#jonata sabbioni
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La poesia può trovare un suo valore e un carattere riconoscibile laddove determina, nel movimento dell’io attraverso i diversi scenari “episodici” oppure “occasionali” (le scenografie della realtà e dell’espressione), trasferimenti rapidi. Si possono creare, in questi casi, “cambiamenti di scena” trascinanti: l’io muove lo sguardo lungo una dinamica “fuori-dentro” che diviene attivamente variabile e creativa. E nella dimensione “emotivo-conoscitiva” compresa dentro la dinamica tra mondo interno e mondo esterno la poesia si compie come immagine e pensiero.
Nel panorama della lirica italiana degli ultimi vent’anni, s’è mostrata, rispetto a questa idea dinamica, una tendenza che vorremmo definire “centrifuga“. In essa s’è compiuto un riposizionamento della soggettività poetica: alla voce interrogante e baricentrica del novecento post-montaliano (Sereni, Caproni, Bertolucci e Luzi) s’è affiancata, se non sostituita, un’ispirazione di natura empatico-partecipativa che ha sostanzialmente posto in crisi la posizione della “sorgente lirica”, sino a spostare l’origine del “primo moto” da una riflessione di natura ontologico-espressiva, anche nelle sue manifestazioni più drammatiche e (apparentemente) irrisolte, ad una posizione di “reverenza verso l’esistente” (cit. Enrico Testa). Ecco quindi che il dettato poetico diviene “un atteggiamento d’esposizione, impressivo e centrifugo” (ancora Testa) e tende a condurre a sé la responsabilità (l’ambizione?) della costruzione del “senso” delle cose del mondo e delle sue relazioni. Però, a volte, si percepisce, leggendo una certa poesia attuale, una (auspicabile) posizione di mediazione. Quelle rapide azioni di moto, quelle dinamiche che possono determinare il “trascinamento” emotivo e le fughe di cui s’è detto, sono possedute, e sono trasferite, da una voce poetante che è comunque ben centrata. Come fosse ancorata al fondo, questa voce può muoversi e oscillare, può distanziarsi e sbandare: eppure essa è ultimante stabile e radicata. A volte pare possa persino essere data “prima e oltre” (meta-fisica). Emanuele Franceschetti (Ancona, 1990), giovane poeta marchigiano (nasce a Montegranaro e vive a Roma, dove studia musicologia), con la sua seconda pubblicazione (Terre aperte, Italic Pequod, Ancona 2015) dimostra, sia nelle sue aeree aperture al mistero che nelle scure tentazioni alla discesa, un’ampia sensibilità al radicamento (di “solidità” parla Filippo Davòli nella prefazione al libro).
recensione di Jonata Sabbioni
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La parola di Davide Tartaglia pare scandirsi, dentro le pagine del suo libro d’esordio (Figure del congedo, Italic Pequiod 2014), come espandendo la propria dimensione sonora oltre l’intimo spazio in cui viene proferita. Così come quando, immersi in acqua, sentiamo fortissimo il nostro respiro trattenuto oppure come quando l’eco porta lontano, e tutt’intorno, la voce che noi emaniamo, così le liriche di Tartaglia nascono intime e poi si allargano in un suono ampio e si assestano in uno spazio inatteso. Il “libro onesto, asciutto e classico” di cui parla Filippo Davòli nell’introduzione vive dentro un dinamismo incipiente, come in un movimento d’avvio, come nella fase che precede uno slancio, e la liricità delle tematiche (nelle riflessioni, nel viaggio del pensiero, nel calore del ricordo) si unisce ad una forza di un espressività netta e inusuale. La volontà centrale dell’opera, all’interno del suo nucleo tematico più vivido, è declinare le modalità con cui l’amore può trasfigurarsi in senso ermeneutico. L’ermeneutica è in filosofia la metodologia dell’interpretazione. La parola deriva dal greco antico ed è traducibile come “arte dell’interpretazione”. In questo senso questa poesia si assume l’onere della “spiegazione”: le presenze e ancora di più le assenze, la parola e maggiormente il silenzio, divengono terreno intimo di riflessione, di patimento e di solitudine ma anche di “sublime meraviglia” e di gioia indicibile quando “nel buio, d’improvviso avvampano le rose”. L’amore è inteso come condizione esperienziale: sia esso una “traccia”, un “abisso”, oppure un “lascito”, si tratta comunque di un destino aperto, vissuto, inconcluso, condiviso. Esso spalanca le proiezioni dello spirito verso il silenzio di domande radicali (“Saremo pulvis nell’aria / o traccia nell’oro del grano?”) e si oggettiva nelle cose quotidiane (una gonna di donna, la pelle chiara, una schiena nuda) e si proietta sulle superfici piane che contengono il mondo e i suoi sogni e gli affetti (la fotografia della poesia dedicata al padre “crocifisso” e teneramente fraterno; la finestra da cui “contempli l’estate”; lo specchio in cui “già cerco la tua ombra”). Dentro questa condizione di osservatore partecipe dell’osservazione, il poeta sente il dinamismo del mondo e vi prende parte ma secondo un tempo lirico, calmo (“Visioni di ferragosto”) e riflessivo (“Crepuscolo” o la bellissima “Dove sono le ore”). Il suono e la luminosità delle immagini sono gli elementi su cui incardinare la modalità del dire (e del dirsi) e la gentilezza dei gesti umani descritti (“è un dileguarsi di fumo / questo sfiorarsi appena”) contiene l’enormità del incorporeo, dell’incompreso e dell’intangibile (“l’istante è un oceano di luce / immutabile”). Continua a leggere sul blog...
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