#delitto sul tevere
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giancarlonicoli · 5 years ago
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24 MAR 2020 17:05
ARBASINO MEMORIES – ‘’NON SO COME OGGI SAREBBE CONSIDERATO PASOLINI. FORSE UN PEDOFILO. COME BALTHUS. E DEGAS, CON QUELLE BALLERINETTE QUATTORDICENNI? E CÉZANNE, COI SUOI POMPIERI AL BAGNO? FORSE I TEMPI ERANO ALLORA PIÙ PERMISSIVI?” – “CON VIGNETTE E COMMENTI PRO O CONTRO CRAXI E BERLUSCONI, MOLTI HANNO GUADAGNATO. NON IO. CON IL VECCHIO BRECHT DICO CHE QUANDO LEGGO “IL CAVALIERE” SENTO TINTINNARE IL REGISTRATORE DI CASSA”
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Aldo Cazzullo per corriere.it
C’erano, in casa di Alberto Arbasino (scomparso domenica 22 marzo a 90 anni), una Madonna in calze a rete firmata da Guttuso, un disegno di Mino Maccari con i preti che su ordine di Andreotti mettono i mutandoni alle statue del Foro Italico, lettere di insospettabile cortesia dei grandi con cui aveva polemizzato, da Bassani a Paolo Grassi; tracce di un’avventura intellettuale, Roy Lichtenstein e Toti Scialoja, Giosetta Fioroni e Antonietta Raphael. E c’era un ritratto con dedica — «Arbasino alla macchina da scrivere in un atto di industria culturale, abietto naturalmente. PPP» —, cui Pier Paolo Pasolini aveva prestato i suoi stessi lineamenti e zigomi.
Però nei suoi libri gli amori omosessuali erano narrati in chiave lieve, non in quella drammatica di Pasolini. «Anonimo lombardo era un romanzo epistolarfrocesco da far sobbalzare, perché trattava l’omosessualità studentesca come una cosa normale, ovvia, com’era considerata a Oxford e a Cambridge — raccontava Arbasino —. Infatti fui rimproverato, e non per scherzo, da Pier Paolo e da Testori, che criticarono la mia leggerezza, la mia mancanza di sofferenza, di tormento. Non sapevo cosa rispondere. Forse dipendeva dal fatto che loro fossero così cattolici».
Un giorno andò a trovare Pasolini su un barcone sul Tevere, sotto il ponte di Castel Sant’Angelo: «Un posto frequentato da ragazzi di vita molto disponibili. Ero a Roma di passaggio, dopo sarei stato al “Mondo”, vestito come si addiceva a un incontro con Pannunzio, Ercolino Patti, Sandro De Feo, che portavano certe grisailles chiare, un po’ meridionali, da avvocato. Mario Ferrara era un avvocato elegantissimo, così come l’avvocato Battaglia: scarpe nere lucidate bene, baffetti bianchi molto curati.
Quando arrivai sul Tevere in cravatta, Pasolini mi derise, così come tutti i marchettoni e le marchettine; ma quando videro che sotto avevo un costume hawaiano, con i palmizi e i fiori, fui molto ammirato dai pischelli. Non so come oggi sarebbe considerato Pasolini. Forse un pedofilo. Come Balthus, un altro grande che ho avuto ospite qui in casa. E Degas, con quelle ballerinette quattordicenni? E Cézanne, coi suoi pompieri al bagno? Forse i tempi erano allora più permissivi? Non so».
Pasolini l’aveva visto l’ultima volta alla Carbonara, la trattoria di Campo de’ Fiori. «Lui aveva invitato a cena Sandro Penna, certo per fare una buona azione: Penna era lagnoso e querulo, difficile da reggere, sempre a lamentarsi di cani o gatti malati, come del resto la Morante; i gatti della Morante non erano mai in buona salute. Quando Pier Paolo mi vide fu una liberazione: “Alberto, vieni qui…”».
E la sua fine? «Non ho mai pensato che se la fosse andata a cercare, come pare abbia commentato Moravia; ma che ci fosse qualcosa sotto. Non un delitto fascista; pensai piuttosto a una banda, di quale tipo non so. Fu una strana imprudenza: nel momento della sua massima visibilità polemica, contro la Dc contro gli americani contro l’Eni, rischiare non una coltellata ma il flash di un paparazzo dietro un cespuglio, con le mutande in mano?».
Anticomunista e avversario del politicamente corretto senza essere di destra, antifascista e pronto a intervenire nel dibattito civile senza essere di sinistra, Arbasino ha coltivato una certa idea dell’engagement, dell’impegno. Faceva notare che i padri della Repubblica non erano schierati a priori né di qua né di là, né democristiani né comunisti.
«Croce, Einaudi, gli azionisti torinesi: gli uomini della generazione di mio nonno, presidente del partito liberale di Voghera, e di mio padre, che aveva della farmacie e forniva le medicine ai capi partigiani dell’Oltrepo. Anche venendo arrestato. A Voghera lavorava come impiegato in un’azienda elettrica Ferruccio Parri».
Rivendicava di non essersi unito a nessun coro: «Su Berlusconi come su Craxi, posso dirmi vergine di servo encomio e di codardo oltraggio. Entrambi hanno inciso sull’economia, anche su quella del fronte avverso: sono stati una fonte di reddito. Con vignette e commenti pro o contro Craxi e Berlusconi, molti hanno guadagnato. Non io. Con il vecchio Brecht dico che quando leggo “il Cavaliere” sento tintinnare il registratore di cassa».
Nell’83 Arbasino fu eletto alla Camera nelle liste repubblicane, e fino all’87 fu tra i deputati più presenti. «Legai molto con i miei vicini in commissione: Adolfo Sarti, di Cuneo, ministro importante e uomo coltissimo, e Michele Zolla, che poi lavorò al Quirinale con Scalfaro. Di fronte c’era Natalia Ginzburg, che smistava tutte le carte a me: “Fai tu anche questo…”.
Detestavo il Transatlantico, i divani, i baci e abbracci tra panzoni, le passeggiate sottobraccio alla buvette. Con Sarti e Zolla ci facevamo il caffè alla macchinetta. La Iotti era scrupolosissima: ascoltava tutti, anche gli ostruzionisti, senza farsi mai sostituire; contava i minuti, al massimo 45, e al quarantaseiesimo scampanellava. Mi ricordava le presidi della mia infanzia. La direttrice didattica di Voghera».
Chi le offrì la candidatura? «Visentini, cui mi legavano l’arte e la musica. E Spadolini, che era stato il mio direttore al “Corriere”. Spadolini era simpaticissimo. Animato da vanità e golosità infantili. Non da sensualità; quella non gli importava, e credo davvero non la praticasse, se in quattro anni di gossip sul direttore al “Corriere” non venne fuori nulla».
Arbasino veniva dal «Giorno». «Avevo legato molto con Murialdi, il caporedattore, e con Pietrino Bianchi; non tanto con Bocca, che credo mi considerasse frivolo, e neppure con il direttore Pietra. Era lui il capo partigiano cui mio padre passava le medicine. Conosceva anche mia madre e di fronte ai redattori allibiti, scherzando ma non troppo, mi diceva: “Se usi troppe parole straniere e troppe citazioni, dico alla mia amica Gina che ti prenda a schiaffi!”.
Al “Corriere” mi portarono Enrico Emanuelli e Alfio Russo, che mi affidava elzeviri e brevi corsivi contornati, lunghi mezza matita. Per prima cosa Spadolini mi informò che erano aboliti. Quanto agli elzeviri, li avrebbero scritti solo accademici e luminari». Poi venne Ottone. «Con cui mi trovai bene, e mi lasciai ancor meglio quando passai a “Repubblica”: era il Natale del ’75, portai due bottiglie in redazione, e Ottone mi ringraziò: “Finalmente uno che va via dal “Corriere” non a male parole ma offrendo champagne”…L’unico problema era l’America. Vi ero stato la prima volta nell’estate del ’59, a seguire un corso di Kissinger che ai suoi picnic ci portava Eleanor Roosevelt, Riesman, Galbraith e Schlesinger. Ma non potevo tornarci per il “Corriere” perché il grande Stille non voleva che nessun altro scrivesse di America, neppure sulla letteratura o su Broadway, tranne lui. Così andavo per conto mio».
Con Bassani era andata peggio. Enzo Siciliano ha raccontato che gli amici di Arbasino alla Feltrinelli dovettero scassinare un cassetto per recuperare il manoscritto di Fratelli d’Italia. Ma lui negava: «Non è così. Io non ero litigioso, e Bassani con me era severo ma simpatico. Tanti altri cercavano di mettere zizzania attorno al Gruppo 63, inventavano voci per creare difficoltà: “Quelli vogliono prenderci tutti i posti”. Come poi nel ’68. L’uscita di Fratelli d’Italia fu preceduta da una campagna preventiva che infastidì molti, compreso me: veniva annunciato un romanzo scandalistico a chiave, con dentro tutti i protagonisti della dolce vita, da Agnelli in giù. Bassani si allarmò.
Quando ebbe tra le mani il libro, molto sinceramente mi disse che non corrispondeva alla sua idea del Romanzo. Fu Giangiacomo Feltrinelli a risolvere la questione: Fratelli d’Italia non sarebbe uscito nella collana curata da Bassani accanto a Forster e Lampedusa, ma in un’altra insieme con Pasternak e Grass. La strana storia dei cassetti forzati, che non so se vera, avvenne molto dopo, con l’acuirsi delle rivalità tra le redazioni romana e milanese, quando il mio libro era già uscito».
Era già nato il Gruppo 63, con Angelo Guglielmi, Furio Colombo, Edoardo Sanguineti, Giorgio Manganelli e Umberto Eco. Per prendere amichevolmente in giro Eco, diceva: «Non saprei giudicarlo. I suoi libri sono molto lunghi, e sono bestseller. La questione non riguarda Umberto, ma tutti. Ove si tratti di bestseller che muovono denaro, il compenso per ogni ora di lettura di noi addetti ai lavori non andrebbe commisurato alla tiratura e alle vendite, bensì deontologicamente regolato dalle vigenti tariffe degli ordini professionali. Più Iva».
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pangeanews · 5 years ago
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“Una volta mi sono sentito invaso da una vera vertigine, che era più forte della mia volontà…”. Amore e desiderio nei racconti di Federigo Tozzi
Trovo questo piccolo libro, buono da custodirsi in tasca, in una libreria dell’usato a Milano, per caso arriva nelle mie mani. Federigo Tozzi che dell’amore, o meglio del desiderio, ha scritto meravigliosamente nel suo “Con gli occhi chiusi” qui ci propone tanti tagli diversi di questo cuore che sta sempre a pulsare, contro ogni previsione. Sono quattordici novelle pubblicate però postume nel 1920, stampate da Passigli come L’amore.
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“Anche quest’anno conto e spero di tornare a Maccarese e al Soratte. Quanto alla letteratura, me ne sto più lontano che è possibile; anzi, non voglio mai che se ne parli in mia presenza, né meno dagli amici”; la prima novella “Campagna romana” termina così. La letteratura è cosa troppo intima, privata, è una voce che chiama senza sosta, è una febbre che non fa dormire, da cui ogni tanto bisogna allontanarsi, sperare nell’estate, in quella vera delle campagne romane per tentare una tregua qualsiasi nella vita.
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Le novelle di Tozzi sono irriverenti, attraversano le situazioni amorose più scomode e anche più insolite, se siete fedeli alla morale. Allora vedrete come in “L’amore” c’è un ragazzo che ama una donna solo guardandola, che aspetta che esca per la passeggiata tutti i giorni solo per vederla camminare. Un ragazzo che ��In certi casi, la solitudine allunga le distanze all’infinito”, perché la separazione del corpo rende il nostro desiderio quasi eterno. Il desiderio dell’amata che ci consuma nella solitudine allo stesso tempo è preservato, è protetto dal presente. Nel segreto possiamo possederlo, farlo ancora nostro e per questo renderlo immutato, sicuro.
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Sempre sul concetto di eternità del desiderio in “Una sera presso il Tevere” Tozzi ci spiega come si infrange uno dei comandamenti: desiderare la donna altrui. “Avete mai amato, soltanto a sentirne parlare, le amanti degli altri? Io sì. (…) Nate, per me, dalle confidenze de’ miei amici, hanno cessato di esistere sempre troppo presto; ma più presto di loro finisco anche quasi tutte le cose reali, che sono state nostre o che ci hanno interessato. Quelle donne, invece, anche se ce ne ricordiamo dopo tanto tempo, pigliano sempre un senso di eternità”. Ecco che quindi ciò che possediamo smette di esistere poco dopo, quel che resta invece è sempre una tensione sacra e immutata verso ciò che per natura appartiene ad altri e non possiamo interessarcene davvero. Dell’amore non possiamo che sperare che ci sfinisca, che si consumi il desiderio dentro la bocca dell’amato, e poi più niente, cessi di esistere se un poco ci è appartenuto.
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Ne “Il vino” troviamo Teofilo Bettarini che beve la sera per “mandare via la tristezza dei quarant’anni”, non frequentava le bettole ma da scapolo dignitoso beveva a porte chiuse, in camera sua. Il bicchiere doveva sempre essere pieno perché il colore dentro al vetro simulasse una compagnia. In una sera che aveva bevuto fino a non ricordarsi più cosa aveva pensato poco prima, visto dagli altri condomini in quelle condizioni, promise che avrebbe smesso di bere e che avrebbe sposato la figlia di uno di questi. Lo scapolo quarantenne convinto ora è chiuso nella promessa fatta, dedito alla parola data che minaccia di trasformarsi in fatto. Ma il vino non aveva del tutto alterato la realtà, aveva solo sbagliato bersaglio. Era la proprietaria di casa sua l’amore segreto, segreto quasi anche a lui. Tozzi ci mostra come a volte il desiderio si annidi nelle occasioni: fino a poco prima pareva assente, poi l’occasione fa l’uomo innamorato, oppure ladro.
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“La mia amicizia” è una novella di richiesta di aiuto disperata: Beppe il protagonista sente suonare il campanello di casa sua ma non c’è nessuno, si spaventa a tal punto che chiede a una coppia di amici sposati di poter vivere con loro. L’invasione è strana e scomoda, l’amicizia è un sentimento che prevede la distanza, esiste solo se c’è il confine, se l’altro davvero non si fa troppo vicino. Beppe finisce in manicomio per cinque anni, e ora che è uscito non ha più voglia di vivere “è come se io fossi stato di legno e ora fossi bruciato; e restasse di me soltanto la possibilità di concepirmi. Non penso né meno, e comincio a gustare sempre di più la mia idiozia. Perché l’idiozia è una cosa dolce”. Il rifiuto impone la condanna, è un marchio a fuoco che brucia sulla pelle, squaglia gli ultimi residui di dignità. Chi viene rifiutato resta ai margini dell’amore, si sente espropriato di quel sentimento, della sola capacità di provarlo e restituirlo. Allora Beppe ci confessa che “non avrei mai creduto che, alla fine, potessi vivere a modo mio, così separato dagli uomini e da tutto il resto; e credo alla mia esistenza soltanto quando sogno.” L’esistenza si fa sfumata quando il confine con l’altro è talmente lontano da sembrare solo un ricordo, le altre vite sono altrove, altrove l’amicizia, l’esistenza procede solo quando concepiamo di esistere nella nostra testa, solo quando il pensiero si fa presente, oppure quando il sogno ci prende.
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Tozzi in queste novelle ci apre le porte all’amore coniugale, a quelle coppie perfettissime che sembrano destinate e incastrarsi così bene che ci si chiede se non siano lo stesso corpo, da quale arto si dirami l’altro. L’amore dentro l’abitudine, o l’abitudine dentro l’amore? In “Elia e Vannina” Federigo Tozzi è impietoso, descrive una giovane coppia ai primi anni di matrimonio: tocco dopo tocco entrambi si depositano uno sull’altro come lo sporco, le pentole si incrostano e quella usura è piacevole, diventa un ingrediente necessario al piatto portato in tavola. “Invecchiando quell’egoismo era indispensabile a loro quanto il respirare. (…) Era per lui la stessa cosa tanto amare la moglie quanto il medaglione. Egli aveva soltanto lo scrupolo di essere infedele ad esso o a lei. Non altro”. Tozzi ci mostra che quando diveniamo parte dell’altro e l’altro parte di noi in realtà ci stiamo mangiando, questo è un amore cannibale, non è amore di condivisione. Ci si ciba a vicenda, si diventa cose che respirano, che mangiano, uguali al medaglione che sul petto si alza per il dovere inconsapevole del torace.
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In “La vendetta” abbiamo la descrizione della convulsione intima che prende chi prova il desiderio di vendetta. Sempre di desiderio si tratta, sempre di un sentimento che scava nel profondo come l’amore, che ha radici miste alla passione, che sprofonda nel divario tra volontà e desiderio. “Una volta mi sono sentito invece invaso da una vera vertigine, che era più forte della mia volontà: sono stato sul punto di commettere il delitto, quasi provando il principio di uno svenimento, che mi avrebbe dato giusto il tempo di agire.” Ma togliete il titolo e togliere “commettere il delitto”: potrebbe essere l’esatta descrizione della folgorazione d’amore, del così detto colpo di fulmine. L’amore è una vertigine, è lo spostamento dell’asse del baricentro che spacca la volontà, ci rende inabili, deboli e allo stesso tempo ci fornisce comunque un secondo per agire, per scegliere di non saltare quel baratro. Tozzi pone in questa novella il limite esatto tra amore e vendetta, tra amore ed ossessione. Vince sempre la seconda, la seconda porta alla mania, è comunque un pensiero sicuro, vorticoso dentro l’io.
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“Roberto e Natalia” è una delle novelle più disincantate di questa raccolta. Cinica fino al disgusto, eppure drammaticamente vera. Qui Tozzi ci riporta l’amore spolpato della carne, l’amore ridotto all’osso della sincerità. Amiamo chi ci capita davanti, non scegliamo mai nessuno veramente perché non abbiamo tutte queste possibilità. Gli incontri ci obbligano a una resa, prendere o lasciare. Illudersi sempre. Ma Roberto non si illude, illude Natalia, ma con sé stesso è onesto fino all’attrito. Parole così ci disgustano ma le abbiamo pensate anche noi almeno una volta: “E perché io l’amo adesso; se qualche anno fa io non la conoscevo nemmeno? Quand’era bambina, la sua esistenza non aveva niente a che fare con me. Che mi piaccia, non basta perché io l’ami. Io non amo né meno me stesso; ma soltanto le cose che io penso, quando non si riferiscono a quelle presenti; quando non so né meno che cosa siano e non saprei nominarle. (…) Natalia non era che l’essere scelto tra tutti gli altri; l’essere che gli era capitato; e non di più”.
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Federigo Tozzi in queste splendide novelle ci descrive l’amore in tutte le sue molteplici e “inusuali” forme. Nelle variatio più interessanti, più inconfessabili. Tozzi è capace di entrare nella serpe in seno del desiderio, di muoversi come questo rettile a terra, duro nel suo scheletro, con le coste che strisciano sulle squame, farsi microscopico e infilarsi nelle orecchie, risalire al cervello. Il desiderio che come una serpe ci si pianta dentro, sibila con la sua voce, ci fa venire la febbre.
Clery Celeste
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cooperatoresveritatisinfo · 5 years ago
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Siamo lieti di pubblicare, congiuntamente al sito della Fondazione Lepanto, curatore dell’iniziativa, di Corrispondenza romana, degli amici di Chiesa e post concilio, del Blog di Marco Tosatti, di Aldo Maria Valli, di cronicasdepapafrancisco.. ed altri, l’evento che si sta svolgendo oggi a Monaco dell’Acies Ordinata, come già avvenne per febbraio e settembre 2019, vedi qui. Qui la pagina di FB della Fondazione Lepanto.
il video:
      Acies Ordinata – Conferenza stampa
Al termine della manifestazione Acies Ordinata svoltasi a Monaco di Baviera si è tenuta anche una conferenza con gli interventi di alcune personalità cattoliche conosciute a livello mondiale per la difesa della Chiesa di sempre.
Michael J. Matt, direttore del quotidiano americano The Remnant, dopo aver ricordato le proprie origini tedesche, ha affermato che la Conferenza episcopale tedesca, con l’indizione del “cammino sinodale”, ha la pretesa di «poter auto-determinare la dottrina e istituire la propria Chiesa nazionale, una sorta di nazionalismo elitario in completo contrasto con il volto della Chiesa Cattolica universale, con una sola fede, un unico sistema sacramentale e un’unica disciplina in tutto il mondo». Ne è una prova l’insistente proposta di ordinare donne al sacerdozio, nonostante sia contrario alla legge di Dio. «Perché i Vescovi Tedeschi non riescono a comprendere – domanda il giornalista americano – Chiesa non ha l’autorità di infrangere la legge di Dio?». Per questo i fedeli non possono lasciare che il “progetto” dei vescovi tedeschi abbia successo, poiché «l’ultima cosa di cui il mondo ha bisogno oggi è una maggiore ribellione in seno alla Chiesa Cattolica che abbiamo vista essere stata distrutta negli ultimi cinquant’anni».
Alexander Tschugguel, il giovane che gettato nel Tevere gli idoli della Pachamama, ha infatti rammentato che i veri “ideologi” del sinodo straordinario sull’Amazzonia – col pieno appoggio di papa Francesco – sono stati i vescovi (e i teologi) tedeschi. Lo prova il fatto che mons. Franz-Josef Bode, vice-presidente della Conferenza episcopale tedesca, ha dichiarato che ciò che è stato deciso per l’Amazzonia dovrebbe applicato anche in Germania. «L’avvio del percorso sinodale – ha aggiunto il giovane – significherà probabilmente che questo processo avanzerà molto rapidamente in Germania. La Chiesa tedesca sta qui cercando di assumere una sorta di ruolo pionieristico». La Chiesa ha sempre affrontato crisi nel corso della sua storia bimillenaria e anche questa volta sarà riuscirà a superarla. «Spetta a noi decidere ora – ha concluso – quante strade sbagliate la Chiesa debba lasciare, quante ancora debbano essere distrutte prima di poter ritrovare la via per tornare alla verità, alla dottrina e alla tradizione».
La giornalista francese Jaenne Smits ha difeso il giusto ruolo della donna nella Chiesa. L’uomo e la donna hanno pari dignità, ma non uguali compiti. I vescovi tedeschi stanno infatti minimizzando «il ruolo chiave tradizionale delle donne per farle agire come uomini». Inoltre, ordinare al sacerdozio senza tenere conto del sesso biologico, è un altro cedimento all’ideologia egualitarista del gender. «Sembra che il percorso sinodale tedesco voglia, con uno stratagemma, convogliare la Chiesa in una trappola», ha accusato la giornalista francese. «Come donna, giornalista – sono stata, nel passato, direttore e redattore-capo di diverse riviste e giornali – e, da Cattolica, posso solo dire quanto patetico trovi questo approccio egualitario. È patetico ed è persino pericoloso per la mia fede e per la Chiesa che amo, perché è disposto a sconvolgere l’intera economia della Redenzione, la verità e la bellezza dei rispettivi ruoli di nostro Signore Gesù, Figlio di Dio e la più perfetta di tutte le creature umane, la sua Vergine Madre».
Nel suo intervento Antonio Ureta, membro dell’Associazione Tradizione Famiglia Proprietà e autore del celeberrimo Il cambio di paradigma di Papa Francesco, ha elencato cinque imposture del “percorso sinodale” voluto dalla Conferenza episcopale tedesca. La prima è un’impostura teologica, in quanto i cambiamenti proposti sull’autorità della Chiesa, sul sacramento dell’Ordine e sulla morale sessuale vengono difesi con l’eretica tesi che ciò che chiede la “comunità” viene dallo Spirito, suggerendo «che la Rivelazione divina è espressa e si evolve attraverso le vicissitudini umane». La seconda è un’impostura ecclesiogica, poiché «la “sinodalità” è solo un’etichetta fraudolenta per ottenere una democratizzazione radicale della Chiesa». La terza è un’impostura sociologica. Infatti il Comitato Centrale dei Cattolici Tedeschi (ZDK) – vero organizzatore del “percosso sinodale” – non è affatto un corpo rappresentativo dei fedeli cattolici, giacché i suoi membri non sono affatto i comuni frequentatori della Messa domenicale, ma «ciò che viene denominato “Räte und Verbandskatholizismus”, e cioè una sorta di nomenklatura composta da apparatchik di organizzazioni attivistiche di orientamento progressista». La quarta è un’impostura metodologica. Il “cammino sinodale” tedesco, riguardo gli abusi sessuali commessi da membri del clero, si avvale del fazioso rapporto MHG, secondo cui la responsabile è la “vecchia” Chiesa, con la sua struttura di potere, la sua teologia degli assoluti morali, il suo celibato sacerdotale e la sua condanna dell’omosessualità. I vescovi tedeschi e la ZDK hanno volutamente ignorato «altri studi che indicano nel lassismo morale e nel crollo della teologia morale i principali colpevoli». L’ultima impostura è quella umana. Da cinquant’anni la Conferenza episcopale «cerca d’infiltrare nella Chiesa cattolica le eresie promosse dai leader della teologia neo-modernista tedesca. Invece di assumersi la responsabilità di queste eresie con piena trasparenza, i vescovi tedeschi si nascondono dietro i laici e, col pretesto della “sinodalità”, vogliono che siano i laici ad assumersi la piena responsabilità della rottura con la verità di Cristo operata dalla nuova chiesa scismatica che stanno costruendo sulle orme di Lutero», ha concluso il prof. Ureta.
John-Henry Westen, direttore del portale americano LifeSiteNews, ha lanciato una pesante – e motivata – accusa al cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco-Frisinga e presidente della Conferenza episcopale tedesca. «Cardinale Marx, secondo le parole di San Paolo (cfr. At 20, 29-30; 2Cor 11, 13), le sue mani grondano sangue… I suoi falsi insegnamenti su aborto, adulterio e atti omosessuali hanno pervertito un’intera generazione di giovani Cattolici… Lei vuole integrarsi nell’élite di questo mondo… Come osa benedire atti che danneggiano le persone nei loro corpi e nelle loro anime? … Lei è un falso profeta come quelli da cui ci ha messo in guardia San Pietro, il primo Papa (cfr. 2Pt 2, 1-2) … Si penta della sua malvagità o l’aspetta il fuoco dell’inferno…».
Roberto de Mattei, presidente della Fondazione Lepanto, storico della Chiesa e scrittore, ha lanciato un appello ai cattolici tedeschi affinché si oppongano alla Kirchensteuer, la tassa sulle religioni e principale fonte di finanziamento della Conferenza episcopale tedesca. «È inammissibile – ha affermato il prof. de Mattei – che l’unica possibilità di sottrarsi a questo prelievo forzato sia una dichiarazione obbligata di abbandono della Chiesa (Kirchenaustritt) a cui segue automaticamente una scomunica de facto». Fermo restando «il dovere di aiutare materialmente la Chiesa», ma dalla «la tradizione della Chiesa non ha mai considerato la violazione di questo dovere come un delitto punibile in sé». È scandaloso che i divorziati-risposati che pagano la Kirchensteuer siano ammessi ai sacramenti, mentre ai cattolici che rifiutano il pagamento di questa tassa vengano scomunicati di fatto – contraddicendo il Codice di Diritto Canonico – negando loro anche i funerali. «Il criterio di appartenenza alla Chiesa cattolica si fonda sulla fede che ogni cattolico riceve con il battesimo e non può essere ridotto al pagamento di una tassa», ha spiegato. «Solo un’istituzione profondamente secolarizzata può stabilire un’equazione tra l’appartenenza alla Chiesa e il pagamento di una quota del proprio reddito». «Per questo, il rifiuto di finanziare la Conferenza Episcopale tedesca – ha concluso il prof. de Mattei – non significa voltare le spalle alla Chiesa e tanto meno abbandonare la fede cattolica, ma anzi difenderla. È il bene, non solo della Chiesa in Germania, ma della Chiesa universale, che ci spinge a rivolgere un appello ai cattolici tedeschi: cessate di pagare la Kirchensteuer!».
qui a seguire gli interventi in formato pdf, gentilmente condivisi a noi dalla Fondazione Lepanto
Alexander Tschugguel
Jeanne Smits
John-Henry Westen
Jose Antonio Ureta
Michael J. Matt
Roberto de Mattei
Le foto dalla Fondazione Lepanto:
      Reti unificate: Acies Ordinata a Monaco – 18 gennaio 2020 Siamo lieti di pubblicare, congiuntamente al sito della Fondazione Lepanto, curatore dell'iniziativa, di Corrispondenza romana…
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dontresal · 7 years ago
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Presentazione di Mons. Vincenzo Restivo
Mio chiarissimo Preside,
grazie per l’invito e per lo spazio, e consentimi di ridurre al minimo le nostre formali distanze professionali e darci le dimensioni del cuore, della stima e della gratitudine. Tu, illuminato docente e preside di lungo corso in prestigiosi istituti scolastici, continui ad impegnarti nella nobile missione di estrarre l’uomo d’oggi dalla caligine invadente e dalla dispersione dei valori, osando tuttavia tempo e fatica per dare sfogo alle tue tante attitudini culturali. Ho letto con grande interesse le tue rivisitazioni della storia di gloriosi istituti scolastici di Canicattì, come la Scuola ”Salvatore Gangitano” e il Tecnico “Galileo Galilei”, nel quadro dell’evoluzione culturale ed economica della nostra città. Ho apprezzato lo stile brillante e la sottile ironia con la quale hai affrontato vicende e personaggi locali come l’Accademia del Parnaso ed il poeta dialettale Peppi Paci. Particolarmente corposa e saporosa mi è apparsa la biografia del barone Agostino La Lomia, da te definito “un gattopardo nella terra del Parnaso”, che ha avuto numerose gratificazioni da parte di autorevoli critici. Dire poi della tua “La Canicattì di mons. Restivo”, mi suona un’autoreferenza che, onorandomi, mi mortifica. Cicero prò domo sua!
E, tornando alle distanze, in tutto questo io, modesto lavoratore nella vigna del Signore, vorrei “mettere vino nuovo in otri vecchi” che sanno di spregiudicati secolarismi e di aridi laicismi. E, a 94 anni suonati, mi sento ancora di essere, di fare, di dare… e di incontrare te, mio carissimo figlioccio, in questa tua nobile fatica. E sai perché questa prolissa e più opportuna captatio benevolentiae? Per dirti un sentitissimo “grazie”: mi hai tolto dalla coscienza un grosso peso penitenziale che mi mordeva da anni, quello di non essere riuscito io a dare ordine al tanto materiale documentario che gelosamente ho raccolto e prodotto sulla vita, il pensiero, l’apostolato del nostro concittadino mons. Angelo Ficarra. “dotto e santo” che onora l’episcopato del ventesimo secolo e Canicattì sua diletta patria natale.
A me il tempo e il lavoro l’hanno vietato. Tu, invece, con sapienza di maestro e certosina pazienza nella ricerca, nel coordinamento, nella vasta consultazione dì carte e di testi, hai dato a Canicattì, alla chiesa di Sicilia e passi, un documento di alto valore sociale e religioso che forse farà scalpore. Compiacimenti e… ad meliora; mi ci sento coinvolto e ne godo.
Sono stato alunno, uditore delle “nenie domenicali” sapienti e incisive del Ficarra. Fatto prete e arciprete-parroco e quindi suo successore in Canicattì, me ne sono fatto un modello di pastore e di maestro sulla scia dei suoi “Grandi Amori”: Liturgia, Catechismo, Carità. Ho portato avanti il suo impegno nella direzione dell’Istituto S. Angela Merici e nelle tante attività formative dalla San Vincenzo all’Azione Cattolica e al Movimento dei Laureati Cattolici.
Nella stima e nel devoto affetto mi sono ritenuto in filiale obbligo di onorarne e la vita e la morte nel modo più solenne. Le partecipazioni sono state plebiscitarie sia di vescovi sia di autorità civili e di un popolo esultante e commosso, così da far dire: neppure per padre Gioacchino… Ne sono scaturiti numeri unici, la pubblicazione delle lettere pastorali e, nel 1986, un’artistica “memoria” per il centenario della nascita, il cinquantenario della consacrazione episcopale, il venticinquesimo della morte. La salma imbalsamata dal prof. Del Carpio si conserva in Matrice in un bel sarcofago con relativo mezzo busto del prof. Lo Giudice.
Mi sono dilungato non perché ne voglia lode ma come anticipata excusatio per quanto segue sul tuo “Ficarra – La giustizia negata”. Tu, caro Preside, ti sei avventurato e districato nella “selva selvaggia e forte” della spinosa vicenda sofferta santamente dal Ficarra, che ha avuto ampia risonanza soprattutto per il pamphlet di Leonardo Sciascia Dalle parti degli infedeli e sei riuscito a “rivedere le stelle” tra gli “osanna” delle Palme e i “crucifige” del Venerdì Santo. Ebbene, in qualche modo, proprio io che auspico sugli altari, ampiamente meritati, il “dotto e santo”, mi sento il povero “Pilato”, perplesso e profano nella cabala degli scribi e farisei lontani mille miglia dalla concezione religiosa degli Augusti della Roma pagana. Piiate tutore e garante dei poteri delle 12 tavole o in cerca di detergenti per la purificazione delle mani… ad un certo punto al suo Ecce homo domanda: “Cos’è la Verità, ov’è la Verità?”. La risposta è stata negata. Jesus autem tacebat, scrive San Giovanni. Gli anatomisti del Vangelo l’han trovata. E Lui in persona, il Cristo, la Verità: Io sono la Via, la Verità e la Vita. Cristo è la risposta alla domanda dell’uomo: dinanzi al cieco Giudice romano e dinanzi agli analisti del pensiero e della psiche, di ieri e ancor più di oggi. Una risposta univoca ed esaustiva non è stata trovata e data, da Protagora a Platone ed Aristotele e giù giù fino a Cartesio, Kant, Russell. Ognuno vuole la sua porzione e la tunica inconsutile del Cristo – sìmbolo di verità – è “divisa in quattro parti”. Ecco il mio sofferto problema, e chiedo venia nello spirito di un non sospetto maestro. “Non condivido la tua opinione, ma son disposto a dare la vita per difenderla” (Voltaire).
E mi chiedo. Possiamo noi dare serenamente un giudizio definitivo, senza offendere la maestà della verità, nella sostenuta presunzione di “giustizia negata”? Non mi sento uno sprovveduto, tanto meno di parte, e so anche quanti nella Chiesa e proprio “dalla Chiesa” hanno sofferto ingiustamente. E penso al cardinal Ferrari e a mons. Cognata, a P. Pio da Pietrelcina, a don Milani… e su su fino al Savonarola, al Galilei, a Giovanna d’Arco, senza scomodare le Guerre di Religione e di Re e Papi. E Dio spesso è costretto a scrivere dritto in righe storte… e cavare il bene dal male nel corso della storia.
Mons. Ficarra, per temperamento nativo, per la sua profonda formazione culturale umanistica, per la sua sconfinata paterna comprensione delle miserie umane e, mi permetto di aggiungere, forse anche per una inconscia suggestione dello Spirito, rifletteva la tolleranza misericordiosa del Padre che “fa i conti col figlio più giovane” e gli permette le avventure di cuori sognanti. L’attende, l’accoglie, fa festa…, col mugugno del fedelissimo fratello maggiore che rimane alla porta. Il Sillabo nella correttezza dell’essenziale tentò l’esuberante fanatismo dei “novatori” ma fece le vittime oggi riabilitate. Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II, una graduale maturazione delle idee e degli indirizzi hanno spazzato le nebbie e ci hanno ricondotto allo spirito del Vangelo. “Non sono venuto per i giusti ma per i peccatori… e si fa giù tanta festa per il peccatore pentito piuttosto che per il servo fedele: “Lo Spirito Santo vi insegnerà ogni cosa”. Ha ragione il poeta pagano. “Ci sono confini al di qua e al di là dei quali si corre l’errore”.
Il Ficarra, sempre attento, zelante, intraprendente e talvolta dirompente – penso alla sua vivace polemica in favore degli operai nel quindicinale Il Lavoratore di Ribera, penso alle sue Meditazioni vagabonde – fermamente critico contro usanze festaiole paganeggianti – penso all’amicizia con Buonaiuti e Murri, Collaboratore fedelissimo del battagliero vescovo Peruzzo e successivamente come vescovo a Patti, il Ficarra -va tenuto in conto – lentamente, e per gli anni e per taluni disturbi fisici non bene avvertiti e tempestivamente curati, dava segni di stanchezza e di disattenzione alle insorgenze socio-politiche, nonché a talune sbavature di preti esuberanti e diversamente chiacchierati. Recepiva e trasmetteva fedelmente le direttive che da Roma provenivano su clero e laicato nella complessa e scomposta bagarre politica, ma non sembrava tenersi alla pari con tanti confratelli dell’episcopato siciliano mobilitato in difesa dei valori cristiani e della democrazia. Col senno di poi si può eccepire sul collaborazionismo chiesa-partito, sui Comitati Civici di Gedda, sull’atteggiamento e la scomunica di Pio XII e si può eccepire sui preti politicanti sulle bigonce e nelle piazze; si può contestare su Madonne piangenti e pellegrinanti, ma l’Italia restava la sola barriera contro ideologie e carri armati che avevano invaso la Mitteleuropa. Di certo a Patti e diocesi “preti ribelli” e dissenzienti legati al carro di forze sotterranee, rocciatori di partito, sfruttanti il riserbo prudenziale del vescovo che si sentiva padre di tutti al di sopra delle fazioni, giocarono il ruolo dirompente del tessuto ecclesiale.
Si voleva forse fare del Ficarra un nuovo Pietro l’Eremita nella crociata contro il Saladino. Scrisse il buon pastore: “Non mi sono piegato alle pretese insane e losche di tre o quattro preti megalomani”. Ma erano solo quattro, ovvero con loro l’orchestra investiva una platea più vasta? Annota qualcuno bene informato: “II presule si trovò a svolgere il suo ministero episcopale in una zona dominata da quel tristo intreccio tra massoneria, affari e mafia che vide tra i suoi principali esponenti il faccendiere Michele Sindona nativo di Patti”. La scomposta bagarre non si accese e si spense tra le mura delle sacrestie o delle segreterie politiche ma, bene orchestrata, pervenne intenzionalmente alle rive del Tevere. Qualcuno, tonacato. scrisse: “E’ vergognoso, se non delitto imperdonabile, che ciò sia avvenuto a Patti, sede del Vescovo. Dappertutto si lavora per Dìo. a Patti si lavora per Satana”. Destinatario il card. Piazza, nella qualità di presidente della Congregazione Concistoriale e pertanto il tutore e il garante della ortodossia dottrinale e disciplinare della Chiesa universale. Saremmo curiosi e divertiti a conoscere l’intricato carteggio di andata e ritorno tra Patti e Roma; ma siamo sub secreto Sancti Officii e la gran parte dorme i sonni eterni delle catacombe vaticane. Conosciamo appena quanto il Ficarra “ha gelosamente conservato” e che i nipoti hanno poi affidato a Leonardo Sciascia. Domanda: tutte le carte sono state conservate e consegnate e tutte lo Sciascia ha pubblicato? Non ne dubitiamo ma corre la tentazione. La storia, la grande e la piccina, non ne corre il rischio se è vero, come è vero, che la storia la scrive chi non la fa da Erodoto al Muratori a Renzo De Felice per il fascismo?
Un giorno mi chiama mons. Peruzzo e mi dice: “Sono stato a conferire col card. Piazza, l’ho trovato duro come una roccia… Vada Lei che, come concittadino e successore nell’arcipretura, conosce bene quel sant’uomo del Ficarra. Lui non sa nemmeno come si facciano certi peccati”. Pivellino, ultimo della classe, mi sono risparmiato il biglietto ferroviario. Il card. Piazza ha due orecchie e due occhi: ascolta le due campane e legge gli spartiti che vengono da mille e più chilometri dalla chiacchierata Sicilia. Legge, riflette, si consulta e prega. Anche lui come Filato: “Cos’è, dove sta la Verità?”. La diocesi soffre, i preti sono Orazi e Curiazi, le correnti di sud e tramontana soffiano e scombinano teste e busti; i labirinti di mafia e massoneria fibrillano: il Regno di Dio è diviso e il buon popolo è “strumento cieco di occhiuta rapina”. Tutto per colpa del Ficarra! Ma mons. Angelo è il capro espiatorio per un popolo giocato dalle mene oscure di forze opposte: siamo al Cristo dinanzi al pretorio di Pilato. Scrive il buon Padre: “Noi abbiamo superato tante tempeste con la forza tenace del silenzio e la fiducia in Dio”. Ma Roma non può, non deve tacere.
E allora? Da Roma mandano l’ausiliare; non è tutto, ma non è niente; in qualche modo, con un po’ di intelligenza e un po’ di diplomazia, dividendo i compiti, si può salvare il salvabile. E’ prosaico? Viene scelto ed eletto don Giuseppe Pullano nativo di Pentone: ha ben operato, ha le carte in regola con la curia e da’ sufficiente garanzia di convivenza e di efficienza per sanare la situazione e dare maggiore impulso alle esigenze pastorali. Il rimedio non da i buoni frutti sperati: una formale diarchia che purtroppo chiarisce meglio le differenze tra conservatori ed innovatori, arroccati alle porte dei due vescovi come i bravi davanti alla stanza di don Rodrigo. Le diarchie e peggio i triunvirati nella Roma dei cesari e dei papi non hanno avuto né lieti mattini né tramonti sereni. Historia docet!
Altre lettere, altri mugugni: ormai sono in due a soffrirne. L’ausiliare la vince ed è promosso amministratore apostolico sede piena: cioè mons. Pullano è tutto, il Ficarra l’ombra di se stesso… che purtroppo fa ombra al suo superiore. E’ brutto quel che scrivo ma è vero e, così stando le cose pastorali in diocesi, la salus reipubblicae prevale. Mi sovviene e considero. Da tribunale a tribunale Gesù è dinanzi a Caifa. sommo sacerdote; qualcuno alza la voce dicendo: “Ma, in sostanza, che male ha fatto quest’uomo?”. Caifa ha sentenziato, profeta inconscio: “Non avete capito nulla e non capite che è meglio che muoia quest’uomo per il popolo, piuttosto che perisca tutta la nazione?”. L’amore ha già pagato: ma “Dio non turba mai la gioia dei suoi figli senza prepararne una più grande in cielo”.
Siamo nell’estate 1957. Da anni il Ficarra preferisce trascorrere le ferie nella sua amata Canicattì: tra casa e chiesa e qualche fuga fuori porta; legge, studia, soprattutto si raccoglie in profonda preghiera; riceve e scambia visite di convenienza, umilmente. Il mattino del 2 agosto strano: è la festa di S. Alfonso Maria de’ Liguori, vescovo di S. Agata dei Goti, messo a riposo dai suoi stessi figli redentoristi compra e legge nel Giornale di Sicilia delle sue volontarie dimissioni da vescovo di Patti e della promozione ad arcivescovo di Leontopoli inpartibus infidelium; con ironia forse involontaria è destinato ad una diocesi dei tempi oscuri che si perde nella nebbia dell’essere o del non essere. Cosa è avvenuto? La curia ha affidato all’arcivescovo di Catania Bentivoglio il delicato compito di comunicare e consegnare la lettera dimissoriale. Caso dei casi la lettera arriva e giace sulla polverosa scrivania. Il Bentivoglio è assente, in pellegrinaggio. “Il caso è lo pseudonimo di Dio quando nasconde la mano”.
Abitualmente celebra nella chiesa di Maria SS. degli Agonizzanti, la rettoria delle sue figlie spirituali, le orsoline, consuma la sua colazione di caffellatte e ciambelle. Di solito io l’accompagno a casa. Una mattina di un giorno che non ricordo lo trovo a passeggiare concitatamente, contro il consueto. Caccia la mano in tasca e mi porge a pugno chiuso una carta: è un telegramma. Leggo e agghiaccio: “II giorno x – anche qui la memoria mi tradisce – il card. Ruffini mi darà il possesso della diocesi. Firmato Pullano”. Mesto glielo riconsegno e col soffio della voce mi sussurra: “Così si fa?”. E nulla più né ora né in futuro. Da indagini da me condotte risulterebbe che il telegramma non venne dalla curia di Patti; sta di fatto che nel giorno dell’insediamento del Pullano il Ficarra non ricevette nessun altro invito. L’ombra di Banco facea ombra, certo qualcosa sarebbe suonato fuori diapason. Ma lo schiaffo colpì le due guance con l’atroce compiacimento delle opposte parti. Qualcuno, sprovveduto o con malizia, osò un giorno domandargli: “Eccellenza, non torna più a Patti?”. “Anche da Canicattì si può andare in paradiso”. “Il mio nome è scritto in cielo” diceva la piccola sua santa Teresa del Bambino Gesù. E veniamo finalmente a Leonardo Sciascia e al suo pamphlet Dalle parti degli infedeli. Anche a lui il mio grazie perché, proprio in grazia di questo giallo, il caso Ficarra e la sua figura hanno ricevuto l’aureola della vittima, il suggello del martirio bianco, proprio a merito e grazia di uno scrittore che coi preti ce l’aveva: vedi Todo modo, Le parrocchie di Regalpetra, Gli zii di Sicilia. Certo la Sicilia deve anch’essa molto al suo figlio di Racalmuto, ma forse non sempre meritoriamente se con i suoi libri ha esportato la ingloriosa fama di mafia, intrallazzi, stragi e consorterie di malaffare, al punto che la gloria di Federico II, di Ruggero, di Rosalia e del Meli quasi si è maculata con Giuliano o Ciaculli e i tanti morti ammazzati.
Ma torniamo al tema. Claris verbis io non condivido la sua impostazione e la conclusione perentoria: e pertanto mi pongo tra gli infedeli al suo assunto. Ficarra non è solo la vittima ma anche il “dotto e santo”; lo Sciascia nessun rilievo laicisticamente dà del Ficarra che prima di essere l’episcopus è l’’homo Dei e l’homo hominis che vuole costruire la città di Dio tra gli uomini sparsi in un secolarismo chiuso all’eterno e ancora prigioniero della triplice tentazione di Gesù nel deserto. Homo homini lupus. E oso domandargli, ripeto: i documenti usati sono tutti quelli intercorsi ovvero il vento o il venticello qualcuno se l’è involato?
E se tutti fossero riportati integralmente e non a spizzichi, non potremmo più a nostro agio riscontrare la correttezza della interpretazione conclusiva? Ma dal “citato” emerge chiara una tesi non dimostrata né dimostrabile se non nella luce della fede e della provvidenza che d’altronde oggi trascende la possibilità della piena risposta alla domanda di Filato: “Cos’è, o dov’è la Verità? I vellutati pizzicorini e le chiare stoccate toccano un po’ quasi tutti gli interlocutori di chiesa e ciò mi persuade dello spirito laicistico di vedere una certa chiesa santa e peccatrice nella quale proprio il Ficarra vive, opera e soffre nello stile del Maestro che ha un cruento Venerdì Santo ma poi l’apoteosi del “Terzo giorno”. II card. Piazza non mi parrebbe lo Javert dei Miserabili che a qualsiasi costo vuole accoppare il riabilitato Jean Valjean né lo metterei nelle fauci del conte Ugolino come il collega arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini. Il modo talora può offendere, ma la prassi curiale e il dizionario d’uso possono indurre a coinvolgere la sostanza nell’accidente della diplomazia: ma c’era scottante una situazione gravissima da risolvere.
Questo a un dipresso ebbi a dire allo stesso Sciascia quando è venuto a Canicattì, nel salone del Municipio, a presentare il suo libro. L’avv. Diego Guadagnino, caro amico ed egregio professionista forense, fu l’efficace ed argomentato relatore. Sposava la tesi sciasciana e se ne faceva arguto difensore, forse anche tocco da un certo affettuoso campanilismo. Quando, alla fine del dibattito, tra molti espressi la mia modesta opinione, lo Sciascia, asciutto asciutto, mi liquidò così: “Per me Ficarra è questo, se vuole se lo prende”. Anche questo nello stile del tutto già detto.
Chiudo in bellezza. In occasione del cinquantesimo di sacerdozio del Ficarra compilai una deliziosa Antologia di attestati unanimi motivati e commoventi provenienti da vescovi, autorità, personalità di grosso calibro riportati in un elegante volume commemorativo.
Consentimi di farti omaggio conclusivo con un talloncino del card. Ruffini che recita testualmente: “La Sua modestia e riservatezza hanno impedito ad alcuni in passato di apprezzarla come merita; i pregi di Vostra Eccellenza appaiono oggi più smaglianti che mai. Ella, studiosa com’è, sa che la storia è piena di esaltazioni immeritate e di grandi valori trascurati”. Davvero anche da Canicattì si va in paradiso… ma gli altari attendono il “dotto e il santo”. Che sia!
Vincenzo Restivo
Saggio introduttivo di Diego Guadagnino La santità reietta
Volentieri ho accettato l’invito del professor Gaetano Augello a scrivere questa nota introduttiva alla biografia di monsignor Angelo Ficarra, che, per le qualità e lo spessore della sua personalità, il passare degli anni rende sempre più vicino alla sensibilità e alle problematiche dei suoi posteri. Se il volumetto sciasciano, sulla nota vicenda della sua rimozione da vescovo della diocesi di Patti, lo ha fatto conoscere al grande pubblico, la biografia scritta adesso da Augello, pregevole per la ricchezza di documenti consultati e di notizie raccolte, rivela gli aspetti intimi dell’uomo, il prestigioso retaggio culturale, le scelte che ne hanno segnato la vita, dandoci così un’opera destinata a diventare punto di riferimento imprescindibile per quanti in futuro si vorranno cimentare con la figura e l’opera di Angelo Ficarra.
Già nel dicembre del 1980, ebbi ad interessarmi di monsignor Ficarra, allorquando fui incaricato di introdurre e moderare il dibattito con Leonardo Sciscia, venuto a Canicattì per presentare la sua opera Dalle parti degli infedeli (titolo che inaugurò la collana selleriana “La Memoria”), uscita nell’anno precedente. Ricordo che in quella circostanza avviai il discorso rilevando come nelle locandine che pubblicizzavano l’evento, per un refuso tipografico che cambiava Dalle con Dalla, era stato erroneamente scritto Dalla parte degli infedeli; citando Savinio, autore amato e apprezzato da Sciascia, dissi che quel refuso definiva più correttamente e forse più profondamente la vicenda del vescovo Ficarra, che, relegato in mezzo agli infedeli, proprio da questi ora gli veniva rivendicata quella giustizia che gli era stata negata dai suoi. Commentando tale notazione, più tardi, Sciascia osservò che spesso ” gli innocenti errori di stampa denudano le verità costruite dagli uomini”.
Annoverai la figura di monsignor Ficarra tra i personaggi creati dallo scrittore, dal professor Laurana a Candido Munafò, tutti accomunati da quel particolare e scomodo “candore” che Bontempelli aveva visto in Pirandello affermando che “l’anima candida è divinamente incauta”. Per tale divino attributo, presente nell’uomo in maniera macroscopica, e per la sua emblematica vicissitudine col potere (che fosse ecclesiastico è di secondaria importanza), Angelo Ficarra rientrava di diritto nel pantheon dei personaggi sciasciani.
  Tra gli altri, erano presenti al dibattito, tenutosi nella sala consiliare del Comune, l’avv. Calogero Corsello, l’onorevole Giuseppe Signorino (a cui Sciascia rivolse un caloroso “Ma noi ci conosciamo”, accolto con perplessità dall’onorevole che non ricordava in quale occasione si fossero incontrati), l’arciprete don Vincenzo Restivo, il prof. Angelo La Vecchia, il prof. Gaetano Ferreri. A ogni intervento, Sciascia puntualmente mi chiedeva sottovoce “Cu è chistu?”, tanto che finii per prevenire la domanda assecondando la sua legittima curiosità ogni volta che qualcuno si alzasse per parlare.
L’ultimo e il più memorabile intervento fu quello dell’arciprete, il quale, premettendo la sua stima per lo scrittore la cui grandezza era ormai “riconosciuta dentro e fuori le mura”, passò ad accusarlo di avere utilizzato mons. Ficarra per scrivere un libro che nello spirito risultava volterriano ed anticlericale. Rispose Sciascia che lui da laico non si poneva problemi di tal genere. Al che monsignor Restivo propose una domanda nuova: “Visto che lei nelle sue opere dimostra di avercela tanto con la Chiesa, non sarà che per caso da bambino abbia subito qualche trauma nel rapporto con i suoi rappresentanti?” Sciascia, lievemente sorridendo a quel tipo di domanda, precisò: ” Monsignore, io non ho subito nessun trauma nell’infanzia. Le mie posizioni scaturiscono dal ruolo che la Chiesa ha avuto nella storia nel corso dei secoli.” “Per esempio?” “Ma non pretenderà che io le faccia qui tutta la storia della Chiesa.” L’arciprete riprese dilungandosi in altre valutazioni critiche sull’aver pubblicato delle lettere che avrebbero dovuto far parte del patrimonio esclusivo della Chiesa. Lo scrittore lo interruppe, ora ponendo lui una domanda precisa. “Secondo lei, monsignore, questo libro si doveva scrivere o non si doveva scrivere?” L’arciprete ci pensò sopra qualche istante e quindi rispose: “Secondo me, no.” “Appunto per questo l’ho scritto” concluse l’autore, alzandosi e ponendo fine al dibattito, mentre dalla sala si levava l’applauso finale.
Non c’è dubbio che il giudizio di mons. Restivo, sulla opportunità del libro, riflettesse, nella sua estrema sintesi, il disagio di una Chiesa venutasi a trovare nella necessità di dover fronteggiare un dibattito, provocato da parte laica, su un suo ministro, che, morto vent’anni prima, avrebbe preferito dimenticare in coerenza con l’emarginazione a cui l’aveva condannato da vivo. Quel disagio, probabilmente, nasceva dalla consapevolezza che mons. Ficarra fosse stato vittima di un’ingiustizia, ma che, nel contempo, non si sapesse ancora come affrontare e riconoscere pubblicamente tale fatto: tipico dilemma che il potere come entità storica istituzionalizzata crea nelle coscienze dei suoi subordinati, quando fatti che ripugnano al comune senso di umana dignità si siano resi necessari alle sue ragioni. E tale consapevolezza negli ambienti ecclesiastici doveva essere presente e viva già all’indomani della scomparsa del presule, se nella sua casa d’affitto in via Magenta a Canicattì, allora abitata dal fratello Calogero, si presentarono a reclamarne l’archivio privato, e con interesse particolare la corrispondenza, in un primo momento esponenti del clero locale, in un secondo momento il segretario della curia vescovile di Agrigento e ancora successivamente, considerato l’inamovibile diniego dei familiari, un prelato venuto da Roma, che reiterò la richiesta minacciando scomunica. Minaccia che non sortì l’effetto voluto e l’archivio dopo qualche tempo, per volontà dei nipoti Angelo e Luigi Ficarra, approdò, escluse le lettere ed inclusa la biblioteca, all’Istituto Gramsci Siciliano: in partibus infidelium, appunto.
Il quadro del caso Ficarra nell’ambito della cultura cattolica, oggi, a ventotto anni dall’uscita del libretto sciasciano, appare mutato, ma non univoco. Negli anni si sono succedute diverse prese di posizione con letture differenti dei fatti, evidenziando come a tutt’oggi non sia possibile parlare di una sua definitiva chiusura. Valgano in tal senso due pubblicazioni, che Augello ha diligentemente compulsate per la stesura della suo saggio biografico e che in questa sede vengono evocate e citate a titolo esemplificativo. Parlo dei due volumi Mons. Angelo Ficarra Vescovo di Patti (1936-1957) a cura di Alfonso Sidoti, Patti 1999, e Mons. Giuseppe Pullano Vescovo di Patti (1957-1977) a cura di Basilio Scalisi, Patti 2005, che contiene un capitolo a firma di Pio Sirna, docente dell’Istituto Teologico Diocesano “Mons. Angelo Ficarra��� di Patti, sul “problema Ficarra”.
Il Sirna, pur riconoscendo “le modalità repellenti” con cui l’intervento della Santa Sede è stato attuato, ne avalla in toto le ragioni sintetizzandole nelle inadeguate condizioni fisiche di Ficarra e nella conseguente “mancanza di slancio missionario”, in un momento in cui Roma auspicava e si aspettava dai vescovi una pastorale in forma di crociata anticomunista, improntata allo spirito della guerra fredda iniziata con la fine del secondo conflitto mondiale.
“Il contendere, dunque,” scrive Sirna “ci pare che abbia per oggetto non tanto un semplice scontro tra due personalità forti, Ficarra e Piazza, durato ben sette anni, quanto piuttosto e soprattutto il bisogno romano di tenere una diocesi, anche se marginale nello scacchiere italiano, al centro dell’aspra lotta di difesa della civiltà cristiana”. Ma tale tesi non convince e soprattutto non regge al vaglio dei fatti. E che sia così viene fuori dall’analisi condotta, sempre in casa cattolica, da mons. Alfonso Sidoti, il quale, nel suindicato testo, con specifico riferimento al presunto pericolo dello spettro comunista che si sarebbe aggirato in quel di Patti e alla impellente necessità di combatterlo, scrive: “A Patti e nell’intera diocesi, le elezioni del 1946 (quelle per la Costituente) e soprattutto le politiche generali del 1948 avevano decisamente sbarrato il passo al Fronte Comunista. Era quello, in quei tempi, l’impegno principale della Chiesa, sul piano politico. Il 18 aprile 1948, nella diocesi di Patti, “la Democrazia C. ha avuto 46.000 voti; tutti gli altri partiti insieme 50.000 dei quali il blocco popolare (i socialcomunisti) solo 13.500, come leggiamo nella Relazione sull’attività dell’A.C.I. per l’anno 1948, inviata alla Sede centrale dal Presidente Diocesano dell’A.C.I.. Da tale impegno mons. Ficarra non si era affatto estraniato.”
Altrettanto puntuale e motivata appare l’analisi delle reali contingenze in cui la D.C. si trovò ad affrontare la campagna elettorale delle amministrative del 1946 dalla quale uscì sconfitta. “E’ noto a tutti” riferisce Sidoti “che, a Patti, la Democrazia Cristiana stentò a nascere. Non c’erano personaggi di spicco, che avessero militato nelle file del Partito Popolare di don Sturzo. L’Azione Cattolica qui si era formata solo dopo il 1932 e non aveva avuto il tempo di offrire alla politica persone preparate per i nuovi compiti.”
Un particolare curioso che risalta dal confronto dei testi di Sirna e Sidoti e che merita di essere qui additato all’attenzione del lettore è che entrambi si soffermano su due biglietti autografi del vescovo per ricavarne valutazioni di segno opposto. Osservando i due autografi, Sirna ritiene di intravedervi “uno scrivere faticoso, tendente a caricarsi di singolarità, tremolante”, che “sembra mostrare i segni di una progressiva difficoltà ad autodeterminarsi” e quindi, una prova delle precarie condizioni fisiche che resero necessaria la discussa promozione. Al contrario, mons. Sidoti, di uno dei due autografi afferma “Questo biglietto nella sua sconcertante semplicità, ci svela il vero animo del vescovo e basta da solo a smentire le accuse accumulate contro di lui”; mentre trova l’altro autografo “scritto con la grafia inimitabile e inconfondibile di mons. Ficarra. E’ la bozza di una lettera, immune da ripensamenti o correzioni.”
Tralasciando ogni altra valutazione di merito, le discordanti letture del caso Ficarra, provenienti dalla stessa matrice cattolica, denotano che la rimozione o defenestrazione, come la chiama Augello, non ha avuto una base oggettiva e concreta a suo fondamento e men che meno il pericolo comunista nell’ambito della diocesi pattese. Fu piuttosto un evento maturato in quel torbido clima di fanatismo integralista indotto dalla politica di Pio XII e propugnato dai comitati civici di Gedda. In particolare si trattò di un atto di isteria repressiva che in quel contesto specifico faceva di Angelo Ficarra una vittima quasi predestinata. E tale sacrificale qualità discendeva dalla sua biografia, dalla sua identità culturale, dalle scelte che avevano caratterizzato il suo apostolato, e in ultimo, ma non in misura meno determinante, dalla sua indole infinitamente lontana da ogni forma di intolleranza e di fanatismo, due modalità di fare apostolato che in quel momento il Vaticano, invece, anteponeva a ogni altra. La sua indiscussa santità, il suo tanto lodato spirito di carità, in teoria gli attributi primari e più preziosi di una pastorale cristiana, in quel contesto non servivano e non lo salvarono dall’emarginazione punitiva, anzi in parte ne furono la causa. Alla santità furono preferiti il fanatismo e l’intolleranza. E vinse l’intolleranza accecata dal fanatismo.
Il rapporto tra l’inquisito Angelo Ficarra e l’inquisitore Adeodato Giovanni Piazza, a questo punto, si erge in tutta la sua umana imponenza e senza la copertura istituzionale che artificialmente attutisce la muta sofferenza di un uomo giusto ingiustamente condannato e l’accanimento persecutorio di un altro uomo che mette al servizio dell’Istituzione la parte peggiore di se stesso, e siamo propensi a credere con le migliori intenzioni, che in tali frangenti si fanno discendere dai fini. I due uomini, che s’incontravano e si scontravano all’interno di quella vicenda, provenivano da percorsi diversi: una diversità che certamente pesò su quel rapporto e pesò a tutto discapito del soccombente. Angelo Ficarra era entrato in Seminario ubbidendo a una vocazione autentica e totale. Memorabili le parole che scrive nel suo diario: “In Seminario, o mio Dio, la mia mente è più unita a Voi, il mio cuore gusta maggiormente le caste gioie del Vostro amore, il mio corpo ubbidisce completamente all’anima.” Quest’ultima frase gli risuona dentro come un programma di vita che svolgerà con dedizione assoluta e con impeccabile rigore. Il corpo è il territorio del rapporto possessivo con il mondo, in esso convengono gli appetiti, le ambizioni e le vanità che distolgono dall’anima e Angelo ha optato per quest’ultima. Ma vivere nell’anima non vuoi dire chiudere le porte alla terra, ma cristianamente abitarla nel disinteresse per sé e nella dedizione per gli altri e soprattutto per i più bisognosi, giacché solo l’uomo liberato dalla miseria materiale può intravedere, capire e gustare i tesori di una religiosità vissuta. Aiutare gli altri a riscattarsi dalla povertà, dalla superstizione, dall’analfabetismo è il modo più concreto ed efficace di avvicinarli a Dio.
E il giovane prete, confortato da tali intuizioni, profonde le sue risorse intellettuali sulle colonne de Il Lavoratore, il periodico fondato da don Nicolo Licata, arciprete di Ribera, dove Angelo Ficarra viene assegnato non appena ordinato. Su quel foglio viene pubblicando, tra l’altro, le Meditazioni vagabonde, che costituiranno il nucleo originario di quell’eccezionale saggio sulla religiosità popolare che, col titolo Le devozioni materiali, uscirà postumo perché censurato dai suoi superiori. Istituisce una scuola serale per i contadini. Indirizza le sue simpatie verso il modernismo. E in virtù del suo indefesso impegno sociale riscuote un pubblico attestato di stima da parte del deputato repubblicano Napoleone Colajanni. La dedizione verso il prossimo, tuttavia, non gli impedisce di attendere agli studi umanistici, dedicandosi alla compilazione della sua mirabile monografia su san Girolamo. Se si volesse dare un nome allo spazio psicologico o alle direttrici entro cui si svolge la vita di Angelo Ficarra non ci sarebbe definizione migliore del bel titolo di un libro di Jean Leclercq, L’amour des lettres e le dèstre de Dieu. In tali contesti viene a contatto con uomini come Ernesto Buonaiuti, uno dei maggiori teorici del modernismo, punito per le sue convinzioni sia dalla Chiesa con la scomunica che dal fascismo con l’allontanamento dalla cattedra universitaria. Intrattiene rapporti di amicizia e di collaborazione culturale col suo concittadino Calogero Angelo Sacheli, filosofo, docente universitario, laico e socialista. Nominato arciprete a Canicattì, vi fonda l’Azione Cattolica, i cui locali una notte del luglio 1923 vengono incendiati dai fascisti. E’ il periodo in cui imperversa lo squadrismo che porterà alla soppressione della democrazia. I fascisti di Canicattì, nel gennaio 1925, fecero una sfilata in corso Umberto, inneggiando alla instaurazione formale della dittatura; in quell’occasione, scrive Luigi Ficarra in una e-mail inviatami nel giugno 2007, “il fratello di Angelo Ficarra, Vincenzo, aderente al Partito Socialista, che era seduto al Circolo degli Operai, coerentemente non si alzò e non si tolse il berretto. La sera tardi, tornando verso casa, venne, al buio, aggredito lungo la strada da una squadra di fascisti, che lo colpirono ferocemente a manganellate sulle spalle. Riuscì a trascinarsi a casa, ma ne uscì a febbraio con i piedi davanti, chiuso in una bara. Il 15 febbraio 1925 Angelo Ficarra, che sapeva dell’aggressione fascista al fratello, ma non aveva la prova, così scriveva su la <i, riferendosi all’incendio del Circolo: quale meta hanno raggiunto i nostri nemici…con l’insultarci, il danneggiarci ed incendiare il nostro circolo? Chi poteva mai sognarlo che Canicattì…doveva avere oggi un gruppo di giovani forti e votati a qualunque cimento… ?”
Tale retaggio culturale, sociale e familiare poneva lontano mons. Ficarra dall’ideologia del fascismo, e l’ormai famoso “incidente diplomatico” di Librizzi non può essere letto come un fatto episodico senza alcun nesso causale con la sua storia personale e con la sua concezione dell’impegno religioso nella società civile. Lo stesso dicasi della la sua adesione, nell’estate del 1950, all’Appello per la Pace di Stoccolma, promosso dal movimento dei “Partigiani per la Pace”. Pur essendo in pieno clima di anticomunismo viscerale, di caccia alle streghe e di scomunica papale infetta ai comunisti, egli non esitò ad apporre la sua autorevole firma su quel documento, accanto a quella di tanti rappresentanti del movimento operaio internazionale. Non si può fare a meno di rilevare come la politica vaticana negli anni fosse cambiata, irrigidendosi, chiudendosi al dialogo con le forze laiche progressiste e facendosi, così, sempre più lontana ed estranea ai modelli a cui si era ispirata la formazione e l’opera del Ficarra. Il tragitto involutivo del Vaticano, ovviamente, non poteva che risolverei in una strisciante delegittimazione della sua figura.
Nel momento in cui il suo caso arriva alla Congregazione Concistoriale in persona del suo prefetto cardinale Adeodato Giovanni Piazza, mons. Ficarra (e qui ci sia consentita a titolo esplicativo la metafora giudiziaria) si trova nella situazione del soggetto, ritenuto socialmente pericoloso, che gli organi di polizia propongono per la misura di prevenzione: non si è reso colpevole di nessun preciso fatto di reato, ma i suoi trascorsi e le sue frequentazioni lo rendono passibile della misura dell’obbligo o del divieto di soggiorno. E in quel particolare momento di integralismo asfittico il curriculum del presule canicattinese non deponeva a suo favore per sfuggire al “divieto di soggiorno nel Comune di Patti”.
Tanto meno l’incaricato rappresentante della Congregazione Concistoriale era la persona idonea a valutare, a giudicare con il distacco e l’obbiettività necessari le calunnie imbastite nei suoi confronti. Mons. Piazza, a cui nessuno finora, a quanto ci risulta, nel trattare la vicenda che ci occupa ha cercato di dare una circostanziata identità biografica, era un uomo non solo con un carattere a cui il Sidoti attribuisce durezza e limitatezza, ma con un passato che lo poneva agli antipodi dei percorsi compiuti dal Ficarra. Scrivendo del suo patriarcato veneziano nel periodo bellico, Umberto Dinelli, uno degli storici più accreditati della Resistenza in Veneto, afferma: ” Ma la condotta più sorda e reazionaria fu quella di Adeodato Piazza a Venezia. Nel ’44 per I discorsi del giorno, una raccolta edita dal Ministero della cultura fascista e che già aveva ospitato scritti di Hitler e di Mussolini, esce un discorso del più impopolare tra i cardinali che ebbe Venezia, Piazza, pronunciato nella basilica di san Marco il 16 agosto ’44. Vi si legge: “Dinnanzi al primo micidiale attacco portato dal nemico nel cuore di Venezia dopo stragi e rovine compiute alla periferia, non possiamo oggi non elevare alta ed energica la nostra deplorazione per siffatti metodi…” E più avanti: “Noi ci sforziamo di comprendere le inevitabili leggi della guerra moderna…” La posizione del Piazza rispecchiava certi postulati teologici in materia di rapporti con l’autorità costituita garante di un ordine e di una stabilità sociale, dalla Chiesa ritenuti indispensabili. Pertanto anche un regime di occupazione, in quanto governo, doveva essere rispettato. Nel cardinale di Venezia legalitarismo e conservatorismo cattolico raggiungevano manifestazioni estreme assumendo un preciso significato: quello di favorire e fiancheggiare la politica nazifascista. Assumendo come rappresentanti dell’autorità i fascisti e i tedeschi, i nemici diventavano gli stati in lotta contro Hitler e i suoi caudatari”. Giustamente è stato rilevato che “nel momento in cui i provvedimenti razziali incrinavano indubbiamente le relazioni tra la Chiesa e il fascismo”, il cardinale Piazza “non solo accetta quei provvedimenti ma esalta l’amicizia con la Germania nazista”.
Questo squarcio della biografia politica del Piazza, ancorché limitato nel tempo, è tuttavia sufficiente a rimarcare l’enorme distanza di agire e di sentire che divideva i due protagonisti, lasciando nel contempo intuire quanta equilibrata disponibilità potesse egli accordare all’esame delle ragioni di mons. Ficarra. Né, alla luce di tanto, può stupire che fosse arrivato al punto di rifiutarsi di riceverlo personalmente, allorché il vescovo di Patti ebbe a chiedere udienza espressamente.
Inutile dire che in quel preciso periodo storico, più che le idee e le virtù del vescovo di Patti, riuscivano più utili e funzionali al potere del Vaticano i connotati politici e culturali di un cardinale Piazza. Ma sono anche quegli stessi connotati che oggi lo rendono estraneo a noi, estraneo e lontano simulacro del tempo, chiuso nella sua opaca e sterile solitudine.
Il libro di Gaetano Augello, tra i tanti meriti, ha quello di porre l’accento sulla “giustizia negata” al vescovo di Patti che viene promosso arcivescovo di Leontopoli di Augustamnica, un’ironia, questa, che ne riecheggia un’altra: quella di Togliatti che soleva dire di Elio Vittorini “Vittorini si nne gghiuto e suli ci ha lassatu”, facendoci percepire l’ordinaria somiglianzà tra due “casi” che contemporaneamente si verificavano nella famiglia cattolica e in quella comunista.
Il candore scomodo di mons. Ficarra fece di lui un limpido testimone della spietatezza del potere e, in virtù di tale destino, un contemporaneo dei suoi posteri, come tutti coloro che essendo giusti hanno subito l’ingiustizia e che in quanto tali non appartengono a nessuna chiesa ma all’umanità tutta, finché sopravviverà il senso della dignità e della pietà.
Diego Guadagnino
Gaetano Augello si è laureato in Lettere Classiche nell’Università degli Studi di palermo discutendo, col Professore Piero Landolini, una tesi sulle “Condizioni demografiche ed economiche del Comune di Canicattì” Ha insegnato latino e greco nel Liceo Classico “Empedocle” di Agrigento, italiano e latino nel Liceo Classico “Ugo Foscolo” di Canicattì, italiano e storia nell’Istituto magistrale “Saetta e Livatino” di Ravanusa e nell’Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri “Galileo Galilei” di Canicattì. Dall’anno scolastico 1983-1984 ha diretto successivamente la Scuola Media “Pietro Asaro” di Racalmuto, la Scuola Media “Senatore Salvatore Gangitano” di Canicattì e l’Istituto di Istruzione Superiore “Gino Zappa” di Campobello di Licata. Dal 2002-2003 è dirigente scolastico dell’ITCG “Galileo Galilei” di Canicattì. Ha curato l’introduzione “Cenni storici sulla Scuola Gangitano di Canicattì” e “Cronologia dei Capi di Istituto” per la “Carta dei servizi scolastici e Piano dell’offerta formativa” della Scuola Media “Gangitano” anno scolastico 1999-2000.
Ha pubblicato: L’Accademia del Parnaso e la poesia di Peppi Paci, Campobello di Licata, Tipolitografia Casuccio, 2001; La Canicattì di Mons. Vincenzo Restivo, Canicattì, Grafiche Avanzato, 2005; Agostino La Lomia, un Gattopardo nella terra del Parnaso, Canicattì, Edizioni Cerrito, 2006; I primi cinquant’anni del Galilei di Canicattì, Canicattì, Edizioni I.T.C.G. “Galilei”, 2006; Franco Balistreri: momenti ed immagini di un percorso interiore, in F. Balistreri, Appunti, Canicattì, Edizioni Cerrito, 2007.
Il volume è in vendita presso: Libreria Pirandello – Viale Regina Margherita – Canicattì Edicola Caramazza – Villa Comunale – Canicattì Libreria Mosca – Via Nicolò Gatto Ceraolo,110 – Patti Libreria Deleo – Via XXV Aprile, 210 – Agrigento Libreria Danile – Via Gioeni -Agrigento Edicola Veneziano – Piazza V. Emanuele – Agrigento Libreria Kalos – Via XX Settembre, 56/B – Palermo Libreria Modusvivendi – Via Quintino Sella, 79 – Palermo
Foto della presentazione del libro – 21 febbraio 2008 – Palazzo Stella
Sorgente: “Angelo Ficarra – La giustizia negata” – di Gaetano Augello
“Angelo Ficarra – La giustizia negata” – di Gaetano Augello Presentazione di Mons. Vincenzo Restivo Mio chiarissimo Preside, grazie per l'invito e per lo spazio, e consentimi di ridurre al minimo le nostre formali distanze professionali e darci le dimensioni del cuore, della stima e della gratitudine.
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interstellarchaos · 8 years ago
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  Roma: tutti la declamano come la città della bellezza. Certo, con i suoi grandi monumenti di marmo bianco, il Tevere che la attraversa dolcemente, le ville e gli spazi di verde che compaiono all’improvviso, le rovine accanto ai marciapiedi. Ma a Roma si può vedere di più, si può vedere oltre questa bellezza altisonante. Roma è anche una città nascosta.
A Roma si può vedere il passare delle epoche, se si fa attenzione ai diversi stili che si mescolano uno accanto all’altro, se ci si affaccia oltre le mura che danno sulla strada. Barocco, Neoclassico, Rinascimento. Ma il Barocco in particolare ha il gusto di stupire, e quale modo migliore per sorprendere se non una sorpresa? La Roma Barocca è ricca e quanto mai meravigliosa da scoprire, magari, perché no, anche organizzando un itinerario in vespa come quello proposto recentemente nell’articolo di Expedia.
Basta affacciarsi in una chiesa per trovare quadri e affreschi, e sicuramente, tra nomi che magari ai non esperti non dicono nulla, comparirà qualche immagine prima relegata solo ai libri di storia dell’arte, qualche firma più nota. Alcune chiese però, magari nascoste da luoghi più importanti e più famosi, magari quasi anonime per essere notate tra le tante meraviglie di Roma.. alcune chiese tengono in serbo dei regali speciali.
San Luigi dei Francesi.
Dietro Piazza Navona, accanto alla libreria francese, in un quartiere dove le probabilità di sentir parlare francese aumentano notevolmente. Entrando si nota subito un assembramento di gente in fondo alla navata di sinistra. Cappella Contarelli.
Il cardinale commissionò la decorazione delle tre pareti della cappella di famiglia, con i momenti più importanti della vita di San Matteo, il suo santo protettore. L’incarico ricadde su un giovane senza grande esperienza in opere di questo genere, ma con un enorme talento. Il giovane però non è pratico della tecnica dell’affresco, canonica per i lavori parietali, e decide perciò di utilizzare tre gigantesche tele da posizionare poi sulle pareti. La tela infatti permette più cura nei dettagli, più ripensamenti rispetto all’affresco, che deve essere invece veloce e preciso. Ed infatti, del Martirio di San Matteo il giovane artista dovette ricoprire, “cancellare”, la prima versione, ridipingendoci poi sopra quella attuale e definitiva. L’errore era stato non aver considerato la prospettiva laterale da cui l’opera veniva (viene e verrà) osservata, ossia lateralmente e non frontalmente.
Nella seconda versione invece i personaggi tengono conto della relazione con il “pubblico”, e quasi come se fossero spinti fuori dalla tela, si vanno a mischiare ai fedeli. San Matteo è colto nel momento appena successivo al suo accoltellamento. Lo dimostrano la candela battesimale ancora accesa sull’altare. Chi sia l’artefice del delitto rimane dubbio: che sia il giovane in primo piano, anche se non è armato? Che sia il ragazzo che tiene il pugnale, nonostante la sua espressione tradisca lo sgomento dipinto sul volto di tutti gli altri fedeli? Che siano i due giovani sulla sinistra, che si mostrano invece per niente turbati dall’accaduto? Non si saprà mai. E come da consuetudine, non manca la firma- autoritratto, un volto illuminato sullo sfondo. Che questo giovane sia Caravaggio, credo l’aveste già capito.
Spostando lo sguardo sulla sinistra: l’Ispirazione di San Matteo. Anche di quest’opera Caravaggio dovette abbandonare la prima versione, non per errore stavolta, ma per censura. Il disegno raffigurava un angelo con sembianze quasi femminili, in un atteggiamento quasi provocante, che sembrava quasi mostrare a San Matteo come scrivere la parola di Dio; un San Matteo che sembra quasi un contadino, con il piede in primo piano…  la Chiesa non poteva accettarlo.
Così la seconda versione: San Matteo è ritratto come Socrate, barba bianca e doppio mantello rosso, che annota il “dettato” della discendenza di David con cui si apre il Vangelo. Il pennino è reso con una sola pennellata bianca, la luce dell’angelo realisticamente si unisce a quella della finestra in alto (che ora però è coperta da edifici più imponenti che la nascondono al Sole). Ma Caravaggio lascia sempre la sua firma: lo sgabello è in bilico tra quadro e realtà, riporta la fede al mondo contemporaneo.
E nel mondo contemporaneo l’artista riporta anche la prima scena della nuova vita di San Matteo: la Vocazione. Sotto un portico, San Matteo è intento nella sua attività lavorativa di esattore delle tasse. Ma ecco Gesù che, a differenza di tutti gli altri personaggi, non indossa i panni del ‘500 ma quelli della Palestina dell’anno 0. Con un gesto simile a quello dell’Adamo della Creazione di Michelangelo, Cristo chiama tra i suoi apostoli Matteo. Ma anche qui un dubbio: quali delle varie figure è Matteo? Quel signore barbuto che si indica sorpreso, o l’esattore avido che ancora conta le monete e non si è accorto della chiamata?
Caravaggio però non è solo mistero. Quindi fermatevi e ammirate: i colori, la resa dei tessuti, la densità della pennellata, la luce..(E sperate che qualcuno metta i 50 cent per l’illuminazione!). Ci spostiamo, passando tra vicoli e strade più importanti, passando per Via di Ripetta e per Via della Scrofa, seguendo il lato ovest del tridente fino a Piazza del Popolo. Se fate attenzione potrete vedere ancora qualche negozio di fiori con il vecchio proprietario addormentato sulla sedia, o un autobus bloccato in curva tra due motorini, o il lavoro di qualche artista di strada (nel vero senso del termine) che ha decorato il muretto dei “lavori in corso” che dei piccoli messaggi che forse vale la pena di leggere.
Basilica di Santa Maria del Popolo.
Nella Cappella Cerasi, sul lato sinistro del transetto, un nuovo affollamento attirerà la vostra attenzione. Nuovamente due tele fra i tanti affreschi, tra cui quelli del Caracci, famiglia di spicco all’epoca di Caravaggio a cui erano commissionati i più importanti appalti di decorazione, presso i quali il pittore compì il suo apprendistato e con i quali si dovette spesso contendere il lavoro. La forma della cappella fa si però che le opere dei due antagonisti si trovino molto vicine tra loro, e costringe le tele del Caravaggio ad una visione di scorcio. Al centro l’Assunzione del Caracci, e sulla destra la Conversione di San Paolo. Di nuovo, una prima versione viene soppressa perché considerata troppo realista, con troppe figure sulla scena, concitate nel soccorrere un San Paolo seminudo, e addirittura un angelo a sorreggere Gesù che si protende verso il “Santo Saulo” che lo perseguita. Una seconda versione viene così realizzata.
Nel frattempo il Monsignor Tiberio Cesari, che aveva commissionato la cappella, muore e i suoi eredi non chiedono a Caravaggio di dipingere la seconda versione su tavole di legno di cipresso, che invece era il desiderio dell’originario committente. In questa tela la conversione è ambientata in una stalla, in un’ambientazione spoglia che vuole riflettere la sinteticità del racconto degli Atti degli Apostoli. È la luce a definire gli spazi, una luce che squarcia le tenebre della quotidianità pagana della vita di Saulo. Il corpo del futuro Santo non è ancora completamente a terra, è il momento appena successivo all’apparizione, e la spada, che nell’iconografia cristiana è brandita a difesa della cristianità, giace ancora al fianco del Saulo soldato. Il numero dei personaggi, in questa versione, è decisamente limitato, e il cavallo è l’unico con gli occhi aperti, l’unico che riesce a sostenere la vista di quella luce, unica presenza dell’intervento divino. C’è chi ipotizza che San Paolo stesso sia la firma-autoritratto di Caravaggio, perché rappresentato più giovane di come appare di solito dell’iconografia cristiana, e quella spada può benissimo essere la spada “compagna” di tante disavventure del pittore.
Sulla sinistra invece, la Crocifissione di San Pietro. I Santi Pietro e Paolo, patroni di Roma, sono così riuniti a proteggere il popolo di Roma. Anche di quest’opera esiste una prima versione, eseguita su tavola di legno di cipresso, che però oggi è andata perduta. La tela riunisce i due simboli per eccellenza della Chiesa cattolica: San Pietro e la croce. Una croce che viene issata al contrario, perché il Santo non si ritiene degno di morire come è morto Cristo. Una croce che viene issata con fatica dai due uomini, che più che carnefici sembrano operai; una fatica che accumuna il Santo con i suoi aguzzini, di cui non si vedono i volti, che possono essere chiunque, una persona chiunque a cui è stato solo affidato un compito da portare a termine.
Se non ci sono carnefici però non ci sono vittime, e allora dov’è l’eroismo del martirio? L’eroismo è nel libero arbitrio di San Pietro, uomo comune la cui sofferenza non è idealizzata ma mostrata in tutta la sua atrocità, e che va a scardinare la tesi luterana della predestinazione al male dell’uomo. Se il Santo, che soffre come qualsiasi uomo soffrirebbe, sceglie di vivere nella grazia anche accettando il martirio, allora anche lo spettatore può seguire questa scelta. Almeno questo è il messaggio che Caravaggio volle realizzare. Di nuovo è la luce a indicare la salvezza: San Pietro è in piena luce, i suoi aguzzini sono voltati dall’altra parte.
Caravaggio trascorse molti anni a Roma, e il suo talento non passò certo inosservato. Così sparse per le vie, per le chiese, per i palazzi i suoi capolavori. Oggi molti si trovano ancora nelle loro collocazioni originali, altre sono raccolte a Galleria Borghese o ai Musei Capitolini, altre opere sono sparse invece tra il Palazzo Barberini, la Galleria Doria Pamphili, nella Cappella Cavalletti in Sant’Agostino e nel Casino Boncompagni Ludovisi. Quindi ora uscite e perdetevi per le vie di Roma, chissà quali sorprese potrebbe riservarvi!
Viaggio nella Roma del Barocco   Roma: tutti la declamano come la città della bellezza. Certo, con i suoi grandi monumenti di marmo bianco, il Tevere che la attraversa dolcemente, le ville e gli spazi di verde che compaiono all’improvviso, le rovine accanto ai marciapiedi.
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giancarlonicoli · 8 years ago
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di Massimiliano Governi
Pubblicato nell'edizione del 28 ottobre 1999 della Gazzetta dello Sport
Mi chiamo Vincenzo Paparelli, e sono morto il 28 ottobre del 1979. Forse qualcuno si ricorda ancora di me. Ero un uomo di trentatré anni che un giorno fu ucciso allo stadio Olimpico da un razzo a paracadute di tipo nautico sparato da un tifoso ultrà della Roma. Quando sono stato colpito stavo mangiando un panino con la frittata. Mia moglie Wanda cercò di estrarmi quel tubo di ferro dall' occhio sinistro, ma siccome il razzo bruciava ancora, finì per ustionarsi una mano. Il medico che mi ha prestato i primi soccorsi, dichiarò che nemmeno in guerra aveva visto una lesione così grave. Il giorno dopo tutti i giornali mostrarono una fotografia scattata qualche mese prima, che mi ritraeva in un ristorante insieme a mia moglie. Soltanto il quotidiano Il Tempo pubblicò l' immagine di me, riverso per terra, con la faccia insanguinata e l' orbita dell' occhio sinistro vuota. Sono stato la seconda vittima del tifo calcistico in Italia, la prima era un tifoso della Salernitana che nel 1963 morì in seguito a degli scontri scoppiati in tribuna con dei tifosi del Potenza. Tra le personalità del mondo sportivo il primo ad accorrere all' ospedale Santo Spirito, dove sono giunto ormai morto, è stato il Presidente del Coni Franco Carraro. Mio cognato quando ha sentito alla radio il mio nome ha pensato a un caso di omonimia. Mio fratello quando ha saputo della disgrazia, ha avuto un forte senso di colpa perché mi aveva prestato la tessera e quel giorno allo stadio al mio posto doveva esserci lui. Mia moglie, che era accanto a me nell' ambulanza, per tutto il tempo mi ha pregato di non morire e mi ha tenuto stretta la mano. Dopo aver sbrigato tutte le formalità in questura e aver ritirato i documenti e i miei oggetti personali, ha avuto una crisi e ha cominciato a urlare. Sulle foto apparse sui giornali i giorni seguenti viene ritratta insieme a sua madre che cerca di consolarla e le tiene un braccio sulla spalla. Ha la faccia stanca e scavata, e nei suoi occhi c' è qualcosa di terribile. Il mio nome e quello dei miei familiari sono comparsi sui quotidiani per tutta la settimana dopo l' omicidio e anche quella successiva, ma sempre con minore risalto. Io sono stato definito unanimemente un uomo normale e tranquillo, con un' unica passione, quella per la Lazio. Alcuni quotidiani hanno sottolineato più volte che avevo un' officina meccanica in società con mio fratello e vivevo in una moderna borgata romana chiamata Mazzalupo. Qualcuno ha scritto che avevo comprato il televisore a colori con le cambiali, e il mio unico lusso era un Bmw di seconda mano che tenevo in garage e lucidavo come uno specchio. Dopo la mia morte, il capitano della Lazio Pino Wilson ha telefonato a mia moglie per farle le condoglianze. Anche il sindaco di Roma Petroselli ha telefonato, e si è offerto di pagare le spese del mio funerale e ha messo a disposizione della mia famiglia un assistente sociale. Il giocatore Lionello Manfredonia è andato a far visita ai miei familiari regalando a mio figlio più piccolo la sua maglietta con il numero cinque. Al mio funerale c' era tutta la squadra della Lazio, insieme all' allenatore Bob Lovati e al presidente Lenzini. I giocatori della Roma invece non hanno partecipato perché impegnati con la trasferta di Coppa Italia a Potenza, al loro posto la società ha inviato i ragazzi della Primavera. Alla cerimonia funebre hanno assistito migliaia di persone e per quel giorno è stato proclamato il lutto cittadino. La Fondazione Luciano Re Cecconi ha devoluto un milione in beneficenza alla mia famiglia. La giunta regionale del Lazio ha stanziato la somma di cinque milioni come segno di solidarietà. La Società Sportiva Roma ha fatto affiggere una targa in Curva Nord per ricordare la mia persona. Mio fratello Angelo ha proposto alle due società romane una partita Lazio-Roma mista cioè con i giocatori laziali e romanisti mescolati nelle due formazioni, ma alla fine non se n' è fatto niente. Per alcuni giorni sono stato oggetto di un acceso dibattito sulla violenza negli stadi. Il sindaco di Roma ha detto che bisognava meditare su questa tragedia e discuterne in tutti i club sportivi e nelle scuole. Qualcuno ha proposto che venissero installati negli stadi degli impianti di televisione a circuito chiuso per individuare i tifosi violenti. Il capo degli arbitri, Giulio Campanati, ha chiesto l' abolizione della moviola in Tv. Per alcuni mesi sono state prese drastiche misure repressive: è stato proibito l' ingresso allo stadio di aste di bandiera, tamburi e persino di striscioni dai nomi bellicosi, e anche di spillette e toppe che potessero risultare offensive. Il pubblico doveva incitare la propria squadra solo con la voce e con le mani. Il mio nome è stato, a secondo dei casi, inneggiato e sbeffeggiato dai tifosi della Lazio e della Roma. Sui muri della città ancora oggi campeggiano scritte che dicono «Paparelli, sarai vendicato», o «Paparelli non ti dimenticheremo», o anche «10, 100, 1000 Paparelli» o ancora, «Paparelli ti sei perso i tempi belli». In questi ultimi anni i giornali hanno parlato di me, soltanto all' indomani di un nuovo delitto avvenuto allo stadio. Nel 5° anniversario della mia scomparsa, i tifosi mi hanno ricordato prima di una partita con la Cremonese. Sul tartan, all' altezza della Tribuna Tevere hanno spiegato uno striscione con scritto «Vincenzo vive», mentre la curva intonava «28 ottobre Lutto Nazionale». Nel 10° anniversario è stato inaugurato il «Lazio Club Nuovo Monte Spaccato, Vincenzo Paparelli». L' anniversario della mia morte è stato commemorato dai tifosi laziali della Curva Nord per oltre quindici anni, poi da qualche tempo è calato il silenzio. Il torneo di calcio Vincenzo Paparelli è arrivato soltanto alla terza edizione, poi si è fermato per mancanza di finanziamenti. I lavori per le ristrutturazioni dello stadio Olimpico di «Italia ' 90» hanno cancellato per sempre le curve di un tempo, e con loro la targa di marmo che mi ricordava. Sul motore di ricerca Yahoo digitando il mio nome e cognome racchiudendolo tra virgolette, il risultato dice sempre «Ignored». Nell' archivio del quotidiano il Messaggero, risulta che l' ultima volta che sono stato nominato è il 5 febbraio del 1995, in occasione di un breve articolo sul mio assassino. Il mio assassino si chiamava Giovanni Fiorillo, aveva diciotto anni ed era un pittore edile disoccupato. Subito dopo l' omicidio ha fatto sparire le sue tracce e si è dato alla latitanza. Qualcuno diceva di averlo avvistato a Pescara, qualcun altro a Brescia, qualcun altro ancora a Frosinone, che chiedeva informazioni per comprare le sigarette. Dopo quattordici mesi di clandestinità, si è costituito. Nel 1987 è stato condannato in Cassazione per omicidio preterintenzionale: sei anni e dieci mesi a lui che aveva lanciato il razzo, quattro anni e sei mesi agli altri due complici che lo avevano aiutato a introdurre nello stadio l' ordigno e a utilizzarlo. Durante quel girovagare per l' Italia e per la Svizzera ha telefonato quasi tutti i giorni a mio fratello Angelo, chiedendo scusa e giurando che non voleva uccidere quel giorno allo stadio. Era un ragazzo come tanti, abitava a Piazza Vittorio, era patito della Roma. Sua madre lavorava al mercato, suo padre aggiustatore meccanico. Era gente del popolo, come me. L' articolo sul giornale diceva che Giovanni Fiorillo è morto il 24 marzo del 1993: forse per overdose, forse consumato da un brutto male. Mio fratello Angelo l' ha perdonato, così come l' hanno perdonato mia moglie e anche i miei figli. Una cosa è certa, quel ragazzo è stato sfortunato, così come lo sono stato io. Mi chiamavo Vincenzo Paparelli. Sono morto il 28 ottobre del 1979. Forse qualcuno si ricorda ancora di me.
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