#diariominimo
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La mia cura per dimenticarla è stata il riso con legumi, lo mangiavo tutti i giorni, non con i legumi in scatola, facevo l'ammollo: una volta erano ceci, l'altra fagioli, soia, piselli, piatto unico. La cucinata mi durava due giorni, due giorni e mezzo. La mattina niente colazione, verdure assenti qualche volta una banana o mela. Avevo ventidue anni e vivevo lontano da casa, nella stanza che per un periodo era stata nostra. Non avevo Tumblr, scrivevo un diario cartaceo, leggevo libri: Eric Berne, Fromm, Goleman. Praticavo meditazione già , bruciavo incensi, accendevo candele ed il mercoledì puntuale mi concedevo una bottiglia di vino guardando film: fu l'era di Kim ki Duk e di tanti altri titoli. Suonavo poco il violoncello ma ero nella selezione dei migliori strumentisti in Italia, ci vedevamo una volta ogni due mesi per suonare, studiare e sopratutto parlare. Consumavo i miei risparmi di un'estate di lavoro, che mi sarebbero bastati per andare via da casa e non tornarci più se non per le vacanze, suonavo in strada per arrotondare e permettermi qualcosa in più ed ogni tanto cucinavo, per le occasioni speciali una torta al cioccolato.
Avevo un bicchiere, una tazza, due piatti e due forchette, un piccolo armadio. Vivevo davvero di niente ma ero felice.
la zuppa quotidiana mi riportava alla realtà delle cose. Il suo sapore anonimo, ma nutriente, il suo essere sempre uguale e sempre diversa. Non cucinavo carne né pesce, solo riso e niente di più.
Fu una cura efficace a giugno ci rivedemmo, mi invitò a casa, pianse per tutta la sera erosa dai sensi di colpa e di fronte a quel piatto di pasta, diversa dal solito, volevo solo tornare alla mia zuppa.
Oggi ho cucinato i ceci, non lo facevo da tempo, ci ho accostato il riso basmati integrale, come allora, vivo in una casa mia, ho più di due ante, pratico ancora meditazione ma leggo meno, con l'alcool ho smesso praticamente ormai, faccio più spesso colazione, perché condivido ormai la vita ed il cibo è socialità , suono, nel girone infernale della precarietà e del mobilismo. penso di essere guarito ormai, sono passati nove anni, eppure mi manca quella sensazione di potenza del non avere nulla, del vivere con poco e cogliere ogni occasione come preziosa, mi manca avere due piatti ed una forchetta contati. Non so più dove mettere le pentole, la caldaia è ultimo modello.
Penso che a giugno svuoterò l'armadio e regalerò molte cose. Non sono fatto per accumulare, se non un riso con legumi per qualche giorno.
A.
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Quando vedo le facce sorridenti di chi fa yoga nelle copertine di giornali, ma anche nell'immaginario collettivo fatto di pace e tranquillità mi chiedo se sono io sbagliato oppure c'è qualcosa che non vada in loro. Perché finita la sessione di yoga non sono rilassato, non mi vedo in un ashram in India a recitare Om, pieno di potenti vibrazioni. Quando finisco yoga il più delle volte sono stremato, mi viene la metafora del minatore che risale alla luce, sporco di terra, dopo che ha scavato tutto il giorno. Soprattutto quando finisco alcune lezioni, specialmente di Hatha, la notte dormo male, faccio sogni incredibili, mi sento tutto scombussolato, rivivo emozioni che pensavo non mi appartenessero più, talvolta sono talmente nervoso che devo stare moltissimo in savasana. Ecco, io penso che tutto questo non sia a caso, lo yoga non ti vuole carico del passato, ti fa fare tutte le posizioni, o posture, per non farne nessuna, ti fa essere cobra, ponte, candela, pesce, tutto e niente, nel momento che ti identifichi è la fine. Essere tutto per non essere nulla, e tu hai vissuto il tuo passato ma non sei il tuo passato e quando risale l'emozione sgradevole ti ricorda quanto, a quel passato e quella sensazione, ci eri talmente attaccato e si era talmente attaccata a te, che quasi sembravate una cosa sola. Ecco che fa il minatore toglie la terra che faceva sembrare una montagna solo una montagna, quando invece mille linee preziose gli correvano dentro: il nostro sé più autentico.
A.
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 Il giorno della commemorazione funebre nell’ebraismo si coprono gli specchi, usanza che resiste ed esiste ancora al sud del nostro paese, forse per celare qualsiasi gesto di vanità , in un giorno di raccoglimento, o forse perché in questo modo ci possiamo dimenticare che faccia abbiamo. in questo periodo di niente abbiamo la possibilità di essere niente e coprire ogni gesto che ci rifletteva senza preoccupazione ne alcuna faccia da indossare ne bugia da raccontare. Questo è il periodo per coprire gli specchi e fondersi di nuovo con se stessi.
A.
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Ieri, mentre scorreva l'acqua calda sotto la doccia, ho pensato alle vagonate di litri che ho disperso nella mia vita da bambino/adolescente. Sotto la doccia partivano le più profonde riflessioni sulle questioni cruciali della vita tra i 10 ed i 14 anni. Ero di destra o di sinistra, mi piaceva di più P. o V. ragionavo dialetticamente tra me e me e talvolta ero pure giudice di questi scontri. L'acqua nel mentre andava, e siccome avevamo lo scaldacqua e non la caldaia, il segnale del termine delle mio trastullo era la temperatura che diminuiva pericolosamente, considerato il fatto che due fratelli dopo di me avrebbero dovuto farsi una doccia prima della scuola. Erano lotte continue, lamentele con mia mamma, sveglie in anticipo per prendermi il turno ma, i miei fratelli non hanno mai capito l'importanza evolutiva che la doccia aveva per me, il mio spazio di analisi al costo di qualche metro cubo d'acqua, un’analisi vera avrebbe inciso sicuramente di più. La faccenda è andata avanti per un bel po’ di paripasso con le argute conversazioni che avevo a voce alta, talvolta pure di fronte allo specchio - mi ricordo pure di un film nel quale il protagonista analizzava come segno di peggioramento psichico questo - sino a che gradualmente e sicuramente complici altre profonde riflessioni, di questo rimane solo una vaga traccia, come di questo pensiero nato sotto la doccia.
A.
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C'è un tempo che ci separa dal ripetere gli schemi del nostro vissuto.
Il tempo di un respiro.
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Dittatura, complotto, libertà , parole sulla bocca di tanti, negli stessi profili del vasetto, della scopa in piedi di turno. In fila come soldati, dato il lessico di guerra tanto in voga negli ultimi tempi, o come pecore? Attenzione al politicamente corretto, non si sa mai che un pensiero diverso possa emergere dal magma di contenuti mediali che produciamo ogni giorno.
Vorrei scontrarmi con autonomie di pensiero.
A.
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Oggi, per me, sarebbe dovuto iniziare un periodo intenso, che desideravo trascorrere da lungo tempo. Sarei dovuto andare in un luogo isolato, senza la possibilità di comunicare verbalmente ne virtualmente con nessuno, l’uso dei cellulari è infatti proibito, come l’uso della parola, e passare i prossimi dieci giorni, ossia sino al cinque di aprile, in meditazione continua per dieci ore al giorno, sveglia al sorgere del sole e così via. Ovviamente è saltato tutto. mi accorgo comunque di quanto questo silenzio ricercato in questi giorni stia comunque lavorando su di me e stia valorizzando il mio vissuto in in modo così profondo che niente sarà più come prima. Maturano come semi riflessioni che mi accompagnano da tempo, pensieri che non avevo avuto il tempo di guardare in faccia con attenzione e per il dovuto tempo necessario. ora vedo germogliare ciò che era piantato in me da diverso tempo. Ho sempre sostenuto che il tempo dell’osservazione su se stessi sia prezioso, farsi vuoto, abbandonare il preconcetto e vivere ogni esperienza il più possibile fenomenologica. Muto: lo sento nel mio abbandono progressivo di un percorso che fino a questi tempi avrei detto irrinunciabile; ieri ho creato una videoperformance su questo pensiero, intima, l’ho pubblicata per altri canali, ma penso che pochi abbiano colto davvero ciò che intendessi, ma non mi va certo di sottolinearlo. Potrebbe essere giunto il momento pericoloso di riunire le mie identità sparse per il web, ognuna ignara dell’altra, darmi finalmente forma. Un pensiero che mi spaventa, ma noto, che sto condividendo sempre più questo spazio con chi mi conosce. Unica pecca di questo periodo: gli orologi. Sono a casa, privilegiato da avere pochissimi appuntamenti a settimana ad orario prefissato, eppure ho cercato tutti i modi di eliminare gli orologi ma è impossibile. Sarebbe bello progredire nella giornata in ascolto totale, senza vincoli temporali, senza orari prefissati. Vivere senza un pensiero in più, la costanza scientifica del tempo che passa.
A.
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la sottile coercizione di alcune strutture religiose che invece di riunirti a te continuano incessantemente a dividerti, creando una parte di te che controlla l’altra. In questo modo nascono i devo, i non dovevo, piuttosto che insegnarti la cosa più difficile: l’amore e l’accettazione di sé. Questo accade perché sempre più le strutture spirituali, che di spirito ormai hanno ben poco, sono diventate aziende, che per sopravvivere in qualche modo devono farti dipendere dalla fede, dalla pratica e dallo studio, perché senza di essi non potrai mai realizzare il tuo progetto personale, che in realtà é solo il loro progetto egoistico mascherato. Una volta che la libertà , la ricerca personale, sono messe da parte ecco creati i nuovi schiavi spirituali, un esercito di fedeli che parlano tutti nello stesso modo, che non guardano al di là della loro pratica e che con superiorità cercano di imporla agli altri come unica possibile per la realizzazione personale, cui vita è strutturata rigidamente, districandosi tra una serie di impegni che non esistevano ma diventano necessari. Ho lasciato il mio maestro due anni fa, ci penso spesso a lui a quanto le sue parole riecheggino ancora in me e di come, in ogni discussione cvi incentivava a non prendere mai parte in niente, a mettere in dubbio qualsiasi verità o presunta tale, questo è stato il suo unico insegnamento. Al di là delle ore passate seduti in meditazione mi ha insegnato la presenza costante ai propri pensieri, ai propri schemi e mi ha lasciato andare, senza possesso e questo, a distanza di anni, riconosco la validità del suo insegnamento e quindi della sua persona. Un maestro presente, non un’immagine su una copertina patinata, non un discorso scritto su un libro solo la forza di un insegnamento dato dall’esempio tangibile della vita quotidiana, di un the versato e di un incenso acceso di poche parole nel momento giusto. Quando ci si recava all’’altare o quando si recitava un sutra sottolineava l’importanza del non credere a quei gesti ne a quelle parole, ma di vivere le azioni per quello che semplicemente erano con attenzione. Il risveglio parte dal quotidiano, dal dubbio e dal profondo ascolto di sé facendosi vuoto di ogni categoria e uccidendo il Buddha se intralcia il nostro cammino. Chi ti insegna il contrario, probabilmente è solo qualcuno che vuole tenerti ancorato.
A.
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Da un certo punto in poi della mia vita da bambino, quando sopraggiungeva una malattia, stavo a letto e smettevo di mangiare perché appetito non ne avevo, e mi accompagnava la paura, sottolinerei terrore, di vomitare, dato che le mie influenze precedenti, iniziavano sempre chino sulla tazza del cesso. Stanotte mi sono ricordato, quando, dopo l'ennesimo sonnellino pomeridiano, passavo a dormire quasi tutta la giornata, mi svegliai con una fame che non avevo mai provato, ora la definirei vera, una fame di un corpo vuoto ma pronto a ricevere finalmente il cibo, non la fame che spesso è solo abitudine, o nasconde una sottile dipendenza, paura, ansia. Quella era una fame svincolata da ogni sovrastruttura. Fame biologica. Allora andai in cucina e chiesi a mamma un the, mi ricordo ancora il sapore di quel the nero in bustina, nel quale intinsi alcune fette biscottate e la mamma mi disse, mangia piano che sei tanto che non mangi. Sedevo con la faccia parallela al tavolo, usando lo schienale per poggiare il fianco, come nelle innumerevoli colazioni successive della mia vita sino al termine della scuola, quando imparai che in fondo il mio stare in quella posizione e fissare la tazza di sguincio, era un segnale che forse la colazione l'avrei dovuta rimandare a quando fame l'avevo davvero e la tazza l'avrei guardata in faccia in segno di relazione. Mi ricordo di essermi sentito pieno, davvero, soddisfatto del mio pasto, in forze. Conservo questo ricordo quasi con invidia, perché mangiare dovrebbe essere sempre così, con la calma di poter davvero accettare quello che c'è davanti, senza pensieri, ansie o preoccupazioni, perché in fondo, oramai credo, che quando infilziamo un boccone carichi di qualcosa di estraneo, questo entri sottilmente in noi e dopo ogni boccone quello che si pensava di scacciare con un pasto ed i suoi gesti, entra insieme al cibo ad essere digerito. Ma le emozioni talvolta sanno essere indigeste.
A.
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La stanza del silenzio
Mi piacerebbe un posto, con sedie e cuscini, nel quale condividere il silenzio. Nessun simbolo, nessuna pratica particolare, nessun insegnamento. Solo condivisione di questo spazio e di questo tempo, insieme.
A.
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Osservare: dal lat. observare, comp. di ob- avanti, sopra, attorno e servare «serbare, custodire, considerare»
Custodire ha in sé il senso di cura.
Osservare è cura.
A.
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Contenimento.
Oggi M. non riusciva a suonare le scale col violino, fuori tempo, non coordinata, vedevo nei suoi occhi la frustrazione. Le sono andato allora dietro, abbracciandola, cantandole le note, abbiamo cominciato a dondolare a tempo, seguendo il metronomo. Cuore calmo, le dita hanno ritrovato il loro fluire. Quanto si ha bisogno talvolta di sentirsi sicuri e protetti per poter esplorare ed esplorarsi?
A.
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La giornata è passata nella quasi totale immobilità , sessione dopo sessione, il corpo ha cominciato finalmente a rilassarsi, nonostante le ginocchia doloranti a fine serata. Il niente per il niente si è realizzato, tolti gli anelli, i bracciali, gli occhiali, con indosso due vestiti ed una coperta. Non ero compagno, ne musicista, non avevo bisogno di vedere bene, ma di lasciare andare, non ero studente, ne figlio. La possibilità di dire io sono senza predicato.
A.
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Ho dato un nome a questo senso di inadeguatezza che continua ad assalirmi, insieme alla rabbia ed all'impotenza: riconoscimento. Il bisogno umano di essere riconosciuti, in qualche modo di diverso da quello che è la realtà attuale. Scritto nella mia storia, come inciso nella legno che ha passato le intemperie, il sole cocente e la pioggia dei giorni, riaffiora in questa relazione, pronta per insegnarmi qualcosa che so, ricordarmi da dove vengo. Si chiama trasfert, fiumi di inchiostro sono stati scritti, ma la teoria arriva all'intelletto, non muove, non commuove, non tocca questo tumulto da verbalizzare ancora, da scavare, e mentre leggo Yalom, nella sua autobiografia, mi solleva e mi riporta alla realtà dei fatti: sono umano, dietro al desiderio del non, si nasconde una parzialità emotiva che sfuggo per paura, ed ora che è tutto sul tavolo, posso decidere di vederla di nuovo e ricalcare quei segni, per rivitalizzarli.
A.
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Oggi V. chiede a D. di non parlare per tutto l'orario scolastico, lo intuisco dal fatto che come entro in aula D. è chiuso in un mutismo insolito, non risponde ad alcuna domanda, non fa casino per la classe. Suona infine la campanella dell'ultima ora, capisco che il silenzio valeva un ambito bacio da parte di V. Come esco dalla classe, facilito la risoluzione della scommessa che viene però interrotta dall'arrivo della prof di mate che non aveva capito nulla.
In due mesi è la prima volta che vedo D autodisciplinarsi in tal modo, impegnarsi in un compito e portarlo al termine. L'amore in tante forme può davvero spingerci al di là di noi.
Sorrido alla dolcezza di questi ragazzi.
A.
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Negli ultimi 90 giorni ho lavorato 70 +11 ossia 81 giorni con solo nove giorni di pausa. Come un impiegato ho suonato lo stesso brano 70 volte, più le prove, oggi durante lo spettacolo mi sono reso conto che non mi sono alienato, nonostante in principio pensassi il contrario. Ho suonato sempre come fosse l'ultima, non dando mai niente per scontato. Così questi tre mesi sono volati, ed in fondo, non mi rimane nulla, questa era davvero l'ultima. La sedia è vuota, la postazione sgombra. Domani si torna a casa.
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