#decostruzione femminista
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⚠️ NOVITÀ IN LIBRERIA ⚠️
Michel Le Maire
L’ORDINE INGIUSTO
Guida al sovvertimento dell’oligarchia globale
Edificato attorno all’unipolarismo americano, l’attuale Occidente è dominato da un “ordine ingiusto” fondato sul consumo compulsivo e sulla totale assenza di riferimenti verticali. Questa “cloaca maxima” – che ha sussunto le identità nel verbo apolide del mercato – opera il sistematico sradicamento di ogni orizzonte di senso: la persona si abbassa ad “individuo astratto”, la famiglia retrocede ad “unione fluida”, la Nazione si riduce ad “espressione geografica”, lo Stato si fa “governance tecnica” e la realtà cede il passo virtualità “social”. Spogliato delle sovranità e orfano delle Comunità, questo sistema è plasmato da una narrazione isterica e atomizzante – frutto dell’abbraccio mortale tra le utopie del marxismo culturale e i meccanismi della società liberale – che trova spazio nel quotidiano delirio del progressismo cosmopolita: la chimera della “società aperta”, la violenza del multiculturalismo, il livore femminista, la decostruzione “gender” e la martellante dittatura rivendicativa delle presunte minoranze a caccia di nuovi “diritti”. Un vuoto teorico dagli effetti devastanti, il cui trionfo – però – è tutt’altro che definitivo.
Storia, filosofia, economia, politica, attualità e cultura: questo pamphlet – coraggioso e per nulla fatalista – intende denunciare senza mezzi termini le perversioni e le idiozie di questa distopia del brutto, del basso e del vile, senza abbandonarsi alla rassegnazione del “tutto è perduto”. Perché dinanzi alla tirannia del deforme e dell’informe, alle anime libere spetta il dovere del riscatto. Queste pagine, allora, vogliono suscitare la fierezza e la speranza: per la decisiva riaffermazione della Civiltà europea, senza indugi e senza pentimenti.
INFO & ORDINI:
www.passaggioalbosco.it
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Francia, l’ex attrice porno Ovidie ora in sciopero dal sesso: “Non abbiamo più paura di dire che non facciamo l’amore”
Ovidie, nome d’arte di Eloïse Delsart, è una scrittrice e attrice francese classe 1980. Femminista, ha frequentato gli opposti del sesso passando da essere protagonista e regista di film porno ed erotici a intellettuale, documentarista e autrice che ha rinunciato a fare l’amore come scelta personale e politica. “Grazie al #MeToo e alla decostruzione della sessualità che ne è conseguita, oggi non…
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#aggiornamenti da Italia e Mondo#Mmondo#Mmondo tutte le notizie#mmondo tutte le notizie sempre aggiornate#mondo tutte le notizie
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[Uomini non si nasce][Daisy Letourneur]
Cosa significa essere un vero uomo? E uno falso? Un uomo etero può essere femminista? I maschi decostruiti sono il futuro del femminismo?
Autrice trans-femminista, Daisy Letourneur introduce in questo saggio rivoluzionario un elemento nuovo e ancora poco valorizzato nel panorama degli studi di genere, facendo di Uomini non si nasce uno snodo essenziale per approfondire le grandi mutazioni contemporanee. La decostruzione della femminilità è sempre stata al centro del pensiero e degli studi femministi, a partire dalla famosa frase di…
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Mona Eltahawy
https://www.unadonnalgiorno.it/mona-eltahawy/
La rabbia delle ragazze sconfiggerà il patriarcato. Abbiamo il diritto di essere arrabbiate contro le ingiustizie e utilizzare tutti gli strumenti a nostra disposizione. So che è una visione controversa, ma voglio ricordare che per secoli la violenza sulle donne è stata consentita.
Il patriarcato è come la testa di una piovra, ciascuno degli otto tentacoli rappresenta una forma di oppressione che lo mantiene: misoginia, supremazia bianca o razzismo, classismo o capitalismo, omotransfobia, ageismo e abilismo.
A seconda di dove vivi e di chi sei, il patriarcato userà due, forse tre o quattro tentacoli per stringerti. Nessuno di noi è libero e libera finché tutti e tutte noi non siamo fuori da tutti i tentacoli. Ecco perché voglio distruggere il patriarcato, e non solo alcuni dei suoi tentacoli, ma l’intera piovra.
Per farlo è necessario partire dalla decostruzione del proprio privilegio. Le donne, educate a essere carine, educate e affabili fin da piccole, devono imparare a tenere alta la propria rabbia per imparare a difendersi contro le ingiustizie e a crescere consapevoli.
Mona Eltahawy è una pluripremiata attivista queer femminista che collabora con varie riviste tra cui New York Times, Guardian e Washington Post. Per anni ha lavorato come corrispondente dal Medio Oriente, soprattutto per la Reuters.
Nominata dal Time come ‘una delle attiviste più influenti al mondo’, Newsweek l’ha elencata tra le ‘150 donne senza paura del 2012′.
Tiene conferenze in tutto il mondo in cui, ribaltando la prospettiva sui rapporti di genere, ribadisce la centralità dei diritti, minacciati da una visione discriminatoria del mondo. Lo fa attraverso la consapevolezza, elenca dati, numeri e avvenimenti simbolici, racconta la storia e l’ispirazione di attiviste che hanno sfidato il sistema in Cina, India, Uganda, Brasile, così come nel mondo Occidentale.
Nata a Port Said, in Egitto, il 1° agosto 1967, la sua famiglia si è trasferita nel Regno Unito quando aveva 7 anni e poi in Arabia Saudita quando ne aveva 15. Si è laureata all’Università Americana del Cairo nel 1990 e nel 1992 ha conseguito un master in Comunicazione specializzandosi in giornalismo.
Nel 2000 è andata a vivere negli Stati Uniti dove, undici anni dopo, ha ottenuto la cittadinanza.
Dal 2003 al 2004, è stata direttrice della versione in lingua araba di Women’s eNews. Ha poi tenuto una rubrica settimanale per la pubblicazione araba internazionale Asharq Al-Awsat con sede a Londra, fino a quando i suoi articoli sono stati interrotti perché “troppo critici” nei confronti del regime egiziano.
Ha fatto parte del consiglio dell’Unione Progressiva Musulmana del Nord America.
Nel novembre 2011, la polizia antisommossa egiziana l’ha picchiata, rompendole il braccio sinistro e la mano destra, l’ha aggredita sessualmente e detenuta per dodici ore. Ma questo non l’ha certo piegata, ha continuato a denunciare, diventando promotrice di un femminismo globale.
Ha iniziato a denunciare gli abusi subiti a 15 anni durante un pellegrinaggio religioso alla Mecca, ed è diventata leader di Mosque Me Too, importante movimento contro l’oppressione femminile nel mondo arabo.
Il 25 settembre 2012 è stata arrestata per spray painting su una pubblicità della Freedom Defense Initiative americana in una stazione della metropolitana di New York City che diceva: “In ogni guerra tra l’uomo civilizzato e il selvaggio, sostieni l’uomo civilizzato“.
Nel 2015 ha pubblicato Headscarves and Hymens che in Italia è uscito col titolo Perché ci odiano.
Nel 2019 ha scritto il libro Sette peccati necessari. Manifesto contro il patriarcato che, nel 2022, è arrivato in Italia grazie alla casa editrice femminista e indipendente Le plurali.
I peccati necessari per far fronte all’aggressione patriarcale sono: rabbia, attenzione, volgarità, ambizione, potere, violenza e lussuria.
È l’autrice della newsletter Feminist Giant su Substack in cui racconta le resistenze femministe in giro per il mondo.
In un’intervista per un tour italiano ha dichiarato: Non ci sarà mai il momento magico di un movimento femminista globale, smettiamo di aspettarlo. Partiamo da dove siamo oggi: Voi in Italia iniziate da qui, combattete la vostra premier di estrema destra. Dicono che Giorgia Meloni sia frutto del femminismo, ma lei ne è l’antitesi. Usa il femminismo per distruggerlo. Iniziate chiamando la vostra premier per quel che è: uno strumento del patriarcato. Fatevi ispirate dalle rivoluzioni femministe in Iran: sono capaci di sollevarsi contro uno dei peggiori regimi patriarcali del mondo ma qui non vediamo femministe bruciare roba in strada o marciare sull’ufficio della premier. Sono molto preoccupata per i diritti delle donne italiane: una premier cristiana e italiana viene usata come modello per le donne al fine di distruggere i vostri diritti. Il patriarcato vince così. Negli Stati uniti dice alle donne bianche: siate grate, non vivete in Iran o in Afghanistan. E intanto vieta il diritto all’aborto. La stessa logica la vedo a sinistra, per questo mi disgustano gli uomini di sinistra, non vogliono essere sfidati: vogliono i poteri degli uomini di destra. E se gli dici che anche qui serve una rivoluzione femminista, rispondono che in occidente abbiamo tutto quel che ci serve, guardate l’Afghanistan, guardate l’Iran. Lo dicono perché hanno paura: iniziamo a fargli paura.
Vorrei una società senza sistemi di dominio e un mondo senza gerarchie, che si tratti della famiglia con a capo un uomo, dello stato con a capo un primo ministro, del clero o qualsiasi religione. Solo immaginando l’impossibile lo si può rendere possibile.
Il femminismo deve essere intersezionale: dobbiamo collegare le diverse lotte tra loro come quella alla misoginia, capitalismo, omofobia, razzismo, perché sono tutte connesse. Ciascuno deve lottare nel proprio Paese perché, anche se è una lotta più faticosa, la possiamo comprendere a pieno: ciascuno nella propria terra dal Medio Oriente agli Stati Uniti. Solo in questo modo è possibile rafforzare il movimento globale.
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Quindici anni fa uscì il romanzo Uomini che odiano le donne, da poche settimane invece, in pieno ribaltamento di genere, è uscito Odio gli uomini, libro che ha infiammato la Francia e in Italia è stato salutato da la Repubblica come “un caso letterario”. La genesi di questo libro è particolarissima. Lo ha scritto Pauline Harmange, ventiseienne, volontaria in un’associazione contro le violenze sessuali e blogger, e lo ha pubblicato un minuscolo editore in pochissime copie. Il libro ha però catturato l’attenzione di Ralph Zurmély, funzionario del ministero per le pari opportunità francese, che ha minacciato l’editore di denuncia per incitamento all’odio se non avesse ritirato il libro. Com’era prevedibile, sortì l’effetto contrario: migliaia di copie vendute e traduzioni in diciassette lingue.La Francia assolve da sempre al compito di avanguardia europea e l’intellighenzia italiana ne accoglie prontamente i frutti come novità da imitare: non stupisce dunque che qui il libro sia stato accolto con entusiasmo provinciale. Quel che semmai stupisce è che un libretto di 96 pagine (Garzanti è riuscito a stirarlo fino a 114 ingigantendo il corpo del testo), pensato per un pubblico minuscolo e in cui ben poco si dice, abbia suscitato reazioni tanto scomposte. La Francia è sensibile verso la questione e ha molto insistito sulla parità di genere, affrontata con una certa distensione grazie alla proverbiale laicità razionalista, fino ad esiti parossistici. Se, da un lato, il comune di Parigi è stato multato perché la sindaca ha nominato troppi dirigenti donne, violando così la parità di genere, dall’altro si preannuncia battaglia sulle celebrazioni per il bicentenario della morte di Napoleone, accusato di razzismo e sessismo, tra le altre cose, con un preannunciato impiego di forze femministe.In questo contesto di decostruzione dell’uomo bianco, sia perché uomo sia perché bianco, Odio gli uomini casca a fagiolo. Il libro è stato negativamente criticato per due ragioni. La prima è l’accusa di incitamento all’odio e di istigazione alla guerra tra sessi, esemplificata dall’inequivocabile confessione “odiare gli uomini, in quanto gruppo sociale e spesso anche in quanto individui – mi riempie di gioia.” L’altra è quella di ipocrisia: Pauline Harmange scrive a venticinque anni un libro del genere ma è già sposata proprio con un uomo bianco eterosessuale della classe media, cioè il perfetto bersaglio del suo odio. Da quest’ultima accusa la Harmange si difende già nel libro sostenendo che “ciò non mi impedisce di chiedermi perché gli uomini siano come sono. Vale a dire degli esseri violenti, egoisti, pigri e vigliacchi.”Queste però sono critiche forse marginali, mosse da chi guarda il dito invece che la luna, rispetto ai difetti fondamentali di questo libro. La prima cosa che si nota è che il libro è connotato da molta vis polemica ma poca argomentazione: le tesi, anzi, le recriminazioni, non vengono quasi mai spiegate e pochissime sono le fonti e le citazioni. Secondo la Harmange, “una volta aperti gli occhi sulla profonda mediocrità degli uomini, non ci sono più molte ragioni per apprezzarli a priori.” Questo la porta a propagandare la misandria come “principio precauzionale” e a sostenere che “il minimo che possa fare un uomo di fronte a una donna che avanza una tesi misandrica è ascoltare in silenzio.” Contravvenendo a questo suo suggerimento, opponiamo una questione di principio.Questo libro, e più in generale il discorso entro cui si situa, è assiomatico e antidialettico per costruzione: perciò, è impossibile che se ne possa discutere. Scrivere un libro che poggia sull’assunzione di insindacabilità perché scritto da una donna, cioè un’oppressa, che ha dunque ragione a prescindere nell’odiare gli uomini e nell’esprimerlo, mentre le donne che ancora non lo fanno devono solo “aprire gli occhi”, vuol dire escludere a priori la possibilità di interloquire con chi non condivida questa assunzione, cioè con tutti tranne che con chi la pensa già come l’autrice. Allora viene da chiedersi perché abbia scritto questo libro, se si può solo leggerlo in silenzio senza dibatterne.Stupisce poi la fusione di tutti i singoli uomini in un unico magma. Le differenze individuali sono abolite a favore di volontà di gruppo, facendo perfino ricorso a stereotipi grotteschi. Gli uomini sarebbero mediocri per definizione, tutti violentatori dai quali difendersi (anche se non lo sono, perché potrebbero esserlo), in una sovrabbondanza di cliché per cui certi uomini si interessano al femminismo “per rimorchiare qualche femminista”, “si imbucano a tutte le feste” e passano del tempo tra loro per “esacerbare la propria virilità”. Di fronte a tanta mediocrità, l’autrice rivendica per le donne “il diritto di essere brutte, malvestite, volgari, cattive, irascibili, casiniste, stanche, egoiste, carenti…”Ancor più importante però è un altro difetto di questo libro, ossia la sovrapposizione tra la condizione e i problemi delle donne in generale e quelli delle donne europee, bianche, benestanti e secolarizzate. Nel suggerire alle donne di stare tra loro praticando la “sorellanza”, così da scoprire il proprio valore, l’autrice immagina gli uomini come un gigantesco club in cui “il prezzo da pagare per ottenere la tessera è il disprezzo delle donne e delle minoranze”. Come se nelle minoranze non esistessero sessismo e patriarcato. Per sopperire a questo disprezzo connaturato, “le donne sono in un processo di aggiornamento costante”, che si esprime nell’“andare dallo psicologo, leggere libri per imparare a organizzarsi, a essere zen, a godere, condividere i propri stati d’animo, fare sport e diete, sottoporsi a restyling, coaching, interventi di chirurgia estetica, cambiare lavoro, farsi in quattro.”Che talune donne si sentano costrette a tutto questo per risultare gradite agli uomini suscita dispiacere e riprovazione, ma che il disagio della condizione femminile in un paese come la Francia si esprima nell’essere costrette a consumi di lusso appare un tantino eccessivo.In un’Europa globalizzata e instradata sul viale del meticciato, ridurre il confronto tra i sessi al solo rapporto con l’uomo-bianco-etero è forse riduttivo rispetto alla complessità delle nostre società. Perché, in definitiva, no: gli uomini non sono tutti uguali e neppure le donne. Parlare a nome di tutte contro tutti è pura velleità. Con una punta di cattiveria, non resta che archiviare questo testo nello scaffale delle pubblicazioni sintomatiche di una società decadente, afona e imbelle, dove suggestioni non dimostrabili unite all’introspezione ombelicale del proprio vissuto privilegiato, assurge a “caso letterario” e a “grido di liberazione” (Il Messaggero). Senza che nessuno nutra mai il sospetto che il tono apocalittico e astorico di chi sembra aver scoperto stamattina le disparità di genere non denoti invece la rimozione di mezzo secolo di femminismo e di progressivo smantellamento del patriarcato europeo.
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La logica binaria che sottende la divisione degli umani in generi distinti implica uno iato tra il più ed il meno, il pieno e il vuoto, il vaso e il seme, lo spazio dei sentimenti e quello della ragione. Questa logica, che si pretende naturale, fonda l’ordine patriarcale. L’universale umano nasce e resta a lungo saldamente maschile. Un maschile cui vengono iscritte le qualità “naturali” che “spiegano” la gerarchia tra i generi, all’interno della gabbia normativa familiare. La “famiglia” come nucleo etico rappresenta l’elemento normalizzatore delle anomalie, che le lotte delle donne, delle persone omosessuali, asessuali, transessuali, hanno reso visibili e pericolose per ogni pretesa di socializzazione autoritaria dei bambini, delle bambine, dei bambinu. A sua volta il binarismo tra etero e omo sessualità ripropone maschere rigide cui le persone sono chiamate ad adeguarsi. Le famiglie arcobaleno sono la mimesi delle famiglie eterosessuali, sia nel rapporto tra coniugi, che nella loro relazione con i bambin*, che per legge vivono con loro. La storia della libertà delle persone le cui identità non sono conformi all’universale maschile nell’ultimo secolo ha tracciato nuovi sentieri dell’umano. Tuttavia il mero afflato paritario sul piano dei diritti si limita a riempire il vuoto, inserire l’eguale, dare corpo al vaso, attenuare la dicotomia tra ragione e sentimento, ma non spezza la logica binaria, che, anzi, si insinua anche dove le differenze sono l’humus culturale in cui cresce la possibilità di passare dal genere all’individuo. La pratica in cui ciascuno approda, transitoriamente, a se stesso in un divenire fluido di continua sperimentazione. Sul piano teorico è nodale l’apporto pionieristico di Foucault, che considera le “identità sessuali”, anche nel loro farsi storico, non un conglomerato concettuale da cui partire, ma semmai la questione stessa. Il costruzionismo queer riprende da Foucault la strategia di decostruire le identità che passano come naturali considerandole invece come complesse formazioni socio-culturali in cui si intrecciano discorsi diversi. Un approccio libertario deve e può andare oltre la decostruzione delle narrazioni che costituiscono le identità di genere, perché vi innesta l’elemento di rottura rappresentato dall’agire politico e sociale di soggetti, che si costituiscono a partire dalle proprie molteplici alterità, rivendicate ed esperite sul piano della lotta. Soggetti capaci di una autonoma produzione di senso, di relazioni, di pratiche sovversive rispetto all’ordine patriarcale, alla logica binaria, alla naturalizzazione delle relazioni sociali. A Foucault il merito di aver riconosciuto l’importanza delle relazioni di potere e la necessità di riconoscerle come tali per poterle spezzare. L’ordine patriarcale non si fonda solo sulla pretesa che la gerarchia sia biologicamente fondata ma anche sulla prospettiva culturale di identità costanti, fisse, socialmente definite. Questa pretesa consente alla gerarchia di riprodursi in ogni relazione umana. L’attacco frontale alle identità rigide ed escludenti attuato da chi vive al di là e contro i generi, i ruoli, le maschere ha una forza dirompente. La critica all’essenzialismo si nutre della decostruzione dell’identità di genere. Concepire l’identità, ogni identità, come costruzione sociale, confine mobile tra inclusione ed esclusione, è un approdo teorico che si alimenta della rottura operata dai movimenti transfemministi ed lgtbtq. All’interno delle nostre società questi percorsi fanno paura. Per le destre la riconquista dell’identità, o la difesa dell’identità minata, diviene il centro nevralgico dell’azione politica e di governo. Ogni locuzione, ogni motto si regge su un piedistallo “identitario”. Il lutto per le identità forti, smarrite e da ritrovare, attraversa anche certa sinistra, orfana di una narrazione che dia senso al proprio mondo. La deriva identitaria non è mero patrimonio delle destre sovraniste, localiste, fasciste, misogine, omofobe, razziste, perché sfiora anche ambiti di movimento, che si pretendono distanti dall’approccio essenzialista della destra. La reazione alla violenza del capitalismo, all’anomia della merce, alla feroce logica del profitto, alla paura dell’onnipotenza della tecnica rischiano di produrre mostri peggiori di quelli da cui si fugge. L’anarchismo si sta confrontando con un mondo dove, in pochi decenni, si sono dati cambiamenti epocali. La mia generazione è stata catapultata dal pallottoliere al web, dalla macchina fotografica alle immagini satellitari, dalle lettere alle chat, dai sorveglianti umani agli occhi elettronici, dal posto fisso alla incertezza strutturale, dal lavoro alla catena alle catene del telelavoro. Un lungo processo di straniamento. Il moloch tecnologico, assunto come nemico totale, ha aperto la strada ad un anarchismo che fugge in un passato immaginario, dove germogli un futuro che nega l’umano, così come si è costruito nel processo di civilizzazione, identificato tout court con la nascita e il consolidarsi della gerarchia, del dominio, della violenza dei pochi sui molti. Il futuro diviene “primitivo”, nel senso etimologico del termine, un tempo-spazio dove si torna al primus, ad una dimensione in cui l’umano si (ri)naturalizza, in una concezione essenzialista e non culturale della “natura”. Una fuga nichilista che riflette l’impotenza di fronte ad una complessità che non si riesce a capire, né a controllare: il moloch può essere distrutto solo a prezzo di rinunciare alla libertà, per rifugiarci tra le braccia esigenti e soffocanti della natura-madre. Il processo di rinaturalizzazione dell’umano operato da queste correnti nega i percorsi costruiti dalle identità fluide, disancorate, in viaggio che si reinventano fuori e contro la logica binaria dei generi. Fuggire al dominio della merce, al controllo dello stato, alla paura della tecnica che non si immagina di poter controllare, porta quest’approccio a negare la diversità e pluralità dei percorsi individuali. Manca la gerarchia formale ma non c’è traccia di libertà. L’unica libertà è quella di adeguarsi ad essere quello che “spontaneamente” saremmo, se le incrostazioni della “civiltà” non si avessero snaturat*. Da qui a negare l’aborto, le tecniche contraccettive non “naturali”, l’utilizzo di ormoni e tecniche chirurgiche per modificare il proprio corpo, il passo è stato breve. La negazione dei percorsi di decostruzione del genere conduce ad approdi non troppo distanti da quelli di preti e fascisti. Le questioni di genere vengono relegate ai margini di un discorso di trasformazione sociale, che, nella migliore delle ipotesi, le considera inessenziali. Eppure. I corpi fuori norma, i corpi fuori luogo, che scientemente si sottraggono alla logica identitaria, per fare i conti con le cesure che il genere, la classe, la razza hanno imposto ai singoli, sono pericolosamente sovversivi. Le dislocazioni, i transiti e le ricombinazioni che rompono con qualsiasi pretesa di pietrificare le identità, frantumano l’essenzialismo ed aprono una sfida su più fronti. Sfida allo Stato (etico), al patriarcato reattivo e al capitalismo. Una sfida che, non è mera astrazione o suggestione filosofica, ma si attua in pratiche di intersezione delle lotte, delle prospettive e degli immaginari capaci di dar vita ad una prospettiva inedita. Una sfida che a tutte le latitudini del pianeta si deve confrontare con la violenta reazione del patriarcato, che si traduce sia in gabbie normative, sia in violenza sistemica nei confronti delle identità mobili, irriducibili ad ogni logica binaria. L’intersezionalità tra diverse cesure identitarie, che spesso coincidono con varie forme di esclusione, permette una contestazione permanente di ogni forma di privilegio. Nessuna posizione può pretendere di riassumere in se l’oppressione e i relativi percorsi di liberazione, se non divenendo, a sua volta, escludente. In questa prospettiva il relativismo dei posizionamenti, viene superato dall’universalismo della spinta ad una radicale trasformazione della società. Maria Matteo (articolo uscito sull’ultimo numero di Umanità Nova)
Nè dio.né stato, né patriarcato
Venerdì 5 marzo Femministe, anarchiche, rivoluzionarie Incontro online con Eulalia Vega, storica e autrice di Pioniere e rivoluzionarie – Donne anarchiche in Spagna dalla rivoluzione sociale alla resistenza al franchismo, edizioni Zero in condotta Meeting alle 21 in Zoom al link: https://us02web.zoom.us/j/89085856759
Evento curato da La Miccia di Asti, Perlanera di Alessandria, Federazione Anarchica Torinese, Wild C.A.T. Torino
Domenica 7 marzo Ruoli in gioco. Rappresentazione De-Genere in piazza Carlo Alberto dalle 15,30 manifestazione antisessista Interventi, azioni performanti, musica Lunedì 8 marzo Né dio, né stato, né patriarcato giornata di lotta in giro per la città Contatti:
Wild C.A.T. Collettivo Anarco-Femminista Torinese corso Palermo 46 – @Wild.C.A.T.anarcofem
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Irmtraud Morgner
https://www.unadonnalgiorno.it/irmtraud-morgner/
Irmtraud Morgner è stata una scrittrice tedesca che ha utilizzato il genere fantasy e il recupero del mito per descrivere il reale.
In Italia è stata tradotta pochissimo e per questo resta ancora alquanto sconosciuta.
Nata a Chemnitz il 22 agosto 1933 in una famiglia di operai, dopo il diploma ha studiato letteratura a Lipsia. Dopo un periodo come assistente redattrice presso la rivista Neue Deutsche Literatur si è trasferita a Berlino dove, nel 1959, ha debuttato come scrittrice con Das Signal steht auf Fahrt.
Il suo libro del 1964, Rumba auf einen Herbst, censurato e pubblicato anni dopo è stato definito un documento di protesta contro la dottrina estetica e il controllo politico.
Nozze a Costantinopoli del 1968, coniuga lo sguardo realistico sul paese e la sua storia con una dimensione utopica che coinvolge la ricerca d’identità femminile, al di là dei confini tra passato e presente.
La consacrazione letteraria, che le è valsa l’appellativo di femminista della DDR, è avvenuta nel 1974 col romanzo Leben und Abenteuer der Trobadora Beatriz nach Zeugnissen ihrer Spielfrau Laura.
Il libro è la prima parte di una trilogia, di cui fa parte Amanda. Ein Hexenroman del 1983, il terzo capitolo, rimasto incompiuto, è uscito postumo, nel 1998 con il titolo Il Testamento eroico.
Temi centrali di questi scritti sono il divario tra aspirazione e realtà e la denuncia dei crimini della storia.
Miti e leggende si mescolano con nomi reali in una narrazione che pone al centro la dissonanza tra emancipazione, autocoscienza e realizzazione dell’identità femminile. Procedendo attraverso decostruzione e ricostruzione la scrittrice ha reinventato una sua mitologia. L’io viene frammentato, diviso, duplicato, moltiplicato in un gioco di specchi e rifrazioni, di cui ella stessa prende parte.
Nel 1977 ha fatto parte del consiglio esecutivo dell’Associazione degli scrittori.
Nel corso della sua attività ha ricevuto diversi riconoscimenti letterari, come il premio Heinrich Mann dell’Accademia delle Arti nel 1975, il Premio Nazionale della DDR nel 1977, il Premio Roswitha nel 1985 e il Kasseler Literaturpreis für grotesken Humor nel 1989.
Negli ultimi anni della sua vita ha tenuto una serie di lezioni in diverse università degli Stati Uniti.
È morta a Berlino il 6 maggio 1990.
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Marcella Campagnano – La ricerca dell’identità femminile
https://www.unadonnalgiorno.it/marcella-campagnano-linvenzione-del-femminile/
La decostruzione del canone femminile disegnato dalla società patriarcale è stato l’incipit della produzione di Marcella Campagnano artista che, sin dagli anni Sessanta, ha utilizzato la fotografia come strumento per registrare il mutamento d’identità nel corpo e nel soggetto femminile.
Nata a Verdello, in provincia di Bergamo, nel 1941, si è diplomata in pittura a Brera nel 1965.
Ha esposto i suoi dipinti in Italia e all’estero fino al 1972. Già dal 1968, però, aveva iniziato a usare la fotografia come forma espressiva avvertendo fortemente che la pittura era dominata dagli uomini.
Ha fatto parte del collettivo femminile di Via Cherubini a Milano. Le sue compagne di lotte e di autocoscienza sono state le modelle per la sua prima serie L’Invenzione del Femminile: RUOLI che, iniziata nel 1974, improvvisando un set nel salotto di casa sua, ha costituito una delle più acute intuizioni e uno dei più significativi lavori su identità e la sua relativa rappresentazione nella ricerca artistica degli anni ’70 e nell’arte dell’Avanguardia Femminista.
Le donne che compongono il mosaico sono figure archetipiche, prive di ogni intenzionalità. Lo sguardo di Marcella Campagnano riflette sull’introiezione di questi ruoli, mettendo in rilievo il carattere ambiguo dell’identità come costruzione sociale.
L’alfabeto dei ruoli che contribuisce a creare, in cui il noi non è mai universale ma sempre una relazione di unicità, è ordinato nella struttura sequenziale e nell’uso della griglia: i ritratti sono tutti a figura intera, lo sfondo e lo sguardo delle modelle sono neutri, come neutra (o addirittura inesistente) è la soggettività femminile per lo sguardo patriarcale.
Ha operato un evidente ribaltamento linguistico inserendo il corpo delle donne, travestito ma fortemente consapevole, in un dispositivo che nella sua rigidità cerca di opporsi al reale.
L’invenzione del femminile, è poi proseguita con la serie dal titolo Regalità che esplora il rapporto tra immagine, rappresentazione e costruzione. Ogni fotografia ritrae una donna in una postura regale, imitando i ritratti dei dipinti occidentali, mentre indossa abiti ricchi e dall’aspetto principesco realizzati con materiali riciclati.
Nel 1976 ha pubblicato la serie Donne imagini in cui esplorava ulteriormente i ruoli imposti alle donne.
Non sono una fotografa, la macchina fotografica è solo lo strumento più diretto e immediato che, intorno alla metà degli anni Sessanta, cominciai a utilizzare come una scrittura, per fissare via via i frammenti e i luoghi dell’esperienza e perché stavo maturando l’urgenza di aprirmi e dialogare con le mie simili.
Con le immagini e la mia consapevolezza ho “fatto” femminismo.
La fotografia è stata solo lo strumento che ha registrato la mobilitazione spontanea, partecipata ed entusiastica di decine di amiche che si prestarono allegramente a un gioco di svelamento del proprio essere al mondo, di cui ognuna coglieva la sotterranea induzione da parte di modelli maschili, che da secoli suggeriscono e guidano la nostra possibile o improbabile identità femminile.
Questo scandaglio testimoniava la surreale coesistenza di vita, di quotidianità, mentre nelle vie si consumavano, a volte, terribili agguati mortali.
Tutto questo si riproduceva in modo quasi sconcertante, via per via, negli agglomerati urbani che ancora oggi testimoniano spazi scanditi e assegnati per le emozioni, gli affetti, il lavoro: la coazione a ripetere. Questo ho voluto documentare con le mie foto.
Noi giovani ragazze di allora, anonime nella nostra vita quotidiana, abbiamo voluto lasciare una traccia che la macchina fotografica ha trattenuto ma che avrebbe potuto anche non esserci, poiché l’evento era determinato dai nostri incontri, divertiti ma non carnascialeschi.
Insomma, non si trattava di fare una “nuova arte” ma di trovare la forza e il coraggio di formulare un interrogativo grande come il mondo.
Marcella Campagnano ha deciso da molti anni di disertare quasi completamente la scena pubblica e gli ambienti artistici. Vive a Como in maniera molto ritirata col compagno di tutta la vita, l’artista Augusto Bernardi, da cui ha avuto un figlio, Giulio, che sta gradualmente recuperando e archiviando tutto l’enorme lavoro della madre.
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Il 18 gennaio 2021, alle 7.30 del mattino, senza alcun preavviso e approfittando del cancello aperto da uno dei figli delle donne che stanno facendo il loro percorso di fuoriuscita dalla violenza nella Casa delle donne Lucha y Siesta, le forze dell’ordine sono penetrate nella struttura, gli agenti sono saliti fin nelle camere e hanno identificato una per una tutte le persone presenti.
Una procedura violenta e ingiustificata, considerato che i nomi di donne e minori accoltз da Lucha y Siesta sono ben noti, grazie a rapporti con il servizio sociale e a screening sanitari precedenti l’ingresso nella struttura, ma soprattutto perché sono statз inviatз a Lucha y Siesta da altre strutture – pubbliche o convenzionate – che non hanno posti sufficienti per accoglierlз.
La Casa delle donne Lucha y Siesta a Roma esiste da 13 anni in uno stabile dell’ATAC, Azienda Tramvie e Autobus del Comune di Roma. Un edificio e un giardino che erano abbandonati e che sono stati trasformati in Casa delle donne, centro antiviolenza, casa rifugio e casa di semiautonomia, presidio di elaborazione politica femminista e transfemminista, spazio cittadino di solidarietà e empowerment, un vero bene comune.
L’ATAC, per ripianare i propri debiti, ha previsto di vendere l’immobile, pensando di poter cancellare un’esperienza complessa che fornisce 14 dei 25 posti letto per donne che fuoriescono da situazioni di violenza a fronte dei quasi 300 previsti dall’Expert Meeting sulla violenza contro le donne dell’Unione Europea (1999), ratificato dall’Italia nel 2013, e necessari per attuare la Convenzione di Istanbul. Un luogo che è istituzione, come testimoniato da 13 anni di collaborazione con la rete antiviolenza nazionale, sottolineato da una delibera del municipio in cui si trova, accertato da una sentenza dello stesso Tribunale di Roma, nonché confermato dall’impegno pubblico della Regione Lazio, che ha stanziato i fondi necessari a partecipare all’asta e restituire l’immobile alla comunità che lo anima.
Quello contro la Casa delle donne Lucha y Siesta è stato un gravissimo atto di violenza istituzionale, in nome di principi come la legalità e il decoro, svuotati di significato e mal posizionati nell’ordine delle priorità collettive.
Perché tanto accanimento contro Lucha y Siesta a Roma, ma anche contro La limonaia a Pisa e la Magnifica a Firenze, spazi imprescindibili per assumere collettivamente la consapevolezza che la violenza di genere è un problema strutturale e sistemico che ci riguarda tuttз? Azioni di questo genere sono la risposta intimidatoria e autoritaria di istituzioni carenti e spaventate dall’enorme produzione di pensiero e di battaglie politiche che in spazi come Lucha y Siesta prende vita.
Sappiamo bene che preservare questi spazi di relazioni orizzontali, di decostruzione di stereotipi, privilegi e dinamiche di potere, di risignificazione della proprietà è un lavoro lungo, che richiede cura, sorellanza e consapevolezza, un lavoro che continueremo a fare ogni giorno, insieme.
Ma sappiamo anche che una parte fondamentale di questa infinita battaglia è riprenderci, un pezzetto alla volta, ciò che ci spetta.
Quello che – immediatamente, invece – spetta alle donne identificate nella Casa delle Donne Lucha y Siesta è che non si dia seguito a quei fogli senza senso che sono state costrette a firmare.
Quello che vogliamo – come collettività tutta, rete professionale dell’antiviolenza, chiunque si senta solidale con il suo operato nonché chiunque riconosca il valore di luoghi preziosi e ricchi come Lucha y Siesta – è l’immediata archiviazione del procedimento giudiziario per infondatezza della notizia di reato.
Questa caccia alle streghe è violenta per chi ne è oggetto, imbarazzante per chi la osserva, ingiusta per tuttз. Spazi come Lucha y Siesta non possono più essere attaccati, è ora di moltiplicarli.
Aderisci scrivendo a: [email protected]
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Osservate Maria. Da anni in molti caselli autostradali, mentre allungate il biglietto per pagare, trovate la sua icona, il suo manto candido a mezzo busto. Per quanto vi sforziate non riuscirete a vederla. Questi adesivi sono ovunque ma lei resta invisibile. Maria ha gli occhi chini, non vi guarda, non può guardarvi: urna asessuata, vaso inessenziale, la sua esistenza è la negazione dei vostri corpi desideranti, del vostro sguardo che buca lo spazio, dei vostri occhi che esplorano il mondo. Dicono che a Ipazia, spogliata e lapidata a morte, ancor viva vennero cavati gli occhi. Di lei non ci sono state tramandate le opere, ma la narrazione della sua morte da parte di una squadraccia cristiana, ci è giunta con dovizia di particolari, a perenne monito per tutte quelle che non abbassano lo sguardo, che non si sottomettono al destino che si pretende sia iscritto nelle loro carni.
Il destino disegnato con i nostri corpi, adattati alle esigenze del dominio patriarcale, si giustifica con la pretesa che sia stabilito da dio, dalla natura, dall’universalismo maschile della ragione. Chi si ribella è contro natura, contro dio, contro la ragione. Gli universali mutano ma restano maschili. Resistono a lungo anche all’offensiva illuminista, all’umanizzarsi delle regole sociali, scisse dal beneplacito divino e, quindi, inevitabilmente meno solide, rigide, infallibili. Il relativismo incrina l’ordine, ma non lo spezza, finché i tant* esclusi dall’universalità dei diritti non hanno prodotto una rottura dell’ordine. Simbolico e, non secondariamente, materiale. L’ordine del padre si incrina di fronte alle donne ribelli, alle soggettività non conformi, alle identità ibride, transeunti, fluide, in viaggio, mutanti. L’io diviene approdo e non punto di partenza inscatolato in ruoli imposti dal dominio del padre. Un percorso non facile: ciascun* deve fare i conti con un percorso di soggettivazione autoritaria, tanto profondo da parere “naturale”. La servitù volontaria è indispensabile all’affermazione ed al mantenimento di qualsiasi forma di gerarchia. Il dualismo di genere è quanto di più simile al concetto essenzialista di natura, che sia stato prodotto dalla cultura. I nostri stessi corpi vengono, a seconda dei tempi, modellati su quanto ci si aspetta da noi in base all’identità di genere che ci viene attribuita. Ci viene insegnato che essere a nostro agio nel mondo passa dall’essere come ci si aspetta che siamo. Rifiutare il disvalore che viene attribuito alla propria identità sessuata è il primo passo di un percorso che non è mera aspirazione paritaria ma si attua nella distruzione di una dicotomia gerarchica a favore di una pluralità libertaria. Il femminismo all’alba del secondo decennio del secolo è l’esperire della possibilità di passare dal genere all’individuo, dalla gerarchia sessualizzata alla molteplicità. É un un processo che scaturisce dal vivo delle lotte, dall’imporsi nell’ambito politico e sociale degli esclusi dalla scena, costitutivamente o-sceni, fuori dal reticolo normativo escludente che ne costituisce le identità negate e insieme congelate in maschere fisse, rigide, lontane dalle vite concrete di ciascun* e di tutt*. É un agire la cui radicalità non è sin ora del tutto esplorata, nelle pratiche come nell’immaginario. É un femminismo che si nutre della capacità di intersecare ambiti e piani diversi, che si intreccia con lo sguardo di classe, con l’approccio post-coloniale, con la sottrazione conflittuale alle pastoie dell’istituito. È un femminismo che si deve confrontare con l’estrema violenza della reazione patriarcale alla libertà femminile, che, in certi ambiti, diventa guerra aperta senza esclusione di colpi, mentre ad altre latitudini viene misconosciuta, celata, nascosta sotto il velo della patologia. L’attacco frontale alle identità rigide ed escludenti attuato da chi vive al di là e contro i generi, i ruoli, le maschere ha una forza dirompente. All’interno delle nostre società questi percorsi fanno paura. Per le destre la riconquista dell’identità, o la difesa dell’identità minata, diviene il centro nevralgico dell’azione politica e di governo. Ogni locuzione, ogni motto si regge su un piedistallo “identitario”. Il lutto per le identità forti, smarrite e da ritrovare, attraversa anche certa sinistra, orfana di una narrazione che dia senso al proprio mondo. Chi lamenta la perdita dell’identità, combatte duramente le identità plurali, non ascrivibili ad un universo di senso e ad un ruolo sociale stabilito, rigido, che si vorrebbe immutabile, nonostante si viva sotto il dominio del mutevole, del plastico, dell’effimero. In una parola sotto il dominio della merce, che è in se anomica, dipendente dalla sola variabile del profitto. Al capitalismo occorrono corpi docili, plasmabili, che si possano mettere al lavoro, con il minimo di spesa ed il massimo di rendita. I corpi fuori norma, i corpi fuori luogo, che scientemente si sottraggono alla logica identitaria, per fare i conti con le cesure che il genere, la classe, la razza hanno imposto ai singoli, sono pericolosamente sovversivi. Specie nell’universo della merce, che già mette a dura prova le appartenenze, le identità, i sovranismi. La merce programmaticamente deperibile, e, non di rado, inutile, è l’emblema di un mondo che mangia se stesso e non è in grado di fermare la macchina distruttiva che ha messo in moto. Al tempo stesso la merce nutre l’immaginario sociale, offrendo una pluralità di sensi di veloce fruizione e altrettanto veloce obsolescenza. La merce è l’oblio del presente che si eternizza, perché si è ingoiato il futuro. Le destre identitarie e sovraniste coltivano l’illusione, figlia della paura di tanta parte di chi vive sul margine dell’esclusione, di chi rischia, giorno dopo giorno, di finire tra i sommersi, che sia possibile governare l’anomia della merce, della globalizzazione finanziaria, della perdita del futuro. Queste destre non mettono in discussione il capitalismo, la divisione in classi, ma la vorrebbero mitigata da uno stato forte etico, saldamente fondato sulla famiglia, sulla nazione, sulla religione. Dio, patria, famiglia. La formula di Donald Trump e dell’Isis, che non disturba gli affari ma rimette in ordine il mondo. Questa formula funziona solo in un modello polemologico, dove la guerra è orizzonte perenne. Il nemico è lo straniero, l’estraneo, l’immigrato, ma soprattutto quello che si sottrae alla norma, alla legge del padre, alla gerarchia tra i sessi. Le donne sono il nemico interno, il loro asservimento è indispensabile alla riaffermazione della famiglia, nucleo politico ed etico del patriarcato alle nostre latitudini. Torniamo quindi a Maria. Il capo chino e gli occhi rivolti in basso: un’assenza rassicurante per chi prega in nome del padre, del figlio e dello spirito santo, alleati nella negazione, nell’annullamento, nell’esclusione. Smontare i meccanismi identitari è un esercizio necessario, perché l’identità ci costruisce in quello che siamo e nel modo in cui gli gli altri ci vedono. Sapere che l’identità è una costruzione sociale serve ad evitare la trappola che ci può ingabbiare. In questa prospettiva, che riguarda tutte, tutti e tuttu, il discorso di genere non è una costruzione di identità tra le altre, ma ha innescato il processo che oggi ci consente di pensare l’identità come un nome, un’etichetta, un segno grafico, privo della “sostanza” necessaria alla pesantezza delle catene patriarcali. La critica all’essenzialismo si nutre della decostruzione dell’identità di genere. Concepire l’ identità, ogni identità, come costruzione sociale, confine mobile tra inclusione ed esclusione, è un approdo teorico che si alimenta della rottura operata dal femminismo. Lo sguardo femminista è in grado di sovvertire ogni distribuzione fissa delle identità, dando vita a dislocazioni, transiti e ricombinazioni che rompono con qualsiasi «sindrome di Medusa», secondo la felice definizione di Appiah, che pretenda di pietrificare le identità. La critica femminista spezza l’essenzialismo e ci restituisce ad una sfida su più fronti. Sfida allo Stato (etico), al patriarcato reattivo e al capitalismo. Una sfida che, non è mera astrazione o suggestione filosofica, ma si attua in pratiche di intersezione delle lotte, delle prospettive e degli immaginari capaci di dar vita ad una prospettiva inedita. L’intersezionalità tra diverse cesure identitarie, che spesso coincidono con varie forme di esclusione, permette una contestazione permanente del privilegio, sia nei confronti delle gerarchie di potere sia nei confronti degli altri dominati. Nessuna posizione può pretendere di riassumere in se l’oppressione e i relativi percorsi di liberazione, se non divenendo, a sua volta escludente. Occorre evitare il rischio della generalizzazione, che in passato ha riprodotto una sorta di essenzialismo fondato sul capovolgimento speculare della negazione. L’intersezionalità colloca e trasforma le identità, e, contemporaneamente, le destabilizza e le contesta. Lo sguardo che spezza le identità si nutre di una tensione libertaria, che si sperimenta, giorno dopo giorno, nelle lotte e nella nostra capacità di cogliere la l’importanza della posta in gioco.
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