Tumgik
#forse non si è formato un gruppo coeso
lonelysmile · 3 months
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mi dispiace perché comunque tra i singoli giocatori ci sono diversi elementi validi ma secondo me non si sono trovati nell'insieme
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iltrombadore · 4 years
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Quando ero comunista. Gli anni di noviziato nella FGCI di Roma e oltre...
Pino Santarelli, vecchio compagno di partito -poi lui se ne andò con il Manifesto, io restai nel PCI fino al 1991- conosciuto agli albori della mia formazione politica nelle file della FGCI, si è messo in testa di raccogliere testimonianze dei giovani romani che nei primi anni Sessanta si fecero le ossa nella organizzazione giovanile del PCI, per ricostruire percorsi di vita che hanno lasciato una traccia nella vita civile, politica e culturale della capitale. Uno di questi sono io. Non mi sono tirato indietro. Ne è venuto fuori un brogliaccio tra memoria di ieri e pensieri di oggi: non so quale profilo ne risulti, certo è quanto di più sincero sentivo di dover testimoniare (Duccio Trombadori).
Ciao Duccio, io conoscevo abbastanza bene tuo padre, so’ chi era tuo nonno… chi era tua madre?
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Mia madre Fulvia è stata partigiana a Roma, ausiliaria dei Gap con Marisa Musu e Maria Teresa Regard; suo padre, MarioTrozzi, era un avvocato che nel 19 fu parlamentare socialista fino al 21 e prima ancora segretario del sindacato ferrovieri.
Duccio quando sei nato e dove?
Sono nato il 28 febbraio del ’45. Un figlio della liberazione di Roma, avvenuta il 4 giugno del 44; i miei si sono sposati sei giorni dopo, se fai il conto è giusto il tempo per farmi nascere.
Avresti potuto chiamarti Libero
No mi chiamo Duccio da Duccio Galimberti
C’è un altro Duccio, molto più giovane di te che si chiama cosi per la stessa ragione è il figlio di Fausto Bertinotti
Mio nonno pittore consigliò: chiamiamolo Duccio come Duccio di Buoninsegna, il pittore senese del 1300. I miei pensarono a Galimberti e misero insieme spirito della Resistenza e quello dell’arte.
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Senti tuo nonno abitava in questo parco all’interno di Villa Borghese, invece voi dove abitavate?
Nel quartiere Prati Delle Vittorie: è stato un centro operativo della Resistenza, dove i miei nonni materni avevano una piccola abitazione. In quella casa è circolata molta attività partigiana, come è abbastanza noto.
Si, si, figurati, tuo padre è un personaggio talmente noto. Ed anche le sue gesta, penso al 9 settembre del 43 a porta San Paolo, le armi consegnate dal generale Carboni.
Una delle domande che rivolgo nel corso di queste interviste, come e quando sei diventato comunista, per te mi pare una domanda retorica, sapendo della tua famiglia, o no? raccontami
Io il comunismo l’ho assimilato fin dalla culla. A mio nonno materno ho già accennato, mio padre era votato al PCI; così mi sono sempre sentito un ‘figlio del partito’, di  un partito che non c’è più. Però una identità politica l’ho acquisita da adolescente, con una idealità per esperienza diretta. Mi avvicinai alla sezione Mazzini del PCI-PSI in Via Monte Zebio. Col doppio ingresso: da una parte il partito socialista e dall’altra il partito comunista, due vasi comunicanti. Decisi di entrare nel partito socialista intenzionato a non calcare le orme di mio padre. Ci trovai i fratelli Bolaffi. A un certo punto ci avvicinammo ai giovani della FGCI. Ci apparivano molto più ‘ideologici’ di noi che eravamo più spontanei, facevamo dell’ antifascismo ma non avevamo in testa una dottrina. E fu proprio il ‘rigore’ dei comunisti ad attirarci. Avevo 16 anni. Chiesi la tessera della FGCI: la firmò Bruno Anatra, che divenne poi insegnante di storia all’università di Roma.
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Sai Duccio nel corso di molte interviste spesso ritorna la sezione Mazzini con la descrizione di come era fatta fianco a fianco con i socialisti e spesso mi hanno raccontato come la scuola, il liceo Mamiani fosse un vero e proprio incubatore di iniziative politiche e culturali.
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Ho accennato al 1961, ma dopo il circolo si allargò ad altri studenti del Mamiani , si formò un gruppo coeso e radicale, preso dalla volontà di tradurre il pensiero in azione. Eravamo insieme Guido e Angelo Bolaffi, Silvia Calamndrei, Fabrizio Grillenzoni, Daniele Lombardo Radice,Franco Russo, Fabrizio De Vecchis, Vanni Pierini, Sandro Morelli e tanti altri...segretario fu per un periodo Giulio Savelli. Cominciarono le prime manifestazioni studentesche, pubblicammo un giornale stampato su cui si battagliava su cinema, letteratura, arte. Poi arrivarono i  temi internazionali, per l’Algeria indipendente, contro il franchismo, per la pace…Eravamo figli di piccola e media borghesia, non avevamo nessun rapporto con il mondo del lavoro. L’incontro con la FGCI fu occasione per incontrare giovani di altra condizione sociale. La Roma di 50-60 anni fa era divisa a seconda delle zone: chi abitava in Prati conosceva a malapena cosa fosse San Giovanni, per non dire Torpignattara che era come andare dall’altra parte del mondo.
Puoi immaginare Centocelle dove abitavo io
Esattamente; la FGCI realizzò un amalgama tra giovani della media borghesia intellettuale e del mondo popolare e proletario, tanto che alcuni di noi poi avviarono un percorso di impegno integrale, chi nel partito e chi nella CGIL.
Non so’ se condividi, io lo sostengo, quello che tu dici era il frutto dell’intuizione di Gramsci, fin dal congresso di Lione quella di superare il modello del partito “d’avanguardia” sul modello bolscevico e farne un partito di radicamento popolare, concezione ripresa da Togliatti con la formazione del partito “nuovo” dopo la svolta di Salerno nel 44 che metteva assieme esperienze popolari ed esperienze intellettuali, i cosi detti intellettuali organici.
Volevo sottolineare il fatto che a causa della mia estrazione sociale forse sarei stato un bravo operaio e magari avrei potuto anche fare fortuna dal punto di vista economico, però avere avuto la possibilità di intrecciare gente come quella che tu descrivevi, giovani brillanti, studiosi, per me è stata una grande  scuola. Del resto la cosa è stata reciproca: voi del Mamiani non avreste incontrato gente come me, come Grottola, come Raffaele Ammendola e tanti altri compagni che provenivano dai quartieri popolari.
È  stata la FGCI il primo momento di aggregazione: lotta sociale, visione del mondo, impegno per la pace, fusero elementi diversi in un organismo culturalmente formato. Tieni conto che si usciva dal tumulto morale con la requisitoria di Krusciov su Stalin e la condanna dello ‘stalinismo’
Parli dei fatti d’Ungheria?
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Non solo e non tanto. Ci interrogavamo sul XX congresso, su Stalin, discutevamo i passaggi storici della rivoluzione…molti avevano simpatie trotskiste e tra questi mi ci metto anche io. Ero affollato da domande contrastanti sul leninismo, sul contrasto tra Mao e Krusciov, su quale fosse la giusta ‘linea rivoluzionaria’. Tante idee bollivano e c’era un grande interesse per i problemi  aperti dalla vicenda delle rivoluzioni socialiste. Non dimentichiamo poi, sto parlando del 62, che c’era stata la crisi di Cuba e col mito di Fidel Castro nasceva un’altra prospettiva rivoluzionaria, e ciò agitava le nostre coscienze.
Ma torno ai ‘fatti d’Ungheria’, vicenda per me fu connessa ad un dramma familiare. Mia madre non rinnovò più la tessera del partito; mio padre difese la posizione di Togliatti ma in cuor suo nutriva dubbi; il mio pro-zio, il letterato Gaetano Trombatore, firmò con Sapegno, Asor Rosa, Colletti e altri intellettuali la lettera, detta ‘dei 101’, che denunciava la repressione della rivolta ungherese, e per questo litigò con mio padre tanto che i due non si salutarono per anni…
Ma anche Antonio Giolitti ed altri che uscirono dal PCI
Molti uscirono nel 56-57, altri invece nel 68-69, è una storia tortuosa; il PCI rischiò di perdere gran parte del consenso, un mondo di certezze sembrava crollare. Ho già detto dei miei, del dramma di mia madre, mio padre, mio zio. Assistevo pensieroso senza capirci un acca! Mia madre era amica fraterna di Bruno Corbi che insieme ai fratelli Spallone fu tra gli organizzatori del partito comunista in Abruzzo. Era deputato ed esplicitò il suo dissenso fino a che non venne radiato dal partito, nel 57. Mia madre non ruppe con Bruno ed anche con un altro ex partigiano che poi uscì dal PCI, Mario Leporatti.
Pensa Duccio, la famiglia Corbi era di Avezzano, ma un ramo della famiglia possedeva un palazzotto a Scurcola, il mio paese. Durante l’occupazione tedesca, la casa di mio nonno dove  abitavamo con tutta la famiglia, con i miei zii, i cugini, fu occupata dai tedeschi e ci dette ospitalità la famiglia Corbi in questo palazzetto che avevano nel centro storico di Scurcola.
Perchè mio nonno apparteneva a quel gruppo di antifascisti marsicani, mio nonno era iscritto al partito socialista mentre mia madre e i miei zii erano comunisti, avevano rapporti fraterni con tutta la famiglia Corbi, mi piaceva dirtelo
Certo il mondo è piccolo.
Due date sono, secondo quasi tutti i compagni che fin qui ho intervistato, salienti e di emorme importanza nell’esperienza di militanti: luglio del 60 e l’uccisione di Paolo Rossi,  per te che importanza hanno avuto?
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Presi la tessera della FGCI nel 61. Ma ero  però già stato motivato dal luglio 60 e dai morti di Reggio Emilia: fu un dramma vissuto confusamente. Mi resta l’ immagine della base proletaria genovese che si rivolta, la cavalleria militare contro gli edili a Roma, Tambroni sostenuto da DC e MSI, tutto mi appariva semplificato ed accese la passione. Hai citato anche il sacrificio di Paolo Rossi. Sono stato io, nella primavera del 1966, ad affidare a Paolo, che come me era studente di architettura, l’incarico di andare da Valle Giulia alla facoltà di Lettere, dove c’erano le elezioni di goliardia, si celebrava il 25 Aprile, e i fascisti avevano provato ad aggredire Parri…
Dell’organismo di rappresentanza degli studenti.
Ancora ricordo quel dramma con emozione. Quando sapemmo della sua sventurata morte, a seguito delle percosse ricevute, decidemmo di occupare l’ università: fu l’inizio di una reazione a catena che non si fermò fino al movimento del 68.
Però la mia formazione propriamente comunista maturò nella federazione giovanile, con le prime manifestazioni a sostegno del Viet Nam, la protesta contro l’assassinio di Lumumba, e ancora prima la reazione popolare antifascista contro l’assassinio franchista di Julian Grimau, dirigente comunista strangolato in carcere.
Altre esperienze formative furono le lotte del lavoro. Ricordo quando Carlo Cicerchia nel ’63 chiese a noi studenti di fare picchettaggio ad uno sciopero bracciantile nei Castelli romani. Marinammo la scuola, ci alzammo la mattina alle 4  e facemmo il nostro lavoro. Al ritorno i miei non sapevano se rimproverarmi perché non ero andato a scuola, o se essere fieri del mio impegno per i braccianti.
Un’altra esperienza la facemmo con l’occupazione di una fabbrica chimica sulla Tiburtina…
La Leo Icar
Esatto. Anche li come giovani comunisti andammo a picchettare, e in queste lotte sociali appresi più che sui libri di filosofia marxista. Ma non mancò nella mia educazione sentimentale, il bisogno di una solida impostazione teorica: fu soddisfatta dallo studio intenso delle opere di Marx, Lenin e Rosa Luxemburg, svolto assieme ad  un gruppo di compagni più o meno coetanei sotto la guida saggia di Carlo Cicerchia,  dirigente della CGIL che aveva dato vita ad un Centro Studi Marxisti. In quella stagione -fatta di letture e discussioni in comune- si formarono molti futuri dirigenti della CGIL e intellettuali militanti di sinistra, da Vanni Pierini a Michele Magno, Silvano Andriani, Giacinto Militello, Marco Lippi, i fratelli Bolaffi, ed altri ancora.
Senti Duccio per andare un po' avanti, per me e per molti compagni c’è un momento di svolta che è rappresentato dal X congresso della federazione romana del PCI, che corrispondeva al XII congresso nazionale del partito, che si svolse presso il teatro della federazione di via dei Frentani all’inizio del 69 dove praticamente si consumò la rottura tra la sinistra interna al PCI e più precisamente del gruppo del Manifesto, tu eri presente in quel congresso?
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Nel  1969 lavoravo a Nuova Generazione, e stavo al quarto piano di Via dei Frentani dove aveva sede nazionale  la FGCI. Seguii il congresso romano ma non vi partecipai. Ricordo che ci furono divisoni e scontri tra destra e sinistra interna…Non avevo preso una chiara posizione, attraversavo momenti difficili sul piano personale, avevo cambiato corso di studi universitari, era un periodo di incertezza. Ma mi sentivo comunque più vicino ad Amendola quando raccomandava di opporsi all’estremismo di destra e di sinistra. Nel 1968 avevo deciso di iscrivermi al PCI in polemica reazione alle varie forme di estremismo che nascevano in quel tempo. Anche quando affiorò il Manifesto, pure stimando uomini come Aldo Natoli, non accettavo deroghe al ‘centralismo democratico’ che per  me era regola di vita. Può sembrare un anacronismo, ma era così: vivevo la mia scelta in modo integralista, e ricordo bene che io e te eravamo dalla parte opposta della barricata.
Insomma sentivi forte l’appartenenza al campo ed a il sistema dei valori comunisti
Non ammettevo il dissenso organizzato. Oggi non la penso più così, ma allora qualsiasi posizione che incrinasse l’unità del partito era da combattere.
Però eri in buona compagnia, molti nel partito la pensavano come te.
Ho usato il termine integralista: accettare una disciplina politica comportava anche reprimere il dissenso. Era un’idea settaria. Il partito doveva presentarsi unito e chi non era d’accordo si metteva fuori. Il rispetto del centralismo democratico era un impegno morale.
Successivamente, sei stato giornalista, cronista politico dell’Unità, dopo hai avuto incarichi nel partito?
Si nel 70-71 sono stato per un anno segretario della sezione universitaria, ma non combinammo gran che, scontavamo lo scontro tra il PCI e chi dirigeva il movimento studentesco . Dopo un po’ andai a lavorare a l’Unità; poco prima avevo partecipato al congresso della FGCI, mi ero laureato in Filosofia sul pensiero politico di Gramsci, mi ero sposato; insomma, ci fu una sorta di pausa…
A proposito del tuo lavoro da cronista politico, voglio ricordarti un episodio, probabilmente tu non lo ricordi. Il giorno prima dell’andata di Lama all’università, era in corso la assemblea del movimento nell’aula di lettere dove Daniele Pifano aveva spiegato fin nei minimi particolari quello che avrebbero fatto all’indomani, io uscii dall’aula molto preoccupato per quello che sarebbe successo il giorno dopo ai piedi della scalinata di lettere ci incontrammo. Ci salutammo e poi tu mi chiedesti: a Santare’ che dici ci vado? quei giorni tu raccontavi attraverso le colonne dell’unità le vicende del movimento e c’era sempre un po' di maretta tra i giornalisti ed il movimento, Io risposi: certo perché non dovresti andare, poi invece ti presero a spintoni
Mi pare che ci furono due episodi. La prima volta ci fu una specie di ‘processo alla stampa’, dove io venni additato come uno che aveva dato notizie non veritiere e ci fu un battibecco serrato  di domande e accuse alle quali io risposi, e la cosa durò più di tre ore.
Però per questa circostanza non mi ricordo di te, ed è strano…
No, no, io lo ricordo benissimo, perchè ci rimasi male, il giorno dopo la stampa raccontò questo episodio sgradevole che ti avevano preso a spintoni, mi sentivo quasi responsabile
Io non mi sono mai tirato indietro ho sempre combattuto a viso aperto, non me ne pento affatto, anche se ne ho pagato le conseguenze..
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Negli anni successivi con Berlinguer segretario, lui è stato segretario se non ricordo male dal 70, prima come vice segretario e poi segretario fino all’ 84. Gli storici i giornalisti, i politologi parlano in genere del primo e del secondo Berlinguer, e anche io sono d’accordo con questa distinzione, nel primo Berlinguer c’è tutta l’elaborazione dell’idea del compromesso storico e nel secondo la critica all’esperienza de governo di unità nazionale, tu che ne pensi di queste vicende?
A conti fatti, non c’è grande differenza tra il primo e il secondo Berlinguer, per quanto sia innegabile la sterzata sulla “questione morale” alla fine del 1980. Con una accentuazione diversa credo però che lui volesse continuare in qualche modo la linea del  ‘compromesso storico’. Non a caso, osteggiò la ‘alternativa di sinistra’ mettendo in subordine il rapporto col PSI.
C’era allora Craxi, contro il quale Berlinguer mise una barriera invalicabile. Inasprì la polemica. In quel periodo cominciai a dissentire. Secondo me bisognava sciogliere ogni ambiguità rispetto alla crisi di senescenza del ‘socialismo reale’. Mi sembrava opportuna la trasformazione del PCI in un partito socialista interno al campo occidentale in competizione con il partito di Craxi. Berlinguer invece tenne ferma la diversità del PCI sia durante la solidarietà nazionale, sia quando lanciò la ‘questione morale’. Egli sottovalutò la questione socialista. Del ‘secondo Berlinguer’ non condividevo lo stampo giustizialista. L’idea di una bonifica dello stato e dei partiti era giusta, ma metterla come priorità politica mi sembrava un errore, che avrebbe arroccato il PCI. Manifestai le mie riserve, ricordo una volta che risposi ad  un articolo di Franco Rodano su Paese Sera. In seguito continuai a dire la mia nelle sedi opportune, restando puntualmente inascoltato. Il che mi addolorò non poco. Poi dopo si sa come andò  fino allo scioglimento del PCI
Si, poi ci arriviamo, per me, viceversa, quello fu l’atto che permise al PDUP.
Certo aprì a varie forze e quello fu un fatto positivo
Ma lui parlava anche del modello di sviluppo, quando ragionava su cosa produrre e per chi?
Questa è tematica socialista. La parola –‘socialista’- confonde troppe idee, sembra quasi diventata una parolaccia. E invece è vero tutto il contrario. Quando si trattò di prendere le distanze dal ‘campo socialista’, Berlinguer rimase ambiguo e indeciso.
C’era stato lo strappo nel 82
Si, ma restava la poca chiarezza nella scelta di campo. Ci sarebbe voluto un cambiamento del nome, ma molto prima del 1989, senza rinunciare al titolo del socialismo.
Parliamoci chiaro il PCI era già un partito socialdemocratico
In un certo senso si.  Ma non mettiamo troppa carne al fuoco.
No mi interessa seguire i nostri percorsi individuali all’interno di una storia collettiva
Ti ho raccontato la mia evoluzione. Avevo maturato l’idea di un partito socialista riformista. Accadde invece l’ascesa di Craxi  che si era contrapposto al PCI, questo impedì la nascita di un partito capace di unire le componenti della sinistra, dall’allora Pdup fino al Partito socialista italiano
Modello “Labour”?
Il dramma storico del nostro socialismo, che parte da Andrea Costa, ha avuto nomi come Gramsci,  Togliatti, Nenni,  Matteotti, eccetera, consiste nel fatto che è riuscito sempre a dividersi nelle sue correnti, senza invece  convergere in un unico grande fiume.
Ma secondo te come mai Occhetto con la Bolognina non riuscì a realizzare quel processo di aggregazione che pure era contenuto nella premessa?
Non voglio accusare nessuno. Le responsabilità sono di tutti. Se ci sono due Berlinguer, ci sono anche due Craxi. Il Craxi del 76 fino all’ 82-83 si può criticare, ma poteva essere un interlocutore. Il Craxi che va al governo dall’ 84- 85, via via fino al 92,  è un Craxi attestato contro il PCI, la sua politica è contraria a qualsiasi  dialogo. Quando Occhetto cambia nome al partito mi pare non sia più possibile un incontro, anche se qualche tentativo è stato fatto, senza risultato.
Però lui quando durante il congresso socialista di Torino Berlinguer viene fischiato dalla platea socialista Craxi dichiarò che lui non aveva fischiato perché non sapeva fischiare altrimenti l’avrebbe fatto
Che vuoi dire? Non capisco
Sono d’accordo con te, Duccio, però secondo me c’è una continuità nella visione Craxiana.
Di contrapporsi al partito comunista e a Berlinguer. Però all’inizio poteva aprirsi una dialettica positiva. Tutti hanno commesso errori. Non dimentico la ostinata presenza di Berlinguer ai cancelli della FIAT nel 1980, che fu preludio alla sconfitta del sindacato, e all’indebolimento del movimento operaio  come forza riformista di governo. Sono questioni su cui non mi sento di dare giudizi netti. Le divisioni di allora non debbono pesare sul futuro. La mia opinione resta che tra le posizioni del PCI e del PSI non c’era  inconciliabilità assoluta.
Secondo te è riscontrabile nelle esperienze successive degli uomini che di volta in volta hanno esercitato il potere ed il governo del paese, un modello, che verrà assunto successivamente da Berlusconi, da Renzi e infine da Salvini, quel modello populista ed autoritario con una grossa impronta personale. Insomma sei d’accordo che Craxi ha inaugurato quel modo di fare?
Il Craxi che si contorna di intellettuali come Bobbio, Amato, Colletti, Salvadori, subito dopo il 1976,  è un Craxi riformista guardato con interesse da una vasta area d’opinione democratica, a partire da Eugenio Scalfari. Non facciamo di tutt’erba un fascio. E’ vero però che a un certo punto Craxi affermò un principio ‘leaderistico’. Quando nel 1989 il PCI accede all’idea di cambiare nome e di prospettare una nuova sinistra, non trova il partito socialista come interlocutore. Dopo di che il sistema è andato ad infrangersi sulle scogliere di Tangentopoli ed è emersa una politica surrogata dalla magistratura che ha ridotto le prerogative del  parlamento. Oggi posso solo prendere atto della polverizzazione della politica, dello strapotere telematico, con il prevalere di potenti gruppi economici trasversali e transnazionali. A maggior ragione è necessaria una forza radicata nella società con valori ideali di riferimento. Basta vedere l’ incerta identità del Partito Democratico per rendersene conto; o guardare al sindacato che non riesce a prospettare una politica unitaria nel quadro europeo.  
Duccio altre due domande; la prima è è all’ordine del giorno: questa crisi ambientale che il mondo avverte e soprattutto i giovani avvertono, del modello globale, di come si produce, di cosa si produce e poi la fase che stiamo vivendo, non ti pare che una volta usciti, se ne usciremo da questa storia del coronavirus non ci indurrà a ripensare non solo al modello ma anche come si vive su questa terra?
Questa vicenda del virus ha toccato un nervo scoperto del modo di vivere e di produrre nel mondo contemporaneo. In un’economia che sviluppa l’iperproduzione, basata sull’avvicendarsi dei consumi e del rinnovamento del ciclo a ritmi compulsivi, la pandemia ha bloccato tutto. Ha rivelato la precarietà in cui vivono milioni di persone in tutti i continenti. Tutto ciò impone di cambiare lo sviluppo e ridare una dimensione umana alla produzione, al lavoro. Al primo posto ci deve essere l’utilità sociale, dunque l’affermazione di valori socialisti. Non è una brutta parola la parola ‘socialismo’, sempre che si riesca a non tradire le speranze della gente
Certo che socialismo non è una brutta parola, anzi è una bellissima parola, ma secondo te, ed è l’ultima domanda che ti faccio, anche la parola comunismo è una bella parola?
Se per comunismo intendiamo il fenomeno storico politico con il quale ci siamo identificati, le distanze sono più che prese. Resta il comunismo come ideale di equiparazione sociale, proiezione utopica del modo di essere socialisti. Il bisogno di un mondo dove non vi sia più oppressione dell’uomo sull’uomo, il comunismo così inteso, non solo non è una parolaccia, ma è fermento di vita e di azione.
Grazie Duccio buon 25aprile e viva i partigiani!
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