#hostariaanticaroma
Explore tagged Tumblr posts
Text
1 note
·
View note
Text

SHOWTIME
La serata si preannuncia fredda, uguale a tante altre già vissute. Un vento gelido soffia da nord, scuotendo le poche piante che ancora resistono all'assalto del Generale Inverno. Dopo un rapido spuntino, accendo le luci esterne e l’insegna, come un automa che ogni sera osserva dalla finestra il calare dell’ombra. Un’ombra che, silenziosa e misteriosa, trasforma ogni cosa, tingendola di nuove sfumature e significati.
Una veloce lavata di denti, il nodo della cravatta sistemato con cura, ed eccomi pronto per lo spettacolo serale. Mio padre, con la solita attenzione minuziosa, si aggira tra i tavoli. Controlla ogni dettaglio, non fidandosi troppo del personale. E, in fondo, ha ragione. Nonostante le nostre differenze, condivido con quest’uomo molte più cose di quanto vorrei ammettere. A volte lo detesto per avermi plasmato a sua immagine, per aver fatto di me una parte di sé. È l’eterna sfida tra l’attor giovane e il mattatore, in questo teatro che si appresta ad aprire il sipario.
Attraverso la porta, intravedo i fari delle prime auto che entrano nel parcheggio. I clienti sono arrivati. Mi sistemo il nodo della cravatta un’ultima volta e lancio uno sguardo veloce ai miei collaboratori. Sono pronti, marziali, ma a ben vedere un po’ impacciati. Finalmente, la porta si apre. Due coppie entrano con energia, chiedendo un posto riservato, lontano da occhi indiscreti. Domenico li accompagna nella veranda, mentre Vito porta i loro cappotti nel guardaroba.
Non posso fare a meno di notare quanto siano "particolari" queste coppie. Le donne, giovani e bellissime, contrastano con i loro accompagnatori: uomini viscidi e trasudanti arroganza. Li accolgo con il consueto sorriso e li affido alle "affettuose" cure di Domenico, che, pur mantenendo un’espressione impeccabile, impreca silenziosamente contro la biondina aggrappata come un macaco al suo sudaticcio accompagnatore, mentre chiede piatti macrobiotici.
Altre luci si accendono nel parcheggio. Arrivano nuovi clienti. Senza di loro, questo nostro piccolo teatro quotidiano perderebbe senso. La porta si spalanca di nuovo, lasciando entrare un gruppo di alti dirigenti finanziari. Con la consueta familiarità, li accolgo con saluti calorosi, pacche sulle spalle e qualche battuta. Il loro tavolo, sempre riservato, è pronto per questi "re Mida" moderni. La loro aura sembra trasformare tutto in oro, o almeno in una sua imitazione.
Poi entra in scena mio padre, dopo essersi preparato con una dose di respirazione profonda in stile Stanislavskij. Con il suo gesto teatrale, tende la mano agli ospiti e declama il suo celebre "Piacere, sono Massimo, il ciociaro." È uno spettacolo collaudato: sorrisi, battute di circostanza, e in breve le difese dei clienti cadono, lasciandosi guidare da Massimo-Faust nei piaceri della cucina.
Altri tavoli si riempiono. Una giovane coppia al primo appuntamento si distingue per la loro timida dolcezza: occhi che si sfuggono, mani tremanti, piccoli gesti carichi di romanticismo. L’aura luminosa che li circonda è palpabile. Poco distante, due amici discutono di vacanze, mentre un uomo solo si rifugia nel vino per dimenticare la solitudine.
Quanti volti, quanti gesti, quante storie in questo piccolo universo chiamato ristorante. Un luogo dove le vite si incontrano, si sfiorano, si intrecciano. Un palcoscenico dove ognuno recita il proprio ruolo, davanti a un piatto che diventa un pretesto per vivere.
In questo mondo io vivo. Questo palcoscenico è la mia vita. Senza di esso, sarei solo una maschera anonima. Invece, sono l’attore giovane, quello che ogni sera calca le scene e ruba attimi di vita al pubblico. Attimi che faccio miei, frammenti di esistenze che altrimenti non avrei mai modo di vivere.
Alla fine, il sipario cala. Spengo l’insegna, le luci, e torno a casa. ‘Notte.
#hostariaanticaroma#via appia#appia antica#ristorante#ristorante romano#roma#italia#italy#vita vissuta
1 note
·
View note
Text

Il Maritozzo
I dolci della cucina romana: regina dei ripieni è la ricotta e i formaggi, come si conviene a una tavola che non ha mai tradito la sua origine pastorale. E molte tracce di tempi andati: come i pasticci dolci di maccheroni o di gnocchi, che ricordano gli splendori del Rinascimento, come le frappè che arrivano dritte dall’età di Apicio o di Orazio, o di secoli più lontani.
Alcuni sostengono sia il dolce più antico di Roma, Secondo la leggenda, il Maritozzo deriverebbe da una specialità degli antichi Romani, i quali farcivano pagnotte con miele e uva passa.
Le pagnottelle erano più grosse di quelle odierne e consistevano in un impasto di farina, uova, miele, burro e sale, che le donne ponevano nelle bisacce dei loro mariti, braccianti, quando per lavoro si allontanavano tutto il giorno.
Nel Medioevo le pagnottelle si iniziarono a consumare soprattutto durante la Quaresima.
Le dimensioni divennero più piccole, il colore era più scuro, l’impasto venne infine arricchito con uvetta, pinoli, e scorrette di arancia candita.
Il dolce, detto “Quaresimale” era uno dei pochi peccati di gola ammessi durante il digiuno del periodo.
Il maritozzo è un pane dolce dalla forma leggermente allungata, tagliato nel lato lungo, leggermente in diagonale dall’alto verso il basso e riempito di panna montata. Il suo profumo è inconfondibile. Nel Ottocento, diventa un dolce popolare, diffuso principalmente nelle classi sociali più umili.
Questa concessione gli valse l’appellativo di Santo Maritozzo, come scrive anche Giuseppe Gioacchino Belli nel suo sonetto “La Quaresima”
Come io nun zò cristiano! Io fo la spesa, oggni ggiorno der zanto maritozzo. Io nun cenavo mai, e mmó mme strozzo pe mmaggnà ott’oncia come vò la cchiesa
Nel corso del tempo, il maritozzo quaresimale e quello che si mangia durante il resto dell’anno si sono diversificati: il primo con uvetta e olio nell’impasto, il secondo con un impasto a base di burro o strutto e con un ripieno traboccante di panna montata. Quello che si mangia in periodo di digiuno ha a volte un ripieno meno abbondante, altre volte è totalmente privo di panna.
Ai tempi del poeta Belli queste pagnottelle dolci erano leggermente diverse.
I maritozzoli sono certi pani di forma romboidale, composti di farina, olio, zucchero, e talvolta canditure, o anaci, o uve passe. Di questi si fa a Roma gran consumo in quaresima, nel qual tempo di digiuno si veggono pei caffè mangiarne giorno e sera coloro che in pari ore nulla avrebbero mangiato in tutto il resto dell’anno.
Il maritozzo, c’è da ammetterlo, ha un nome buffo che nasce da un’usanza ottocentesca e dei primi del Novecento. All’epoca, infatti, i fidanzati regalavano alle loro promesse spose uno di questi dolci, nascondendo al loro interno un anello di fidanzamento o un oggetto prezioso che rappresentava il vero regalo. C’era anche una data precisa per questo dono: il primo venerdì di marzo, che rappresentava un giorno simbolico per gli innamorati, un po’ come avviene oggi con il 14 febbraio dedicato a San Valentino.
È Giggi Zanazzo, (Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma, 1907) poeta romano e studioso di tradizioni popolari a raccontarci che, per l’occasione i maritozzi erano anche decorati con cuori intrecciati o trafitti da una freccia.
Un mucchio d’anni fa, dda noi, s’accostumava, in tempo de Quaresima, er primo vennardì de marzo, de portà’ a rigalà’ er maritozzo a l’innammorata.
‘Sto maritozzo però era trenta o quaranta vorte ppiù ggranne de quelli che sse magneno adesso; e dde sopre era tutto guarnito de zucchero a ricami. In der mezzo, presempio, c’ereno du’ cori intrecciati, o ddu’ mane che sse strigneveno; oppuramente un core trapassato da una frezza, eccetra, eccetra; come quelle che stanno sulle lettere che sse scriveno l’innamorati. Drentro ar maritozzo, quarche vvorta, ce se metteveno insinenta un anello, o quarch’antro oggetto d’oro. Tra ll’antre che ricordeno ‘sto costume, che oramai nun s’ausa ppiù dda gnisun innamorato, ciavemo diversi ritornelli: Uno, presempio, dice: “ Oggi ch’è ‘r primo Vennardì dde Marzo, Se va a Ssan Pietro a pija er maritozzo; Chè ccè lo pagherà er nostro regazzo” E dde ‘sti maritozzi: “ Er primo è ppe’ i presciolosi; Er siconno pe’ li sposi: Er terzo pe’ l’innamorati: Er quarto pe’ li disperati”. “Stà zzitto, core; Stà zzitto; che tte voglio arigalane ‘Na ciammellettta e un maritozzo a ccore”
Ma questo dono romantico e il suo nome hanno anche una connotazione più bassa, meno aulica e decisamente più concretamente simbolica se consideriamo la forma fallica o l’apertura colma di panna.
Connotazione che diventa più evidente leggendo il sonetto di Belli
Er padre de li santi in cui elenca tutti i nomi che può assumere in dialetto romanesco l’organo sessuale maschile. Tra questi c’è proprio “maritozzo”.
O in alternativa…come scrive il Professor Bonsai
Il maritozzo viene esposto in modo esageratamente "aperto", quasi ad evocare “altro” totalmente accessibile, allo scopo di far leva sul basso istinto del futuro sposo di passarci la lingua in mezzo, per godere della sua dolcezza.
(Damiano Bonsai Potta, Dinamiche psicotiche dei golosi, Padova 1969,
Ed. Lo Cicero.)
0 notes
Text
La Trippa
Storia e curiosità sulla Trippa
Quando parliamo di Trippa ci riferiamo, insieme alle altre frattaglie come la coratella, la pajata, la coda, al quinto quarto del bovino, ovvero la parte meno pregiata dell’animale.
Il quinto quarto era l’unica parte che in passato restava alle famiglie povere dopo aver destinato i quarti migliori del bovino ai nobili. La trippa si ricava dalla pancia, costituita dai tre prestomaci del bovino. Contiene solo il 4 per cento di grassi e 17 per cento di proteine. Deve essere cucinata con cura, valorizzata con ingredienti freschi e aromatici. Molte regioni italiane hanno la propria tradizionale ricetta della trippa che diventa protagonista di piatti prelibati.
Un tempo la Trippa , come tanti altri commestibili, si vendeva a Roma per le strade. Vedere l’ onnipresente Bartolomeo Pinelli, ma sentire pure il poeta Giggi Zanazzo.
Gli antichi Tripparoli, scriveva, “con il loro schifo, in testa pieno di trippe, zampi, pezzi di testa di vitella e di vaccina, e d’ altro”, se ne andavano di casa in casa, lanciando il loro richiamo: “Trippa, pieducci, e tutto er grugnaccio!”.
Tanto grande era la diffusione e la familiarità di questo genere di vasto consumo, che il Belli ci aveva imbastito sopra una specie di metafora del mondo.
Er monno è una trippetta, e l’omo è un gatto che je tocca aspetta la su porzione
Anche se “trippetta”, in particolare, indicava appunto la trippa per gatti.
I Tripparoli, inoltre tennero sempre a diversificarsi dai Macellai. Avevano bottega propria, infatti, per l’esclusivo commercio e vendita della Trippa. Con risultati, spesso, non proriamente igienici e beneodoranti, come si legge in un aspra protesta del 1860.
Quanto alle ricette, sembrano marciare su canoni costanti, ed avere in gran parte preciso carattere romano. Ne fa fede anche la “trippa di manzo alla romana” che ritroviamo nell’opera Apicio Moderno di Francesco Leonardi, che era stato cuoco di Sua Maestà Caterina II Imperatrice di tutte le Russie. Un’ opera la cui seconda edizione, veniva stampata dopo solo nove anni dalla prima a Roma nel 1797.
A Roma, anticamente la trippa si mangiava durante il pranzo del sabato, tanto che ancora oggi nelle trattorie si può leggere Sabato Trippa.
Fino agli inizi del ‘900 la trippa è stata un piatto prezioso per i romani, il principale apporto proteico dei loro pasti a un costo molto contenuto. Era il piatto più nobile che i romani potessero mangiare, visto che era costituito dalle frattaglie (le interiora) e dagli avanzi dell’animale come piedi, orecchie e muso. Ne facevano largo uso soprattutto i lavoratori del Mattatoio, che integravano il magro stipendio con i rimasugli dei tagli più pregiati.
Oggi la trippa alla romana è un caposaldo della tradizione gastronomica capitolina e non può prescindere dalla passata di pomodoro, dalla mentuccia fresca e una generosa spolverizzata di pecorino romano grattugiato. Molti i personaggi noti che l’hanno celebrata, apprezzata e amata, su tutti la carismatica sora Lella mai dimenticata da chi scrive.
La curiosità sul detto romano “Nun c’è trippa pe’ gatti”.
Il primo ad utilizzare questa formula fu Ernesto Nathan, sindaco di Roma tra il 1907 e il 1913. Nato nel 1845 in Inghilterra, a Londra più precisamente, era un progressista massone e si assunse l’onere di riordinare le finanze romane. A tal fine, tra le altre cose, contrastò la speculazione edilizia e favorì l’istruzione scolastica laica. Le sue prese di posizione, pur non molto popolari, diedero i loro frutti: per questa ragione ottenne l’appellativo di “sindaco della modernità”.
Ebbene, all’inizio del suo mandato, il bilancio comunale era in rosso ed Ernesto Nathan analizzò tutte le voci di spesa al fine di riuscire a migliorare la situazione capitolina. Un’uscita considerevole era rappresentata dal mantenimento dei gatti, incaricati di cacciare i topi che rosicavano i documenti presenti negli archivi e negli uffici del Campidoglio. Il sindaco dichiarò, quindi, che il comune non si poteva più permettere di sfamare i felini di Roma con la trippa.. E così, su un documento ufficiale, qualcuno scrisse l’espressione, poi passata alla storia, “Nun c’è trippa pe’ gatti”.
La Ricetta della Trippa à la Romana in sonetti romaneschi opera di Renato Merlino su ricetta di Carnacina er cochetto de Piazza Bologna.
Quanno penzo a la trippa a la romana,
me torna in mente ‘na storiella antica:
“Nà poveraccia,che ,cò gran fatica
Magnava due o tre vorte a settimana,
riescì a comprà la trippa pè stò piatto
ch’ era pè lei un ber sogno insoddifatto.
Cò quer pacchetto stretto sotto ar braccio
vorze entrà in chiesa a ringrazzia er Signore
proprio ner mentre ch’er predicatore
stava strillando come un gallinaccio
a tutta que’ la gente aridunata
che lo sentiva a bocca spalancata.
-Voi nun penzate er popolo affamato,
ma a la trippaccia vostra solamente! -.
La donna, poveraccia, appena sente,
sbotta: - E pè na vorta ch’ho sgarato,
sto fregno guarda un pò, me lo rinfaccia! -.
Prese la trippa e je la sbattè in faccia”.
Questo pè divve che la trippa è un piatto
Che nun se pò cercà de magnà sole
E chi lo viè a sapè de certo vole
Èsse invitato a conzumà er misfatto,
perciò t’inzegno come se cucina
seconno quer che dice Carnacina.
Ne compri mezzo chilo bell’e cotta,
la taji a pezzi larghi nàbraciola,
la sciaqui e poi la metti in cazzarola
coll’ acuqun po' salata e che nù scotta.
Lì un chiodo de garofolo s’ammolla
Unito ner destino a ‘na cipolla.
C’è ancora artra robbetta che j’allenti:
Un po' d’alloro che je manni a rota,
er sellero (‘na costa) e ‘na carota
tajati a fette guasi trasparenti.
Fai coce er tutto un’ora in cazzarola,
levi la trippa e lasci che se scola.
P’er sugo nun ce stà gnisun segreto.
Sia vero o finto portelo a bollore,
poi abbassi er foco e fai pija sapore
a què la trippa a striscie larghe un deto.
‘Na sventajata de mentuccia trita
e pecorino. E’ un piatto che ti invita.
1 note
·
View note