#il passato non passa
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- Non ti ho vista per un po’, dove sei stata?
- In disparte, per conto mio.
- A fare?
- Calcoli. A contare tutte le cose che la vita non mi ha dato, quelle che ha finto di darmi, quelle che mi ha dato per poco, spacciandole per ciò che desideravo in quel momento, e poi rivelandole per le cianfrusaglie e presenze inconsistenti quali erano.
A contare quanto tempo é passato, quanto ne resta.
A guardare il Cielo di questo autunno pieno di enigmi,
a muovergli accuse, ringraziamenti, domande,
a strappargli promesse, a fissarlo in silenzio e versare qualche lacrima.
O un sorriso. O una speranza.
- Sembra una cosa molto molto triste. E come stai, adesso?
- Consapevole.
- Consapevole non é uno stato d’animo. Sembra davvero una cosa triste. Vuol dire triste?
- Vuol dire consapevole.
La tristezza é come la felicità, o come la vita stessa.
A un certo punto, passa. Arriva altro.
La consapevolezza, invece, resta. Se la eserciti, resta sempre.
Gabriela Pannia
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Sono stanca.
Sono stanca di tutto..
Non basta la terapia, non bastano i farmaci, non basta nemmeno la droga, non mi bastano più nemmeno le fusa di Tommaso, non mi basta più nulla per essere felice in questo mondo di merda.
Ho passato il pomeriggio a piangere davanti al bambino a cui faccio da tata dicendogli “non voglio giocare oggi, sono triste” e lui mi ha risposto “quando finisce la tristezza facciamo la lotta con i dinosauri?!”
“Si Ale, quando passa la tristezza..”
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oggi vado a lavoro più tardi e ho approfittato per fare quello che avrei dovuto fare un anno fa subito dopo essermi laureato, ossia buttare via tutto il materiale didattico, forse non me la sentivo perché toccare quelle cose avrebbe voluto dire accettare che non sono più un ragazzino, che sono passati, oggi, 6 anni da quando entrai per la prima volta in facoltà, ma quest’anno sto imparando ad accettare che il tempo passa e più che focalizzarmi sui ricordi o sul futuro devo stare coi piedi per terra e godermi il presente, per quanto non sempre possa piacermi, però la cosa che mi fa sorridere è che, mentre mettevo via tutto sto schifo di roba in 3 bustone enormi, è caduto da uno dei fascicoletti un biglietto della metro di roma di quando l’ho presa con te e ti dirò, a primo impatto mi ha fatto riaffiorare determinati ricordi, però poi l’ho preso da terra e buttato insieme a tutto il resto perché, come quelle cose, tu appartieni al passato di una vita che non mi appartiene più
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Conoscete la storia del "tempo che passa", vero?
Già. L'avrete sentito dire a tantissime persone, anche voi l'avrete detto molte volte.
Il tempo passa, anzi scorre fra le nostre dita e spesso non ce ne accorgiamo. Impegnati a vivere gli attimi della vita che, se sommati, formano il tempo.
Vivere, già... bisogna avere anche una buona dose di fortuna per vivere; diversamente si sopravvive.
"Il tempo passa" e lo sappiamo tutti, ma arrivano dei momenti nella vita in cui effettivamente ce ne accorgiamo. Ci rendiamo conto che il tempo è passato, come se tutto d'un tratto ci svegliassimo da un torpore. Come se ci fossimo assopiti sul treno, durante un viaggio, svegliandoci di soprassalto al sentire un voce gracchiante da un altoparlante di una stazione.
In questi giorni intensi ho avuto delle concrete prese di coscienza del tempo che passa.
Figli. Questo mese di settembre sono riprese le scuole, ho visto i ragazzi per le vie della città con i loro zainetti e cartellette avviarsi in lunghe file verso le proprie scuole. Ho visto genitori accompagnare i bambini con i loro piccoli zainetti verso le scuole dell'infanzia o di primo grado.
Così mentre li osservavo ho pensato ai miei figli. All'autonomia che hanno i ragazzi universitari.
Non hanno più bisogno di me, dei passaggi o dei trasporti. Dei colloqui con i docenti e delle presenze nello studio.
Santo cielo, sono uomini che si organizzano e hanno appuntamenti di studio e corsi, e lezioni.
Di pranzi o cene con gli amici, di viaggi nel fine settimana e di discussioni e pensieri. Hanno sempre fretta, come se avessero un cronometro messo nel cervello.
Vorrei dire ogni tanto a ognuno di loro: "Riposati"; poi penso a quando li esortavo a studiare e non "perdere tempo".
Ma il tempo non si perde, esso scorre. Sta a noi decidere se viverlo appieno o lasciarlo scivolare inerti.
Madre. Che la tua ragione sta sfumando, non averne a male se ti ho portato in un posto dove ti aiuteranno. Spero di riportarti presto a casa, per vederti ancora tra i tuoi ricordi e le cose a te care. Sistemo casa tua e vedo le foto in bianco e nero o con quei colori anni ottanta. Quante volte le ho viste, ma con la tua presenza andavano in secondo piano. Ora nel silenzio dell'assenza pesano come pietre miliari, segnando la strada del tempo passato.
Il tempo passa. Venticinque anni sono passati dalla sepoltura di mio padre. In questi giorni è stato riesumato.
Mio padre, non ha mai mollato nella vita. Testa bassa e lavoro, fino allo stremo.
Solo un cancro lo ha sconfitto prematuramente.
Così ho assistito alla sua esumazione, pensavano di trovare ossa i necrofori. Ma lo avevano assicurato per la loro esperienza nel settore: "Deve sapere che dopo venticinque anni saranno solo ossa"; mi hanno detto.
Mio padre invece non si è consumato, ha resistito.
Ho avuto pietà per quei resti umani, ho avuto pietà per me che sono restato umano.
Ho sussurrato "Scusa", a quei resti. Perché di scuse ne avevo tante da porgere a mio padre, usando la mia bocca. Perché di scuse me ne doveva anche lui, con la sua bocca.
Così in questi giorni mi sono svegliato a una stazione, a bordo di un vagone, per via di una voce gracchiante dal profondo della mia anima. Sono risvegli duri, che ti lasciano un po' stordito, con quel malessere diffuso.
Il tempo passa e lo sa solo il cielo di quanto ne ho sprecato.
Mi domando se riuscirò, per quanto mi rimarrà di vivere, di sentirmi completato. Ma poi penso al fatto che, ognuno di noi, ha più tempo che vita.
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Sto rivalutando il mio aspetto. Se prima mi sentivo ai minimi storici della mia bellezza – che diventerebbe appunto bruttezza, se non lo fosse già stata da sempre – adesso, con questo nuovo taglio e questo nuovo colore mi sento invece all'inizio della creazione di una nuova immagine di me: ho un certo carattere ed un certo “stile” anche vestendomi in maniera abbastanza anonima e senza un filo di trucco, la mia figura inizia ad acquisire dei bordi. Da qui, allora, mi sembra che io possa iniziare a modellare quegli aspetti che vorrei cambiare di me o meglio, mi sembra che possa iniziare a lavorare sulla mia immagine senza necessariamente apparire “bellina”. Il viso dolce e gli occhi buoni non mi appartengono, ma non significa che non possa averli e riservarli a pochi eletti. Il viso fresco e puro di chi cerca disperatamente di farsi amare e accettare non mi appartiene, ma voglio imparare a guardare senza pregiudizio nella maniera più spietata – ovvero reale – possibile chi e ciò che mi circonda per accettarlo per quello che è. Ho l'impressione che mi sia passata la necessità di badare ossessivamente a quello che mi circonda, del giudizio delle persone. Voglio vedere solo ciò che mi interessa e che mi eleva. Faccio mia la frase della parrucchiera, mia coetanea, “per me sono questi gli anni migliori”. Ed in un certo senso lo sono anche per me. Sono appena iniziati gli anni migliori, dove finalmente sono arrivata ad un punto in cui mi sto scrollando di dosso il giudizio degli altri, l'ansia da prestazione, le esperienze passate che mi hanno segnata. O almeno l'obiettivo è questo, e cioè non continuare a vivere nel passato. Ed è per questo che sono tornata in Sicilia: per chiudere i conti con questa terra maledetta, per chiudere i conti con l'educazione fallimentare ricevuta dalla mia famiglia. Passati i trent'anni ormai non posso nemmeno far finta di essere una ragazzina con i daddy issues ma non significa che non possa acquisire una bellezza tutta mia che non passa necessariamente dalle mancanze del passato, da figure e situazioni mancate, e soprattutto sto vivendo in maniera quasi più spensierata adesso che quando avevo vent'anni ed ero un cumulo di paure ambulante. Adesso ho ancora paura, ma alla fine chi se ne fotte.
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Erasmus
Sei il fidanzato di mia figlia. La sposerai e la renderai felice. Certo: l'anno scorso magari avrei dovuto pensare a ciò che sarebbe potuto accadere, tra noi tre. Io quarantacinquenne, tu venticinquenne a un paio di esami dalla laurea e infine Giuliana, mia figlia, ventunenne. Al suo primo anno di università ti ha conosciuto, vi siete immediatamente innamorati, fidanzati e subito ti ha portato a casa. Le brillavano gli occhi, quando ti ha presentato a me. Siccome venivi da un'altra città lontana seicento chilometri e dal mio divorzio noi due viviamo da sole, ci è venuto naturale farti lasciare la stanzetta dove vivevi; così avresti risparmiato i soldi dell'affitto.
E quindi ti sei stabilito da noi. Poi dopo un po’ è saltato fuori che Giuliana avrebbe dovuto passare un anno in Polonia per l'Erasmus. Lacrime, struggimenti d'animo. Promesse d'amore e fedeltà eterni. “Non ti preoccupare: un anno passa presto. E poi ogni paio di mesi una volta vengo io, un'altra vieni tu e tireremo avanti alla grande: il nostro amore è più potente di tutto ciò che lo ostacola.” Saggia, la mia bambina, no? Non è passata neppure una settimana: al solito, di sera siamo rimasti a vedere la tv dopo cena sul divano e dopo la telefonata serale con la tua ragazza, la mia figlia stupenda, l'unica luce dei miei occhi, hai cominciato spudoratamente a guardarmi fisso, da vero sfacciato.
E a sussurrare alla mia anima di donna trascurata dall'amore, a secco di complimenti da anni, che ero proprio una donna bella, affascinante, desiderabile. Parole di miele; suono d'angeli, per le mie orecchie. Io mi schernivo e, seria in volto, ti dicevo di smetterla. Ma non desideravo altro che sentirti farmi la corte. Le tue frasi erano un puro succo d'amore, per la mia anima femminile assetata di ammirazione e attenzione maschili. E poi che le mie gambe e il mio culo ancora bello sodo (cafone!) ti stavano facendo impazzire di passione, che il mio profumo e il mio sorriso ti avevano completamente conquistato, che avevi sempre sognato di possedere una femmina calda e intelligente, dolce e coccolona come me.
Che desideravi succhiare dai miei capezzoli. Io ero viola dall'imbarazzo. Ma dentro di me non vedevo l'ora che mi saltassi addosso. Erano diversi giorni che mi ronzavi attorno, capivo che oggettivamente eri desideroso di mettermi le mani ovunque: mi hai puntata dallo stesso giorno in cui mia figlia è partita. Una donna di quarantacinque anni, che sia stata già sposata, lo sgama subito e lei spesso è, per un uomo che la sappia interessare con intelligenza, una preda facilissima. Checché se ne dica. Tu mi studiavi anche da prima della partenza di Giuliana, l'avevo capito dal primo giorno. Poi quella sera sei passato appunto a tattiche di avvicinamento esplicite. Mi volevi. Mi desideravi.
Le tue erano tutte manovre a cui ho cercato debolmente di sottrarmi. Ma più mi parlavi, più non volevo altro che te dentro di me. Ti pensavo segretamente anch'io: da mesi. Moltissimo. Avevi capito in qualche modo che mi davo piacere da sola nel letto, sentendovi scopare di notte e immaginandomi sotto di te. Demonio. E quindi alla fine mi sono decisa a cedere: tanto, se deve essere, che sia. T'ho detto solo: “va bene. Ti farò sfogare su di me i tuoi istinti di maschio, però mi devi promettere che non lo dirai mai a Giuliana.” Tu mi hai sorriso e me l'hai giurato. Una madre non vuole certo far soffrire la figlia e così, rassicurata, non ho ragionato più!
Inoltre, pensavo per giustificarmi, cercando al tempo stesso di tacitare la mia coscienza, la mia tutto sommato forse era soltanto una... prova su strada della tua piena funzionalità di maschio. Così: per accertarmi di quali mani d'uomo avrebbero preso in consegna mia figlia. Non ce l'ho fatta più: ti ho slacciato la cintura, sceso i calzoni e ti ho subito preso in bocca l'uccello. Ero affamata di cazzo. Del tuo cazzo. Quanto m'hai fatto godere, quella sera! Erano anni che non sentivo il piacere così intenso di un membro d'uomo che mi riempie la bocca, che scende inesorabile fino ad arrivarmi in gola. Godevo del cazzo grosso e duro di un giovane che cercava d'esplodere il suo piacere proprio dentro di me!
Un uomo solido che, imperioso e bello come un Dio greco, stantuffava ovunque dentro al mio corpo, da vero signore: prepotente e mio padrone totale. Dio che sensazione meravigliosa. Mi rivoltavi come un calzino. Facevi ciò che più ti piaceva del mio culo. E io ti lasciavo distruggermi la psiche e tutti i miei valori di mamma e donna di mezz'età irreprensibile. E che dimensioni, il tuo cazzo, poi! Avere per casa un bellissimo stallone che mi desiderasse è stato per me per tutto il tempo in cui è durato un vero afrodisiaco. M'hai ridato la vita. T'ho fatto scopare regolarmente da subito e l'ho preso appunto molto volentieri maggiormente nel culo.
Ogni mattina, diligente e golosa, ho sempre inghiottito tutto il tuo sperma. Abbiamo dormito spesso insieme la notte intera nel mio letto matrimoniale e nel totale segreto abbiamo fatto dei numeri che nemmeno da giovanissima con mio marito. Sento che anche tu in quest'anno passato in intimità ti sei affezionato molto a me e che forse un pochettino mi ami anche. Per te sono stata un po’ mamma e un po’ puttana. Ma domani sera Giuliana ritornerà. Quando la riavrò a casa sarà la mia gioia e la mia disperazione. Pregherò per poterti avere ancora, in qualche modo. Di nascosto da mia figlia. Ma mi devo dare una calmata. Ci dobbiamo frenare entrambi.
Cazzo, che dipendenza che sei! Ormai tu costituisci per me una vera droga. Sono una donna in amore e in calore per te. Instupidita completamente. Ma ora approfittiamo ancora di questa notte insieme. Ti prego: amiamoci finché non verrà il giorno tiranno. Dormi con me. Stammi dentro e sopra il più a lungo possibile. Voglio conservare il tuo odore e i tuoi graffi sul mio corpo. E dentro l'anima: sono quelli che sanguinano di più. Ho lubrificato per bene il mio culo per te, se lo vuoi. Ti sto aspettando per accoglierti come meriti, uomo mio segreto. Ti voglio: sborra più volte dentro di me, stanotte, ti prego. Usami come vuoi. Sii il mio maschio padrone ancora un'ultima volta.
E fammi sentire femmina desiderata, bramata, strapazzata: succhia i miei seni per ore. Scopami forte e dimmi le bugie più dolci. Dimmi che mi ami, che mi vuoi, che sono bellissima, che desideri il mio culo, la mia bocca e la mia fregna più di quanto non desideri la mia bellissima Giuliana. So che non posso certo competere, ma una femmina in calore s'aggrappa a qualsiasi cosa. Io ci crederò, mi illuderò. Voglio che poi al mattino tu mi faccia tornare con i piedi per terra e mi umilii chiamandomi troia, puttana, vecchia succhiacazzi: tra le lacrime ti bacerò, ti succhierò e farò tutto ciò che mi comanderai un'ultima volta, prima di andare in aeroporto, di dividere i nostri corpi e ricomporci. L'ultima notte con te.
RDA
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Dicembre è il mese che ci obbliga
a fare i conti con le persone
che non ci sono più,
Dicembre ci chiede di essere felici,
anche quando non lo siamo.
E allora ci troviamo lì,
davanti a un albero addobbato,
a nascondere lacrime dietro un sorriso forzato,
a pensare a chi avremmo voluto stringere,
a chi avremmo voluto dire “resta”,
ma non l’abbiamo fatto.
Dicembre è il profumo di una cena
che non cucineremo più insieme.
È un messaggio che non arriverà mai.
È la sensazione che il tempo non basti mai
per fare pace con il passato.
Non è vero che il tempo guarisce tutto.
A volte passa e basta.
E il dolore resta lì, sotto la pelle,
a farci compagnia.
Non devi essere felice a tutti i costi.
Dicembre ti vuole vero, non perfetto.
Se stasera ti senti perso,
sappi che non sei solo.
C’è sempre qualcuno che si ferma davanti
a una finestra e piange per lo stesso
motivo per cui sorriderà domani.
Dicembre sembra sempre lì a ricordarci
che non tutti i finali hanno
un lieto fine.
Life 🌺
Riccardo Bertoldi
Image ©Pinterest
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- Non ti ho vista per un po’, dove sei stata?
- In disparte, per conto mio.
- A fare?
- Calcoli. A contare tutte le cose che la vita non mi ha dato, quelle che ha finto di darmi, quelle che mi ha dato per poco, spacciandole per ciò che desideravo in quel momento, e poi rivelandole per le cianfrusaglie e presenze inconsistenti quali erano. A contare quanto tempo é passato, quanto ne resta. A guardare il Cielo di questo autunno pieno di enigmi, a muovergli accuse, ringraziamenti, domande, a strappargli promesse, a fissarlo in silenzio e versare qualche lacrima. O un sorriso. O una speranza.
- Sembra una cosa molto molto triste. E come stai, adesso?
- Consapevole.
- Consapevole non é uno stato d’animo. Sembra davvero una cosa triste. Vuol dire triste?
- Vuol dire consapevole. La tristezza é come la felicità, o come la vita stessa. A un certo punto, passa. Arriva altro. La consapevolezza, invece, resta. Se la eserciti, resta sempre.
Gabriela Pannia .
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Dov'è
la poesia? La domanda è posta
ovunque. E la poesia
va all'angolo a comprare i giornali.
Gli scienziati smembrano Puškin e Baudelaire.
Gli esegeti smontano la macchina del linguaggio.
La poesia ride.
Viene emanata un'ordinanza: è vietato
mischiare la poesia con Ipanema.
Il poeta testimonia all'inchiesta:
la mia poesia è pura, un fiore
senza stelo, lo giuro!
Non ha passato né futuro.
Non sa di fiele né di miele:
è di carta.
Non è come il
giglio effimero che
passa.
E non è soggetta alle tarme
poiché ha protezione insetticida.
Credimi,
la mia poesia è immune alla vita.
Ferreira Gullar, da Nella notte rapida, 1975
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- Non ti ho vista per un po’, dove sei stata?
- In disparte, per conto mio.
- A fare?
- Calcoli. A contare tutte le cose che la vita non mi ha dato, quelle che ha finto di darmi, quelle che mi ha dato per poco, spacciandole per ciò che desideravo in quel momento, e poi rivelandole per le cianfrusaglie e presenze inconsistenti quali erano.
A contare quanto tempo é passato, quanto ne resta.
A guardare il Cielo di questo autunno pieno di enigmi,
a muovergli accuse, ringraziamenti, domande,
a strappargli promesse, a fissarlo in silenzio e versare qualche lacrima.
O un sorriso. O una speranza.
- Sembra una cosa molto molto triste. E come stai, adesso?
- Consapevole.
- Consapevole non é uno stato d’animo. Sembra davvero una cosa triste. Vuol dire triste?
- Vuol dire consapevole.
La tristezza é come la felicità, o come la vita stessa.
A un certo punto, passa. Arriva altro.
La consapevolezza, invece, resta. Se la eserciti, resta sempre.
Gabriela Pannia
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“Ti diranno che tutto passa. Ti diranno che tutto passa ma non ti diranno dove. Passerà nelle vene, nelle ossa, tra i contorni del tuo viso, in ogni muscolo, in ogni goccia di sangue, tra i tuoi sorrisi, nelle tue lacrime, attraverso quel vuoto che scaverà nello stomaco. E passerà senza pietà, senza chiederti il permesso. E passerà, e ti cambierà. E resisterai, e passerà. Avrai nuovo inizio, un’altra vita. Ma nelle giornate no, in un momento di crisi, in un attimo di debolezza… beh, solo una cosa ti tornerà alla mente. Un segno sul cuore, una cicatrice rimarginata ma mai guarita. Il desiderio più grande, una stella cadente, la monetina lanciata nella fontana, le striature bianche nel cielo. Un nome e un paio d’occhi. Perché, ragazzo mio, alcune cose finiscono. Ma altre, semplicemente… finiscono di meno. E saranno l’eco assordante del silenzio con cui fingerai non ne sia mai valsa la pena. Vedrai la tua stessa casa bruciare, senza poter far nulla per salvarla. Ti sentirai stupido quando ascolterai le stesse vecchie canzoni, quando avrai paura del buio e ancora di più della luce, quando piangerai in mezzo alla gente con gli occhi asciutti. Ma proprio in quelle giornate no, in quei momenti di crisi, in quegli attimi di debolezza… quando vivere non ti basterà più, allora ricorderai. E scaverai nel tuo passato, e ti farai del male. Lo farai. Dovrai. Perché dimenticare è impossibile. E ricordare è il solo modo che esiste per imparare a non farlo più.”
#anime and manga#anime#anime boy#frasi belle#anime art#animation#love boys#anime fanart#gif animation#giappone#bakugou kastuki#izuku midoriya#bakudeku#i love him
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❓️A CHI GIOVA IL PROCESSO DI MOSTRIFICAZIONE DEL MASCHILE ? IL PATRIARCATO E' UNA FORMA DI CONTROLLO DI TUTTI, NON SOLO DELLE DONNE
Nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne proponiamo di uscire dalla narrativa che degli uomini sembra saper solo restituire un'immagine mostruosa e pericolosa.
Come siamo arrivati a vedere degli uomini solo sotto questo aspetto? Perchè le uniche parole che si spendono per descrivere la psicologia maschile sono più o meno sempre le stesse?
Assistiamo quotidianamente a profezie che si avverano, laddove gli uomini sembrano non avere strumenti alternativi alla violenza per manifestare la propria fragilità. Ed in effetti è così. A fronte di un sistema nervoso che alla nascita è più immaturo e sensibile nei maschi rispetto alle femmine, tale per cui i bambini maschi avrebbero bisogno di maggior accudimento e vicinanza perchè oggettivamente più bisognosi e meno autonomi, abbiamo sviluppato una cultura educativa che li spinge precocemente ad essere indipendenti, a negare i propri bisogni di vicinanza ed evolutivi in genere.
A questo scopo i modelli maschili a tutti i livelli insegnano che per produrre l'illusione del maschio adeguato alle aspettative culturali occorra imparare a sopprimere e a non ascoltare le proprie emozioni, in particolare quelle della paura e della tristezza, antidoti naturali alla rabbia e all'ira che sono alla base degli agiti sia auto ( i suicidari sono in larga maggioranza di sesso maschile) che eterolesionisti ( non solo violenza sulle donne, ma condotte pericolose come la guida ad alta velocità).
In pratica è come se per avere l'illusione di saper guidare una macchina altamente sofisticata si dicesse ai conduttori di disattivare delle spie e regolarsi unicamente su un paio: la rabbia e il disgusto.
In questo video provo a dimostrare come tutta questa ignoranza sul funzionamento psicologico degli uomini sia delle donne che degli uomini stessi favorisca una dimensione immatura delle relazioni che porta necessariamente a poter controllare più facilmente gli uni e gli altri attraverso l'influenza esterna come i modelli culturali che gli uomini forti e sicuri sarebbero più attraenti.
A pensarci bene l'indicazione che viene data ai maschi fin dalla tenera età è "Non essere te stesso. Fa di te una copia del modello dominante".
Ed è proprio questa distanza sempre più siderale tra l'immaturità interiore e l'immagine esteriore, di negazione del bisogno dell'altro, che porta gli uomini a rifugiarsi nelle dipendenze in generale, non solo dalle donne, ma anche da sostanze o da lavoro: gli uomini anestetizzati sono burattini, soldatini, schiavi che non possono che muoversi in copioni copia e incolla, fortemente influenzabili e controllabili che non reggono all'impatto di una realtà, come quella intima, che chiede loro di esistere, di esserci.
La deriva di tutto questo si manifesta nella solitudine profonda in cui vive la maggior parte degli uomini: privati della capacità di condividere la propria interiorità, resi totalmente muti, privi di parole per dire cosa stanno vivendo e incapaci di chiedere aiuto, perchè non legittimati a farlo per non sprofondare in una vergogna che annichilisce, non resta loro che obbedire al mondo esterno e reagire ad esso come sistemi ipersemplificati stimolo-reazione, incapaci di portare una mediazione personale che verrebbe dal mondo interiore.
Anche questo è un lato del patriarcato di cui non si parla.
La lotta alla violenza passa anche dal creare una #cultura che aiuti e supporti i maschi a fare una ormai sempre più necessaria rivoluzione.
Servono nuovi Ulissi, pronti a scoprire le terre del mondo interiore maschile e donne in grado di affrontare il maschile immaturo e a tenervi testa, proprio come fece Penelope con i proci.
Il nostro contributo alla creazione di questa cultura proviamo a darlo, come abbiamo già fatto in passato in altre occasioni pubbliche, organizzando insieme al Comune di Mozzo la presentazione del libro di Alberto Penna "Uomini che piangono poco" (Ed. Garzanti) mercoledi 4 dicembre ore 20.30 presso la Sala Civica della Biblioteca di Mozzo.
L'evento è gratuito e a prenotazione obbligatoria. Il contrasto alla cultura della Violenza parte dalla creazione di premesse culturali diverse.
Contaminiamoci con nuove idee. Allarghiamo gli orizzonti di senso.
🤗ecco il link per iscrivervi all'evento:
https://www.eventbrite.it/e/maschi-che-piangono-poco-tickets-1082914248669?aff=oddtdtcreator
Centro Divenire Bergamo
#uominisidiventa
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La metro oggi era piena come un uovo, complice gli ultimi giorni prima di Natale.
Ultimi giorni di scuola, di appuntamenti lavorativi e di spese e acquisti per completare i regali.
Ultimi giorni frenetici, giorni che avvicinano alcune persone al baratro della solitudine sia esteriore che interiore. Un disagio che sale pian piano lungo il collo in un capestr0 che leva il respiro.
Sono seduto vicino a un uomo, non posso non notarlo. Lo sguardo che esprime è devastante. Mi faccio forza - Tutto bene? - gli chiedo con la voce un po' strozzata.
- Non molto bene, a dire la verità - mi risponde inaspettatamente con sincerità e un sorriso amaro, quasi sorpreso della mia domanda - mi sento… spento. Vivo come se non ci fosse nulla per cui valga la pena farlo.
- Posso comprenderti sai? - cerco di rassicurarlo - forse abbiamo qualche fermata da condividere, vuoi parlarne? - gli chiedo mentre vedo chiaramente la donna al suo fianco intenerirsi per queste mie parole.
- Non so nemmeno da dove cominciare - mi risponde rassegnato.
- E tu provaci - lo sprono alzando di mezzo tono la voce e di dodici denti il mio sorriso.
- Mi sento sempre stanco, senza energie. Non ho voglia di fare niente, nemmeno le cose che di solito mi piacciono.
- Ti senti così da molto tempo?
- Ho smesso di contare il tempo da molto, sono stanco. Credi sempre che sia solo un breve periodo, che poi passerà ma invece non è così. Il tempo passa e resta tutto fermo, come in una lunga apnea.
- Hai mai pensato di parlarne con qualcuno? Un medico, uno psicologo…
- L'ho fatto in passato, Non credo servirebbe ancora ripetermi. Tanto non cambierebbe niente.
- Perché pensi che non cambierebbe niente? - gli chiedo avvicinandomi con il mio busto.
- Perché la gente non cambia. La gente che mi circonda, chi fa parte della mia vita compresi quelli che non ho cercato. Non è facile essere una valvola di sfogo per tutti, mentre a me non è concesso, salvo pagando pegno. Non so manco perché te lo dico - e mentre pronuncia queste parole vedo lo sconforto nei suoi occhi, il mordersi un labbro quasi a provocarsi un dolore per sopire un altro tormento.
- Capisco - gli dico con un gran sospiro e dandogli una pacca amichevole su un ginocchio - ma sappi che ci sono persone che possono aiutarti e che non sei solo. Io ci sono, se hai bisogno di parlare. Anche solo per sfogarti un po'.
- Si lo so, io sono uno di quelli. La gente vuole più essere ascoltata che ascoltare. Mi chiedo sempre se le persone come me in questo mondo ce la faranno.
- Bella domanda. Il fatto è che per non sentire nulla, nella vita, dovresti avvelenare il cuore. Averlo compromesso. Di pietra.
- Dovremmo vivere in un mondo dove si potesse davvero mettere in evidenza il proprio animo, non il proprio ego. Dovremmo vivere e non sopravvivere.
- Sopravvivere, hai ragione. Quando vivi con il costante pensiero di arrendersi è molto più dura. Ti capisco sai?
Arrivata la fermata dove dovevo scendere ho salutato l'uomo stringendogli la mano.
Sono rimasto seduto su quel seggiolino della metro fino al capolinea, lì dovevo scendere, chiuso nei miei pensieri. Sentivo ancora quella pacca sul mio ginocchio, come se qualcuno me l'avesse data davvero. Non avevo una bella espressione, ma nessuno se n'è accorto. Impegnati nella loro vita che scorre su un display.
Averi voluto che qualcuno mi avesse detto "Tutto bene?".
Me lo richiederò da solo questa sera, dopo l'ennesima prova della mia inutilità come figlio e padre di famiglia.
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- Non ti ho vista per un po’, dove sei stata?
- In disparte, per conto mio.
- A fare?
- Calcoli. A contare tutte le cose che la vita non mi ha dato, quelle che ha finto di darmi, quelle che mi ha dato per poco, spacciandole per ciò che desideravo in quel momento, e poi rivelandole per le cianfrusaglie e presenze inconsistenti quali erano. A contare quanto tempo é passato, quanto ne resta. A guardare il Cielo …, a muovergli accuse, ringraziamenti, domande, a strappargli promesse, a fissarlo in silenzio e versare qualche lacrima. O un sorriso. O una speranza.
- Sembra una cosa molto molto triste. E come stai, adesso?
- Consapevole.
- Consapevole non é uno stato d’animo. Sembra davvero una cosa triste. Vuol dire triste?
- Vuol dire consapevole. La tristezza é come la felicità, o come la vita stessa. A un certo punto, passa. Arriva altro. La consapevolezza, invece, resta. Se la eserciti, resta sempre.
~ Gabriela Pannia
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Certezze e carezze da recuperare
Lei
È tutto tempo che passa. È la voglia di ritrovarsi dopo un lungo viaggio forzato. È sentirsi a distanza e sapere di essere l'oggetto dell'amore di qualcuno lontano che però non può mettersi in viaggio verso di te. È avere un posto in prima fila nei suoi pensieri tutto il tempo. Questo tempo che passa. Lentissimo, per chi si ama.
Lui
L'ho rivista. Finalmente: non ne potevo più. Lei è al centro esatto dei miei pensieri. Sempre. Ho sfidato qualsiasi ostacolo per riaverla tra le braccia. Il sapore delle sue labbra era quello delle fragole mature e dolci: mie di nuovo. Era ora. Grazie, o Signore. La morbidezza delle sue mammelle è sempre quella dei petali di rosa.
Quei rilievi dolcissimi sul suo petto, senza il reggiseno avevano un assoluto bisogno del sostegno e della delicatezza delle mani forti di un uomo che sappia apprezzare un dono così prezioso, tra due che si amano: le mie mani. Parti di me che impazienti e delicate li hanno salutati e coccolati a lungo.
Li conosco a memoria e ogni volta è come fosse il nostro primo appuntamento. Tremo sempre, al pensiero di poterli vezzeggiare. Dolci budini impregnati di passione ed erotismo. Godo molto, nell'accarezzarli teneramente. Lei, permettendomelo, mi regala l'intimità più ambita e assoluta, tra un uomo e la sua donna.
I suoi capezzoli erano finalmente felici di farsi guardare nuovamente da me. E non appena glieli ho liberati, sono entrambi immediatamente cresciuti. Come funghi dopo una pioggia di maggio nel bosco dei piaceri segreti. Gemme preziose che devono essere guardate e godute solo dalle labbra di chi lei ama.
Anelavano essere assaggiati. Non potevano più resistere alla lontananza dalla mia bocca. Io lo so, li conosco bene. Ho intinto un dito nella sua tazzina di caffè, li ho cosparsi per bene di liquido e li ho assaporati a lungo. Il gusto dolceamaro del ritrovarsi.
Confesso che c'è una lunga e segreta consuetudine, tra me e i suoi due seni, una nostra storia d'amore parallela e segreta a tre di cui lei è testimone silente. Sorridente e complice gaudente.
Divaricando finalmente le sue gambe e le sue natiche poi, la mia lingua ha riscoperto delicatissimi aromi intimi. E forme e piaceri noti ma mai dimenticati da entrambi. Anche questo tempo comunque è passato. E passerà veloce, con lei. “Non lasciarmi solo mai più: per lavoro o altro, io non posso stare lontano da te, mia Dea.”
Lei
Bentornato, uomo mio. Fammi tua. Ogni volta che vorrai. Ogni giorno. Chiedimi qualsiasi cosa: la farò per te, per darti piacere. Perché sono tua, tua, tua. Usami. Sono nata per essere tua fonte di godimento. Usami. Dammi il privilegio di riceverti in ogni mio orifizio. Ti desidero: sono a te devota. Usami. Saprò farti godere come nessuna. Godi del mio corpo. Usami. Usami.
RDA
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Nino Benvenuti: «Senza ricordi non c’è futuro»
Campione olimpico nel 1960, campione mondiale dei Pesi superwelter tra il 1965 e il 1966 e dei pesi medi dal 1967 al 1970, Giovanni (Nino) Benvenuti è stato uno dei migliori pugili italiani di tutti i tempi e il suo nome troneggia tra i grandi del pugilato internazionale. È entrato nell’immaginario collettivo in una notte di aprile nel 1967 quando 18 milioni di italiani seguirono la diretta del suo incontro con Emile Griffith al Madison Square Garden di New York. Di quel match che gli portò il titolo di campione mondiale dei pesi medi, ma anche dell’infanzia a Isola, dei primi passi nella boxe, del significato dell’essere pugili, del rapporto con gli avversari sul ring e di tanto altro Nino Benvenuti – insignito nel 2018 dalla Can comunale del premio Isola d’Istria –, parla in un’intervista esclusiva di Massimo Cutò pubblicata di recente sulla Voce di New York, che riproponiamo.
[...]
Chi è un pugile?
“Uno che cerca sé stesso sul ring. Uno che vuole superare i propri limiti come faceva Maiorca in fondo al mare o Messner in cima alla montagna. La sfida è quella: fai a pugni con un altro da te e guardi in fondo alla tua anima”.
Lei cosa ci ha visto?
“La mia terra d’origine, una verità che molti continuano a negare. La storia di un bambino nato nel 1938 a Isola d’Istria e costretto all’esilio con la famiglia. Addio alla casa, la vigna, l’adolescenza: tutto spazzato via con violenza, fra la rabbia muta e la disperazione di un popolo. Gente deportata, gettata viva nelle foibe, fucilata, lasciata marcire nei campi di concentramento jugoslavi”.
Una memoria sempre viva?
“Ho cercato di non smarrirla, per quanto doloroso fosse. Riaffiora in certe sere. Ti ritrovi solo e sale una paura irrazionale”.
Riesce a spiegare questo sentimento?
“Il passato non passa, resta lì nella testa e nel cuore. A volte mi sembra che stiano arrivando: Nino scappa, sono quelli dell’Ozna, la polizia politica di Tito viene a prenderti. Un incubo che mi tengo stretto perché senza ricordi non c’è futuro”.
Che cosa accadde in quei giorni?
“Isola d’Istria odora di acqua salata. È il sole sulla pelle. La nostra era una famiglia benestante, avevamo terra e barche, il vino e il pesce. Vivevamo in una palazzina di fronte al mare: papà Fernando, mamma Dora, i nonni, io, i tre fratelli e mia sorella. Siamo stati costretti a scappare da quel paradiso”.
Come andò?
“Mio fratello Eliano fu rapito e imprigionato dai poliziotti titini, colpevole di essere italiano. È tornato sette mesi dopo, un’ombra smagrita, restò in silenzio per giorni. Mia madre si ammalò per l’angoscia. È morta nel ‘56 di crepacuore: aveva 46 anni. Attorno si respirava il terrore delle persecuzioni. Un giorno vidi dalla finestra della cameretta un uomo in divisa sparare alla nostra cagnetta, così, per puro divertimento”.
Finché fuggiste?
“Riparammo a Trieste dove c’era la pescheria dei nonni. Fu uno strappo lacerante, fisico. Così la mia è diventata in un attimo l’Isola che non c’è. Non potevamo più vivere lì dove eravamo nati”.
[...]
Quant’è difficile invecchiare?
“Dentro mi sento trent’anni, non ho paura della morte. Sono allenato. Sul ring risolvevo i problemi con il mio sinistro, la vita è stata più complicata però ho poco da rimproverarmi. E ho ancora un desiderio”.
Quale?
“Vorrei che un giorno, quando sarà, le mie ceneri fossero sparse da soscojo. È lo scoglio di Isola d’Istria dove ho imparato a nuotare da bambino”.
Intervista di Massimo Cutò a Nino Benvenuti per La Voce di New York, 23 luglio 2022
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