Tumgik
#libri e biscotti
susieporta · 8 months
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[Lei s’innamorò come s’ innamorano sempre le donne intelligenti:
come un’ idiota]
La zia Daniela s’innamorò come s’innamorano sempre le donne intelligenti: come un’idiota. Lo aveva visto arrivare un mattino, le spalle erette e il passo sereno, e aveva pensato: «Quest’uomo si crede Dio». Ma dopo averlo sentito raccontare storie di mondi lontani e di passioni sconosciute, si innamorò di lui e delle sue braccia come se non parlasse latino sin da bambina, non avesse studiato logica e non avesse sorpreso mezza città imitando i giochi poetici di Góngora e di suor Juana Inés de la Cruz come chi risponde ad una filastrocca durante la ricreazione. Era tanto colta che nessun uomo voleva mettersi con lei, per quanto avesse occhi di miele e labbra di rugiada, per quanto il suo corpo solleticasse l’immaginazione risvegliando il desiderio di vederlo nudo, per quanto fosse bella come la Madonna del Rosario. Gli uomini avevano paura di amarla, perché c’era qualcosa nella sua intelligenza che suggeriva sempre un disprezzo per il sesso opposto e le sue ricchezze.
Ma quell’uomo che nulla sapeva di lei e dei suoi libri le si accostò come a chiunque altra. Allora la zia Daniela lo dotò di un’intelligenza abbagliante, una virtù angelica e un talento d’artista. Il suo cervello lo guardò in tanti modi che in capo a dodici giorni credette di conoscere cento uomini.
Lo amò convinta che Dio possa aggirarsi tra i mortali, abbandonata con tutta se stessa ai desideri e alle stramberie di un uomo che non aveva mai avuto intenzione di rimanere e non aveva mai capito neppure uno di tutti i poemi che Daniela aveva voluto leggergli per spiegare il suo amore.
Un giorno così com’era venuto, se ne andò senza neppure salutare. Non ci fu allora in tutta l’intelligenza della zia Daniela una sola scintilla in grado di spiegarle ciò che era successo.
Ipnotizzata da un dolore senza nome né destino, diventò la più stupide delle stupide. Perderlo fu un dolore lungo come l’insonnia, una vecchiaia di secoli, l’inferno.
Per pochi giorni di luce, per un indizio, per gli occhi d’acciaio e di supplica che le aveva prestato una notte, la zia Daniela sotterrò la voglia di vivere e cominciò a perdere lo splendore della pelle, la forza delle gambe, l’intensità della fronte e delle viscere.
Nel giro di tre mesi divenne quasi cieca, le crebbe una gobba sulla schiena e dovette succedere qualcosa anche al suo termostato interno, perché, nonostante indossasse anche in pieno sole calze e cappotto, batteva i denti dal freddo come se vivesse al centro stesso dell’inverno. La portavano fuori a prendere aria come un canarino. Le mettevano accanto frutta e biscotti da becchettare, ma sua madre si portava via il piatto intatto mentre Daniela rimaneva muta, nonostante gli sforzi che tutti facevano per distrarla.
All’inizio la invitavano in strada, per vedere se, guardando i colombi e osservando la gente che andava e veniva, qualcosa in lei cominciasse a dare segni di attaccamento alla vita. Provarono di tutto. Sua madre se la portò in Spagna e le fece girare tutti i locali sivigliani di flamenco senza ottenere da lei nulla più di una lacrima, una sera in cui il cantante era allegro. La mattina seguente inviò un telegramma a suo marito:«Comincia a migliorare, ha pianto un secondo». Era diventata come un arbusto secco, andava dove la portavano e appena poteva si lasciava cadere sul letto come se avesse lavorato ventiquattr’ore di seguito in una piantagione di cotone. Alla fine non ebbe più forze che per gettarsi su una sedia a dire a sua madre:«Ti prego, andiamocene a casa».
Quando tornarono, la zia Daniela camminava a stento, e da allora non volle più alzarsi dal letto. Non voleva neppure lavarsi, né pettinarsi, né fare pipì. Un mattino non riuscì neppure ad aprire gli occhi.
«E’ morta!», sentì esclamare intorno a sé, e non trovò la forza di negarlo.
Qualcuno suggerì a sua madre che un tale comportamento fosse un ricatto, un modo di vendicarsi degli altri, una posa da bambina viziata che, se di colpo avesse perso la tranquillità di una casa sua e la pappa pronta, si sarebbe data da fare per guarire da un giorno all’altro. Sua madre fece lo sforzo di crederci e seguì il consiglio di abbandonarla sul portone della cattedrale. La lasciarono lì una notte con la speranza di vederla tornare, affamata e furiosa, com’era stata un tempo. La terza notte la raccolsero dal portone e la portarono in ospedale tra le lacrime di tutta la famiglia.
All’ospedale andò a farle visita la sua amica Elidé, una giovane dalla pelle luminosa che parlava senza posa e che sosteneva di saper curare il mal d’amore. Chiese che le permettessero di prendersi cura dell’anima e dello stomaco di quella naufraga. Era una creatura allegra e attiva. Ascoltarono il suo parere. Secondo lei, l’errore nella cura della sua intelligente amica consisteva nel consiglio di dimenticare. Dimenticare era una cosa impossibile. Quel che bisognava fare era imbrigliare i suoi ricordi perché non la uccidessero, perché la obbligassero a continuare a vivere.
I genitori ascoltarono la ragazza con la stessa indifferenza che ormai suscitava in loro qualsiasi tentativo di curare la figlia. Davano per scontato che non sarebbe servito a nulla, ma autorizzarono il tentativo come se non avessero ancora perso la speranza, che ormai avevano perso.
Le misero a dormire nella stessa stanza. Passando davanti a quella porta, in qualsiasi momento, si udiva l’infaticabile voce di Elidé parlare dell’argomento con la stessa ostinazione con la quale un medico veglia un moribondo. Non stava zitta un minuto. Non le dava tregua. Un giorno dopo l’altro, una settimana dopo l’altra.
«Come hai detto che erano le sue mani?», chiedeva.
Se la zia Daniela non rispondeva, Elidé l’attaccava su un altro fronte.
«Aveva gli occhi verdi? Castani? Grandi?».
«Piccoli», rispose la zia Daniela, aprendo bocca per la prima volta dopo un mese.
«Piccoli e torbidi?», domandò Elidé.
«Piccoli e fieri», rispose la zia Daniela, e ricadde nel suo mutismo per un altro mese.
«Era sicuramente del Leone. Sono così, i Leoni», diceva la sua amica tirando fuori un libro sui segni zodiacali. Le leggeva tutte le nefandezze che un Leone può commettere. «E poi sono bugiardi. Ma tu non devi lasciarti andare, sei un Toro: sono forti le donne del Toro».
«Di bugie sì che ne ha dette», le rispose Daniela una sera.
«Quali? Non te ne scordare! Perché il mondo non è tanto grande da non incontrarlo mai più, e allora gli ricorderai le sue parole: una per una, quelle che ti ha detto e quelle che ha fatto dire a te».
«Non voglio umiliarmi».
«Sarai tu a umiliare lui. Sarebbe troppo facile, seminare parole e poi filarsela».
«Le sue parole mi hanno illuminata!», lo difese la zia Daniela.
«Si vede, come ti hanno illuminata!», diceva la sua amica, arrivate a questo punto.
Dopo tre mesi ininterrotti di parole la fece mangiare come Dio comanda. Non si rese neppure conto di come fosse successo. L’aveva portata a fare una passeggiata in giardino. Teneva sottobraccio una cesta con frutta, pane, burro, formaggio e tè. Stese una tovaglia sull’erba, tirò fuori la roba e continuò a parlare mettendosi a mangiare senza offrirle nulla.
«Gli piaceva l’uva», disse l’ammalata.
«Capisco che ti manchi».
«Sì» disse la zia Daniela, portandosi alla bocca un grappolo d’uva. «Baciava divinamente. E aveva la pelle morbida, sulla schiena e sulla pancia».
«E com’era… sai di che cosa parlo», disse l’amica, come se avesse sempre saputo che cosa la torturava.
«Non te lo dico», rispose Daniela ridendo per la prima volta dopo mesi. Mangiò poi pane e burro, formaggio e tè.
«Bello?», chiese Elidé.
«Sì», rispose l’ammalata, ricominciando a essere se stessa.
Una sera scesero a cena. La zia Daniela indossava un vestito nuovo e aveva i capelli lucidi e puliti, finalmente liberi dalla treccia polverosa che non si era pettinata per tanto tempo.
Venti giorni più tardi, le due ragazze avevano ripassato tutti i ricordi da cima a fondo, fino a renderli banali. Tutto ciò che la zia Daniela aveva cercato di dimenticare, sforzandosi di non pensarci, a furia di ripeterlo divenne per lei indegno di ricordo. Castigò il suo buon senso sentendosi raccontare una dopo l’altra le centoventimila sciocchezze che l’avevano resa felice e disgraziata.
«Ormai non desidero più neppure vendicarmi», disse un mattino a Elidé. «Sono stufa marcia di questa storia».
«Come? Non mi ridiventare intelligente, adesso», disse Elidé. «Questa è sempre stata una questione di ragione offuscata: non vorrai trasformarla in qualcosa di lucido? Non sprecarla, ci manca la parte migliore: dobbiamo ancora andare a cercare quell’uomo in Europa e in Africa, in Sudamerica e in India, dobbiamo trovarlo e fare un baccano tale da giustificare i nostri viaggi. Dobbiamo ancora visitare la Galleria Pitti, vedere Firenze, innamorarci a Venezia, gettare una moneta nella Fontana di Trevi. Non vogliamo inseguire quell’uomo che ti ha fatto innamorare come un’imbecille e poi se n’è andato?».
Avevamo progettato di girare il mondo in cerca del colpevole, e questa storia che la vendetta non fosse più imprescindibile nella cura della sua amica era stata un brutto colpo per Elidé. Dovevano perdersi per l’India e il Marocco, la Bolivia e il Congo, Vienna e soprattutto l’Italia. Non aveva mai pensato di trasformarla in un essere razionale dopo averla vista paralizzata e quasi pazza quattro mesi prima.
«Dobbiamo andare a cercarlo. Non mi diventare intelligente prima del tempo», le diceva.
«E’ arrivato ieri», le rispose la zia Daniela un giorno.
«Come lo sai?»
«L’ho visto. Ha bussato al mio balcone come una volta».
«E che cosa hai provato?»
«Niente».
«E che cosa ti ha detto?»
«Tutto».
«E che cosa gli hai risposto?»
«Ho chiuso la finestra».
«E adesso?», domandò la terapista.
«Gli assenti si sbagliano sempre».
Ángeles Mastretta
[racconto tratto dal libro “Donne dagli occhi grandi”]
*traduzione di Gina Maneri
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oltreladistanzaa · 1 year
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Quando un giorno ci incontreremo, sappi che avrò sofferto abbastanza, avrò accumulato ore di pianti, kg di biscotti e qualche ricordo sparso di vita. Adoro girovagare per i supermercati il giovedì dopo il lavoro, l'inverno, le grandi felpe , le camicie con i quadri, le montagne, laghi e i tramonti. Potrei scattarti foto senza che tu te ne renda conto, ma solo per farti vedere con i miei occhi come io vedo te. Non mi arrabbio spesso, ma le poche volte, inizio a sbattere le cose, senza fare male a nessuno meno che a me. Non sono mai stato amato,ho solo tanti libri che parlano di questo questo grande "amore" ma tutto mi è sfuggito di mano. Sedersi a terra dopo il lavoro è terapia, è avere il controllo delle piccole cose che sfuggono ogni giorno è fare un reset. Lascio andare così tanto la mia mente che non riesco neanche a controllarla, lei va da sé, ma non avere paura so prendermi cura degli altri, del prossimo e a chi voglio bene. Sedermi accanto e rimanere in silenzio. Lavoro troppo è vero, non riesco a prendermi cura di me, vuoi insegnamii tu a farlo? Non veniamo al mondo completi, perfetti, sono sempre gli altri ad aggiungere qualcosa dentro di noi. Adoro viaggiare, ma ho poco tempo, un po' di timore e ormai la poca voglia di mettermi in gioco, quindi impariamo a giocare?. Non amo guardami allo specchio, mi ricorda vecchi momenti di vita, lasciami guardare nei tuoi occhi, sarà perfetto così. Non ti prometto una grande casa, tanti soldi, tanti viaggi, gli aperitivi in centro, ti assicuro una casa piena di polaroid, il profumo di dolce la Domenica mattina, i Post-it sul comodino, la musica per casa, i silenzi come terapia seduti per terra e tanti tanti bei ricordi.
- Ricordati di essere luce, sempre.
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gelatinatremolante · 2 years
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La luna, le nuvole, gli alberi, una teglia di biscotti al cioccolato fondente ripieni di cioccolato bianco, i libri, le sciarpe, i cappotti e altre cose di fondamentale importanza a cui aggrapparsi per riuscire a sopravvivere in un clima freddo.
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mynameis-gloria · 11 months
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Questa settimana non è iniziata nel migliore dei modi ed infatti eccomi ko, con le sembianze di uno straccetto bianco e pallido, perché oltre al raffreddore e mal di gola (che ora è passato ma in compenso mi è venuta la tosse), il mio corpo ha deciso di non farsi mancare nulla chiamando a rapporto l'influenza intestinale...che tra l'altro penso sia la prima volta in vita mia! Giornata sotto le coperte, al caldo, con la forza di un bradipo, tra qualche chiamata per il lavoro e le mie preoccupazioni inerenti ad esso, le ore dormite in cui gli occhi si chiudevano improvvisamente e qualche pagina letta dai libri di studio. Ora sto un pochino meglio ma continuo ad essere avvolta dalle amate coperte, con la voglia di coccole e di biscotti (che non posso mangiare).
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Lui è Nicolò. Nasce a Cremona nel 1993. È un bambino solitario. Legge tanto, tantissimo. Cresce con i nonni, che gli insegnano le cose più divertenti, mangiare i biscotti quando ne ha voglia, correre a piedi nudi sull’erba. Ha 5 anni. Il negozio dei genitori viene rapinato, mamma e papà urlano, piangono. Nicolò scrive un racconto in cui parla del ladro. Lo rilegge, è fiero. I genitori lo stroncano. Nicolò cresce. La scuola non gli va giù. Gli insegnanti parlano chiaro, con quei voti non andrà da nessuna parte. A casa gli tirano le orecchie, ma non serve a nulla. Bocciato. Mamma e papà sono disperati. Lui invece è innamorato. Di una ragazza che non se lo fila, e gli spezza il cuore. Nicolò abbassa la testa, si cuce sulla fronte la parola fallito e tira avanti per forza d'inerzia. Passa il suo tempo sui libri. Si sente vecchio, vuoto, ha voglia di scappare. È il 2013. Nicolò va su internet, vende i fumetti, le scarpe, le magliette, la console dei videogiochi, il letto a castello, prepara lo zaino e parla con i genitori. Ciao mamma, ciao papà, vi saluto, vado in India a fare il volontario in un orfanotrofio. Nicolò non ha alcun interesse per i bambini, o per il sociale. Vuole solo fuggire dal suo paese, che gli sta stretto, lo soffoca. Arriva in un piccolo villaggio dall’altra parte del mondo. Si sente il protagonista di uno dei suoi amati romanzi. La realtà che lo circonda è un pugno nello stomaco. Povertà, prostituzione, violenza. È sconvolto. Lo mettono a insegnare inglese ai bambini. Lui non sa nemmeno da dove iniziare, deve inventarsi qualcosa. Passano i mesi. I suoi piccoli studenti lo adorano, Nicolò conosce la storia di ognuno di loro, si affeziona. Una sera telefona a casa. Ciao mamma, non torno, qui c’è troppo da fare. Nicolò scrive libri, raccoglie fondi per costruire un dormitorio, paga la scuola e l’università ai suoi bambini, fonda una Ong. È il 2020. Nicolò Govoni ha 27 anni, è candidato al Premio Nobel per la Pace.
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Ho rivisto le tue cose dopo mesi.
Le tue magliette erano ancora riposte nel cassetto in cui le avevi lasciate l’ultima volta. Erano piegate e pulite, ma non c’era traccia del tuo profumo.
I tuoi quaderni disordinati erano accatastati in una pila caotica sulla scrivania, e c’erano manuali nuovi di esami di cui non mi avevi detto il nome, perché avevamo già smesso di parlare.
Ti ho immaginato camminare per la stanza, con le spalle ricurve e e le ciabatte che risuonano tra quelle pareti spoglie. Non un quadro, né una singola foto di noi due appese al muro, perché da qundo siamo entrati non ce le siamo mai scattate.
Abbiamo vissuto come due fantasmi. Senza toccare niente, sfiorandoci appena, parlando in sussurri e muovendoci in punta di piedi.
Se non fosse per i nostri nomi sulla targhetta del campanello, nessuno potrebbe provare che un tempo, lì dentro, c’eravamo stati noi.
Noi che guardavamo la pioggia cadere dalle finestre dal vetro sottile, che facevano passare sempre troppo freddo e scricchiolavano ad ogni sospiro di vento. Io che mi preparavo per andare a lezione e tu che mi scattavi le foto, come se potessi dimenticarmi nel corso della giornata. E quanto tempo abbiamo passato in questa sala, occupando le solite due sedie, sbriciolando biscotti e sorseggiando tisane a mezzanotte. Era la stanza che ci aveva convinto a comprarlo perché “guarda quanta luce che entra”.
Solo a volte mi mancano quei momenti. Le restanti ripenso a tutti quelli che non abbiamo passato. A tutti quelli che ho rovinato ancor prima di poterli vivere. Ripenso agli album delle nostre foto che non riempiranno mai i cassetti del comodino, e i nostri libri che non tappezzeranno mai tutti gli scaffali della libreria. Ripenso a quante volte ti ho lascito mangiare solo e mi sono dimenticata di scriverti a che ora rincasavo per cenare assieme. Ripenso ai tuoi esami, a cui non sono mai venuta ad assistere, e alla mia università, nella quale non ti sei mai seduto. Ripenso a tutti quegli spazi vuoti che non saranno mai colmati dai souvenir dei tuoi viaggi e ai centritavola vuoti perché non sono mai entrati fiori nella nostra casa. Ripenso ai quadri scovati nei mercati dell’antiquariato che ci affascinavano tanto, ma che non abbiamo mai appeso. A tutti i nostri progetti che si sono dissolti nel vuoto. Ai nostri sogni, che hanno bruciato forte fino a strapparci la pelle e le ossa.
Ripenso a tutte le cose belle che ho rovinato. A tutte le lacrime che non ti ho permesso di asciugare e a tutti i sorrisi di cui ti ho privato.
Non capita spesso, ma quando accade, il mio cuore si ferma e le mie mani tremano forte. Queste maledette mani sempre troppi fredde, che non sono più in grado di stringere niente. E che forse, a dirla tutta, di fare ciò non lo sono state mai capaci.
Ripenso a tutto il dolore che ti ho fatto provare. Alla brutalità delle mie parole nonostante la mi voce bassa. Alle mie lacrime bollenti nonostante il mio comportamento gelato.
Persino ora, quando mi guardo allo specchio, non vedo nient’altro se non il mio scheletro.
-pensieri delle 22.23
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caoticoflusso · 7 months
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stavo pensando a quanta bellezza possiedono le cose semplici, quella macchia di rossetto sul lato di una tazzina da caffè, sfumato. le lettere scritte a caratteri cubitali sopra un foglio a nonna o quel ‘però i numeri scrivimeli grandi altrimenti non ci vedo’, quei pomeriggi che sanno solo di natura e lettura. quando abbassi il finestrino dell’auto e c’è chi ti passa accanto sorridendoti, quelle coppie alla stazione che piangono e s’abbracciano, che tremano di sensibilità e amore. quei libri sottolineati a matita, e quelle calligrafie ordinate. o anche non, quei quaderni pieni di scritte. quei ‘non m’importa quanti anni ho ma io un diario in cui racconto le mie vicissitudini, ce l’ho sempre’, quei rapporti che non condividono solo cene al ristorante ma mattinate sdraiati a letto, parlar del nulla e di tutto, quel leggere insieme e per l’altro, esclusivamente per la voce che inevitabilmente dona a ciò un livello tale di intimità sbalorditiva. la semplicità nell’andare in bici, nello scegliere accuratamente il supermercato a cui andare a fare la spesa perché, in fondo, chiunque ne ha uno preferito, no? quella semplicità nascosta nelle canzoni, in un vinile in camera, delle cuffie annodate dentro una tasca di un jeans. degli sguardi che s’intendono, in cui tu sei in un lato ed io in un altro ma tramite i nostri occhi riusciamo a comunicare molto più di quanto la nostra bocca possa fare (anche perché talvolta le conversazioni composte dal silenzio, possono essere le migliori), quella semplicità delle serate fra una tisana e due biscotti, o di quando camminiamo, per caso alzo lo sguardo e c’è un tramonto o una luna disegnata nel cielo, e d’improvviso interrompo il passo e fotografo.
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ambrenoir · 10 months
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Amare… Il mal d’amore prima o poi tocca a tutti. È terribile ma se sopravvivi è fatta. Niente più ti può più toccare.
“S’INNAMORÒ come s’innamorano sempre le donne intelligenti: COME UN’ IDIOTA”.
Lo aveva visto arrivare un mattino, le spalle erette e il passo sereno, e aveva pensato: «Quest’uomo si crede Dio». Ma dopo averlo sentito raccontare storie di mondi lontani e di passioni sconosciute, si innamorò di lui e delle sue braccia come se non parlasse latino sin da bambina, non avesse studiato logica e non avesse sorpreso mezza città imitando i giochi poetici di Góngora e di suor Juana Inés de la Cruz come chi risponde ad una filastrocca durante la ricreazione. Era tanto colta che nessun uomo voleva mettersi con lei, per quanto avesse occhi di miele e labbra di rugiada, per quanto il suo corpo solleticasse l’immaginazione risvegliando il desiderio di vederlo nudo, per quanto fosse bella come la Madonna del Rosario. Gli uomini avevano paura di amarla, perché c’era qualcosa nella sua intelligenza che suggeriva sempre un disprezzo per il sesso opposto e le sue ricchezze.
Ma quell’uomo che nulla sapeva di lei e dei suoi libri le si accostò come a chiunque altra. Allora la zia Daniela lo dotò di un’intelligenza abbagliante, una virtù angelica e un talento d’artista. Il suo cervello lo guardò in tanti modi che in capo a dodici giorni credette di conoscere cento uomini.
Lo amò convinta che Dio possa aggirarsi tra i mortali, abbandonata con tutta se stessa ai desideri e alle stramberie di un uomo che non aveva mai avuto intenzione di rimanere e non aveva mai capito neppure uno di tutti i poemi che Daniela aveva voluto leggergli per spiegare il suo amore.
Un giorno così com’era venuto, se ne andò senza neppure salutare. Non ci fu allora in tutta l’intelligenza della zia Daniela una sola scintilla in grado di spiegarle ciò che era successo.
Ipnotizzata da un dolore senza nome né destino, diventò la più stupide delle stupide. Perderlo fu un dolore lungo come l’insonnia, una vecchiaia di secoli, l’inferno.
Per pochi giorni di luce, per un indizio, per gli occhi d’acciaio e di supplica che le aveva prestato una notte, la zia Daniela sotterrò la voglia di vivere e cominciò a perdere lo splendore della pelle, la forza delle gambe, l’intensità della fronte e delle viscere.
Nel giro di tre mesi divenne quasi cieca, le crebbe una gobba sulla schiena e dovette succedere qualcosa anche al suo termostato interno, perché, nonostante indossasse anche in pieno sole calze e cappotto, batteva i denti dal freddo come se vivesse al centro stesso dell’inverno. La portavano fuori a prendere aria come un canarino. Le mettevano accanto frutta e biscotti da becchettare, ma sua madre si portava via il piatto intatto mentre Daniela rimaneva muta, nonostante gli sforzi che tutti facevano per distrarla.
All’inizio la invitavano in strada, per vedere se, guardando i colombi e osservando la gente che andava e veniva, qualcosa in lei cominciasse a dare segni di attaccamento alla vita. Provarono di tutto. Sua madre se la portò in Spagna e le fece girare tutti i locali sivigliani di flamenco senza ottenere da lei nulla più di una lacrima, una sera in cui il cantante era allegro. La mattina seguente inviò un telegramma a suo marito:«Comincia a migliorare, ha pianto un secondo». Era diventata come un arbusto secco, andava dove la portavano e appena poteva si lasciava cadere sul letto come se avesse lavorato ventiquattr’ore di seguito in una piantagione di cotone. Alla fine non ebbe più forze che per gettarsi su una sedia a dire a sua madre:«Ti prego, andiamocene a casa».
Quando tornarono, la zia Daniela camminava a stento, e da allora non volle più alzarsi dal letto. Non voleva neppure lavarsi, né pettinarsi, né fare pipì. Un mattino non riuscì neppure ad aprire gli occhi.
«E’ morta!», sentì esclamare intorno a sé, e non trovò la forza di negarlo.
Qualcuno suggerì a sua madre che un tale comportamento fosse un ricatto, un modo di vendicarsi degli altri, una posa da bambina viziata che, se di colpo avesse perso la tranquillità di una casa sua e la pappa pronta, si sarebbe data da fare per guarire da un giorno all’altro. Sua madre fece lo sforzo di crederci e seguì il consiglio di abbandonarla sul portone della cattedrale. La lasciarono lì una notte con la speranza di vederla tornare, affamata e furiosa, com’era stata un tempo. La terza notte la raccolsero dal portone e la portarono in ospedale tra le lacrime di tutta la famiglia.
All’ospedale andò a farle visita la sua amica Elidé, una giovane dalla pelle luminosa che parlava senza posa e che sosteneva di saper curare il mal d’amore. Chiese che le permettessero di prendersi cura dell’anima e dello stomaco di quella naufraga. Era una creatura allegra e attiva. Ascoltarono il suo parere. Secondo lei, l’errore nella cura della sua intelligente amica consisteva nel consiglio di dimenticare. Dimenticare era una cosa impossibile. Quel che bisognava fare era imbrigliare i suoi ricordi perché non la uccidessero, perché la obbligassero a continuare a vivere.
I genitori ascoltarono la ragazza con la stessa indifferenza che ormai suscitava in loro qualsiasi tentativo di curare la figlia. Davano per scontato che non sarebbe servito a nulla, ma autorizzarono il tentativo come se non avessero ancora perso la speranza, che ormai avevano perso.
Le misero a dormire nella stessa stanza. Passando davanti a quella porta, in qualsiasi momento, si udiva l’infaticabile voce di Elidé parlare dell’argomento con la stessa ostinazione con la quale un medico veglia un moribondo. Non stava zitta un minuto. Non le dava tregua. Un giorno dopo l’altro, una settimana dopo l’altra.
«Come hai detto che erano le sue mani?», chiedeva.
Se la zia Daniela non rispondeva, Elidé l’attaccava su un altro fronte.
«Aveva gli occhi verdi? Castani? Grandi?».
«Piccoli», rispose la zia Daniela, aprendo bocca per la prima volta dopo un mese.
«Piccoli e torbidi?», domandò Elidé.
«Piccoli e fieri», rispose la zia Daniela, e ricadde nel suo mutismo per un altro mese.
«Era sicuramente del Leone. Sono così, i Leoni», diceva la sua amica tirando fuori un libro sui segni zodiacali. Le leggeva tutte le nefandezze che un Leone può commettere. «E poi sono bugiardi. Ma tu non devi lasciarti andare, sei un Toro: sono forti le donne del Toro».
«Di bugie sì che ne ha dette», le rispose Daniela una sera.
«Quali? Non te ne scordare! Perché il mondo non è tanto grande da non incontrarlo mai più, e allora gli ricorderai le sue parole: una per una, quelle che ti ha detto e quelle che ha fatto dire a te».
«Non voglio umiliarmi».
«Sarai tu a umiliare lui. Sarebbe troppo facile, seminare parole e poi filarsela».
«Le sue parole mi hanno illuminata!», lo difese la zia Daniela.
«Si vede, come ti hanno illuminata!», diceva la sua amica, arrivate a questo punto.
Dopo tre mesi ininterrotti di parole la fece mangiare come Dio comanda. Non si rese neppure conto di come fosse successo. L’aveva portata a fare una passeggiata in giardino. Teneva sottobraccio una cesta con frutta, pane, burro, formaggio e tè. Stese una tovaglia sull’erba, tirò fuori la roba e continuò a parlare mettendosi a mangiare senza offrirle nulla.
«Gli piaceva l’uva», disse l’ammalata.
«Capisco che ti manchi».
«Sì» disse la zia Daniela, portandosi alla bocca un grappolo d’uva. «Baciava divinamente. E aveva la pelle morbida, sulla schiena e sulla pancia».
«E com’era… sai di che cosa parlo», disse l’amica, come se avesse sempre saputo che cosa la torturava.
«Non te lo dico», rispose Daniela ridendo per la prima volta dopo mesi. Mangiò poi pane e burro, formaggio e tè.
«Bello?», chiese Elidé.
«Sì», rispose l’ammalata, ricominciando a essere se stessa.
Una sera scesero a cena. La sia Daniela indossava un vestito nuovo e aveva i capelli lucidi e puliti, finalmente liberi dalla treccia polverosa che non si era pettinata per tanto tempo.
Venti giorni più tardi, le due ragazze avevano ripassato tutti i ricordi da cima a fondo, fino a renderli banali. Tutto ciò che la zia Daniela aveva cercato di dimenticare, sforzandosi di non pensarci, a furia di ripeterlo divenne per lei indegno di ricordo. Castigò il suo buon senso sentendosi raccontare una dopo l’altra le centoventimila sciocchezze che l’avevano resa felice e disgraziata.
«Ormai non desidero più neppure vendicarmi», disse un mattino a Elidé. «Sono stufa marcia di questa storia».
«Come? Non mi ridiventare intelligente, adesso», disse Elidé. «Questa è sempre stata una questione di ragione offuscata: non vorrai trasformarla in qualcosa di lucido? Non sprecarla, ci manca la parte migliore: dobbiamo ancora andare a cercare quell’uomo in Europa e in Africa, in Sud America e in India, dobbiamo trovarlo e fare un baccano tale da giustificare i nostri viaggi. Dobbiamo ancora visitare la Galleria Pitti, vedere Firenze, innamorarci a Venezia, gettare una moneta nella Fontana di Trevi. Non vogliamo inseguire quell’uomo che ti ha fatto innamorare come un’imbecille e poi se n’è andato?».
Avevamo progettato di girare il mondo in cerca del colpevole, e questa storia che la vendetta non fosse più imprescindibile nella cura della sua amica era stata un brutto colpo per Elidé. Dovevano perdersi per l’India e il Marocco, la Bolivia e il Congo, Vienna e soprattutto l’Italia. Non aveva mai pensato di trasformarla in un essere razionale dopo averla vista paralizzata e quasi pazza quattro mesi prima.
«Dobbiamo andare a cercarlo. Non mi diventare intelligente prima del tempo», le diceva.
«E’ arrivato ieri», le rispose la zia Daniela un giorno.
«Come lo sai?»
«L’ho visto. Ha bussato al mio balcone come una volta».
«E che cosa hai provato?»
«Niente».
«E che cosa ti ha detto?»
«Tutto».
«E che cosa gli hai risposto?»
«Ho chiuso la finestra».
«E adesso?», domandò la terapista.
«Adesso sì ce ne andiamo in Italia: gli assenti si sbagliano sempre».
da Donne dagli occhi grandi di Angeles Mastretta - Traduzione di Gina Maneri
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umi-no-onnanoko · 11 months
Note
2/3/14/15/38
🐚. Cose che ti piace fare, ma che gli altri reputano strane?
Camminare tra i mucchi di foglie secche ammucchiate ai margini dei marciapiedi invece che dove non ci sono (scusate spazzini), quando c'è un pavimento a piastrelle nere e bianche caminare posando I piedi solo su quelle nere o solo sulle bianche o seguendo il movimento di un pezzo degli scacchi, camminare solo sulla fuga di un pavimento o una pavimentazione come se fossi su un filo per funamboli, non inzuppare mai biscotti, brioche o dolci nelle bevande perché mi danno fastidio le briciole sul fondo della tazza, cercare le fossette sui visi o i gomiti delle persone (sì lo so non sto bene 🤣), mangiare la parte bruciacchiata dei cibi perché è quella più croccante, cercare forme nelle nuvole, mangiare cibi molto piccanti senza battere ciglio dicendo che non è così piccante, dichiararmi per prima ad un ragazzo che mi piace, fare sorprese anche se ti conosco da poco.
Poi sicuramente altro, ma ora mi viene in mente solo questo.
🐚. Cose che tutti fanno ma che tu non hai mai fatto?
Assistere ad un concerto, vedere un balletto, visitare una mostra d'arte, andare a teatro a vedere un'opera, guardare le stelle, ballare sotto la pioggia, viaggiare.
🐚. Cosa ami che tutti odiano?
L'odore di vernice, smalto, acetone o bianchetto; l'odore dei libri "vecchi", mangiare piccole dosi di wasabi da solo con il cucchiaino (non da morire ovviamente), lo strabismo di Venere; i particolari che per le persone sono difetti, ma che per me le rendono uniche.
🐚. Cose che odi che tutti amano?
I temporali, le montagne russe, il carnevale, la discoteca, uscire tardi la sera, gli e-book, gli alcolici, gli analcolici (anche alla frutta), l'acqua tonica, il minestrone, il colore grigio (tranne qualche eccezione)
🐚. Cosa diresti alla te stessa di 16 anni?
Cara V. ,
lo so, stai vivendo il periodo più difficile dalla tua vita, tutte le tue certezze stanno vacillando, ti senti sola in mezzo alla gente e nessuno è disposto ad accettatti, ascoltarti e capirti, sei sola.
Non fidarti della tua migliore amica, non vuole davvero il tuo bene, ti sta solo usando, non mettere da parte te stessa per lei o per S. non ti merita nemmeno lui, non cambiare per lui non vale la pena e non vergognarti mai della tua timidezza, non è sbagliata come credi.
Dai più importanza allo studio, non mollare, non permettere che i problemi familiari e relazionali ti portino a perdere un'altro anno di scuola; non lasciare che il bullismo di compagne e docenti ti schiacci al punto tale da dimostrare che avevano ragione e che non sei all'altezza, perché piccola V. lo sei!
Cambiare classe sarà la tua salvezza, i docenti finalmente ti apprezzeranno e potrai trovare sostegno in particolare nella docente di italiano e latino, la signora R., ora non hai più contatti, ma non smetti di ringraziarla.
Uscirai dalla depressione, ci uscirai con fatica, da sola con la musica di Tiziano Ferro, con quella canzone che ti ha salvato la vita, arriverai a 25 anni, a scrivere questa lettera, diplomata, prossima alla laurea ed un passo più vicina al tuo sogno.
Ci stai riuscendo, sempre da sola contro tutti e tutti, hai visto? Hai creduto in te sempre e sei arrivata lontano; hai perso amicizie e persone che ritenevi importanti durante la strada, ma hai imparato a volerti bene, ad accettare e star bene anche nella tua solitudine ed apprezzare ed essere grata per tutto.
Tuttavia, per ora hai solo 16 anni, aggrappati a tutto ciò che ti rende felice, gustati quella gioia a pieno e non privarti di nulla.
Sinceramente tua,
Valentina
Grazie per le domande.
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francesca-fra-70 · 2 years
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La mensola piena di libri sulla testa del mio letto segnerà la mia fine. Dopo la botta vedo biscotti e cappuccini girarmi attorno.😵
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gonetoosoon · 1 year
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Sensazioni di felicità
Il profumo di mia nonna, che non lo indossava mai ma inebriava tutta casa.
L'odore che sentivo scendendo dalle scale di casa prima di andare a scuola, dopo aver piovuto una notte.
L'odore dei libri di greco su cui passavo le notti per poi prendere sempre quattro a quelle dannate versioni, cazzo.
Il miagolio della mia gattina, che mi aspettava al cancello di ritorno a casa.
Il sapore dell'insalata di pomodori di mia nonna e le sue cotolette.
Il sapore della cioccolata calda presa alla macchinetta a scuola, che potevo anche non mangiare ma alla cioccolata non si rinunciava.
L'odore di caffè per tutta la scuola quando Nuccia lo preparava e ci si fiondava da lei.
La spiaggia d'estate, invasa dai suoi odori di salsedine, cocco e vaniglia.
L'odore e il sapore dei cornetti del bar della mia scuola.
La mia prof di italiano, che ripeteva sempre 'avete capito?'
I biscotti al limone di Nuccia.
-Gonetoosoon
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La mia giornata è iniziata alle 3.55 Ero stufo di sentire rumori di tosse in casa così mi sono alzato, messo la tuta per stare in casa e me ne sono andato in cucina a farmi un thè caldo con i biscotti portandomi dietro il libro da leggere. Passai la prima ora a guardare un po' di TV per poi alle 4.00 provare a finire di leggere il libro che iniziai qualche ora prima. Lessi fino alle 6.45 (con rumori di starnuto in sottofondo), ora esatta in cui finì tutto il libro, stabilendo il mio record personale di libri letti in meno di un giorno. Era convinto di non riuscirci per diverse situazioni temporali, ma c'è l'ho fatta. Anche questo volta Francesco Sole mi ha stupito e leggendo le ultime venti righe del libro iniziai ad avere gli occhi lucidi per via del finale. Credo fosse anche per il fatto che non so quanto dovrò aspettare per un suo nuovo libro e se ci sarà appunto un nuovo libro. Sta di fatto che le aspettative sono state mantenute.
Ora sono le 7 e mentre qualcuno di voi si alza io provo a riposare un paio d'ore prima di andare a lavorare.
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weirdesplinder · 1 month
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 Goodreads e Anobii a confronto: https://youtu.be/o6CdKO_6nJA
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luigifurone · 5 months
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64. (Biscotti)
Dopo aver preparato dei biscotti, sono uscito per strada. I biscotti li ho bruciati, ma non lo dirò a nessuno. Li preparerò di nuovo, maledetti. È che al mondo non c’è la ricetta perfetta, non c’è. Prima c’erano le nonne, poi il progresso ha portato i libri, poi la tecnologia ha portato la tv computer internet. Ma le ricette non hanno mai portato e mai porteranno ad un risultato perfetto, nei secoli dei secoli amen, e io lo so il perché, perché sono io che le preparo. E per me non c’è neanche la ricetta.
L’odore di bruciato ce l’ho ancora nelle narici. Prima di entrare nel traffico la cui merda mi disinfetterà l’olfatto, passo nel parco, magari il verde, chissà. Il verde oggi è esploso, dopo tutta quella pioggia e dopo questo sole così caldo ed amichevole ogni  stelo sembra non volere fare altro che spogliarsi e mostrarsi splendente, come fosse una statua greca in un campo di felici nudisti. I biscotti sono morti, ma l’erba no, o perlomeno non ancora. Poi interverrà il comune a tranciare il tutto, a fare di ogni giardino pubblico un prato equanime ed uniforme come un campo di calcio. La diversità da fastidio, certo, come il bruciato dei biscotti. Cazzo. Vuoi vedere che sono come il comune? Che orrore.
Le macchine si affiancano, si sorpassano, si incazzano. Si vede, si vede che le macchine hanno uno scopo, devono andare da qualche parte, specialmente con fretta, sono fatte per questo. Ad esempio, non sono trasparenti, sono fatte per vedere con agevolezza il traffico, ma non il cielo. Tranne qualcuna, ma non sono nate per quello. Perché nessuno ci pensa? Perché nessuno le vuole? Forse costerebbero troppo, dobbiamo essere pratici, pratici come se fossimo morti, come se le cose più belle a una certa debbano farsi da parte e lasciar passare le cose più importanti. Per la bellezza c’è tempo, ma se rimane tempo. Non saremmo qui, se gli uomini primitivi avessero pensato alla bellezza. Invece siamo qui perché hanno pensato a far cadere un mammut nella buca, a fracassarlo con le pietre e finalmente a mangiarlo e a sfamare la stirpe. Boh, chissà, a me la storia dei libri mi ha sempre fatto pensare ad un romanzo, ma in fondo chi se ne frega. Sono arrivato davanti alla libreria che mi piace.
Entro in libreria, non devo comprare nulla. Ma passeggio come se fossi al supermercato. Invece dei pelati i libri di fotografia, invece del bagnoschiuma romanzi rosa. Qualcuno li avrà scritti, forse li avrà letti e li avrà trovati come dei biscotti bruciati, ma c’era la possibilità di venderli e allora. Basta. Ho il disgusto. Ieri il prete che dice che ha avuto una intuizione dallo Spirito Santo. In dieci minuti di omelia ha detto più cazzate di quante ne avrei potute immaginare io. E quello che dovrebbe essere mio amico mi ha detto con una certa convinzione che da quando ha avuto la prima erezione è sempre stato in compagnia di una donna. Credo che siano bruciati dentro, non si spiega, o sono io bruciato e dovrei buttarmi nella spazzatura così eliminiamo il problema di questi miei pomeriggi in giro per la città.
Torno a casa, va. Nella pattumiera non ci sto, forse domani l’umore sarà più alto, forse ci sarà il sole anche qui dentro, nella testa. Il rientro a casa. A volte sembra di ritornare in una tomba, a volte in un tiepido rifugio in inverno, mentre fuori la tempesta batte e sconquassa.
Casa. Cucina. Toh. Un biscotto è scampato alla mia furia, si è nascosto dietro la friggitrice, è bruciato a metà, l’altra metà è marrone scuro, cioè quel colore e quel grado di cottura che mi fa cagare. Ma sì, non ti butto. Ma sì. Anzi, sai che faccio? Sai quanto sono stronzo? Io ti mangerò, non mi piaci e mai mi piacerai, ma ti terrò in bocca come una medicina, sentirò l’amaro, ti impasterò bene con la saliva, ti butterò giù un decigrammo alla volta, e non lascerò che mi sfugga neanche una briciola. E così non lo so che farò, che cosa avrò concluso, non lo so, attualmente io so solo che faccio fatica a reggere. Ma reggerò e vaffanculo.
Non c'è la ricetta per me.
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cignobiancocignonero · 10 months
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ph Christer Strömholm
[ La zia Daniela s’innamorò come s’innamorano sempre le donne intelligenti: come un’idiota. ]
Lo aveva visto arrivare un mattino, le spalle erette e il passo sereno, e aveva pensato: «Quest’uomo si crede Dio». Ma dopo averlo sentito raccontare storie di mondi lontani e di passioni sconosciute, si innamorò di lui e delle sue braccia come se non parlasse latino sin da bambina, non avesse studiato logica e non avesse sorpreso mezza città imitando i giochi poetici di Góngora e di suor Juana Inés de la Cruz come chi risponde ad una filastrocca durante la ricreazione. Era tanto colta che nessun uomo voleva mettersi con lei, per quanto avesse occhi di miele e labbra di rugiada, per quanto il suo corpo solleticasse l’immaginazione risvegliando il desiderio di vederlo nudo, per quanto fosse bella come la Madonna del Rosario. Gli uomini avevano paura di amarla, perché c’era qualcosa nella sua intelligenza che suggeriva sempre un disprezzo per il sesso opposto e le sue ricchezze.
Ma quell’uomo che nulla sapeva di lei e dei suoi libri le si accostò come a chiunque altra. Allora la zia Daniela lo dotò di un’intelligenza abbagliante, una virtù angelica e un talento d’artista. Il suo cervello lo guardò in tanti modi che in capo a dodici giorni credette di conoscere cento uomini.
Lo amò convinta che Dio possa aggirarsi tra i mortali, abbandonata con tutta se stessa ai desideri e alle stramberie di un uomo che non aveva mai avuto intenzione di rimanere e non aveva mai capito neppure uno di tutti i poemi che Daniela aveva voluto leggergli per spiegare il suo amore.
Un giorno così com’era venuto, se ne andò senza neppure salutare. Non ci fu allora in tutta l’intelligenza della zia Daniela una sola scintilla in grado di spiegarle ciò che era successo.
Ipnotizzata da un dolore senza nome né destino, diventò la più stupide delle stupide. Perderlo fu un dolore lungo come l’insonnia, una vecchiaia di secoli, l’inferno.
Per pochi giorni di luce, per un indizio, per gli occhi d’acciaio e di supplica che le aveva prestato una notte, la zia Daniela sotterrò la voglia di vivere e cominciò a perdere lo splendore della pelle, la forza delle gambe, l’intensità della fronte e delle viscere.
Nel giro di tre mesi divenne quasi cieca, le crebbe una gobba sulla schiena e dovette succedere qualcosa anche al suo termostato interno, perché, nonostante indossasse anche in pieno sole calze e cappotto, batteva i denti dal freddo come se vivesse al centro stesso dell’inverno. La portavano fuori a prendere aria come un canarino. Le mettevano accanto frutta e biscotti da becchettare, ma sua madre si portava via il piatto intatto mentre Daniela rimaneva muta, nonostante gli sforzi che tutti facevano per distrarla.
All’inizio la invitavano in strada, per vedere se, guardando i colombi e osservando la gente che andava e veniva, qualcosa in lei cominciasse a dare segni di attaccamento alla vita. Provarono di tutto. Sua madre se la portò in Spagna e le fece girare tutti i locali sivigliani di flamenco senza ottenere da lei nulla più di una lacrima, una sera in cui il cantante era allegro. La mattina seguente inviò un telegramma a suo marito:«Comincia a migliorare, ha pianto un secondo». Era diventata come un arbusto secco, andava dove la portavano e appena poteva si lasciava cadere sul letto come se avesse lavorato ventiquattr’ore di seguito in una piantagione di cotone. Alla fine non ebbe più forze che per gettarsi su una sedia a dire a sua madre:«Ti prego, andiamocene a casa».
Quando tornarono, la zia Daniela camminava a stento, e da allora non volle più alzarsi dal letto. Non voleva neppure lavarsi, né pettinarsi, né fare pipì. Un mattino non riuscì neppure ad aprire gli occhi.
«E’ morta!», sentì esclamare intorno a sé, e non trovò la forza di negarlo.
Qualcuno suggerì a sua madre che un tale comportamento fosse un ricatto, un modo di vendicarsi degli altri, una posa da bambina viziata che, se di colpo avesse perso la tranquillità di una casa sua e la pappa pronta, si sarebbe data da fare per guarire da un giorno all’altro. Sua madre fece lo sforzo di crederci e seguì il consiglio di abbandonarla sul portone della cattedrale. La lasciarono lì una notte con la speranza di vederla tornare, affamata e furiosa, com’era stata un tempo. La terza notte la raccolsero dal portone e la portarono in ospedale tra le lacrime di tutta la famiglia.
All’ospedale andò a farle visita la sua amica Elidé, una giovane dalla pelle luminosa che parlava senza posa e che sosteneva di saper curare il mal d’amore. Chiese che le permettessero di prendersi cura dell’anima e dello stomaco di quella naufraga. Era una creatura allegra e attiva. Ascoltarono il suo parere. Secondo lei, l’errore nella cura della sua intelligente amica consisteva nel consiglio di dimenticare. Dimenticare era una cosa impossibile. Quel che bisognava fare era imbrigliare i suoi ricordi perché non la uccidessero, perché la obbligassero a continuare a vivere.
I genitori ascoltarono la ragazza con la stessa indifferenza che ormai suscitava in loro qualsiasi tentativo di curare la figlia. Davano per scontato che non sarebbe servito a nulla, ma autorizzarono il tentativo come se non avessero ancora perso la speranza, che ormai avevano perso.
Le misero a dormire nella stessa stanza. Passando davanti a quella porta, in qualsiasi momento, si udiva l’infaticabile voce di Elidé parlare dell’argomento con la stessa ostinazione con la quale un medico veglia un moribondo. Non stava zitta un minuto. Non le dava tregua. Un giorno dopo l’altro, una settimana dopo l’altra.
«Come hai detto che erano le sue mani?», chiedeva.
Se la zia Daniela non rispondeva, Elidé l’attaccava su un altro fronte.
«Aveva gli occhi verdi? Castani? Grandi?».
«Piccoli», rispose la zia Daniela, aprendo bocca per la prima volta dopo un mese.
«Piccoli e torbidi?», domandò Elidé.
«Piccoli e fieri», rispose la zia Daniela, e ricadde nel suo mutismo per un altro mese.
«Era sicuramente del Leone. Sono così, i Leoni», diceva la sua amica tirando fuori un libro sui segni zodiacali. Le leggeva tutte le nefandezze che un Leone può commettere. «E poi sono bugiardi. Ma tu non devi lasciarti andare, sei un Toro: sono forti le donne del Toro».
«Di bugie sì che ne ha dette», le rispose Daniela una sera.
«Quali? Non te ne scordare! Perché il mondo non è tanto grande da non incontrarlo mai più, e allora gli ricorderai le sue parole: una per una, quelle che ti ha detto e quelle che ha fatto dire a te».
«Non voglio umiliarmi».
«Sarai tu a umiliare lui. Sarebbe troppo facile, seminare parole e poi filarsela».
«Le sue parole mi hanno illuminata!», lo difese la zia Daniela.
«Si vede, come ti hanno illuminata!», diceva la sua amica, arrivate a questo punto.
Dopo tre mesi ininterrotti di parole la fece mangiare come Dio comanda. Non si rese neppure conto di come fosse successo. L’aveva portata a fare una passeggiata in giardino. Teneva sottobraccio una cesta con frutta, pane, burro, formaggio e tè. Stese una tovaglia sull’erba, tirò fuori la roba e continuò a parlare mettendosi a mangiare senza offrirle nulla.
«Gli piaceva l’uva», disse l’ammalata.
«Capisco che ti manchi».
«Sì» disse la zia Daniela, portandosi alla bocca un grappolo d’uva. «Baciava divinamente. E aveva la pelle morbida, sulla schiena e sulla pancia».
«E com’era… sai di che cosa parlo», disse l’amica, come se avesse sempre saputo che cosa la torturava.
«Non te lo dico», rispose Daniela ridendo per la prima volta dopo mesi. Mangiò poi pane e burro, formaggio e tè.
«Bello?», chiese Elidé.
«Sì», rispose l’ammalata, ricominciando a essere se stessa.
Una sera scesero a cena. La sia Daniela indossava un vestito nuovo e aveva i capelli lucidi e puliti, finalmente liberi dalla treccia polverosa che non si era pettinata per tanto tempo.
Venti giorni più tardi, le due ragazze avevano ripassato tutti i ricordi da cima a fondo, fino a renderli banali. Tutto ciò che la zia Daniela aveva cercato di dimenticare, sforzandosi di non pensarci, a furia di ripeterlo divenne per lei indegno di ricordo. Castigò il suo buon senso sentendosi raccontare una dopo l’altra le centoventimila sciocchezze che l’avevano resa felice e disgraziata.
«Ormai non desidero più neppure vendicarmi», disse un mattino a Elidé. «Sono stufa marcia di questa storia».
«Come? Non mi ridiventare intelligente, adesso», disse Elidé. «Questa è sempre stata una questione di ragione offuscata: non vorrai trasformarla in qualcosa di lucido? Non sprecarla, ci manca la parte migliore: dobbiamo ancora andare a cercare quell’uomo in Europa e in Africa, in Sud America e in India, dobbiamo trovarlo e fare un baccano tale da giustificare i nostri viaggi. Dobbiamo ancora visitare la Galleria Pitti, vedere Firenze, innamorarci a Venezia, gettare una moneta nella Fontana di Trevi. Non vogliamo inseguire quell’uomo che ti ha fatto innamorare come un’imbecille e poi se n’è andato?».
Avevamo progettato di girare il mondo in cerca del colpevole, e questa storia che la vendetta non fosse più imprescindibile nella cura della sua amica era stata un brutto colpo per Elidé. Dovevano perdersi per l’India e il Marocco, la Bolivia e il Congo, Vienna e soprattutto l’Italia. Non aveva mai pensato di trasformarla in un essere razionale dopo averla vista paralizzata e quasi pazza quattro mesi prima.
«Dobbiamo andare a cercarlo. Non mi diventare intelligente prima del tempo», le diceva.
«E’ arrivato ieri», le rispose la zia Daniela un giorno.
«Come lo sai?»
«L’ho visto. Ha bussato al mio balcone come una volta».
«E che cosa hai provato?»
«Niente».
«E che cosa ti ha detto?»
«Tutto».
«E che cosa gli hai risposto?»
«Ho chiuso la finestra».
«E adesso?», domandò la terapista.
«Adesso sì ce ne andiamo in Italia: gli assenti si sbagliano sempre».
da Donne dagli occhi grandi di Angeles Mastretta - Traduzione di Gina Maneri
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mypickleoperapeanut · 11 months
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Una nuova grande Mostra al Museo degli Innocenti di Firenze dedicata Alphonse Mucha, il più importante Artista Ceco, padre dell’Art Nouveau e creatore di immagini iconiche.
Da venerdì 27 ottobre 2023 al 7 aprile 2024,
170 opere di Alphonse Mucha sono esposte, per la prima volta a Firenze, nel Museo degli Innocenti.
Manifesti, libri, disegni, olii di acquerelli, fotografie, gioielli e opere decorative illustrano il mondo del fondatore dell'Art Nouveau.
Alphonse Mucha nasce a Ivančice, nella Repubblica Ceca, nel 1860.
Patriota e fervente sostenitore della libertà politica dei popoli slavi, si dedica all’arte e nel 1887 si trasferisce a Parigi dove affina le sue arti e incontra la donna che cambierà per sempre la sua vita, Sarah Bernhardt, l’attrice più bella e famosa dell’epoca, che affida a Mucha la sua immagine rendendolo popolarissimo.
Nasce il mito delle “donne di Mucha”, e le aziende se lo contendono per reclamizzare i propri prodotti, dando vita alle intramontabili campagne pubblicitarie come quella del cioccolato Nestlé, dello champagne Moët & Chandon, e ancora delle sigarette, della birra, dei biscotti e dei profumi.
Mucha però non dimentica l’impegno patriottico e sociale.
Nel 1910 torna a Praga e si dedica per quasi venti anni a quello che è considerato il suo più grande capolavoro, l’Epopea slava, opera colossale composta da venti enormi tele in cui racconta i principali avvenimenti della storia slava.
Mucha morirà a Praga nel 1939.
Una Mostra assolutamente da non perdere, da gustare, lasciandosi permeare certamente dalle opere di Mucha, ma soprattutto dalla forza che riescono a emanare ad una attenta osservazione, dettagli che parlano di bellezza, di enfasi, di natura di tradizioni e di identità.
Riccardo Rescio I&f Arte Cultura Attualità
Museo degli Innocenti Firenze 26 ottobre 2023
Museo degli Innocenti Arthemisia Ministero della Cultura Ministero del Turismo ENIT - Agenzia Nazionale del Turismo Toscana Promozione Turistica Feel Florence Regione Toscana Città di Firenze Cultura
La Musica a corredo del video è di Antonín Dvořák
dal titolo Slavonic Dances n° 8 in G minore
https://youtu.be/WIywT8fKVZA?feature=shared
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