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Is This The Life We Really Want? - Roger Waters (2017)
Artists : Danny Kamhaji, Sean Evans & Dan Ichimoto
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yesiamdrowning · 7 years ago
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la strategia della copertina.
Ma è davvero una questione di arte? No, la copertina "sgraffignata" a Isgrò dal team capitanato da Dan Ichimoto, uno che (per dirla a-là Verdone) lo chiamano per creare il branding delle Olimpiadi di Tokyo 2O2O e non si sa manco se gli fa il piacere di crearglielo, per Is This The Life We Really Want? di Roger Waters (uscito in tutto il mondo lo scorso giugno) ha più il sapore dello scandalo voluto e ricercato, quando non assume direttamente le sembianze del mutuo scambio tra due artisti alla canna del gas: l’estetica colta di certa avanguardia che copia (prende spunto?) dall’estro di Man Ray, del quale conosceranno l’operato sia Waters che Ichimoto, e dei suoi seguaci, tra i quali possiamo di certo contare il siciliano Emilio Isgrò. Ma attenti, qual’è la sostanziale differenza tra Ray e Isgrò a parte il taglio della barba e una viscerale amicizia con Salvador Dalì? Esatto, Isgrò non è ancora morto e può ancora aspirare a un successo a un più ampio parterre della scena musicale mondiale, attraverso quel trattino d’unione che lega la copertina della Inchimoto Inc. per il disco di Waters al Poema Ottico di Man Ray (1924, morto) al suo Libro Cancellato (1964, vivo). Probabilmente a Waters, quando Dan gli ha proposto la sua grafica per la copertina di Is This The Life We Really Want?, una sensazione di déjà-vu gli sarà anche venuta e avrà pure gongolato che il suo nuovo concept apocalittico, forse il più inutile di sempre, potesse essere associato a due dei movimenti artistici più importanti del Novecento, dadaismo e soprattutto il surrealismo, ma di sicuro non aveva in testa l’opera del messinese rosicone. Parliamoci chiaro, non c’è nulla di magico nell’opera di Ichimoto per Waters (peraltro simile a molta grafica femminista e anarcho-punk degli ultimi trent’anni, ma questo è un altro discorso). Metterla in relazione con una qualsiasi idea artistica dirompente sarebbe stato già troppa grazia, ma volersene appioppare a forza pure la paternità ideologica nel 2O17 fa soltanto sorridere. Come a volere paragonare la porcata fata per Artpop di Lady Gaga da Jeff Koons nel 2O13 con, che so, la leggendaria banana di Andy Warhol per il debutto dei Velvet Underground di Lou Reed. Allora era il 1967 e i Velvet erano tra gli esponenti della New York più trasgressiva di sempre: la banana li rappresentava senza bisogno di altre parole. Il cantante-poeta disse: “Andy sente i suoni e li traduce in immagine. La banana è un pensiero, non un caso”. Ecco, qualcuno spieghi a Isgrò che ora si tratta di caso. Ma Isgrò non è Warhol come Ichimoto non è Ray. A entrambi probabilmente gli piacerebbe ma per questa vita gli ha detto sfiga. Perché Warhol e Ray sono arrivati per primi e, soprattutto, perché entrambi avevano una strategia oltre che una coscienza. Usavano messaggi e icone di massa della propria epoca (del cinema e della pubblicità, degli oggetti di uso domestico) per dimostrare quanto fosse del tutto arbitrario il muro che separava la cultura alta dalla cultura bassa. Warhol pensò alla banana per una banda sconosciuta di brutti ceffi in cui credeva ciecamente, non telefonò mai ai Beatles per vedergli una copertina; Ray per anni si curò di non avere con l’arte un legame logico, ma solo mentale e paradossale, tanto da rifiutare di essere esposto e quindi reso pubblico. Non c’è invece traccia di elaborazioni complesse nel quadretto scarabocchiato di Ichimoto per Waters che, c’è da scommetterci, non passerà alla storia proprio come il suo papà putativo. Una storia, quella delle copertine dei dischi in vinile, cominciata nel 1939, quando Alex Steinweiss, brillante studente della Parsons School of Art di New York disegnò la prima copertina per una band chiamata Roger and Hart. Prima di quel giorno le copertine erano anonime buste marroni di carta. In pochissime settimane l’album con la copertina illustrata incrementò le vendite di quel disco del 9O per cento. E il cartone quadrato dei vecchi dischi divenne lo sfondo ideale per vere proprie opere d’arte. Cavalcò l’onda con largo anticipo proprio Dalì, che nel 1955 (poi bisserà con un disco di Alice Cooper del 1983) firmò l’illustrazione di Lonesome Echo, leggendario album del vulcanico attore e musicista Jackie Gleason. Poi, preoccupato che a causa delle dimenzioni della copertina l’opera non fosse intellegibile, Dalì fece allegare al disco un foglietto scritto a mano con le istruzioni per l’uso. Infine, non ancora convinto di avere fatto la scelta migliore prestandosi a questa operazione, telefonò a Gleason in piena notte chiedendogli: “Ma non è proprio possibile riuscire a farli più grandi questi cerchi di vinile?”. Da lì di collaborazioni ne sono seguide a decine. Keith Haring per i Run DMC, Bansky per i Blur, Damien Hirst per i RHCP, Peter Phillips per gli Strokes, Peter Hujar per Antony and the Johnsons,  Luigi Ghirri per i CCCP, Mati Klarwein per Santana, Anton Corbijn per gli U2, Jenny Saville per i Manic Street Preachers,  Robert Crumb per Janis Joplin e altri. Escluso Isgrò. Che evidentemente non si poteva dar pace e qualche giorno fa ha kafkianamente sconfitto in tribunale l'ex leader dei Pink Floyd, obbligandolo a ritirare dal mercato la copertina, il libretto e le etichette del suo disco con l'accusa di plagio. Però ragazzi, se Man Ray fosse stato ancora vivo allora sì che ci saremmo divertiti veramente.
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