#grotte di barcaleone
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Architettura senza architetti
La storia ricorda i grandi nomi e le loro opere, basti pensare ad architetti come Antoni Gaudì, Filippo Juvarra o Christopher Wren che hanno radicalmente trasformato i luoghi in cui hanno operato, tanto da non riuscire ad immaginare queste città senza le opere di questi artisti. Barcellona non sarebbe più la stessa senza Parco Güell o la Sagrada Famìlia, lo stesso dicasi per Torino senza le opere dell’architetto sabaudo, e Londra sarebbe stata ricostruita diversamente senza Wren, e così via. Una domanda a questo punto sorge spontanea, ma prima di loro, prima dei grandi architetti, dei costruttori e delle grandi opere, prima di una codifica delle regole architettoniche, prima di Vitruvio e del De Architectura, cosa c’era? Prima di tutto ciò esisteva un’architettura anonima, spontanea, figlia di una necessità primordiale: la creazione di un rifugio. Questo tipo di costruzioni avevano il vantaggio di sfruttare ciò che offriva il territorio creando un habitat ideale perché si adattavano alle caratteristiche climatiche e geografiche della regione. Non a caso le grandi costruzioni in legno si trovano nelle regioni ricche di foreste e quindi di legname, come il nord Europa, mentre nelle aeree mediterranee le prime abitazioni umane erano rifugi scavati nella pietra, ma l’esempio, forse, più significativo è l’igloo che per sua natura è adatto solo alle regioni fredde, luoghi in cui le temperature sono così basse da avere a disposizione grossi quantitativi di ghiaccio e di neve. Un’analisi dettagliata dei diversi sistemi adottati nelle diverse aree del pianeta risulta quindi indispensabile per capire quali sono i materiali adoperati, quali le tecniche costruttive e ovviamente i pro ed i conto di ognuna. Alle origini l’uomo risolse il problema dell’abitare solo con ciò che offriva il territorio, pensiamo alle strutture a cruck della Gran Bretagna o alle tipiche case giapponesi, entrambe possibili perché le regioni citate erano ricche di legname. A dimostrazione di ciò basti pensare che Enrico VIII proibì la realizzazione di edifici a cruck quando il legname iniziò a scarseggiare. Infatti, per costruire questo tipo di struttura occorre un intero tronco d’albero che deve essere tagliato verticalmente in due. Le due metà devono essere disposte in modo tale da formare un triangolo la cui cima è fissata con un tirante. Una serie di queste strutture vengono erette ad intervalli regolari unite da una trave di colmo mentre tronchi più piccoli vengono usati come controventi. Il tutto viene poi ricoperto da zolle d’erba, argilla o pietre. In Giappone, invece, il tipo più comune di casa di città è la machiya. Gli esempi migliori si trovano a Kyoto e per la maggior parte sono edifici a schiera lunghi e stretti arricchiti con diversi giardini. La struttura è interamente lignea, le pareti sono ricoperte da bambù intrecciato, il tetto da tegole chiamate kawara mentre il pavimento è fatto di tatami cioè stuoie di giunco intrecciato. Nelle zone mediterranee, invece, proprio per la scarsità di foreste le abitazioni tipiche sono ricavate nella roccia come avviene a Matera, che è l’esempio più rappresentativo, ma siti simili si possono trovare anche in Spagna in Andalusia, in Turchia in Cappadocia, oppure, sempre in Italia, in Calabria: la zona di Brancaleone è ricca di caverne usate come abitazioni fino al secolo scorso. Gli stessi trulli pugliesi sono abitazioni di pietra calcarea realizzati con tecniche costruttive preistoriche. I Sassi di Matera sono l’esempio più straordinario di insediamento in grotte che ci sia in Europa e dal 1993 sono stati dichiarati patrimonio dell’umanità dall’Unesco e definiti come un paesaggio culturale. Scavati e costruiti a ridosso della Gravina di Matera sono un eccezionale esempio di ciò che si può fare con le risorse fornite dalla natura senza stravolgere completamente ciò che ci circonda. Sempre Italia si possono trovare altre abitazioni in grotta ormai del tutto abbandonate come nel caso della Calabria mentre in Spagna si è riuscito a dare nuova vita ristrutturando le case-caverne dell’Andalusia che sono ormai un polo turistico di un certo interesse. Tipiche della Cappadocia sono invece i camini delle fate straordinarie conformazioni geologiche trasformate in abitazioni durante il periodo paleocristiano quando a cause delle persecuzioni religiose si aveva necessità di nascondersi. Oggi sono state riscoperte in questa regione trentasei città sotterranee, fra queste la maggiore è Derinkuyu, un’area di 4 km2 che si sviluppa su sette livelli in grado di ospitare anche 20.000 persone. Nella roccia furono pure scavati monasteri, chiese e cappelle cristiane oltre che tutta una serie di strutture di servizio quali cisterne, pozzi, cantine, stalle e arnie, più tutta una serie di tunnel per collegare queste città. In altre regioni del mondo le antiche abitazioni scavate nel terreno hanno subito un’evoluzione come nel caso dell’edilizia in adobe del New Mexico cioè alloggi di un solo piano realizzati con fango essiccato, pietre e malta, privi di finestre e con copertura piana. Vanno, poi, considerate le abitazioni dei popoli nomadi che a causa delle avverse condizioni climatiche hanno realizzato dimore più precarie ma di più facile realizzazione, in questo caso è d’obbligo citare i teepee dei nativi americani e le tende nere dei beduini. Il teepee è la forma classica delle abitazioni delle tribù del nord America e per il cui montaggio è necessario legare tre pali in modo che alla base si formi un triangolo, a cui fissare una decina di altri pali, ad intervalli regolari, in modo da formare un cerchio. A questo punto è possibile inserire la copertura fatta di pelli o tela e il tutto viene ancorato al terreno con del picchetti. La principale innovazione, rispetto ad altri alloggi momentanei, è la possibilità di accendere un focolare all’interno grazie all’apertura in cima che permette la fuoriuscita del fumo. La tenda beduina, invece, è un intreccio variabile di pali fissati al terreno con picchetti e funi di canapa, il tutto coperto da teli realizzati con lana di capra. La zona d’ingresso è aperta su di un lato ed è orientata in senso opposto al vento e può essere coperta da teli durante le fredde notti desertiche. In caso di necessità, poi, i teli laterali si possono arrotolare per migliorare la ventilazione. Quando, poi, si parla di architettura spontanea moderna o contemporanea non deve essere vista come abusivismo edilizio, come spesso avviene delle grandi città del sud del mondo, come le favelas basiliane o gli insediamenti di Dharavi e Manila, ma come riuso di risorse, siano esse aree destinate all’abbandono, come ex zone industriali ormai in disuso o materiali di scarto. Ci sono molti esempi di muri ed edifici realizzati con materiali di riciclo quali vecchi copertoni di auto e bottiglie come il tempio di bottiglie il Wat Pa Maha in Thailandia. Le favelas brasiliane, gli insediamenti di Dharavi e Manila sono strutture abusive, delle vere e proprie baraccopoli, realizzate usando materiali di scarto e rifiuti urbani, privi di acqua corrente, fogne ed elettricità, ma nonostante ciò sono spesso più sicure di molti edifici moderni di fronte a disastri di tipo ambientale. Le favelas di Rio de Janeiro sono composte da migliaia di fragili baracche erette su palafitte per evitare che durante le piogge estive vengano travolte dall’acqua come spesso accade alle abitazioni convenzionali. Inoltre, nonostante i tentativi del governo di realizzare alloggi migliori, gli abitanti stessi preferiscono questo genere di abitazioni sia per motivi economici che sociali. Basti pensare ai tentativi fatti nelle Filippine per risolvere i problemi di Manila tanto che in The Evolution of Informality as a Dominant Pattern in Philippine Cities si prende in considerazione l’idea di studiare questi insediamenti per trovare una soluzione più idonea all’idea dell’abitare cercando di distaccarsi però dal concetto di abitazione classica, prendendo il meglio da questi alloggi apparentemente precari che però ospitano milioni di persone. In questi contesti per quanto disagiati, privi di comodità e di condizioni igieniche ottimali, si può notare l’inventiva umana, in cui ogni oggetto può essere riutilizzato e diventare utile, in cui si riscoprono sistemi semplici e primordiali, come appunto le palafitte, per risolvere problemi tipici del territorio in cui si abita. Questo perché il xx secolo ed il movimento moderno ci hanno insegnato a rompere con il passato e con le regole classiche, quindi troppo spesso gli edifici di nuova costruzione risultano troppo standardizzati e fuori contesto mentre ora è arrivato il momento di fare un passo indietro e di attingere dal repertorio storico. Troppo a lungo si è pensato di aver trovato una soluzione per l’abitare che fosse sempre valida, in qualunque tempo ed in qualunque luogo. Le tecnologie che abbiamo a disposizione, infatti, ci permettono di costruire qualunque cosa in qualunque posto, ma ci sono dei limiti dettati dai costi, in termini di risorse e di denaro; realizzare invece opere che abbiano un basso impatto ambientale, che utilizzino materiali reperibili in loco, con tecniche costruttive idonee significherebbe maggiore risparmio, un miglior confort e maggiore rispetto per l’ambiente. Vale la pena quindi, rivalutare il concetto di earthship, una nuova forma di architettura che unisce elementi di edilizia spontanea con le nuove tecnologie che si hanno a disposizione con l’unico fine di creare edifici il più possibile in armonia con l’ecosistema, permettendo così alle future generazioni di usufruire delle stesse risorse di cui abbiamo goduto fin ora. Infatti, quando si parla di earthship si parla di costruzioni realizzate con materiali riciclati e naturali che, dal punto di vista energetico, siano in grado di sfruttare le fonti rinnovabili e che conservino e riutilizzino le acque meteoriche. Difatti ogni anno nel mondo si producono 4 miliardi di tonnellate di rifiuti, pari a 650 chili per abitante. L’Italia è responsabile di 32,4 milioni di tonnellate di rifiuti urbani, di 36,6 milioni di rifiuti industriali e di 52,3 milioni provenienti dal settore edile. Il 42% di questi rifiuti finisce negli impianti di riciclaggio. Se si riuscissero ad ottimizzare queste cifre si potrebbe pensare di utilizzare questi materiali nel settore edile diminuendo la produzione di nuovi materiali, evitando, quindi, gli sprechi. A tutto ciò andrebbe poi aggiunto l’utilizzo di materiali naturali quali il legno, i materiali lapidei, l’argilla, il bambù, il sughero e tanti altri, e allo stesso tempo la riqualifica di quartieri o edifici abbandonati riducendo così il tasso di inquinamento delle nostre città.
Lasciando a voi le considerazioni finali io assaporo il mio tè fortemente speziato invitandovi a viaggiare sempre ogni qual volta ne abbiate la possibilità.
Stefania.
May J., Reid A., Architettura senza architetti, guida alle costruzioni spontanee di tutto il mondo, Rizzoli, Milano, 2010
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