni tanto ci vuole.
Ho fatto la fila e ho spiegato la situazione.
La signora dell'accettazione è stata gentilissima: "Lei è ancora in tempo: ho prescritto l'urgenza. Risultati entro oggi". Io mi sono esibito in ringraziamenti sperticati e iperbolici: "Mi avete salvato la vita!". E la signora dell'accettazione: "Che bello, ogni tanto salviamo vite".
Quindi alla fine è andato tutto bene. Ho fatto l'esame della creatinina. Ho già avuto il risultato. Domani potrò fare la TAC.
E ora stiamo a vedere.
[L'Ideota]
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