#di germogli radici e boschi
Explore tagged Tumblr posts
Text
Di germogli, radici e boschi: ci vuole tempo, per fare l'amore
Uno dei più grandi inganni del nostro secolo è credere che corpo e anima siano due entità distinte e indipendenti. Questo ha portato a concedersi all'altro con più facilità, depotenziando e sottovalutando la felicità suprema che si prova solo nel far coincidere interiorità e fisicità. A prova di ciò, basta guardare qualsiasi film sentimentale per accorgersi quanto sia diventato normale, perfino doveroso, andare a letto insieme nelle prime fasi di una conoscenza, se non addirittura dopo i primi appuntamenti. Insomma, è stato sufficiente manipolare subdolamente il vero significato della libertà sessuale, sacrosanta conquista sociale e morale: anziché intendere "fai l'amore con chi vuoi" come "fai l'amore con chi scegli, con chi ritieni degno", lo si interpreta come "fai l'amore con chiunque", definendo puritani o bigotti coloro che invece preferiscono trovare con cura la persona a cui donare la propria anima attraverso il corpo, perfetto e unico strumento di espressione tangibile di ciò che si ha dentro.
Ci vuole tempo, per conoscere una persona. È un lungo e stimolante viaggio, in cui ci si spoglia, lentamente, passo dopo passo. L'intimità è una perla preziosa, è un dono per pochi. Dopodiché, una volta costruita la fiducia, si comincia a custodirsi, ad amarsi. È un cammino faticoso ed impervio, ma anche ricolmo di bellezza, di grazia. Solo allora, si prova quel desiderio puro, quella bramosia di unirsi in un solo corpo, in cui si fa davvero l'amore, in cui si raggiunge l'estasi perché si vuole passare il resto della vita insieme, con nessun altro, finché si respira. Se non si anela a questo, si finisce per dare troppo peso alla fisicità o alla dimensione spirituale, vivendo inevitabilmente a metà, sottostimandosi, depotenziandosi, sprecando l'occasione di essere davvero felici.
Non ho mai raggiunto quel livello con qualcuno, pur avendo fatto l'amore con il mio fidanzato di allora, pur avendo aspettato che la relazione diventasse stabile e forte, perché il tempo non è solo quantità, ma anche qualità. Credevo mi amasse, invece ne era incapace, e ancora adesso, a distanza di cinque anni, ho nel cuore i solchi dell'edera velenosa che soffocò con la violenza il fiore immacolato dei sentimenti più puri.
Tuttavia, ci credo ancora nell'amore, in quella sacra unione di corpo e anima che trascende l'umano e raggiunge il divino, così forte che solo ad immaginarlo mi sento imbevuta di gioia e sempre più incapace di accontentarmi, di scendere a deleteri compromessi.
Perciò, caro futuro amore mio, sangue del mio sangue, ossa delle mie ossa, compagno di vita: saremo così felici e unificati solo se e quando ci baceremo ovunque sapendo di toccare taumaturgicamente le corde più profonde della nostra anima, dalle più dolorose alle più gaudenti; ci disseteremo di vero piacere se e solo quando, crescendo insieme, uniremo le nostre radici sotto la pioggia, tramutandoci in un bosco rigoglioso e verdeggiante.
Nell'attesa, perciò, diamoci il tempo di germogliare, di dirci:
"È una lunga storia."
"Non preoccuparti, ho tempo."
17 notes
·
View notes
Photo
Pianta consacrata al dio Pan, la Felce esisteva già 350 milioni d’anni fa ed è considerata uno dei punti di partenza evolutivi della flora oggi visibile sul pianeta. Proprio a causa della sua ancestrale presenza fra noi, è stato possibile risalire a tantissime leggende ad essa legate, che vi riporterò nel corso del tempo. Secondo una tradizione popolare, bruciarne le foglie e tenerle vicine all’orecchio durante il sonno, per esempio, renderebbe fertili le donne e i sogni fortemente premonitori. Strettamente collegata all’oscurità del bosco, la felce simboleggia il mistero, l’ignoto ma anche la speranza e la felicità, ed è per questo che fa spesso da contorno ancora ai mazzi floreali, in quanto rafforza il messaggio che con essi si vuole veicolare, essendo già di per sé una delle piante più, naturalmente, potenti al mondo. Vi ho già accennato che le felci non si propagano tramite seminazione, ma tramite spore vero? Dovete pensare che nel Medioevo non si era a conoscenza di questa sua caratteristica e, al tempo stesso, si pensava che se la forma di un vegetale somigliava a un organo umano, questo avesse come conseguenza diretta degli effetti benefici su di esso. Ebbene a quei tempi si credeva che i “semi” di felce esistessero ma che, essendo invisibili, donassero invisibilità a chiunque riuscisse a catturarne una manciata! Bizzarro non trovate? Ripenso anche ad altre tradizioni che vorrebbero vedere un forte legame fra le parole “felce” e “felice”, richiamante la credenza antica che l’utilizzo di questa pianta potesse far realizzare i desideri più profondi. Così d’un tratto rivedo i germogli della foresta che hanno incantato la mia vista e il mio cuore, e si… sento che in quel preciso momento ero davvero felice, e per un attimo ho pensato che tutto fosse di nuovo possibile. Ho cercato di trasportare tutto questo in un nuovo medaglione, che racchiudesse il mistero e la bellezza insita nel germogli di felce e dei fiori selvatici raccolti alle radici degli alberi. Un medaglione che racchiudesse la magia di quel momento di felicità che solo la foresta poteva regalarmi... E voi? Fate mai passeggiate nei boschi? Se si, che emozioni vi trasmette? https://www.instagram.com/p/CFAd6-3K_XL/?igshid=1b44h58ihhful
0 notes
Text
ALLA RICERCA DEI SEGRETI DELLE ANTENATE ELBANE
Questo progetto ha per obiettivo l’empowerment delle donne elbane, che hanno alle spalle una storia in gran parte ignota, ma di cui possiamo ricostruire la struttura, l’ossatura. In senso letterale, visto che le ossa erano considerate dai nostri antenati il luogo dell’anima, quella parte di anima che resta nel fisico, sulla terra.
Lì ci sono strutture mentali, modi di pensare, sentire, percepire la realtà che sono specifici, caratteristici dell’isola. Le ricerche compiute sulle donne elbane, in particolare le donne di Rio (Peria 2012), mostrano le specificità della cultura femminile isolana che si distingue da quella, per esempio, dell’Italia centrale, grazie alla relativa autonomia e al riconoscimento sociale delle levatrici, orticultrici, erboriste, “medichesse”, la cui rappresentante più significativa è Margherita Bonci, legittimata nelle sue pratiche e terapie degli Anziani della Comunità di Rio (Peria 2012: 125 e sgg.).
Tuttavia, le arti e i saperi delle donne elbane - che gli studiosi descrivono come indipendenti, creative, coraggiose e guerriere – non sono soltanto la ricaduta dei processi storici che hanno reso la popolazione dell’isola una popolazione di vedove e vedove bianche. La precarietà di un mondo in cui gli uomini sono costantemente impegnati in mestieri pericolosi, come la pesca e le guerre, è stata aggravata dal continuo conflitto con pirati e corsari, eserciti di invasori, episodi bellici.
Eppure, non fu solo la contingenza storica a creare il carattere femminile elbano, caratterizzato da autostima e intraprendenza. Alcune scoperte archeo-antropologiche – realizzate all’inizio e alla fine del secolo scorso - rivelano la presenza su questo territorio di siti antichissimi, ricchi di indizi circa culture materiali e spirituali di tipo matrifocale. La cultura Villanoviana è un caso esemplare, perché rappresenta un tipo di società, in cui la donna poteva assurgere a posizioni di grande potere, socio-economico, politico e religioso, essendo considerata come il più naturale e spontaneo canale di comunicazione con il divino.
I Villanoviani erano antenati diretti degli Etruschi, che hanno continuato a coltivare – in una società rinnovata ma saldamente incardinata in quelle radici simboliche – una visione e quindi una politica culturale di tolleranza, libertà e onore nei confronti della donna. La donna etrusca si permetteva cose che la donna romana non osava sognare. Ella poteva coltivare i mestieri artigianali e commerciali, prendere decisioni e, soprattutto, essere un punto di riferimento operativo per la spiritualità femminile: le erano affidati in autonomia, culti e cerimoniali che a Roma escludevano la presenza femminile.
In questo percorso attingeremo a tempi antichissimi a quelle culture degli antenati e delle antenate delle donne elbane che rappresentano la base genetica, il nucleo duro del DNA mitocondriale, quello che si tramanda solo in via femminile. Risaliamo a un tempo che non ha potuto lasciare documentazione perché basato sulla comunicazione orale e non scritta, ha lasciato tracce riconducibili, con i metodi dell’archeo-antropologia, alle ricerche di Momolina Marconi, Uberto Pestalozza, Marija Gimbutas, che dimostrano l’esistenza di culture matrifocali a dominanza spirituale femminile nelle popolazioni tirrene, pelasgiche, dolicocefaliche fino a circa il 1000 a.C.
Il nostro progetto mira a ricostruire e ricomporre frammenti della cultura femminile elbana, in particolare di Rio Elba, cultura che ha attraversato molte epoche e che ha subito minacce e ridefinizioni nel corso dei secoli. Proponiamo di ripercorrere a ritroso il fil rouge che connette le elbane moderne alle loro antenate più arcaiche, attraverso uno spettro di metodi esperienziali e di consapevolezza, che si basano sulla relazione diretta, intensa e profonda con l’ambiente naturale circostante.
Ciò che ha reso l’Elba quella che è, e le elbane quello che sono – in termini di fermezza, coraggio, indipendenza – è un sapere che risale alla notte dei tempi ma è latente nella coscienza dei contemporanei, in attesa di essere risvegliato. Proponiamo un percorso, adatto a tutte le età e diretto a entrambi i sessi, che ci ricongiunga con le nostre radici attraverso il contatto non mediato con il mondo naturale, con la rigogliosa e potente natura che avvolge e incornicia la cittadina di Rio.
Gli elementi naturali su cui focalizzeremo l’attenzione sono: il mare e l’abbondanza di acque dolci; la vegetazione (orti, boschi, erbe, alberi); il ventre della miniera, che rappresenta simbolicamente la grotta, il grembo, l’utero. Fu in questo contesto naturale che, nei tempi antichi, iniziarono a forgiarsi quei caratteri isolani specifici e riconoscibili nelle donne elbane. La storia (di dominazioni, soprusi e miseria) contribuì solo ad accentuare configurazioni simboliche e mentali già presenti nel corpo sociale. Vorremmo andare alla scoperta e alla sperimentazione di quegli antichi germogli da cui si sviluppò il modo di vita e di pensiero tipicamente elbano e squisitamente femminile.
E’ sufficiente prestare attenzione al territorio per rilevare i punti forti dei saperi femminili. Le acque dolci, il mare, il lavatoio. L’orto, le erbe, le medicine, la foresta, la miniera, la grotta. Il percorso è caratterizzato dall’esplorazione di figure e ruoli femminili, codificati storicamente, che si radicano in mentalità di lunga durata e affondano le radici nei tempi preistorici (Italici, Villanoviani, Etruschi). Le principali figure archetipiche femminili che emergono dalle ricerche storiche, antropologiche e archeo-antropologiche sono: la levatrice, la “medichessa” o medicine woman, l’erborista, la sacerdotessa, la poetessa/musicista/artista. Si tratta di ruoli distinti, ma spesso fusi nella stessa persona, che vogliamo esplorare separatamente.
La Levatrice, colei che conosce il segreto della vita (ma anche del controllo delle nascite), e lavora con i misteri dell’acqua, delle grotte, del latte, del lavatoio, del mare.
La “Medichessa” guaritrice, colei che conosce il corpo, sa interpretare la malattia, la sa circoscrivere ed estrarre, sa convogliare le energie sulla parte malata e accresce le forze di guarigione, colei che recupera la salute sia fisica che psichica.
L’Erborista, colei che conosce il potere delle piante e del calderone in cui prepara decotti, infusi, elisir di lunga vita.
La Sacerdotessa, colei che conosce il sacro ed è in grado di officiare per conto della comunità; l’accompagnatrice dei morenti, colei che benedice i nascituri e che celebra i matrimoni.
La poetessa/musicista/artista, colei che conosce i segreti del canto, del ritmo, della parola; il canto delle sirene; il potere terapeutico del tamburo e dei sonagli.
Vorremmo scoprire queste dimensioni del femminile con lo scambio, la riflessione, la condivisione, ma anche con il rapporto con la natura circostante e grazie all'attivazione del respiro consapevole, attraverso le tecniche dello yoga.
https://elbapercaso.blogspot.com/
1 note
·
View note
Text
OLIVO E SENOFONTE
Da lontano sembrava un paese come tanti altri le case strette, le tegole rosse incastrate, i comignoli nebbiosi neri di fuliggine: la quiete irreale si stiracchiava nella campagna assolata. Qui in due casette di pietra piccole, quasi da fiaba vivevano Olivo e Senofonte, esseri fragili, incompiuti attaccati alla terra come le due querce sovrastanti i loro piccoli tetti. In paese li chiamavano gli gnomi, sempre indaffarati, minuscoli perché volevano esserlo, esistevano ma di loro non si accorgeva nessuno, a loro bastavano le casette, le enormi querce, il loro minuscoli caratteri che si fondevano s’intrecciavano come i rami dei due alberi protettori. Olivo e Senofonte erano appagati dai giorni brevi e lunghi, dalle piccole gioie e dai grandi dolori – loro sapevano che per due esseri minuscoli i dolori sono più grandi – ma non si lamentavano. Vivevano, e dentro questa parola loro mettevano tutto, le posate di casa ed i tramonti dietro la valle sempre invisibili a loro, ma c’erano e qualcuno la’, lontano, ne godeva distratto tutte le sere, anche nell’ultima. Vivevano, ripeto vivevano, felici, distratti contenti di essere li’, amici – Olivo! – e lui arrivava, riparava il tetto, tagliava l’erba del giardinetto – Senofonte! – lei correva portando il pane fresco, i panni puliti. Sedevano davanti al caminetto tutti e due sprofondati in silenziosi pensieri complici. Una sera il prete andò a trovarli – Dovete sposarvi! – Perché? – risposero in corale Si sposano gli amanti! Non gli amici! - Ma non capite che tutto il paese parla di voi? Spauriti fu questa la sensazione che riempì la casa di Senofonte, tutti – e qui fu lo spavento – tutti parlavano di loro! – Perché? Perché erano amici? – Senofonte sentì la rabbia crescere, per la prima volta nella sua vita, ma non la riconobbe, si curò con erbe, muschi, foglie e certe radici – Un vero toccasana per la febbre – gli disse Olivo. Rabbia parola sconosciuta a loro sempre indaffarati e felici di poco. Parola mai sentita dalle loro madri, pronte a perdonare tutti con una preghiera ed un sorriso. Senofonte ricordò suo padre, lui ogni tanto provava rabbia…ma lei no, forse non gli somigliava. Tutto presto tornò ad essere uguale, Olivo lavorava e Senofonte sognava, pensava spesso a loro – amici – si, non altro. Ma quello che non divise il mormorio del paese lo divise la guerra: arrivarono i tedeschi che accompagnati da amici insospettabili calpestarono la vita pacifica di Olivo e Senofonte. Entrarono casa per casa caricandosi di oggetti e vite umane. Senofonte e Olivo viaggiarono, come mai nella loro invisibile vita, stretti pigiati dentro lamiere sporche che qualcuno spacciava per treni. Nulla riuscivano a vedere ma erano certi di allontanarsi, lo sentivano nei pochi suoni del mondo che scorreva, lo sentivano sulla pelle…l’aria che ora respiravano non sapeva più di aromi di boschi, pascoli, di pietre e giardini, ma di cenere vomitata da enormi camini. Il lavoro rende liberi – qualcuno disse loro – Olivo? - Si! - Che libertà sarà mai questa? Intorno muri e filo spinato, file di essere umani nudi, fosse straripanti; lei fu infilata dentro un capannone di legno, Senofonte piangeva, non sapeva, non capiva perché fosse li’. - Perché siamo qui?– chiese a qualcuno che si mosse vicino lei, ma quella non rispose guardandola con occhi da pazza. Tre anni passarono così, Olivo stingeva i denti al freddo, pensava alla sua casa quando lo percuotevano nudo in mezzo alla neve…- Sali le scale!– e lui ubbidiva, poi scendeva di corsa pensando che in fondo alla scalinata ci fosse la sua amica…vicino vedeva altri schiacciati dalle pietre. La speranza si riaccendeva ogni volta che si rivedevano, poche, ma bastavano. Un fuggevole secondo ed un anno era già dimenticato; lei sorrideva – Tutto bene! – voleva dire, anche se sul suo corpo portava i segni di violenze neanche più combattute. Lui alzava un ciglio – come essere a casa – rispondeva muto, a lei, tutte le volte, anche se stava da ore in piedi sulla maledetta spianata. - Arrivano gli americani! – qualcuno disse…ed Olivo e Senofonte ritornarono a casa nel piccolo paese aggrappato alle colline della Toscana. Sopravvissuti, li’ avevano lasciato l’anima per proteggerla dall’orrore e rientrando nelle casette la ritrovarono, ognuno la sua, che danzava ballate antiche. La presero per mano e si ritrovarono, uscirono, le querce svettavano con i germogli nuovi che spuntavano dalle radici; il prete gli venne incontro piangendo -–Come avete fatto? Accesero il camino che scoppiettò lieto di essere risvegliato – Siamo amici, glielo avevamo detto quella sera! Senofonte aggiustò la coperta sulle gambe – Ogni volta che quelli mi picchiavano io pensavo alla primavera, quando Olivo semina l’insalata! - Ogni volta che mi facevano scendere quella scala, io, pensavo che giù ci fosse lei, con il cesto del pane fresco! Il prete piangeva in silenzio nell’ombra.
0 notes