#mi sto provando mille cose da giorni ma non mi piace nulla e mi sento a disagio e vorrei solo mettermi un maglione gigante e amen
Explore tagged Tumblr posts
themhac · 2 years ago
Text
è la fiera delle banalità lo so ma che festa horror è capodanno
4 notes · View notes
ginevra40002004 · 5 years ago
Text
Dal mio diario 30 settembre 2019
Sono tornata a fare delle cose sbagliate e so che non riuscirò mai a far capire alle persone perché sto facendo tutto questo . Le mie amiche sono incazzate , uguale i miei genitori , non riescono più a gestire questa situazione , a stare dietro la mia testa marcia ma io non ho mai chiesto loro di farlo perché nemmeno io riesco a correrle dietro. La mia mente è avanti anni luce . Ha la capacità di pensare al cubo , di portarmi in altri mondi e di oltrepassare qualsiasi tipo di conversazione e limite umano. È anche per questo che non riesco piú a seguire bene dialoghi , guardare i film e vivere in mezzo agli altri -oltre alla malnutrizione , ovviamente- Non lascia scanso a niente e nessuno , nemmeno a me. Venerdì alla manifestazione sono svenuta e dirlo non mi fa nessun effetto perché non riesco a preoccuparmi per me stessa come mi preoccupo ogni giorno per gli altri. Dare tutto l’amore che posso , sforzarmi , farmi in mille pezzettini per le persone a cui voglio bene mi sembra lecito ed è l’unica cosa che mi ha sempre resa viva anche prima di tutto questo , quando ero una specie di animale fuori controllo. Loro non meritano male , devono avere tutto quello che io posso dargli , io il dolore lo posso sopportare, loro no. Ho passato tutta la giornata con A , è stato bellissimo ma sono arrivata all’una che mi accasciavo sul pavimento di Galleria Umberto per i morsi della fame. Sentivo lo stomaco letteralmente disintegrarsi , lo mantenevo come se servisse a qualcosa. A voleva costringermi a mangiare e ci stavo pensando a farlo , come tutte le persone normali , eppure quella maledetta voce che sento sempre mi gridava senza pietá : “Vuoi davvero illuderti che un ragazzo sia interessato a te ? Alla tua salute? Ma chi se lo prende un guaio come te? Non ti illudere.” Lei é l’unica a cui poter dare ascolto , così spietata che non lascia spazio a niente. La mia psicologa dice che posso controllare i miei pensieri e anche questa voce così cattiva con tanto lavoro ma io sto iniziando a perdere le speranze, non ci credo più. Il giorno dopo sono andata a dormire a casa di Orsola , eppure ho passato la prima ora in totale loop. Eravamo nella sua vecchia casa per prendere delle cose e portarle in quella nuova e io non riuscivo a fermare quella cascata di pensieri che mi invadevano il cervello. Lei mi parlava ma io non riuscivo ad ascoltarla per davvero. Mi sentivo ingombrante, camminavo senza sfiorare nulla , l’angoscia e la paura mi stavano assalendo. È possibile che io non riesca più a godermi nemmeno un week-end con la mia migliore amica ? Mia mamma aveva raccomandato alla mamma di Orsola che mangiassi perlomeno quello che mi ero portata da casa. Perché si , io non mangio più fuori . Se sentissi l’olio come condimento potrei morire sul colpo. Quando i miei amici al Vomero si misero la bustina di zucchero sulla lingua e dopo bevvero la Coca Cola mi misi a piangere. Io riuscivo a sentire lo zucchero dentro me insieme al grasso che aumentava. Se ne sono accorti tutti che soffro di disturbi alimentari , anche il compagno della madre di Orsola ha fatto dei commenti sull’anoressia e sui minuscoli pezzettini che provavo a mettere in bocca. Ho rifiutato tutto e come se non bastasse non ho resistito alla tentazione di vomitare. Sono più tipa che resiste alla fame , non mi abbuffo per poi vomitare ma quando mi costringono a mangiare quella é l’unica soluzione per non digerire il cibo. Qualcosa però stavolta è andato storto. Nel water ho visto del sangue. Ho avvisato Orsola e ci siamo accorte del fatto che mi fossi tagliata l’ugola , avevo una specie di taglio insanguinato che non ha mai smesso di farmi male. Ho cercato di distrarmi e abbiamo guardato le Winx insieme e ... signori miei sono stata capace di paragonare le mie gambe a quelle di fate in un cartone animato. Le osservavo , le paragonavo e cercavo di capire quale tra di loro avesse le gambe più magre e commentavo anche. Orsola non mi criticava ma evinceva nel suo sguardo una specie di tristezza mista a preoccupazione. Per me non esistono più persone ma solo corpi a cui paragonarmi , tutti i giorni , ovunque. Anna odia quando lo faccio , mi sopporta dall’inizio , è stata con me nel bene e nel male. Nel libro di Valentina Dallari ho visto me e lei in una scena. Stavo andando a casa di Chiara , avevo una gonna gialla e la maglia dei Rolling Stones , sua mamma aveva insistito per venirmi a prendere e non lasciarmi camminare. Quando sono entrata in macchina Anna stava lacrimando e mi guardava . La madre mi disse “stai diventando invisibile” e Anna che provava a spiegarmi che avevo le gambe piccolissime e io che me ne vergognavo in realtà perché troppo grasse. Io , Orsola , il nostro gruppo di amici maschi ed Anna siamo usciti ad Aversa. Ho saltato 3 pasti, ho fatto 10 chilometri e sono per l’ennesima volta arrivata a casa con i morsi di fame che mi piegavo ma non ho accettato nulla che Orsola volesse volesse offrirmi . Ho messo il pigiama che mi cadeva da dosso come il jeans che avevo messo per uscire ma stavolta non potevo fare buchi nelle cinture. Non ho resistito a fare foto e video al mio corpo , al pigiama e quando le ho viste mi sono tranquillizzata ma sorpresa. Non mi vedo mai come sono allo specchio , mi odio , mi faccio schifo , mi picchio e mi tiro il grasso da dosso ogni volta. A luglio la mia psicologa ha pensato di mandarmi da uno psichiatra perché l’immagine che avevo di me stessa e addirittura degli altri era completamente distorta e io mettevo delle barriere , passavamo le ore che potevo sfruttare per fare terapia a litigare. Nelle foto c’erano le ossa , le costole fino a sotto l’ascella , si vedeva tutta la gabbia toracica e i fianchi da fuori . La pancia era talmente piatta che risultava ridicola tra le costole e i fianchi. Beatrice ed arrabbiata , ha paura che io possa morire , dice che devo andare in ospedale ma io non voglio. “Ginevra sai una cosa? Ho sempre pensato che fossi pazza, stravagante, ma ti posso dire che eri normalissima. Tu sei pazza adesso” mi ha detto e ha continuato : “Complimenti, perché ti piace la versione peggiore di te che potevi scoprire, io so solo che ti rivoglio com’eri” non capendo che io com’ero prima non ci voglio tornare mai più. Stavo malissimo comunque , in famiglia ero la pecora nera , combinavo guai minuto per minuto , mi sentivo in gabbia , non riuscivo a piangere , sfogarmi , sentivo solo rabbia e le persone hanno fatto qualsiasi cosa in loro poter per contribuire a questa merda. Lei lo sa quante volte non venivo capita , quante altre tornavo a casa che avevo appena finito di picchiarmi e soprattutto , tutto quello che ho vissuto in quella maledetta e schifosa scuola. È una versione di me che non voglio più rivedere. Non che questa sia il massimo ma almeno riesco a pensare ... beh , forse troppo . Anzi , sicuramente. Andavo avanti solo pensando ai miei sogni e lottando per i miei ideali : diventare un hippie , andare sul Machu Picchu come scalatrice , aiutare le persone , andarmene via da questa realtà che mi stava troppo stretta , incontrare Camila , il mio idolo , realizzarmi e vivere libera. Sono sempre stata piena di sogni , mi è sempre piaciuto scatenare rivoluzioni , fare la differenza e mettermi dalla parte dei deboli ma ho sbagliato il luogo , il momento. Ho sbagliato e basta. Christian, il mio migliore amico , (almeno così dovrebbe essere) mi ha detto che gli faccio impressione , che non mi riesce a guardare così e che una persona così speciale e piena di luce non può spegnersi così. In metro mi abbracciava per non farmi cadere dato che non tocco le sbarre per paura dei germi e mi teneva stretta , non si staccava , mi ha detto che a un certo punto non ha sentito più il peso e che c’ero fisicamente ma che lui non mi sentiva e mi ha fatto pensare tanto . Il mio scopo é sempre stato quello di scomparire , di diventare meno ingombrante , meno esposta ma in questo modo sono ancora più presente. È un controsenso che spaventa. Più scompaio e più si rendono conto di me. Ho pregato per l’ennesima volta Dio di far si che sopravvivessi alla notte. Mi interessa davvero vivere? Se devo morire almeno non farmelo sentire per favore , il dolore che sto provando è fin troppo. Cercavo di parlare con lui e non con la vocina che al buio si faceva ancora di più sentire . Perché io non mi vedo così ossuta? Cosa ho fatto di male per non riuscire a vivere come tutti gli altri? Perché sto così tanto male ? Come sono arrivata a tutto questo? Mi sono ricordata di tutto quello ho passato , di quelle maledette foto inviate , di Salvatore e l’abuso , della famiglia che mi ha perseguitato , della mia povera nonnina , alla quale non sto più pensando per bene perché troppo attenta a queste cose , a quando camminavo per strada ed ero costretta a difendermi perché subivo molestie . Ho pensato a quando mi stavano per spingere giù dal terrazzo , alla professoressa Silvestri che mi denigrava e io che lanciavo i banchi , i ragazzi che mi mandavano letteralmente fuori controllo e io ... stavo peggio di ora e mi vergogno di aver vissuto quegli anni in quella maniera. Non piangevo mai , ero solo un personaggio , non più Ginevra. Perché mi sono esposta così tanto? Perché le persone sono state così cattive con me? Mi odio per ogni maledetta cosa. La mia vita è stata un caos per anni e adesso mi illudo di poterla riordinare portando nello zaino 5 amuchine , contando le calorie , controllando la fame e imponendomi le cose. Stavo male anche prima. Ho pochi ricordi felici. Io con i miei demoni ci parlo , ci gioco , o per meglio dire , loro giocano con me , mi torturano. Passo più tempo nella mia testa che nella vita reale . La parte più macabra , cattiva e masochista di me mi sta divorando. Questa malattia mi sta divorando. Credevo di avere un controllo allucinante, forza di volontà ma sono solo diventata una schiava. Christian mi ha detto che lo rendo felice . Io posso davvero rendere felice qualcuno? La mamma di Orsola quando mi sono svegliata mi ha detto che faccio impressione e che si era già accorta del fatto che stessi avendo dei problemi . Mi ha detto che ho le braccia di una bambina di 10 anni e io stentavo a crederci. Mi ha detto anche che le mie gambe sono come quelle delle Bratz , che si vede tanto e non poco. Le ho detto che non era vero e mi ha detto di misurarmi per rendermi conto di come sono davvero. Mi sono fatta venire a prendere prima da mia madre perché non avrei mai accettato di pranzare qualcosa cucinato da altri , come ho già detto , per me il condimento dei piatti è un terrore. La mamma di Orsola ha poi dovuto riferire a mamma della situazione e ovviamente è andato tutto a farsi fottere. Tra poco i miei avranno la restituzione con la terapeuta e non so cosa ne uscirà da tutto ciò. A pranzo mia madre mi ha costretta a mangiare dopo il digiuno per 1 giorno e mezzo e non so perché ma i progressi che avevo fatto anche sull’iper-attività si sono messi da parte per dare spazio a 100 addominali , 100 squat , mountain climbers , corsa . Mi girava la testa e credo di essere svenuta o non so cosa , so solo che mi sono svegliata sudata nonostante facesse fresco direttamente alle 5 e 55 sul pavimento. Ho pianto mentre lo facevo , volevo fermarmi ma quella maledetta voce mi diceva di alzare il culo. Mi odio così tanto che faccio gli addominali a terra per sentire la spina dorsale che si illividisce gradualmente. Valentina ha usato il verbo giusto per definirlo “tenere dentro” . Sentivo il cibo dentro , che scendeva e volevo liberarmene , non volevo contenerlo. È per questo che dopo ogni pasto ho le crisi , è tutto metaforico , relativamente fisico ma prevalentemente psicologico. Non riesco ad accettare di nutrirmi perché voglio lasciare che una parte di me che è andata via nessuno e niente possa riempirla. Non voglio “tenere dentro” il cibo perché ho tenuto dentro le lacrime e la vera me per anni. Ho represso paure , debolezze , pianti e mi sono rovinata. Sento l’olio scorrermi la schiena. Non riesco nemmeno a godermi le attenzioni di un ragazzo . Ho paura di amare. Ho paura di essere amata. Non riesco più a lasciarmi andare , a fidarmi di qualcuno. Ho solo 15 anni e sento uno di quei dolori inspiegabili . Mi sento una vecchia. A mi sta abbracciando , chissà a cosa pensa. È arrivata anche Anna . Chissà come vede le mie gambe. Ecco testa mia , stai di nuovo viaggiando. Ti prego almeno stamattina risparmiami.
2 notes · View notes
giancarlonicoli · 5 years ago
Link
22 SET 2019 14:02
UNO, DIECI, MILLE VERDONE - IL RAPPORTO CON IL PADRE, IL CEFFONE PRESO A PRAGA, LA SOLITUDINE DI ALBERTO SORDI, IL RITIRO DALLE SCENE (“NON VOGLIO CHE SIA IL PUBBLICO A DIRMI BASTA”) E LE SOFFERENZE D’AMORE: “LIVIA AZZARITI NON MI SI FILAVA DI PEZZA, MA DA RAGAZZA ERA DI UNA BELLEZZA SCONVOLGENTE. UNA SERA LA PORTAI AL CIRCO. PARTIMMO MALE. MI CHIESE: “PERCHÉ SIAMO VENUTI AL CIRCO?”. RISPOSI MINIMIZZANDO: “NON È DIVERTENTE?”, E LEI SECCA: “NON MI PARE”. PERSO PER PERSO TENTAI DI STRINGERLA E…”
-
Malcom Pagani per Vanity Fair
Forse non lo sai ma pure questo è amore: «Ho 14 anni e sono invitato a una festa in un quartiere popolare di Roma. Dopo aver ascoltato i Beatles, Celentano e i primi Rolling Stones, nell’appartamento di Valle Aurelia è l’ora dei lenti: sto ballando con una ragazza che mi piace molto e tutt’a un tratto qualcuno spegne la luce. Lei mi dà un bacio in bocca. È la mia prima volta. “Dammene un altro”, le dico. “Dammelo te stavolta”, risponde. Eseguo timidamente e lei si ritrae: “O me lo dai bene o non me lo dai per niente”.
Ubbidisco e in quel momento scopro l’eros, il sesso e tutto un mondo meraviglioso. Prima di andarmene le chiedo il numero di telefono, lei me lo nega: “Ci dobbiamo fermare a questi baci, siamo troppo giovani”».
Carlo Verdone sostiene di avere un’ottima memoria selettiva: «Sono fortunato, ho rimosso le cose brutte, ma non ho dimenticato nulla delle belle», e un rapporto quasi olfattivo con la nostalgia: «Ogni tanto sento un odore e mi riappare il passato. Il profumo dei nostri armadi, quello della casa che mia madre faceva riverniciare durante l’estate o l’altro, inconfondibile, dei libri di mio padre». Mario, il professor Verdone: «L’uomo grazie al quale ho visto e conosciuto ambiti davanti ai quali da solo non sarei mai arrivato. Papà mi diceva sempre: “Mettici la poesia, Carlo. Mettici un po’ di poesia”».
Cosa intendeva?
«Che la commedia, senza la poesia, non vale niente. “Ridere non basta”, diceva».
Aveva ragione?
«Completamente. La poesia è l’anima della commedia, anche e soprattutto quando restituisce alla commedia un sapore malinconico».
La solitudine, l’amore non corrisposto, le città deserte d’estate, l’incomunicabilità. Nei suoi film, fin dagli esordi, al sorriso si accompagna la malinconia.
«Perché la malinconia è un mio tratto caratteriale e, come la memoria, può essere una carezza dolcissima. Quando sono da solo, magari in Sabina, circondato dal silenzio, dai libri e dalla tranquillità, nel ricordo scorre un film meraviglioso».
1977, Teatro Alberichino, al suo esordio dopo gli anni dei teatrini off, lei va in scena per un solo spettatore.
«Il critico Franco Cordelli. Non sapevo chi fosse, ma un paio di giorni dopo uscì sul giornale un articolo entusiasta. Iniziò tutto lì. Lo spettacolo non avrebbe dovuto neanche prendere il via. Mancava il denaro e io mi ero indebitato per 200.000 lire, tanti tanti soldi, una cifra enorme».
Come mai?
«Daniele Formica, il mio compagno d’avventura, avrebbe dovuto dividere i costi con me, ma si tirò indietro a pochi giorni dal debutto. Anni dopo venne a chiedermi scusa sul set di Bianco, rosso e Verdone. Non ce n’era bisogno. “Non preoccuparti”, gli dissi, “sono decisioni che si prendono in un istante”. Ho sempre considerato il rancore il più inutile dei sentimenti».
Chi la convinse a recitare comunque in Tali e quali?
«Mia madre: “Se non sali sul palco ti prendo a calci in culo”, sibilò. Per quel che riguarda il mio lavoro, nel trovare il coraggio di fare scelte importanti, devo tutto a lei. La persona più importante della mia vita. Una donna che aveva tante fragilità e debolezze, ma sapeva anche essere forte e aveva intuito che possedevo un talento. Con affetto, baci, ironia e qualche invito secco mi incoraggiava ad andare avanti e mi diceva implicitamente “dai che ce la fai”.
Mamma possedeva un’arte affabulatoria ed era molto creativa. Andavamo insieme al cimitero, e camminando per i viali mi raccontava ogni cosa delle donne e delle famiglie che lì erano ospitate. La accompagnavo a pagare i conti dal fornaio, dal panettiere, dal lattaio e lei, che era anche una formidabile osservatrice, posava sempre lo sguardo su qualcuno: “Carlo, guarda che faccia buffa che ha quello”, e io guardavo. Se sono stato un pedinatore di italiani restituendone tic, nevrosi e manie, la prima pedinatrice in famiglia è stata sicuramente lei».
Suo padre invece?
«Mio padre è stato una figura importante, mi ha donato lo stupore, mi ha fatto viaggiare, mi ha insegnato tanto. Prendeva me e mio fratello e ci portava all’Accademia d’arte: “Adesso vi spiego cos’è un quadro astratto”. E lo faceva davvero. Ci ha fornito strumenti fondamentali, ma ci ha anche portato allo stadio e a giocare a pallone al Circo Massimo sotto il sole cocente. Era un padre vero, nostro padre».
Un padre severo?
«Giusto. È vero che all’università mi bocciò in Storia del cinema, che io gli avevo chiesto di interrogarmi su Fellini e che lui mi chiese di Dreyer e Pabst, ma è pur vero che io di Pabst non sapevo nulla e che in aula la gente aveva cominciato a mormorare severa: “È parente, è parente, è uno schifo, è uno schifo”. Il clima era, per così dire, viziato (Ride). Tornai a casa e gli dissi “Papà, mi hai fatto fare una figura di merda”, e lui, senza emozione: “Carlo, abbi pazienza, non volevo si pensasse a un trattamento di favore”.
Una volta andammo in viaggio a Praga. Lui non aveva la tessera del Pci, ma era uno studioso molto apprezzato per il suo rigore, amava il cinema bulgaro, quello cecoslovacco e russo e con quel mondo aveva ottimi rapporti. Finito il viaggio, vidi una fila di bandierine sul cornicione dell’albergo e decisi di rubarne una. La misi in valigia, scesi nella hall e venni fermato da un agente in borghese. “Open the baggage”, mi disse con tono metallico. Aprii il bagaglio e spuntò la bandierina. Avrei potuto passare un guaio serio, ma intervenne papà».
Mise una buona parola?
«“Sei stato uno stronzo”, disse alzando la voce, “sali e rimettila immediatamente al suo posto”. Poi mi tirò uno schiaffone mostruoso. Sentivo che stava esagerando per aumentare la drammaticità, che si incazzava platealmente per far capire all’altro che era indignato. Il rumore dello schiaffo me lo ricordo ancora. Così bene che misi la scena anche ne Il mio miglior nemico, circa trent’anni dopo».
E l’Alberichino, quella foto sgranata di quarantadue anni fa, se la ricorda?
«Mi ricordo le cantine umide di piazza Cavour all’alba degli anni ’70, i Bergman portati in scena con il vapore che usciva dalla bocca per l’umidità e il freddo, i chiodi arrugginiti finiti dentro i piedi durante la recita senza potersi fermare, le tasche vuote e i tranci di pizza freddi mangiati appoggiando la Lambretta accanto a qualche trattoria a buon mercato. Naturalmente ricordo anche l’Alberichino. A volte mi sembra incredibile. E mi chiedo: Ma chi resiste per 42 anni? Chi riesce a lavorare per quattro decenni di seguito provando sempre a reinventarsi senza cadere?».
Si è rivelato il segreto?
«Semplice. Non mi sono mai sentito arrivato. Ho sempre visto i miei film come esami da affrontare e superare volta per volta. È stato faticoso. Logorante. La tentazione di dire “ma io cosa devo ancora dimostrare?” era forte».
E come l’ha allontanata?
«Capendo che era proprio così: devi sempre dimostrare qualcosa. Vai avanti con l’età e la tua maschera muta esattamente come cambia tutto intorno a te. Non sono più quello di Borotalco o di Bianco, rosso e Verdone, mi sono dovuto adattare alle epoche anch’io».
Ha mai temuto di non farcela?
«Ogni santa volta. Negli ultimi otto anni, poi, mi è venuta proprio una gran paura. Mi sussurravo sempre: “Forse questa volta non ce la faccio”, “Forse questa volta il film lo sbaglio”».
Il pubblico l’ha rassicurata con i risultati.
«Credo mi abbiano visto come uno della porta accanto. Una persona capace di raccontare le emozioni che provavano anche loro. Tante cose del successo rimangono oscure a partire proprio dal meccanismo che si instaura tra te e il pubblico, però c’è una cosa che tiene in piedi tutto».
Cosa?
«Chi ti osserva deve vedere oltre l’attore. Sentire che ha di fronte a sé una persona sincera, onesta e magari, anche se dirlo suona un po’ anacronistico, umile. Non ho mai osato sostenere di essere l’erede di Alberto Sordi per esempio, non mi sarebbe mai venuto in mente».
Lo disse lui.
«Lo disse a me, che resterò sempre uno spettatore incantato dalla sua arte. Sordi era un attore fantastico. Addirittura superbo nei film in bianco e nero, quelli che amo di più».
Cosa gli invidia?
«L’aver attraversato tanti decenni veramente importanti dal punto di vista storico: la guerra, il dopoguerra, il boom economico, le tensioni sociali degli anni ’70».
Lei ha iniziato in un altro quadro.
«Mi sono trovato davanti alla crisi della coppia, al crollo della famiglia, alla donna che prende il potere nel sodalizio e costringe il maschio definitivamente in un angolo. Il mio non era più il cinema dei seduttori alla Gassman o alla Tognazzi, ma quello degli uomini sconfitti che hanno di fronte una donna che non capiscono più. Noi siamo diventati adulti con un dramma, con un trauma»
Quale trauma?
«Il femminismo è stato una scossa che ci ha destabilizzato. Ha stravolto i ruoli. Ecco perché poi siamo stati gli impacciati. Non era un’interpretazione, né una scelta: era la realtà. Ci sentivamo veramente così: goffi, sorpresi, detronizzati».
Sordi sullo schermo non era certamente percepito come tale. Lei gli offrì in Troppo forte uno dei suoi ultimi ruoli felici: un avvocato dal nome farsesco, Pignacorelli in Selci, che difende il protagonista coatto del film e poi improvvisamente perde il senno e lo manda in malora.
«Anche se forse Sordi sulla parte aveva calcato troppo la mano esagerandone il carattere. Provai in tutti i modi a farglielo capire, ma non ci fu verso. Allora chiesi aiuto a Sergio Leone, il produttore di quel film e di Un sacco bello, il mio esordio cinematografico. “Guarda il materiale Sergio, poi dimmi che ne pensi. A me sembra troppo macchiettistico, deve far ridere sì, ma non in quella maniera”. Sergio vide il girato, disse: “Così non va, sta a ffà Oliver Hardy”, e poi assicurò: “Ce penso io, nun te preoccupà”. La mattina dopo prese da parte Alberto e Sordi apparentemente gli diede retta: “Hai ragione, va bene, cambio impostazione”».
E la cambiò?
«Neanche per sogno, anzi accentuò il carattere che gli aveva dato. A quel punto cedemmo. Sordi era comunque Sordi».
Negli ultimi anni il grande Sordi recita in film che non sono all’altezza della sua parabola. Come mai secondo lei?
«Non aveva una moglie, non aveva un’amante, aveva qualche amico sì, ma non poi così stretto. Non aveva altro, Sordi: soltanto il suo lavoro e il suo pubblico, cosa altro avrebbe potuto fare Alberto? Stare in casa e fare una vita da monaco? No, era chiaro che sarebbe morto facendo film fino alla fine dei suoi giorni. Non poteva pensare minimamente di fermarsi. Ci sono persone che hanno passioni tra le più diverse: a chi piace scrivere, a chi pitturare, a chi andare in barca, in campagna o sulle vette. Lui no. Sordi ha vissuto per la gente e per se stesso».
Quante persone del mondo del cinema ha conosciuto con una propria interiorità capace di bastare a se stessa?
«Poche, per non dire pochissime. Mi viene in mente un amico di mio padre, Manoel De Oliveira, ma parliamo di un regista coltissimo che ha girato fino a cent’anni, un uomo di un’altra epoca, di un altro periodo. L’altro giorno parlavo con Rocco Papaleo e riflettevo ad alta voce: “Però che storia triste ha il mondo del cinema, tutti i grandi autori muoiono in una disperazione che sa di solitudine o depressione”. Come raccontano quelle belle monografie trasmesse da Sky su Bergman o Mastroianni, a essersene andati così sono stati in molti».
Come mai secondo lei?
«Non hanno coltivato altre passioni o hanno trascurato famiglia o figli. Un errore fatale. Quando ho archiviato C’era un cinese in coma, un film che con mio grande dispiacere, magari per un titolo sbagliato, non era stato compreso, mi resi conto che per anni ero stato troppo preso dal mestiere e stavo per commetterlo anche io. Capii che non c’era miglior modo di non perdere più una battaglia che non parteciparvi proprio e saltai un giro.
Non avevo paura di aver smarrito il talento, ma temevo di essere a un passo dal perdere qualcosa di molto più importante. Mi fermai per due anni e mi dedicai alle persone che amo. Mi aiutò Gianna, la mia ex moglie, con un consiglio prezioso: “Parti con Paolo e Giulia, solo voi tre, nessun altro. Ritroverai i tuoi figli e ti ritroverai”. Aveva ragione, Gianna. Facemmo un viaggio lungo e magnifico alla scoperta di noi stessi e del nostro rapporto. Tornammo cambiati, da allora non ci siamo più persi».
Ha mai pensato al momento dell’addio?
«Ci ho pensato e ne ho parlato anche con i miei figli. “Guardate”, ho detto, “non so quando finirà questa cosa mia, però non voglio che sia il pubblico a dirmi basta, sarò abbastanza intelligente da capire quando è il momento di togliere il disturbo”».
E sarà un giorno triste?
«Sarà un gran giorno. Sarà una festa. Per prima cosa ringrazierò dio. Volevo girare e interpretare dei film, l’ho fatto, sono stato veramente fortunato». (Sul telefono di Verdone arriva la notizia della nomina a membro dell’Academy. Verdone accoglie il tutto senza enfasi: timidezza e pudore).
Nella sua vita è stato coraggioso?
«Penso di sì. Quando mia madre è stata colpita da una bruttissima malattia neurologica, per esempio, sono stato costretto a esserlo, e mi sono riscoperto leonino. Ho lottato, non sono riuscito a ottenere un risultato e alla fine ho perso. Ero distrutto, ma sereno. Ce l’avevo messa tutta. In quel periodo persi totalmente le fede, vedendo come il destino si era accanito su una donna di una bontà infinita. Mi aiutò molto monsignor Tonini, che conobbi per un’intervista a due. Ci frequentammo e mi illuminò sul mio smarrimento. Grande uomo di fede vera».
Se dovesse scegliere un aggettivo per descriversi?
«Sensibile. Ed essere sensibili non è una passeggiata. È faticoso. Ha un prezzo. Servono impegno e pazienza. Non c’è un artista che sia in totale equilibrio. La sensibilità porta anche alla sofferenza».
Parla anche di lei?
«Certo. A volte mi sento molto fragile e debole, altre strano o diverso. La persona sensibile è destinata a essere inquieta di più perché percepisce tutto in maniera maggiore, gode per piccole cose che gli altri magari non vedono, ma prova contemporaneamente dolori intensi e instabilità».
Anche in amore?
«Il dolore fa parte della dinamica amorosa e soffrire per amore, anche se non in modo parossistico, è importante. Significa che hai un’anima, una sensibilità, un cuore che non è solo un muscolo. Quelli che fanno i duri, i playboy che fanno la raccolta delle figurine e delle scopate dicendo “questa me l’ha data, questa non me l’ha data” sono persone mediocri, di una solitudine straziante».
Sofferenze amorose memorabili?
«Quasi tutte a sfondo platonico. Livia Azzariti non mi si filava di pezza, ma da ragazza era veramente di una bellezza sconvolgente, da perdere la testa. Mi ricordo i patemi d’animo, le insicurezze, i vani piani per conquistarla. Una sera uscimmo e la portai al circo. Partimmo male. Mi chiese: “Perché siamo venuti al circo?”. Risposi minimizzando: “Non è divertente?”, e lei secca: “Non mi pare”. Io avevo un padre patito del circo e vedevo acrobati e domatori come parte di un fenomeno storico, lei molto meno».
Come finì?
«Perso per perso tentai di stringerla, di allungare il braccio intorno al collo, di cercare un contatto. Alla seconda volta che mi scostò la mano capii che non era aria. Ci ho sofferto perché mi piaceva tanto, Livia. In un certo senso, mi innamoravo sempre dello stesso fototipo di ragazza. Bionda o castana chiara, di aria gentile, di bell’aspetto. Un’altra che mi fece soffrire come un cane fu Paola Zanuttini che ora è una brava giornalista di Repubblica. Il teatro del disastro fu Anzio».
Mare, tramonti, isole sullo sfondo.
«Paola era un tipo difficilissimo e io cercavo di essere simpatico e rampante, scimmiottando i figli della Roma bene che ad Anzio villeggiavano per mesi e mesi. La portavo sull’Ital-Jet e intanto aspettavo, fremendo, di dichiararmi. La sera in cui finalmente mi decido elaboro una strategia minuziosa: “Andiamo davanti al porto”, le dico. “Sentiamo le onde e le rivelo tutto, poi come va, va”, mi ripeto. Arrivo in banchina con il motorino lanciato a tutta velocità, freno e la ruota slitta sul brecciolino. I sassi ci fanno cadere per terra e l’orologio del mio padrino della Cresima va in acqua. Ma il peggio, se un peggio a quel punto era possibile, è che Paola si sbucciò un ginocchio. “Mi fa troppo male la gamba”, stabilì, “riportami a casa”. Storia finita così, senza gloria».
Ogni tanto si è innamorato anche delle sue attrici.
«Sono stati dei colpi di fulmine: passando tanto tempo insieme capita. Io e Claudia Gerini abbiamo avuto un flirt, ma eravamo soli tutti e due ed eravamo entrambi abbastanza incasinati. È finita ma siamo rimasti molto amici: di sicuro io e Claudia siamo due persone che per carattere non avrebbero assolutamente potuto stare insieme a lungo. Lei non la freni».
Di coppie e villeggiatura parla anche il suo nuovo film.
«L’ho girato in Salento, tra il bianco accecante delle masserie, le scogliere a picco sul mare e i colori stupendi di quest’angolo di Italia che conoscevo pochissimo. È un film corale e dalle sensazioni che ho mi sembra di aver fatto un bel film. Potrebbe far ridere e potrebbe far riflettere: sono le stesse sensazioni che avevo prima di Maledetto il giorno che t’ho incontrato e di Compagni di scuola».
Sensazioni buone.
«Il solo fatto che sia andato fuori Roma per girare è un buon segno. Ogni tanto per non morire e non rompersi troppo i coglioni c’è bisogno di cambiare scenario. Al cinema è più facile che nella vita privata. Sa qual è il problema di oggi? Che le coppie durano molto poco e sembra sempre che i sentimenti si debbano aggiornare come si aggiorna un’applicazione scaduta. Ma l’amore non è un telefonino. Amare una persona è un lavoro. Anche impegnativo. Se non lo consideri anche così si romperà presto tutto».
È stato più importante l’amore o l’amicizia?
«A volte tra amore e amicizia ho scelto la seconda opzione. A 15 anni persi il mio migliore amico, Francesco Anfuso, un ragazzo di estrema destra figlio di un ambasciatore vicino al ventennio, amico intimo di Mussolini... La mia fidanzata dell’epoca era di sinistra e mi chiese di scegliere tra lei e lui. Scelsi lui. E le dissi sul muso: “Non solo preferisco Francesco, ma di fronte a questi ricattucci, a te lo preferisco mille volte”.
Ci volevamo molto bene io e Francesco e avevamo stretto un patto: nella nostra frequentazione non avremmo mai parlato di politica. Così avvenne. A lui piacevano lo stesso cinema underground e la stessa musica che amavo anche io e andavamo veramente d’accordo. Quando ero in vacanza mi dissero che era morto in Jeep, per salvare un cucciolo di cane lupo. La macchina su cui viaggiava nel Parco Nazionale d’Abruzzo era andata fuori strada, e per proteggere il cane Francesco era finito con la testa sull’unico spunzone di roccia di tutto il prato. È stato il mio primo enorme dolore giovanile».
Quanti amici veri ha Carlo Verdone?
«Tanti. Oddio, forse tanti è la parola sbagliata. Perché quando dici che hai tanti amici poi significa che non ne hai nessuno. Diciamo che una decina di veri amici li ho e mi sono preso il lusso, la libertà e il piacere di mantenerli nel tempo».
Cos’è per lei la libertà?
«Il testo di una canzone. Un’utopia. Un’illusione. La vera libertà non esiste e nessuno di noi è veramente libero. Non sono libero io e non è libero lei. E poi c’è sempre l’imprevisto, l’agguato del destino, l’imponderabile. Per me, da questo punto di vista, tra amici scomparsi all’improvviso e malattie inattese di persone a cui voglio bene, è stato un anno terribile. Sa qual è la verità?».
Qual è?
«Che fare progetti è necessario per coltivare una speranza. Ma è purtroppo ridicolo e infantile. L’unica cosa seria che si può fare è vivere alla giornata come se fosse il tuo ultimo giorno. Così si dovrebbe fare e così provo a fare io».
0 notes