#la cellula generatrice
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OH NO, IT'S PROG! - Gianni Nicola
OH NO, IT'S PROG! - Gianni Nicola #prog #progressiverock #pinerolo #pinerolese
“Oh no, è Prog!”. O sarebbe meglio dire: “Oh sì”? Perché, è vero, la musica progressiva, dopo essere stata protagonista assoluta dei primi anni Settanta, nel corso del tempo si è sempre più avviluppata su se stessa, finendo per trasformarsi in una nicchia per pochi eletti. Guardata spesso con sospetto e tacciata di narcisismo, di freddezza e di atteggiamenti snob e inautentici, dopo la sua età…
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In cyto
Nell’incipit di una storia non c’è spazio per il clima. Per alcuni è volgare, per altri scontato, ma la verità è che a nessuno importa delle vostre tempeste o delle vostre giornate di sole, se mai ne avete avute. Io però sono una ribelle. Il mio stesso essere ed esistere, nel qui ed ora, sulla carta stampata, è un cliché. Sia essa lo scheletro di pesanti tomi di anatomia patologica o di romanzetti per giovani adulti. Quindi sì, parlerò del tempo. Vi dirò, anche se non v’importa nulla, che qui si sta al caldo. Trentasette gradi e tre, per essere precisi. Il cuore pompa tedioso e lento, spingendo la marea di zombi anucleati[1] nel loro monotono viaggio. Avanti e indietro, in loop, dal cuore alla periferia e dalla periferia al cuore. Mai nulla di nuovo fuori dal finestrino. Mai una scoperta, una novità, un cambiamento. Forse il brivido effimero del debito d’ossigeno durante una corsa. Anche questo è comune, per noi reietti. Ci lamentiamo sempre di troppe cose, sbirciamo nella vita degli altri, disgustati – e in fondo invidiosi – della loro quieta monotonia. E quanto siamo bravi a fingerci maledetti. O maledirci, chissà. Si nasce ribelli o ci si diventa? E in che modo lo si è davvero? Nel creare o nel distruggere? Io distruggo e creo insieme, ed è proprio questo che, magari, mi rende maledetta per davvero. Non sono un virus. Io sono viva, non so se mi spiego. Quei poveracci non sono considerati nemmeno degli esseri viventi veri e propri, tanto per cominciare. Sono degli stupratori seriali, altroché. Avvistano una cellula, tutta ammiccante con quella doppia membrana fosfolipidica che pare danzare. La puntano, la infilzano e la farciscono di materiale genetico. Un’incubatrice destinata alla lisi[2]. Boom. Non sono nemmeno un batterio. Come i virus, anche loro mi stanno antipatici. Sono ipocriti, sempliciotti e disordinati. Dopo aver finito di mangiare lasciano sempre un gran casino. Sanno comunque rendersi utili, al contrario di me. Perciò non sono un batterio. Vi dicevo che distruggo e creo insieme. La mia dirompente forza generatrice è capace di uccidere, soffocare, schiacciare. È una frenesia incontrollabile, un uragano di replicazioni, traduzioni, divisioni. Credo che a questo punto abbiate capito, a meno che non siate degli idioti. Sono una cellula tumorale. Una di quelle patetiche, in realtà, sola soletta, buona solo a sfornare copie a tutto spiano prima che i linfociti T si accorgano del guaio. E mi dispiace tanto. Non della mia natura, sia chiaro, quella è qualcosa che m’appartiene e non m’appartiene. Un gioco del caso, uno scherzo nella mia sintesi proteica. Mi spiace del paradosso che si crea una volta che entri nel giro. Vi spiego. Quando ero una cellula perbene con la sua bella inibizione da contatto, una forma sana e tondeggiante e immobile come una statuina[3], agli occhi del Sistema andavo bene. Io invece mi facevo schifo. Nei profili delle altre cellule, tutte instancabili e impeccabili in egual misura, intravedevo il mio fallimento. L’insignificanza di un clone che si specchia nella cellula madre e viceversa, in un vortice di vuoto e annullamento che ti prende dritto ai lisosomi[4]. È buffo. Non credo abbiate mai pensato a noi come creature senzienti. Probabilmente non lo siamo e vi state solo immaginando tutto, oppure – chissà – dietro alla vostra coscienza potrebbe nascondersi qualcosa di molto più complesso e corale. Chi è che mi dà voce? Uno di voi o tanti di noi? Potreste scoprire che si tratta dello stesso concetto. E questo, vi assicuro, vi farebbe molta più paura di quanto non ne faccia io. Non ho mai ucciso una delle mie sorelle, comunque, né uno di quei funzionali automi del Timo[5]. Si sentono speciali perché capaci di muoversi, ghermire e inghiottire. Si credono potenti, invincibili. Si convincono che la violenza abbia le spalle abbastanza ampie per portarsi addosso un intero sistema. Ed è qui che si sbagliano. Quello che conta, in questo gioco, è la tecnica. E onestamente la mia l’ho affinata alla grande. È l’arte del trasformismo che ti rende invincibile: lo hanno capito tutti, dai microbi agli arrampicatori sociali, eppure il sistema immunitario proprio non ci arriva. Del resto non saprei che altro aspettarmi da chi a stento riesce a riconoscere se stesso da un estraneo, non so se mi spiego. Spero abbiate afferrato il riferimento al diabete di tipo I[6]. Con questo convinco sempre tutti. E anche con la vitiligine, l’artite reumatoide e la celiachia. La gente ha paura di star male. Io invece ho paura di non stare e basta. Questo discorso ha preso una piega un po’ diversa da quella che mi ero prefissata. Avrei voluto intavolare un monologo profondo su quanto noi reietti siamo migliori di voi pecorelle smarrite, ma si è arenato tutto in un tedioso flusso di coscienza. Da questo punto di vista voi esseri umani siete avvantaggiati. Voglio dire, non si è mai detto di una cellula che va dal terapista. Magari siamo troppo impegnate a tenervi in piedi, a pararvi il culo, a farvi ammalare e strangolarvi nel sonno. Oppure non ci resta che vivere la nostra esistenza da bollicine micrometriche senza lamentarci. E dire che ne avremmo il diritto. E anche il dovere, ogni tanto. Forse, almeno per questa volta, non andrò in metastasi. Riguardatevi.
Note
[1] I globuli rossi. Quando sono maturi perdono il nucleo e quindi la capacità di replicarsi. Per questo vengono definiti “elementi figurati” del sangue, perché in fondo non sono più veri e propri esseri viventi…ma zombi.
[2] I virus non sanno replicarsi da soli, per cui si servono dei sistemi di sintesi proteica della cellula. Una volta che la cellula infettata ha prodotto troppe copie del virus dentro di sé, esplode in una poltiglietta arancione. Divertente.
[3] Le cellule tumorali non smettono di replicarsi quando sono le une troppo vicine alle altre, per questo formano masse che soffocano i tessuti. Per questo non è possibile “coltivare” delle cellule sane in vitro per ottenere un tessuto. Inoltre, a differenza di altre cellule, si muovono strisciando (con movimento ameboide).
[4] “Ti prende dritto ai lisosomi” è un riferimento a “qualcosa che ti prende allo stomaco”. I lisosomi, infatti, sono considerati lo “stomaco” cellulare. Contengono enzimi litici che “digeriscono” sostanze di scarto e vecchi organelli.
[5] I linfociti T. T sta per Timo, la ghiandola che abbiamo all’altezza dello sterno. È lì che le T-cells nascono e maturano. Nei bambini questa ghiandola è molto grande perché in quel periodo ha una funzionalità maggiore.
[6] Il diabete di tipo I è determinato dalla distruzione delle cellule beta del pancreas (che producono insulina) ad opera del sistema immunitario. In questo caso, infatti, le cellule immunitarie non sono in grado di riconoscere il self dal non-self e attaccano centri di produzione sani. La stessa cosa succede per altre malattie autoimmuni come la celiachia.
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“Inside and outside the body/dentro e fuori il corpo” Presentazione di Sandro Bongiani
La Mail Art è nata più di 50 anni fa, nel 1962, da quando l'artista americano Ray Johnson, fondò la “New York Corrispondance School of Art” occasionalmente in contemporanea con il movimento “ Fluxus” del lituano-americano George Maciunas (1961) e la Pop Art di Leo Castelli a New York (1962). Una sorta di scuola d’arte per corrispondenza nella quale gli elaborati grafici con l’inserimento di timbri e collage venivano per la prima volta spediti per posta a conoscenti e persino ignari destinatari, dando completa autonomia alla comunicazione e rendendo questo nuovo modo di espressione totalmente libero e al di fuori di qualsiasi schema imposto e prefissato dal potere culturale e di conseguenza dal mercato ufficiale dell’arte. Dopo Ray Johnson, anche Gugliemo Achille Cavellini, nei primi anni 70 (1971), aveva inventato “l'autostoricizzazione”,realizzando delle mostre a domicilio e utilizzando i cataloghi che inviava in visione agli artisti del Network. Questi due artisti, per primi, avevano solo accennato a questa nuova e possibile strategia di messa in crisi del sistema culturale che non permetteva nessuna intrusione se non avvalorato da un potere forte che condizionava e controllava le proposte e le scelte al fine di regolarne il flusso e ossigenare il mercato dell’arte. E’ stato soprattutto Cavellini (GAC), a compiere “il grande passo”; quello di contrapporsi ad un sistema ormai monotono; un ulteriore sviluppo verso la messa in crisi del tradizionale sistema dell’arte. Negli anni 80, precisamente nel giugno del 1985, l’artista giapponese Ryosuke Cohen rimette ancora una volta in gioco le carte della sperimentazione, in un sistema culturale antiquato che preferisce l’opera creata appositamente per essere commercializzata. Lo fa proponendo un particolare progetto “Brian Cell” (Cervello Cellula), che lo ha visto coinvolto per oltre 30 lunghi anni, assieme a migliaia di membri sparsi in oltre 80 paesi, in cui i singoli artisti collaborano inviando per posta a Cohen disegni, francobolli, timbri, adesivi o altro. Egli utilizzando un vecchio sistema serigrafico, chiamato ciclostile (ormai fuori produzione) fa 150 copie A3 (29,7x42). E’ un progetto ancora attivo che viene stampato ogni 7-10 giorni e rispedito ai rispettivi collaboratori, allegando un elenco di indirizzi di collaboratori provenienti da alcuni paesi (55 in media per opera). Sono passati già oltre 30 anni ed è stato superato il 20 novembre 2017 il BRAIN CELL N° 1000. Già da diverso tempo l’artista Cohen rifiuta l’opera unica e concetti consueti come l’originalità, preferendo maggiormente il gioco, la ricerca e la libertà dell’artista volutamente collocato ai margini di un sistema culturale antiquato e passatista.
Nella pratica dell’arte postale non esiste un’unica ideologia o “ism” ben solida capace di sopravvivere e prevalere sulle altre. Secondo Ray Johnson, “Mail Art is not a single art movement, but is quite a megatrend that insists that we change our consciousness”, quindi, non è un unico movimento artistico ma piuttosto un grande movimento “trasversale” a tutte le altre proposte ed esperienze artistiche che ci sollecita concretamente a prendere coscienza di noi stessi. Di conseguenza, si condividono i frammenti di idee con altri artisti in una relazione libera da “copyright”, utilizzando e trasformando persino le opere di altri autori in un incessante “add and send by mail” collettivo. Nella pratica elitaria attuata dal sistema istituzionale ufficiale dell’arte si preferisce la concorrenza piuttosto che la cooperazione e la sperimentazione. Nella Mail Art questi concetti scompaiono per dare spazio alla creatività e alla ricerca spontanea svolta in campo in modo paritario.
Nato nel 1948 a Osaka, in Giappone, Ryosuke non è il primo e unico artista postale giapponese, prima di lui anche Shozo Shimamoto aveva condiviso la Mail Art, tuttavia, è certamente l’autore giapponese più longevo e per certi versi, anche il più interessante e attivo nel network internazionale di chiunque altro per la diffusione capillare della pratica Mail artistica. Dopo “Brain Cell”, nell'agosto 2001 ha iniziato anche un altro progetto chiamato “Fractal Portrait Project”, iniziato in Italia al fine di realizzare più proficuamente il concetto di “Brain Cell”, facendo ritratti e Silhouette (face and body) agli amici artisti incontrati in questi anni nei in diversi incontri (Meetings) in tutto il mondo. Secondo Cohen, “Brain Cell” è come la struttura di un cervello visto al microscopio, ci appare come lo schema delle rete con migliaia di neuroni accumulati e ramificati insieme proprio come il Network dell’arte postale. La Mail art - scrive l’artista - “is dynamic", because you can be more of an individual free to create works of art with a new mind, being fragments of the entire network and sharing snippets of many other artists", e poi, “la rete si espande da A a B, da B a C, da C a D, da D a A, da C a A e così via, è come un corpo unico con una costruzione cerebrale fatta di un gran numero di cellule nervose strutturate e complesse, sistemate in un ordine non lineare. Ecco perché ha definito questo tipo di esperienza “Brain Cell (cellule del cervello)”. Praticamente è il risultato di un complesso intreccio di cellule nervose del cervello, un progetto senza fine, aggiungendo, “ciò che nasce dal “flusso” Dada, Fluxus e Mail Art è l’unico modo per realizzare la nuova arte del domani”.
Fractal (frattale), letteralmente significa figure simili fra loro, il nuovo concetto è stato utlizzato per prima dal matematico francese B. Mandelbrot all’Istituto Watson IBM. La caratteristica principale dei frattali è “l’auto similarità”, la ripetizione sino all'infinito di uno stesso motivo caratterizzato dall’indeterminatezza temporanea e provvisoria del suo esistere, come per esempio, gli alberi della foresta Amazzonica del Sud America che si compone di numerose specie che convivono insieme. Nel 2006 Ryosuke Cohen, scrive: “Nowadays I have come to realize that we are all part of a fractal, and that I can be a piece of that fractal, and that I can create art, in a way that extends beyond myself as an individual, in communication with infinite mail artists' ideas”, (oggi mi sono reso conto che siamo tutti parte di un frattale e che posso essere un pezzo di quel frattale estendendomi come individuo al di là di me stesso in una infinita comunicazione di idee con gli artisti postali).
Questa particolare concezione personalmente preferisco chiamarla “swarm intelligence” traducibile come: “intelligenza dello sciame”, è un termine più vicino a tutti gli esseri viventi coniato per la prima volta nel 1988 in seguito a un progetto ispirato ai sistemi robotici. Esso prende in considerazione lo studio dei sistemi auto-organizzati, nei quali un'azione complessa deriva da un fare collettivo, come accade in natura nel caso di colonie di insetti, stormi di uccelli, branchi di pesci oppure mandrie di mammiferi. Secondo la definizione di Beni e Watt la swarm intelligence può essere definita come: “Proprietà di un sistema in cui il comportamento collettivo interagisce in modo collaborativo producendo risposte funzionali al sistema”, sia ben chiaro, non inteso in senso speculativo e in funzione di un risultato economico, bensì, di una risposta partecipativa in funzione di un concreto apporto creativo “non autoritario”, proprio come avviene nella prassi collaborativa del movimento della Mail art.
Cohen è oggi l’artista contemporaneo che non rappresenta più colui che produce un’opera d’arte secondo le vecchie idee classiciste della tradizione, ma ricopre il ruolo di mediatore e di intermediario tra la realizzazione di un’idea progettuale (la sua) e coloro che partecipano al progetto. Praticamente, egli si fa promotore di un “fare” diventando regista di un intervento provvisorio che nasce dal contributo degli altri e si materializza nella collaborazione collettiva in cui tutti possono partecipare ed essere positivamente coinvolti. Le varie stampe del progetto Brain Cell realizzate da Cohen non possono essere considerate opere “finite”, intese come opere che si completano nella realizzazione della copia grafica, ma di un’opera caratterizzata dall’indeterminatezza e provvisorietà del proprio esistere insito nel suo DNA. Di certo, se il risultato finale di ogni stampa fosse davvero “un’opera compiuta”, credo che Cohen smetterebbe di colpo di realizzare altre copie di “Brain Cell”, proprio perché svuoterebbe pesantemente il senso e la filosofia generatrice di questa particolare pratica artistica.
Una considerazione sul lavoro di Cohen che è doveroso fare è quella di aver messo, “fuori gioco”, ancora una volta, il vecchio sistema ufficiale dell’arte, relegando fuori dalla porta personaggi equivoci come i galleristi, i critici d’arte e persino i collezionisti di opere d’arte dal momento che lo scambio delle opere prodotte avviene tra gli artisti del Network. Quindi, le opere realizzate non vengono trattenute e conservate dall’artista in vista di un consueto profitto ma inviate ai rispettivi collaboratori. Con la spedizione postale delle stampe i collaboratori, utilizzano i propri archivi, diventando altresì collezionisti delle opere ricevute Spesso, con i lavori “Brian Cell” realizzati nei vari tour che ogni anno l’artista fa in giro per il mondo si organizzano delle mostre come per esempio questa mostra realizzata a Pontassieve in occasione della “XXVII Rassegna internazionale “Incontri d’Arte” a cura di Alessandra Borsetti Venier. Tuttavia, risulta quanto mai complicato e difficile organizzare tradizionali mostre con i “Fractal Portrait Project” proprio per la reale difficoltà a reperire e raccogliere concretamente le diverse opere donate nel tempo agli amici artisti rappresentati.
In mostra assieme alle 36 opere della serie “Brain Cell” (Cervello Cellula) dal numero 966 a 999, con una speciale opera realizzata per l’occasione del numero 1000 vengono presentati tre Fractal Portrait Project di grande dimensione realizzati appositamente per questa mostra a Pontassieve, progetto svolto da oltre 15 anni da Cohen nel campo della performance. In particolare vogliamo evidenziare un lato ancora nascosto e quindi poco conosciuto; mi riferisco soprattutto alle opere “Body”, alla serie delle slhouette del corpo create a partire dal 2001 in poi fino a oggi, realizzate dall’artista giapponese in particolari momenti collettivi unendo insieme diversi fogli Brian Cell in cui i soggetti, gli amici incontrati nei vari tour vengono invitati a farsi fare un ritratto da Cohen o a distendersi a terra sopra questi fogli Brain Cell, con l’artista impegnato per l’occasione a disegnare e rilevare il contorno immediato del corpo. Una sorta di “performance collettiva”, prima di procedere alla consueta realizzazione dell’opera. Insomma, una performance “provvisoria” in funzione della realizzazione dell’opera. Tutto ciò, seppur con le dovute differenze di lavoro, lo lega indissolubilmente al suo caro amico Shozo Shimamoto, divenendo il naturale attivo continuatore dell’arte di ricerca oggi in Giappone. Sandro Bongiani
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..DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI PARTECIPANTI AL CONVEGNO PROMOSSO DAL DICASTERO PER IL SERVIZIO DELLO SVILUPPO UMANO INTEGRALE, NEL CINQUANTESIMO ANNIVERSARIO DELLA ..POPULORUM PROGRESSIO..Cari fratelli e sorelle, grazie dell’invito e dell’accoglienza. Vi ringrazio per la vostra presenza e per la vostra attività di promozione umana e del bene comune. Ringrazio il Cardinale Turkson per le sue parole di saluto e per aver dato avvio, non senza fatica, al nuovo Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale. E’ stato un modello di percorso, in pace, creatività, consultazioni, davvero un modello di costruzione ecclesiale: grazie, Eminenza. Siete convenuti per questo Congresso Internazionale perché la nascita del nuovo Dicastero corrisponde significativamente con il cinquantesimo anniversario dall’Enciclica Populorum progressio del Beato Paolo VI. Fu lui a precisare in dettaglio in quella Enciclica il significato di ..sviluppo integrale..(n. 21), e fu lui a proporre quella sintetica, e fortunata formula..sviluppo di ogni uomo e di tutto l’uomo..(n. 14). Che cosa vuol dire, oggi e nel prossimo futuro, sviluppo integrale, cioè sviluppo di ogni uomo e di tutto l’uomo? Sulla scia di Paolo VI, forse proprio nel verbo integrare – a me tanto caro – possiamo individuare un orientamento fondamentale per il nuovo Dicastero. Vediamo insieme alcuni aspetti. Si tratta di integrare i diversi popoli della terra. Il dovere di solidarietà ci obbliga a cercare giuste modalità di condivisione, perché non vi sia quella drammatica sperequazione tra chi ha troppo e chi non ha niente, tra chi scarta e chi è scartato. Solo la strada dell’integrazione tra i popoli consente all’umanità un futuro di pace e di speranza. Si tratta di offrire modelli praticabili di integrazione sociale. Tutti hanno un contributo da dare all’insieme della società, tutti hanno una peculiarità che può servire per il vivere insieme, nessuno è escluso dall’apportare qualcosa per il bene di tutti. Questo è al contempo un diritto e un dovere. E’ il principio della sussidiarietà a garantire la necessità dell’apporto di tutti, sia come singoli che come gruppi, se vogliamo creare una convivenza umana aperta a tutti. Si tratta inoltre di integrare nello sviluppo tutti quegli elementi che lo rendono veramente tale. I diversi sistemi: l’economia, la finanza, il lavoro, la cultura, la vita familiare, la religione sono, ciascuno nel suo specifico, un momento irrinunciabile di questa crescita. Nessuno di essi si può assolutizzare e nessuno di essi può essere escluso da una concezione di sviluppo umano integrale, che tenga cioè conto che la vita umana è come un’orchestra che suona bene se i diversi strumenti si accordano e seguono uno spartito condiviso da tutti. Si tratta ancora di integrare la dimensione individuale e quella comunitaria. E’ innegabile che siamo figli di una cultura, per lo meno nel mondo occidentale, che ha esaltato l’individuo fino a farne come un’isola, quasi che si possa essere felici da soli. D’altro canto, non mancano visioni ideologiche e poteri politici che hanno schiacciato la persona, l’hanno massificata e privata di quella libertà senza la quale l’uomo non si sente più uomo. A tale massificazione sono interessati anche poteri economici che vogliono sfruttare la globalizzazione, invece che favorire una maggiore condivisione tra gli uomini, semplicemente per imporre un mercato globale di cui sono essi stessi a dettare le regole e a trarre i profitti. L’io e la comunità non sono concorrenti tra loro, ma l’io può maturare solo in presenza di rapporti interpersonali autentici e la comunità è generatrice quando lo sono tutti e singolarmente i suoi componenti. Questo vale ancor più per la famiglia, che è la prima cellula della società e in cui si apprende il vivere insieme. Si tratta infine di integrare tra loro corpo e anima. Già Paolo VI scriveva che lo sviluppo non si riduce a una semplice crescita economica (n. 14); lo sviluppo non consiste nell’avere a disposizione sempre più beni, per un benessere soltanto materiale. Integrare corpo e anima significa pure che nessuna opera di sviluppo potrà raggiungere veramente il suo scopo se non rispetta quel luogo in cui Dio è presente a noi e parla al nostro cuore. Dio si è fatto conoscere pienamente in Gesù Cristo: in Lui Dio e l’uomo non sono divisi e separati tra loro. Dio si è fatto uomo per fare della vita umana, sia personale che sociale, una concreta via di salvezza. Così la manifestazione di Dio in Cristo..compresi i suoi gesti di guarigione, di liberazione, di riconciliazione che oggi siamo chiamati a riproporre ai tanti feriti sul ciglio della strada..indica la strada e la modalità del servizio che la Chiesa intende offrire al mondo: alla sua luce si può comprendere che cosa significhi uno sviluppo ..integrale..che non fa torto né a Dio né all’uomo, perché assume tutta la consistenza di entrambi. In questo senso proprio il concetto di persona, nato e maturato nel cristianesimo, aiuta a perseguire uno sviluppo pienamente umano. Perché persona dice sempre relazione, non individualismo, afferma l’inclusione e non l’esclusione, la dignità unica e inviolabile e non lo sfruttamento, la libertà e non la costrizione. La Chiesa non si stanca di offrire questa sapienza e la sua opera al mondo, nella consapevolezza che lo sviluppo integrale è la strada del bene che la famiglia umana è chiamata a percorrere. Vi invito a portare avanti questa azione con pazienza e costanza, nella fiducia che il Signore ci accompagna. Egli vi benedica e la Madonna vi protegga. Grazie..
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